VERONA: FLAVIO TOSI, DA SINDACO A SINDACO, ECCO LA QUARTA GAMBA DEL CENTRODESTRA

VIA COL VENETO – di Romina CiuffaCapuleti e Montecchi, il clima a Verona è simile. L’amore non c’entra. Un nuovo sindaco da giugno, Federico Sboarina, e qui con me l’uscito, Flavio Tosi, che è stato primo cittadino per 10 anni rendendo la città una capitale d’Europa. I temi che affrontiamo con chi ha governato la città degli innamorati, della lirica, del marmo, dello Spritz, sono quelli dell’agognata (ma quanto?) autonomia del Veneto, degli scontri politici in seno alle divisioni del centrodestra, delle opere da realizzare o realizzate a Verona, della crisi dell’Arena (è del 16 ottobre l’incontro tra il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e Sboarina che ha sancito la fine del commissariamento. Tosi riassume l’accaduto degli ultimi anni: «Una pessima figura internazionale), della revoca del project financing per risollevare l’ex Arsenale austriaco «Franz Josef I» che da tempo attende una riqualificazione, del tema del degrado e dell’insicurezza balzato di recente alle cronache.

Espulso dalla Lega di Matteo Salvini nel 2015 durante il suo secondo mandato scaligero, Tosi – capogruppo per la lista Tosi all’opposizione, presidente dell’Autostrada A4 Brescia-Padova, segretario di Fare!, ed anche presidente di Federcaccia Veneto – è definito, insieme al suo movimento, la «quarta gamba del centrodestra»: l’alternativa a Salvini in un progetto che vuole raggruppare tutte le forze di centrodestra che attualmente non si riconoscono nei partiti tradizionali quali Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega Nord, caratterizzata da un pragmatismo «che va oltre i classici schemi ideologici».

Ecco come Tosi aborre il «periodo ipotetico dell’impossibile».

Domanda. Il Veneto è risultato in prima linea nella richiesta di autonomia dallo Stato centrale, grazie agli sforzi condotti dal suo leader Luca Zaia. A cosa porterà questo percorso, dal suo punto di vista di politico e di cittadino?
Risposta. Porterà a quello che è previsto dalla Costituzione, né più né meno di quello che immagino otterranno le altre Regioni che hanno avviato lo stesso percorso. È una trattativa tutto sommato neanche tanto complessa, aldilà dei proclami, che ha il seguente contenuto: lo Stato passa delle competenze e gira le risorse che spende per esse alla Regione di riferimento perché ne disponga autonomamente. Su questa base credo che il Veneto, la Lombardia, l’Emilia Romagna e chi altri decidesse di procedere in tal senso possano avere un gioco semplice, non ostacolato dal Governo, purché si resti in questo binario. È chiaro che se per fare campagna elettorale si immettono contenuti non praticabili, come la richiesta di trattenere il 90 per cento delle tasse nella Regione e diventare speciali come il Trentino Alto Adige, si rende tale percorso inutile e, a quel punto, non c’è via d’uscita perché la trattativa è impostata male a monte, non essendo in linea con la Costituzione.

D. A chi si riferisce in particolare?
R. Al Veneto. Mentre la Lombardia e l’Emilia Romagna hanno chiesto alcune deleghe, il Veneto oltre ad esse ha chiesto il 90 per cento delle tasse così come avviene in Trentino Alto Adige. Se segue questa impostazione, la nostra Regione non approderà da nessuna parte: lo Stato, su queste basi, neanche comincerà a trattare.

D. Perché è accaduto questo?
R. Il tema è elettorale: pur essendo Roberto Maroni dello stesso partito di Luca Zaia, mentre gli altri governatori mirano a portare a casa il risutato a Zaia interessa fare campagna elettorale. È un dato di fatto oggettivo: la prima uscita che ha fatto dopo l’esito referendario – poi rimangiata in un solo giorno in quanto bocciata da Forza Italia – è stata la richiesta di Statuto speciale. Così il governatore ha abbassato il tiro chiedendo comunque il 90 per cento delle tasse, anche questo impossibile per buon senso: lo Stato non può dare più risorse di quelle che spende, è una partita di giro e non può andare in difficoltà con i suoi conti. Glielo ha detto anche il deputato e vicesegretario della Lega Nord Giancarlo Giorgetti.

D. Ragionando sui temi specifici del Veneto, sarebbe giusto in effetti che si prendesse la specialità dello Statuto?
R. Se la ottenesse il Veneto, la pretenderebbero anche la Lombardia, il Piemonte, l’Emilia Romagna e quelle altre Regioni che avrebbero da guadagnarci, ma lo Stato fallirebbe poiché si regge sul residuo fiscale attivo di alcune Regioni – in particolare la Lombardia con circa 54 miliardi, il Veneto e l’Emilia Romagna con circa 15 – mentre altre come Sicilia, Calabria, Lazio, Campania, Trentino, drenano i soldi dallo Stato centrale. Porre una simile ipotesi equivale a formulare un periodo ipotetico dell’impossibile.

D. Lei a cosa punterebbe?
R. A portare a casa quello che è possibile portare. Al referendum ho votato sì. Lo Statuto speciale magari averlo, ma sono realista e so che è impossibile ottenerlo, inutile chiederlo.

D. Un commento veloce sulla situazione catalana?
R. L’autonomia di cui gode la Catalogna è già straordinaria, un grado altissimo, tranquillamente paragonabile a quella del Trentino Alto Adige, e non capisco per cosa protestino. Sono un federalista, non un secessionista. È chiaro che il Governo spagnolo gli abbia impedito di secedere.

D. A Verona in particolare, quali sono stati gli esiti referendari?
R. C’è stata un’affluenza non alta – il 46 per cento per la città in sé – rispetto alla media regionale che ha sfiorato il 60 per cento, per vari motivi. Come anche in altre votazioni, ad esempio la Brexit che ha avuto connotazioni diverse nelle grandi città e nei piccoli Comuni, l’affluenza è stata mediamente inferiore rispetto alla provincia. Siamo sempre stati considerati, e un po’ ci riteniamo, una «periferia dell’Impero»: Verona ha un rapporto di minore «affetto» rispetto al resto del Veneto, siamo «un po’ lombardi», ossia diversi come tutte le realtà di confine, e abbiamo anche una storia che è diversa: la Repubblica Serenissima è passata anche da Verona, ma per un periodo più breve e meno intenso.

D. Come si è verificato il passaggio dal suo mandato (doppio) al nuovo sindaco scaligero?
R. Il centrodestra si è presentato diviso. Sommando i voti che ha preso la mia coalizione – al primo turno il 24 per cento – a quelli del nuovo sindaco Sboarina – al primo turno il 29 per cento – e a quelli delle altre liste civiche, si arriva ai voti che normalmente prende il centrodestra a Verona, ossia circa il 60 per cento. Al ballottaggio sono andate le due coalizioni del centrodestra, rimanendo escluso il centrosinistra, e quelli che sono rimasti fuori dal ballottaggio hanno votato prevalentemente per il centrodestra tradizionale.

D. Oltre alla vittoria del nuovo sindaco, ci sono stati altri motivi che hanno portato «l’altro centrodestra» a vincere queste elezioni?
R. Sicuramente hanno inciso i miei rapporti con la Lega, da cui nel 2015 sono stato espulso da Salvini. Questo ha cambiato le prospettive sulla città. Già nel mio ultimo mandato avevo all’opposizione Forza Italia, il PDL, più in generale il centrodestra tradizionale, così come il centrosinistra e il M5S. L’unica forza in maggioranza con me negli ultimi 5 anni è stata la Lega. Ciò che è cambiato questa volta è che anche la Lega è passata dall’altra parte.

D. Perché è stato espulso da Salvini?
R. Un modo di vedere profondamente diverso, gli atteggiamenti rispetto all’uscita dall’euro, alla flat tax, alla secessione ed altro. Ci sono stati periodi in cui per Salvini chi stava nella Lega obbligatoriamente doveva sostenere l’uscita dall’euro o essere secessionista, cosa che non sono mai stato. Affrontiamo i temi politici con differenti approcci: io sono pragmatico, lui cavalca anche l’impraticabile. È la differenza che passa tra Salvini e Zaia da una parte, più populisti, e Maroni dall’altra, più pragmatico. Il populismo elettoralmente paga: Maroni ha fatto una campagna referendaria molto istituzionale, sui contenuti, non caricandola con tematiche indipendentiste, e in Lombardia è andato a votare il 40 per cento degli aventi diritto; da noi la campagna di Zaia ha portato a votare quasi il 60 per cento dei veneti.


Flavio Tosi e Matteo Salvini

D. In cosa si distingue principalmente la sua decennale gestione scaligera da quella che Verona si aspetta ora da Sboarina?
R. Verona, nei 10 anni della mia gestione, è passata dall’essere una città provinciale semisconosciuta all’essere una città europea, con un flusso turistico che è aumentato in maniera straordinaria e con grandi investimenti, rendendosi quello che oggi è il motore economico del Veneto rispetto a città, come Padova o Venezia, con le quali Verona si è sempre confrontata. Oggi è lei quella più dinamica, più attrattiva di investimenti, più ricca di potenzialità. Abbiamo fatto un salto di qualità. Sboarina nelle sue prime mosse ha cercato di bloccare alcune iniziative imprenditoriali già avviate, rischiando di portarle indietro. Dal mio punto di vista un sindaco deve favorire gli investimenti, non bloccarli.

D. Può essere più specifico?
R. Per esempio, per l’ex Arsenale austriaco, complesso in centro, avevamo completato la procedura per un project financing pubblico e privato di recupero, e il nuovo sindaco l’ha affossata a settembre con una delibera del Consiglio comunale. Avevo chiuso la gara, avevo assegnato il progetto; alla fine del mandato la nuova amministrazione starà ancora parlando di come risolvere la questione. La grande contraddizione è che il mio operato è stato votato a suo tempo dallo stesso Sboarina, che componeva la mia coalizione. Un altro esempio: avevamo previsto la trasformazione commerciale di una serie di immobili, la nuova Giunta ha dichiarato che la impedirà.


Federico Sboarina e Flavio Tosi

D. Questo avviene per dinamiche politiche, ossia di passaggio da un sindaco all’altro , o perché effettivamente ci sono divergenze nella visione della città che lui ha reso note in campagna elettorale, e per questo è stato scelto rispetto alla coalizione che lei rappresenta?
R. La cosa paradossale è che gran parte di coloro che sono ora nell’amministrazione attuale mi appoggiavano in uno dei miei due mandati, appartenevano alla mia maggioranza, erano d’accordo con il mio operato. Hanno fatto una campagna elettorale di contrapposizione: essendo loro la naturale omogeneità della mia squadra, in quanto la componevano – il sindaco è stato mio assessore nel primo mandato così come parte della sua Giunta, e alcuni attuali consiglieri comunali sono stati miei consiglieri comunali -, si sono dovuti differenziare in tutto e per tutto nonostante avessero votato in precedenza quanto ora stanno bloccando. Aspettiamo però la parte propositiva, è ancora troppo presto per parlare a quattro mesi dall’insediamento. Come avvenuto per l’ex Arsenale, pur proveniendo dalla stessa parte politica e avendo condiviso una serie di provvedimenti, i nuovi insediati hanno dovuto smentirli per non diventare solo una brutta copia della mia amministrazione. Il loro maggior sostenitore, oggi, è l’estrema sinistra, che ne elogia le scelte. È una cosa singolare, ma per me è normale rispetto a ciò che è stata la campagna elettorale, tanto è che l’estrema sinistra al ballottaggio li ha votati.

D. Rispetto all’Arena di Verona, lei l’ha seguita negli ultimi dieci anni fino al recente commissariamento. Come è possibile che un così importante e riconosciuto bene pubblico entri in crisi?
R. Il sold out dell’Arena è dovuto alle attività dell’extra-lirica, ossia a quelle che fanno i privati noleggiando di fatto il monumento; con la lirica viene venduta la metà dei biglietti. È un problema italiano, non veronese: il pubblico della lirica è generalmente in calo mentre il pubblico dell’extra-lirica è generalmente in crescita. Quando mi sono insediato, si facevano non oltre tre eventi l’anno di extra-lirica, oggi siamo a quasi 50. Ho differenziato il prodotto, portando l’extra-lirica in Arena. Ma oggi tutte le fondazioni liriche in Italia, a parte Milano e Venezia, sono in difficoltà: questo perché il modello di gestione è sbagliato, bisogna puntare su un modello più privatistico. Dopo aver fatto un lungo braccio di ferro con i sindacati, avevamo chiesto di mettere in liquidazione l’ente pubblico per trasformarlo in privato; con il commissariamento, invece, c’è da aspettarsi che nel giro di qualche anno le difficoltà finanziarie torneranno tante quante prima. Questo è il destino dell’Arena di Verona e di tutte le fondazioni liriche in Italia, che oggi hanno complessivamente 400 milioni di euro di debito, di cui 25 milioni sono veronesi. Alla fine dei conti, siamo tra quelli che stanno «meno peggio». Infatti le entrate, che prima erano migliori anche per la contribuzione pubblica, sono costantemente in calo.

D. Si attende un «Central Park» veronese, grande, immensa area che Rfi, Rete ferroviaria italiana, dovrebbe auspicabilmente passare al Comune. L’AD Maurizio Gentile ha rassicurato Verona. Cosa accadrà?
R. Questa amministrazione non rientra coi tempi nel compimento del programma perché le Ferrovie, proprietarie dell’area, hanno già dichiarato che non potranno liberarla prima del 2024, ossia oltre il mandato dell’attuale sindaco. Inoltre, sperare che le Ferrovie – le quali hanno valorizzato molte aree simili in altre città, come ad esempio Bologna – regalino al Comune mezzo milione di metri quadri, che frutta loro una voce in bilancio di circa 90 milioni, mi sembra sia una pia illusione. Anche da un punto di vista contabile il progetto è di difficile realizzazione, in quanto l’area è in parte di proprietà di Mercitalia Logistics, controllata delle Ferrovie dello Stato Italiane. Il mio predecessore Paolo Zanotto aveva proposto che metà dell’area – edificabile – restasse alle Ferrovie, e metà – il parco – venisse ceduta al Comune di Verona: questo, probabilmente, era un progetto più realistico.

D. La polemica sui tema sicurezza e degrado in città a Verona, esplosa poco dopo il nuovo insediamento, da cosa è stata generata?
R. Lo ha detto lo stesso segretario provinciale della Lega Paolo Paternoster in una conferenza stampa alla stazione: a Verona è peggio di prima. La sicurezza dipende da come si gestiscono le Forze dell’Ordine, in particolare la Polizia municipale. Vediamo cosa succederà. Stiamo documentando il problema sicurezza monitorando la presenza di senza fissa dimora e quant’altro, e lo facciamo andando in giro per le piazze, ai semafori, nei parchi, a filmare la situazione. Il coordinamento con le Forze dell’Ordine c’era già durante il mio mandato. Ma saranno i veronesi a valutare se le cose andranno meglio in questi anni. (ROMINA CIUFFA)




MAURIZIO DANESE (VERONAFIERE), DAL BALCONE DI ROMEO E GIULIETTA AL BALCONE INDUSTRIALE DEL MADE IN ITALY

VIA COL VENETO (di ROMINA CIUFFA). Da Vinitaly a Fieracavalli, gli eventi fieristici più «in» del nostro Paese avvengono nella città dell’amore, quella che prima di tutto è collegata, nella letteratura ed ormai nell’immaginario collettivo, alla storia «eccellentissima e lamentevolissima» di Romeo e Giulietta. Di certo la scaligera – dodicesima provincia italiana per numero di imprese – è, sotto il profilo culturale (ed, indirettamente, del business), una delle più fruttifere di Italia, luogo di incontro naturale tra turismo ed affari, in vicende che seguono la forza e la testardaggine dei due innamorati shakespeariani, ma che finiscono, invece, bene. E non muore nessuno. Nata nel 1898, la Fiera di Verona inaugura con una edizione sperimentale dedicata ai cavalli alla presenza di Vittorio Emanuele III nell’attuale Piazza della Cittadella (a due passi da piazza Bra e dall’Arena), sintetizzando le vocazioni della campagna veronese e le tradizioni che fanno risalire all’807 d.C. la prima fiera tenutasi sul sagrato della Basilica di San Zeno, anche ampliandosi con altri capi di bestiame e, in generale, nel settore agricolo. Alla Fiera Cavalli si affiancò sin dal 1899 una mostra di automobili, a dar lustro al primo inventore del motore a scoppio, il veronese Bernardi.

Nel 1930 avvenne la trasformazione in ente autonomo, che dalla location centrale dovette spostarsi nel 1948, essendo presto divenuta insufficiente l’area di originale competenza, ed occupare la zona industriale a sud della città, attuale complesso di Veronafiere, così potendo ospitare gli eventi principali italiani, oltre alla storica Fieracavalli (di cui quest’anno si è tenuta la 119esima edizione): da ArtVerona ad Elettroexpo (fiera dell’elettronica e del radioamatore), Fieragricola, Job&Orienta, Marmomac (per l’industria del settore litico), Model Expo Italy (modellismo statico e dinamico), Motor Bike Expo (moto), Samoter (macchine per il movimento terra e da cantiere), Progetto Fuoco (dedicata al riscaldamento da biomasse legnose), Innovabiomed (industria biomedicale), Cosmobike Show (fiera sul mondo delle biciclette), fino alla più nota, Vinitaly.

Ed ora una nuova iniziativa «a doppia targa»: collaborazione storica quella tra parmigiani e scaligeri che oggi sfocia in Wi·Bev riunendo le tecnologie per il «wine & beverage», settore che per macchinari, attrezzature e tecnologie per la viticoltura e l’enologia conta 3,6 miliardi di euro e il cui 70 per cento è derivato dall’export. Il Wine&Beverage Technologies Event, co-organizzato da Fiere di Parma (sotto la guida di Gian Domenico Auricchio), è già in programma dal 4 al 5 dicembre 2018 nell’ambito di «wine2wine», subito dopo la vendemmia, quando le aziende vitivinicole non sono più impegnate nelle operazioni di campagna. Wi·Bev unirà il momento espositivo al confronto diretto tra aziende del settore, fornitori di macchine e impianti nonché tecnici della filiera, oltre a «capitalizzare gli aspetti ‘smart’ dell’esperienza innovativa di Cibus Connect–ha sottolineato Antonio Cellie, amministratore delegato di Fiere di Parma–associandola ad un palinsesto di approfondimenti specifici e mirati al comparto tecnico e produttivo della filiera vitivinicola e non solo».

Travalicati i confini della città e della nazione, promuovendo eventi fieristici nei Paesi extraeuropei maggiormente interessati alla produzione italiana – tra tanti, la Cina e il continente asiatico, in cui Veronafiere gioca un ruolo da protagonista per l’Italia sulla Via della Seta – Veronafiere è oggi il primo organizzatore diretto di manifestazioni in Italia, secondo per fatturato e ai vertici in Europa, con oltre cento anni di esperienza nel settore ed una posizione geografica strategica, al centro delle maggiori direttrici intermodali europee. Un hub naturale per la promozione internazionale del sistema industriale e dell’eccellenza made in Italy, che fornisce strutture e servizi aggregativi a visitatori ed espositori. Il fatturato è generato per l’87 per cento da fiere di proprietà ed organizzate direttamente, delle quali detiene il know-how completo, dalla pianificazione strategica alla realizzazione tecnica-operativa. La gestione del marketing, della comunicazione, del quartiere e dei servizi, una rete di delegati presenti in tutto il mondo, relazioni forti con le istituzioni nazionali ed i mondi associativi sono gli asset sui quali si fonda Veronafiere.

A proposito di internazionalizzazione, si è appena tenuto a Johannesburg, in Sudafrica, il tradizionale Ufi Congress di fine anno, che ha visto diversi seminari dedicati ai temi più caldi per l’industria fieristica. L’Italia, con un folto gruppo di delegati, ha visto una importante serie di nomine all’interno dell’organizzazione mondiale delle fiere, a partire da Corrado Peraboni (già amministratore delegato di Fiera Milano ed ora chairman di Cipa Fiera Milano Publicações e Eventos) per la presidenza dell’Associazione mondiale delle fiere (Ufi), il quale ha dato risalto alla strategia «PIN» (Promote, Inform e Networking), come base su cui l’ecosistema delle fiere deve sempre di più fondare la propria crescita e sviluppo industriale. La nuova nomina alla presidenza riafferma il valore del comparto fieristico italiano nel contesto internazionale, insieme alla rinnovata composizione del Board of Directors, cui per i prossimi tre anni è stato confermato Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere, nella carica di primo vicepresidente dello European Chapter; oltre a lui nominati anche Matteo Marzotto, vicepresidente esecutivo di Italian Exhibition Group, e Giorgio Contini, direttore internazionale di BolognaFiere.


Marco Di Paola, Giovanni Mantovani e Maurizio Danese

Parla il presidente di Veronafiere Maurizio Danese, operativo per il triennio 2015-2018, socio di un gruppo di aziende che opera nel settore della fornitura di prodotti alimentari al canale Horeca, consigliere della Camera di commercio di Verona e vicepresidente vicario di Confcommercio Verona.

Domanda. Quali le strategie per il futuro di Veronafiere con il Comune?
Risposta. L’amministrazione comunale veronese è il socio di maggioranza relativa di Veronafiere spa. Abbiamo illustrato il piano industriale di sviluppo al 2020 che prevede investimenti pari a 94 milioni di euro, così come stiamo ragionando insieme sul ridisegno del quartiere sud della città sul quale insiste la Fiera di Verona.

D. Dopo una battuta d’arresto del 2015, Veronafiere è ripartita. Come? Quali i numeri oggi?
R. Nel 2015 non c’è stata nessuna battuta d’arresto. Semplicemente Veronafiere, nell’interesse del Paese, ha risposto ad una domanda specifica da parte del Ministero delle Politiche agricole e di Expo per occuparsi della realizzazione del Padiglione del Vino all’Esposizione universale di Milano. Abbiamo quindi dovuto mettere mano ad un investimento molto più ingente di quanto preventivato ma, se non l’avesse fatto la Fiera di Verona con Vinitaly, con tutte le difficoltà che Expo ha dovuto incontrare, non sarebbe stato possibile offrire un’esperienza unica come quella che ha rappresentato il padiglione «Vino -A Taste of Italy», visitato da oltre 2,1 milioni di persone, di cui il 20 per cento straniere. In quell’anno, in cui sono stato nominato presidente proprio a fine Expo, il consiglio di amministrazione di Veronafiere ha deciso di inserire quanto investito nel bilancio 2015 che, senza questi extra costi, avrebbe chiuso con un Ebitda di 8,1 milioni di euro.

D. Come è avvenuto il processo di trasformazione in spa?
R. La trasformazione in società per azioni ha seguito l’iter previsto dalla normativa regionale, iniziato con la nostra richiesta il 4 luglio 2016. In poco più di sei mesi abbiamo quindi compiuto tutti passaggi tecnici, burocratici e legislativi, con il via libera dalla Regione del Veneto arrivato ad ottobre, fino al 29 novembre 2016 con la trasformazione in spa, entrata poi in vigore ufficialmente dal 1° febbraio 2017.

D. Può indicare alcuni aspetti del Piano industriale di sviluppo al 2020 relativi a Veronafiere?
R. Con questo piano industriale gli obiettivi che si intendono conseguire sono fondamentalmente due. Rafforzare il ruolo di leadership mondiale in particolare nelle filiere «wine&food» e marmo-costruzioni e continuare a essere un motore di produzione di ricchezza per la città e per il territorio. In questo contesto prevediamo al 2020 un volume d’affari obiettivo di 113 milioni di euro con un Ebitda di 21,9 milioni di euro, pari al 19 per cento dei ricavi.

D. Giovanni Mantovani è ora nel Board of Directors dell’Ufi, la Global Association of the Exhibition Industry. In che modo Veronafiere avrà voce in quella sede, anche in rappresentanza italiana, e non solo scaligera?
R. Non è la prima volta che Veronafiere ha un proprio rappresentante nel board dell’Ufi, di cui siamo membri dal 1932. In questa sede porteremo tutta la nostra esperienza di organizzatori di manifestazioni dal 1898, ma ragionando sempre in ottica di promozione del sistema fieristico italiano nel suo complesso.

D. Fieracavalli 2017 ha avuto un grande successo. Sogna di portare i cavalli in Arena: c’è speranza, anche in occasione del 120esimo compleanno di Fieracavalli nel 2018?
R. Fieracavalli ha chiuso l’edizione 2017 superando ancora le 160 mila presenze, di cui il 16 per cento dall’estero, da 63 nazioni. L’idea di riportare un evento equestre di altissimo livello in Arena, nel cuore di Verona, fa proprio parte di alcune iniziative che stiamo valutando in occasione dei 120 anni della manifestazione. Sarebbe di sicuro un evento indimenticabile per la città e per tutti gli appassionati di questo mondo.

D. Non solo Vinitaly: molti gli accordi, molte le esposizioni e i contenuti. Quali, per lei, i principali, e quali i nuovi obiettivi?
R. Veronafiere organizza in media più di 60 manifestazioni all’anno. Oltre a Vinitaly e Fieracavalli, penso a Marmomac, il primo salone al mondo per la filiera della pietra naturale e delle tecnologie, e poi Fieragricola, dedicata al settore primario, senza tralasciare il mondo delle macchine da costruzioni, con Samoter. Questi sono soltanto alcuni dei nostri marchi più conosciuti e di successo. Il nostro obiettivo resta sempre quello di consolidare il portafoglio di rassegne leader, sviluppare le potenzialità esistenti, anche attraverso collaborazioni e partnership, e aumentare significativamente la quota di mercato e la redditività, posizionando così saldamente la Fiera di Verona tra le più importanti realtà internazionali del settore.

D. Veronafiere all’estero, come è rappresentata? Come è vista? Oltre a Italian Wine Channel, cosa c’è?
R. L’estero è sempre più chiave di crescita fondamentale per il nostro business. Ogni anno sono in media una ventina gli appuntamenti che realizziamo in oltre 10 nazioni nei settori del «wine&food» e del «building&construction». Con gli eventi fieristici, le missioni commerciali e le attività formative delle nostre «academy» abbiamo creato una community globale del vino e del marmo, in particolare negli Stati Uniti, in Brasile e in Cina, ma stiamo concentrando negli ultimi anni gli sforzi anche in Africa e in Medio Oriente, mercati dal grande potenziale. La nostra forza è quella di essere prima di tutto ambasciatori, insieme alle aziende, di molte eccellenze del made in Italy.

D. Veronafiere in Brasile con Veronafiere do Brasil: perché il Brasile?
R. Il Brasile è l’economia più importante del Sudamerica e, nonostante la recente crisi, è ancora una delle aree a più alto tasso di crescita dell’area. Per la nostra attività è un punto strategico nel comparto lapideo, ma stiamo valutando anche nuove iniziative nel settore vitivinicolo, vista la posizione privilegiata di accesso ai vicini mercati dell’area Nafta.

D. L’innovazione digitale ha cambiato la fieristica?
R. L’innovazione digitale ha cambiato tutto il nostro mondo, non soltanto quello fieristico. Da Veronafiere una attenzione particolare a riguardo è rivolta ai processi e alla gestione dei rapporti con i clienti e il mercato. Abbiamo un progetto specifico inserito nel piano industriale di sviluppo, con investimenti importanti sia in termini di formazione che di servizi.

D. Quali, secondo lei, le modalità per rilanciare l’Italia nell’economia positiva attraverso la fieristica?
R. Le fiere sono da sempre uno strumento fondamentale per la promozione internazionale e lo sviluppo dell’export. In Italia, per il 75 per cento delle piccole e medie imprese, sono anche l’unico momento di visibilità estera. Un ruolo di leva economica che è riconosciuto dal Ministero per lo Sviluppo economico e dall’Ice-Agenzia che dal 2015 hanno inserito alcune manifestazione fieristiche, tra cui Vinitaly e Marmomac, tra quelle strategiche per il Paese. In questo caso la via è una sola: fare squadra tra sistema-fiere nazionale, imprese e Governo per presentarsi uniti sui mercati stranieri, coordinando le risorse in azioni mirate di incoming e outgoing.

D. Turismo fieristico e congressuale: quali le peculiarità?
R. Le fiere rientrano a pieno diritto anche nel settore Mice (Meeting Incentive Congress & Events), come gestori di mete privilegiate per il turismo d’affari e i congressi. Veronafiere all’attività «core» che porta alle manifestazioni ogni anno 1,2 milioni di visitatori, affianca quella di un centro congressuale che organizza 330 eventi all’anno con 85 mila partecipanti di media. La Fiera di Verona vanta poi una location unica, a poca distanza dal centro storico di una città patrimonio dell’Unesco e nella top ten delle mete turistiche italiane.

D. Perché scegliere Veronafiere? Come si distingue dalle altre fiere italiane?
R. Oltre ad avere quasi 120 anni di esperienza nel settore, il nostro più grande plus è quello di essere organizzatori diretti della quasi totalità delle nostre manifestazioni di successo. Significa che Veronafiere non si limita a vendere gli spazi espositivi del proprio quartiere, ma l’87 per cento del proprio fatturato è generato da fiere che sono di nostra proprietà e di cui curiamo direttamente crescita, sviluppo e rapporti con i mercati e gli stakeholder. (ROMINA CIUFFA)

GALLERY (photocredit ROMINA CIUFFA)

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ARMANDO DONAZZAN: LA PANTERA VENETA DI ORANGE1

di ROMINA CIUFFA. Orange1 nasce da un baratto. Leone Donazzan, perito elettronico, nel 1971 fonda la prima società del gruppo dando inizio all’avventura «arancione» con un puro e semplice baratto: un cliente non può pagarlo per un impianto elettrico e gli chiede di potergli dare in cambio dei motori. Così, a Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, nasce la ditta «Elettromeccanica Leone Donazzan» per la riparazione e l’avvolgimento di motori elettrici, attività che si estende in breve al campo dell’impiantistica industriale. Nel 1983 la società viene trasformata in Eld spa e inizia con successo a rivolgersi ai mercati esteri e in modo particolare a Francia, Germania e Paesi nordici. Il business si apre anche verso i mercati dell’est, in particolare verso l’ex Unione Sovietica, il cui crollo, con la caduta del muro di Berlino alla fine degli anni 80, induce Donazzan a rivedere gli obiettivi. Nel 1998, con un fatturato di 5 milioni di euro attuali, il figlio Armando subentra nella direzione aziendale ed intraprende una serie di politiche finanziarie e commerciali che innalzano il livello di competitività e visibilità dell’azienda. Oggi a capo della sempre più grande Holding, è definito la «pantera».

Domanda. Dalla sua entrata come guida dell’azienda cosa è accaduto? 
Risposta. Nel 1999 nasce in Ungheria l’azienda Eme kft, specializzata nella produzione di statori avvolti per motori elettrici. Dalla necessità di migliorare l’efficienza e dalla crescente domanda, viene alla luce un progetto per la costruzione di un capannone adeguatamente dimensionato dove il concetto del «lean manufactoring», ossia la produzione snella che mira a minimizzare gli sprechi fino ad annullarli, costituisce la base di ogni nostra azione nell’area industriale di Arsiè, in provincia di Belluno, e in un tempo record di 8 mesi ultimiamo un capannone di 11.800 metri quadri coperti. Nel 2006 nuovo cambio di nome in Eme, quindi acquistiamo la Ceg, la Unielectric e la Elpromtech, e ricambiamo nome in Orange1 ponendoci sul mercato come specialisti nel settore, poco prima di acquisire anche l’Elettromeccanica Valceno e la Metalpres Cenzato al fine di creare una filiera di verticalizzazione dei componenti per produrre anche i motori elettrici. Poi Orange1 entra nel gruppo Emotion in Motion, con l’obiettivo di migliorare le prestazioni di efficienza energetica, un tema attuale e con un futuro volto allo sviluppo. Di recente, abbiamo acquisito la Magnetic di Montebello Vicentino e la Mado di Chignolo D’Isola. Lo scorso maggio arriva la tredicesima acquisizione, quella della Sicme Motori di Torino, che ha ricavi per 18 milioni di euro e 90 dipendenti.

D. Quali sono i recenti dati che descrivono l’attuale situazione di Orange1?
R. Siamo presenti in 70 Paesi nel mondo, con un fatturato di circa 200 milioni, 11 stabilimenti produttivi, 14 aziende acquisite, 1.200 dipendenti. Produciamo annualmente oltre 1 milione di motori elettrici asincroni monofase e trifase, 5 milioni di avvolgimenti per motori elettrici asincroni, 60 mila drive per motori elettrici, 20 mila tonnellate di alluminio pressofuso e 12 milioni di pezzi di torneria di alta precisione per il settore auto motive. Ora puntiamo alla leadership anche nella pressofusione in alluminio con la divisione «Foundry».

D. Come siete entrati nel mondo delle corse?
R. Internation Gt Open, Lamborghini Blancpain Super Trofeo e Campionato Italiano Rally sono le nostre nuove sfide. Lo sport è il completamento della realtà dinamica del mondo Orange1, anche con le divisioni Oxygen Orange1 Basket e Orange1 Racing, nata nel 2016, dove il motto aziendale #wearepassion dimostra che con vera passione si può raggiungere ogni traguardo.

D. Funziona il team competitivo di Orange1 Racing?
R. Dodici mesi fa, in Friuli, il nostro principale concorrente dichiarava che non aveva bisogno di un «aiutino» per vincere. Quest’anno, invece, si è fatto cedere la posizione dal giovane compagno di squadra in più di un’occasione, e si è presentato a Verona forte della presenza di un ex-campione italiano ed europeo, schierato con il dichiarato intento di dargli manforte nella lotta per il titolo. Questo è il complimento più bello per noi di Orange1 Racing, perché vuol dire che abbiamo saputo farci temere e rispettare, noi team privato in lotta contro squadre ufficiali. E tutto questo alla nostra prima stagione vera e con una vettura vincente. Evidentemente il leader provvisorio, il suo team ed il suo fornitore di pneumatici hanno paura di noi e questo ci riempie di orgoglio e fa salire l’adrenalina.

D. Chi è il vostro rappresentante tra le «Pantere alate»?
R. Simone Campedelli, con il navigatore di riserva Pietro Ometto, presentatisi a Verona carichi dopo aver dominato anche il Rally di Roma Capitale, confermando di essere qualcosa di più di una semplice minaccia per i rivali. Abbiamo scelto di contare esclusivamente sulle nostre forze e su quelle del team Brc e della Michelin, che hanno garantito il massimo supporto durante tutto il campionato.

D. Nel Rally di Roma Capitale come si sono qualificate le «Pantere alate»?
R. Vittoria in entrambe le tappe e massimo dei punti in palio per Campedelli e Ometto: le «Pantere alate» hanno dominato l’intero week-end con la Ford Fiesta Brc e sono andate via dal Lazio con una doppietta che consolida la loro seconda posizione in campionato, a pochi punti dal leader provvisorio.

D. Avete appena svolto un grande evento a Verona, «Ruggiti di passione». Di che si è trattato?
R. Con «Ruggiti di passione» abbiamo voluto lanciare dei progetti di promozione del lavoro, della cultura e del territorio. Cogliendo l’occasione della finale del Campionato Italiano di Rally in cui abbiamo partecipato con la nostra scuderia Orange1 Racing, abbiamo coinvolto il pubblico in una serie di iniziative, conferenze, laboratori dedicati ai giovani, alla cultura, alla passione e al sociale, come il «Rally Therapy» del 14 ottobre che ha dato la possibilità a 20 giovani disabili di partecipare ad un emozionante test drive di rally, e il «Recruiting Day» del 15 ottobre durante il quale ai giovani è stata data l’opportunità di presentare la loro candidatura al management della Holding Orange1.

D. In che modo sostiene lo sport?
R. Oltre che con Orange1 Racing, sostengo i ragazzi della squadra di Basket Bassano, e non solo. Un’iniziativa particolare è stata quella in Brasile, dove una squadra locale di giovani pallavolisti di Campinas, che ha visto sui social quanto siamo attivi, ci ha chiesto un contributo, e abbiamo voluti aiutarli.

D. La vostra comunicazione è molto attenta: come la affrontate?
R. Abbiamo acquisito l’Italian Graphic Design di Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso, con 30 anni di esperienza, per integrare il mondo dei nostri servizi al fine di supportare le politiche di marketing sempre più strategiche per la crescita del gruppo. Comunicare chi siamo e cosa facciamo a dipendenti, clienti e fornitori è diventato imprescindibile e questo deve essere fatto con velocità, professionalità e passione.

D. Dove vuole andare attraverso tutte queste acquisizioni?
R. Perseguo per la mia società l’obiettivo di divenire l’interlocutore unico per prodotti diversificati. Tutto fa capo a una holding di partecipazione industriale. Dal 1998 abbiamo avuto acquisizioni per 50 milioni di euro, investimenti in immobili per 20 milioni e per oltre 50 milioni in tecnologia, miglioramento dell’efficienza e nuovi prodotti.

D. Una realtà molto incentrata nel Veneto. C’è qualche influenza straniera?
R. Il nostro prodotto è completamente Made in Italy, e nel settore dell’elettromeccanica in Italia costituisce un’eccellenza, riconosciuta a livello mondiale sia per la componentistica che per il prodotto finito. Il Veneto mi ha aiutato non tanto come regione in sé, ma nel suo spirito, nell’energia che si respira.

D. I motori, appannaggio degli uomini si dice. Ma Orange1 impiega molte donne. In che modo?
R. Orange1 Holding si è sempre distinta nell’ambito della parità di genere, garantendo alle donne le stesse opportunità degli uomini in termini di affermazione professionale. Ad oggi il gruppo internazionale specializzato nel settore metalmeccanico di Arsiè conta 408 donne su un totale di circa 1.200 dipendenti, ovvero il 34 per cento della forza lavoro e i 3/10 delle posizioni lavorative ritenute strategiche sono ricoperte da donne. La sensibilità verso le tematiche della parità di genere si concretizza nell’attuazione di strumenti come il «work-life balance», ossia un bilanciamento tra vita privata e lavorativa con orari di lavoro atti a soddisfare le esigenze dei dipendenti, l’orario flessibile, nato nel settore tessile proprio per la forte maggioranza femminile, e le pari opportunità in termini di carriera e apprendimento. Queste politiche gestionali ci hanno permesso di ottenere «quote rosa» in costante crescita in tutte le aziende e un clima aziendale favorevole alla creazione di un circolo virtuoso, in cui i dipendenti crescono insieme all’azienda.

D. In che modo avete affrontato la crisi italiana, europea ed internazionale?
R. In quanto legati al settore dell’automotive abbiamo anche noi avvertito la crisi, ma grazie alla capacità di rivedere il business aziendale e modificare le dinamiche dei costi siamo riusciti a trovare soluzioni vincenti per rimanere sul mercato con determinazione, subendo solo in minima parte le problematiche economiche e finanziarie e superandole in modo positivo.

D. Recruiting, lo state facendo anche ora. Il settore, dal punto di vista del lavoro, incontra la domanda?
R. Abbiamo difficoltà a reperire personale specializzato e flessibile negli spostamenti rispetto al luogo di dimora, per questo siamo molto attivi nelle collaborazioni con scuole ed enti di formazione. Inoltre, puntiamo principalmente sulla competenza, e abbiamo un’apertura internazionale: non importa che lingua parli la nostra risorsa, purché sia una risorsa.

D. Investite in ricerca e sviluppo?
R. La funzione R&S rappresenta un settore strategico per il mio gruppo. La progettazione e lo sviluppo di nuovi prodotti è un fattore cruciale per una realtà industriale in costante mutamento a causa delle continue innovazioni tecnologiche e della concorrenza. Sono l’assidua ricerca, la voglia di emergere e la sete di novità a muovere tutte le scelte e le strategie aziendali. Orange1 Holding sviluppa prodotti in grado di adattarsi ad eventuali modifiche e richieste. Prima del lancio di un nuovo prodotto sul mercato promuoviamo una lunga analisi di ricerca e sviluppo finalizzata a un compromesso tecnico ed economico che consenta di raggiungere un alto livello qualitativo. Flessibilità ed efficienza ci hanno inoltre consentito di orientarci sempre di più verso le richieste specifiche del cliente, realizzando versioni personalizzate per applicazioni speciali. Questo costante impegno nella «customizzazione» dei prodotti ha permesso lo sviluppo tecnologico e di processo.

D. Perché lei è definito la «Pantera»?
R. Questo nome mi è stato dato prima di tutto all’interno dai più stretti collaboratori, sembra infatti che questo animale abbia caratteristiche che mi rappresentano: la velocità di esecuzione dei lavori ma anche la velocità dei motori, la velocità di pensare e agire. La pantera è capace di grande accelerazione, il nostro gruppo ne esemplifica la corsa. E punta l’obiettivo senza esitazione. Poi la definizione è stata ripresa all’esterno, e la pantera è divenuta il nostro simbolo. (ROMINA CIUFFA)

Romina Ciuffa e Armando Donazzan (foto EROS MAGGI)

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MA COS’ELO STO TALIAN? I VENETI, E NON SOLO, HANNO ESPORTATO UNA LINGUA UFFICIALE: IL TALIAN

«El talian ze la seconda lengoa più parlada del Brasil. Ricognossesto par el governo brasilian come na lengoa de imigirassion, referensa cultural del Brasil». Talian non è un italiano senza la i ma è una lingua a sé stante, che probabilmente nessuno ha mai sentito nominare. Ma parlare, sì. In Veneto. Non solo: essa è impiegata come lingua madre da circa 500 mila persone in 133 città, complessivamente da 4 milioni di persone nel mondo. E ne siamo noi gli autori, o meglio (a Cesare quel che è di Cesare), i veneti. Noi, che ci lamentiamo (o vantiamo) che l’italiano si parli solo in Italia, non sappiamo che abbiamo una lingua tutta nostra che, andatasi ad integrare ed arricchire con il portoghese delle terre d’emigrazione, ha acquisito la propria autonomia. Paradossalmente: a) di questa lingua i parlanti si vergognano; b) essi credono che si tratti di italiano puro e semplice; c) molti di loro non sono mai entrati a contatto con un italiano «vero».

Dal 2009 il talian è persino patrimonio linguistico negli Stati brasiliani del Rio Grande do Sul e di Santa Catarina e lingua co-ufficiale, con il portoghese, nel comune di Serafina Corrêa, la cui popolazione è al 90 per cento di origine italiana; nel 2014 è stato dichiarato parte del patrimonio culturale del Brasile ed è impiegato come lingua madre in 133 città. Una lingua viva, usata quotidianamente sul lavoro, all’università, nelle canzoni e nelle poesie, in teatro, alla radio o in tv: nella piccola città di Sananduva si può, ad esempio, ascoltare nei programmi settimanali «Radio Sananduva» e «Taliani bonna gente», oltre 20 anni di programmazione ininterrotta.

Durante la seconda guerra mondiale il talian fu proibito dal dittatore Getúlio Vargas: entrando in guerra a fianco degli alleati fu proibito insieme al tedesco; la sfida degli emigranti, molti dei quali carcerati, era incentrata sull’impossibilità di parlare un’altra lingua che non fosse il talian; fortunatamente, la lingua dei veneti del Brasile non solo si è mantenuta dopo allora, ma fortificata.

Darcy Loss Luzzatto è autore di un vocabolario «brasiliano-talian» di oltre 800 pagine: «I nostri vecii, co i ze rivadi, oriundi de i pi difarenti posti del Nord d’Italia, i se ga portadi adrio no solche la fameia e i pochi trapei che i gaveva de suo, ma anca la soa parlada, le soe abitudini, la soa fede, la so maniera de essar. Qua, metesti tuti insieme, par farse capir un co l’altro, par forsa ghe ga tocà mescolar su i soi dialeti d’origine e, cossita, pianpian ghe ze nassesto sta nova lengua, pi veneta che altro, parchè i veneti i zera la magioranza, el talian o Veneto brasilian». Di lui è riportata una pagina su Wikipedia, ma in dialetto veneto, che lo descrive come «uno dei esponenti pi conossui de leteratura taliana o vèneto-brasiliana». Perché, per chi non lo sapesse, esiste un «Wikipedia in lengua vèneta» con 10.975 voci (10.975 voxe).

Il talian, parlato dai discendenti di quei veneti che partirono nel 1875 in seguito alle disastrose condizioni nelle quali la loro regione si era venuta a trovare per l’annessione all’Italia, si illumina anche di illustri: da Anna Pauletti Rech cui la città di Caxias do Sul ha nominato un intero quartiere, a Raul Randon, classe 1929 (nipote dell’emigrante Cristoforo), titolare di un gruppo industriale con 9 mila addetti a Caxias do Sul e di un’impresa agricola con ettari di vigneti e meli, che di recente ha ottenuto dall’università di Padova la laurea in ingegneria gestionale ad honorem. E molti altri.

Ma cos’elo sto talian? Lo chiediamo a un’esperta, la padovana Giorgia Miazzo; interessata alla cultura dell’America Latina, vi ha vissuto molto tempo. Origini, passione e sensibilità, unite alla padronanza di alcune lingue, l’hanno portata a confrontarsi con le comunità italiane all’estero e a plasmare un enorme bagaglio culturale, umano e professionale raccolto nelle sue ricerche antropologiche e linguistiche. Ha così realizzato un progetto, anche editoriale e didattico, inerente alla ricostruzione della memoria storica e linguistico-culturale dell’emigrazione veneta nelle Americhe, in cui espone il fenomeno del talian.

Domanda. Come mai si è avvicinata, quasi immedesimata, al talian?
Risposta. Sono un’interprete e traduttrice, ho trascorso anni all’estero, anche in Brasile, e lì, da linguista, mi sono appassionata alla realtà dell’emigrazione. Così ho avviato il progetto «Cantando in talian» che cerco di portare avanti parallelamente in Italia e in Brasile, perché da entrambe le parti c’è una grandissima ignoranza, intesa come carenza di conoscenza di questo fenomeno, sia dal punto di vista sociologico-storico che dal punto di vista linguistico.

D. Cos’è il talian?
R. Un miscuglio fra i dialetti del Nord Italia – li chiamo dialetti solo perché non sono stati riconosciuti in Italia, ma sono lingue a tutti gli effetti – con un peso sicuramente molto più forte in Veneto, terra di grandissima emigrazione. Il portoghese risulta nelle parole mancanti, e l’attaccamento alla propria terra fa sì che questa lingua si «lusitanizzi». Il talian è un fenomeno meraviglioso e unico in quanto costituisce un’isola linguistica importante soprattutto per il numero di persone che ancora la usano, che sono milioni non solo in Brasile. Nel mondo intero riflette alti numeri: in Messico la comunità di Chipilo ha accolto 5 mila persone dal Trevigiano, che ancora parlano il veneto; altre significative realtà sono in Venezuela e in Sudafrica, sebbene il numero brasiliano non abbia eguali. Questa lingua diventa anche prestito: all’interno delle comunità venete in Brasile, ad esempio, invece di dire «zoccolo» si impiega il termine «tamanco», in origine lo zoccolo portoghese.

D. In cosa è consistita l’emigrazione veneta in Brasile?
R. Gli emigrati veneti arrivarono in Brasile quando – fattore importantissimo – a soli 10 chilometri di distanza si parlavano due veneti diversi e ci si guardava male tra Marostica e Bassano del Grappa. È allora che questa lingua giunge in Brasile e in qualche modo si mescola: il talian è a tutti gli effetti un miscuglio di veneto soprattutto con base vicentina-bellunese-trevigiana e con parole portoghesi. L’uso dello stesso e la convivenza fra quelle genti fa sì che l’italiano diventi più portoghese-brasiliano. Con questa caratteristica: se in Veneto manteniamo ancora i confini tra un dialetto e l’altro, tra una provincia e l’altra, in Brasile la lingua si è integrata e, oltre al veneto, ha preso anche qualche calco del lombardo, del piemontese, del friulano, del trentino. E si possono ascoltare comunità che usano la lingua portoghese ma che usano espressioni tipiche venete. Sicuramente è una lingua differente perché ha preso un’altra strada, e se vogliamo possiamo passarla come una nuova lingua neolatina perché in realtà non coincide con i nostri dialetti veneti; ma sicuramente garantisce una grande comunicazione con noi, perché è una lingua che capiamo.

D. Brasile dove?
R. Parliamo del Rio Grande do Sul, che è una realtà più mescolata tra vicentini-trevigiani-bellunesi, a differenza di altre comunità in Brasile. A me piace sempre ricordare quella della città di Colombo, nello Stato del Paraná, vicino a Curitiba: gli emigrati sono partiti tutti dalla Val Brenta ed hanno formato un talian che è praticamente identico alla lingua che ancora parliamo in Italia, con alcune parole che per noi sono ormai in disuso; per esempio per dire «suocero» o «suocera» dicono «il mi missiè e la mi madonna», parole che usavano i miei nonni. Questa è un’altra realtà stupenda, quella di una lingua più arcaica, di 100 anni fa, che non si è mescolata con il portoghese né con altre realtà del Veneto o del Nord Italia. In sintesi: ci sono tanti talian come ci sono tanti dialetti veneti. Quando opero in queste comunità avverto la loro vergogna di parlare talian: non conoscono la differenza tra veneto, talian e italiano, pensano che il loro talian si parli in Italia e lo parlano senza sapere nulla della propria lingua, perché quando emigrarono erano quasi tutti analfabeti.

D. Come reagirono il Governo italiano e quello brasiliano a quell’ondata migratoria?
R. Mentre il Governo italiano aveva tutto l’interesse a mandare via gente, perché eravamo in troppi, il Governo brasiliano e le compagnie di navigazione si facevano forza della grande ignoranza di coloro che arrivavano; all’epoca il Brasile intendeva fortemente popolare la terra meridionale. che rischiava di essere dominata o presa da altri Stati, e dare in mano ai bianchi il potere evitando che passasse ai neri, sebbene la schiavitù fosse stata abolita. Si aggiunge a ciò il fatto che il governatore Don Pedro II aveva compiuto dei viaggi in Veneto e nel Trentino, rimanendo ammaliato dalla bellezza e dal nostro modo di lavorare la terra, e conosceva i veneti come gente calma, morigerata, grandi lavoratori, ma soprattutto ignoranti, devotissimi alla famiglia e alla religione, in breve gente che avrebbe obbedito. Questa migrazione del 1875 la si può definire eroica perché è stata la più antica e la più difficile; dal 1900 parte poi l’Italia meridionale, circa 3 milioni di persone. Il Nord continua a partire, ma in una emigrazione diversa: quelli del Sud, infatti, vanno verso San Paolo. Nei recenti Mondiali di calcio tenutisi in Brasile si è fatto cenno all’emigrazione siriana, libanese e africana, mentre dell’europea, di quella tedesca, della nostra non si è parlato: una vergogna, anche perché i tedeschi partirono 50 anni prima di noi. Il 1875 fu una data importante perché partì la prima nave, «Sofia», con 380 famiglie, alla volta del Brasile, per sopravvivere e trovare fortuna.

 

D. Perché si chiama «talian» e come è percepito?
R. Perché qualcuno in Brasile, intorno a un tavolino, ha deciso che si dovesse chiamare così. Per essere più corretti, si sarebbe dovuto chiamare «italo-veneto-brasiliano». Inoltre non bisogna dimenticare le piccole comunità, che hanno bisogno di più ascolto, quali quelle insediate a Rio de Janeiro o a Minas Gerais; all’interno di quest’ultimo sono tre quelle di origine veneta, che nel 2007 siamo andati a trovare. Era questa la prima volta che loro vedevano un italiano. Le piccole comunità sono le meno contaminate dalla politica, la quale fa grandi danni sulla cultura. Lo stesso errore lo compiono le scuole di italiano quando in Brasile dicono che il talian non esiste più, che è la lingua degli ignoranti: chi parla veneto è visto in termini non buoni, perché sono i veneti i primi a nutrire una grande vergogna per la propria lingua, si sono sempre visti così, hanno sempre lavorato nei campi, sentendosi inferiori. Il popolo veneto non ha una grande autostima, eppure ha fatto grandi cose, e con umiltà. Con il mio progetto contrasto la tendenza a spostare coloro che parlano talian sull’italiano, facendo piuttosto conoscere la lingua dell’emigrazione che ha attraversato l’Oceano, una lingua sacra perché ce l’ha fatta dando la forza al popolo che la parlava tramite le messe, i canti, i ritornelli, i proverbi. Questa gente ce l’ha fatta con la cultura, con il folclore, con la lingua rimasta viva, che ricorda la propria famiglia e la propria terra. Tutto ciò non è stato fatto in italiano, ma in talian; il nostro lavoro cerca di dare dignità al dolore di coloro che hanno sofferto in modo estremo, senza che mai nessuno dicesse «grazie».

D. Il tema della migrazione è particolarmente acceso. Ma la nostra?
R. È delicato: se parlo nel mio lavoro di emigrazione la gente borbotta. L’anno scorso sono morte 6 mila persone nel Mediterraneo, emigrazione vuol dire vergogna, umiliazione, orfani. Ricordare la nostra emigrazione rende attiva la nostra memoria storica: ci definiamo un Paese antico ma non ricordiamo cos’è successo 100 anni fa. Anche nelle scuole andrebbero cambiati i programmi, si parla di Medioevo per tre anni e non si tocca la storia recente.

D. In che modo ha sviluppato il suo progetto e quali sono gli enti culturali e accademici che lo hanno sostenuto?
R. Ho aperto due sezioni dello stesso progetto, «Cantando in talian» e «Scoprendo il talian», e ne ho fatto due libri, in seguito tradotti in portoghese. «Scoprendo il talian. Viaggio di sola andata per la Merica» racconta la parte storica del Veneto non solo attraverso i miei racconti ma anche attraverso le lettere degli emigrati e un’analisi dei numeri e delle partenze, sulla base di una ricerca che ho compiuto in 12 anni tra il Rio Grande do Sul, il Paranà, Santa Caterina, Minas Gerais, e attraverso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, la UFSC di Santa Catarina, l’UFPR del Paraná e l’UFRJ di Rio de Janeiro. È stato un lavoro di valorizzazione del patrimonio culturale e immateriale linguistico dell’emigrazione veneta in Brasile attraverso la musica e la glottodidattica ludica. Nell’altro libro, «Cantando in talian», per il tramite di 10 canti degli emigranti sono sviluppate delle attività didattiche funzionali all’uso della grammatica, della morfologia e del lessico con proverbi, espressioni tipiche, focus culturali che parlano di città, culinaria, architettura, e tutto questo è un ponte tra Italia e Brasile. In queste comunità ogni anno tengo corsi settimanali di 20 ore per bambini, adulti e anziani, cantiamo e parliamo di lingua e cultura.

 

D. Esistono dizionari di talian?
R. Il primo dizionario è stato scritto da un polacco, che viveva così a stretto contatto con le comunità venete cha l’ha imparato. Ci sono lavori anche più recenti, libri di teatro o libri che parlano delle storie di emigrazione. Forse il mio ha qualcosa in più, nel senso che è stato visto dal di fuori, non dall’interno di una comunità, e perciò non riferisce di un solo talian poiché con le canzoni ho accorpato le varianti: non c’è un solo talian.

D. E quanti?
R. In un altro libro, uscito nel 2016, «Le grandi migrazioni», parlo anche della Lombardia, del Friuli, del Trentino Alto Adige, del Piemonte. Ne ho scritto un altro, per ora solo e-book ma che uscirà in formato cartaceo: «I miei occhi hanno visto. Storia di sguardi e di emozioni di viaggiatori migranti» è una raccolta di articoli e foto che ho fatto durante i miei viaggi, non solo in Brasile ma anche in Perù, Africa, Canada, dove ho incontrato comunità italiane, e affronto il tema degli stereotipi che noi italiani applichiamo.

D. Tutto questo come è pagato?
R. Da me. Nella vita insegno lingue, sono traduttrice, interprete, giornalista. Mantengo me e il progetto vendendo i miei libri, organizzando serate, ho vinto dei premi, alcuni in denaro. Non so se continuerò, la mia goccia nell’oceano l’ho messa, lavoro nei fine settimana, ma il tutto viene ripagato perché è una grandezza ricchissima quella di vedere gli occhi lucidi di questa gente.

D. Chi parla talian è di origine umile: esistono eccellenze talian?
R. Ci sono eccellenze e persone che ce l’hanno fatta. Nel 2011 ho conosciuto Maria Della Costa, scomparsa nel 2016, una delle più grandi artiste che abbiamo avuto in Brasile a livello teatrale tanto da nominarle un teatro a San Paolo. Mi ha regalato un libro sulla sua carriera artistica. Nella letteratura c’è Dalton Trevisan, autore del libro «O vampiro de Curitiba»; poi c’è Adoniran Barbosa, il cui vero nome è Giovanni Rubinato, di origine padovana, il maggiore esponente di samba a San Paolo; Anna Rech, originaria di Seren del Grappa, in provincia di Belluno, che partì nel 1876 vedova con sette figli, e dovette affrontare l’ostilità delle autorità all’imbarco al porto di Genova dovuta alla presenza di figli disabili. Lei disse: «O mi lasciate partire o mi butto in mare», e partì, quindi costruì una piccola locanda a Caxias do Sul che divenne un punto di arrivo per i viandanti. Oggi un intero quartiere lì porta il suo nome. Il trevisano (Mansuè) Geremia Lunardelli divenne il maggior produttore di caffè al mondo tanto da ricevere l’appellativo di «rei do café». Un altro esempio quello dei fratelli Randon, partiti da Cornedo, nel Vicentino, nel 1888 e che giunsero nel Rio Grande do Sul costruendovi un’industria meccanica di autobus.

D. Il talian è tutelato?
R. Il talian è una delle 30 lingue dell’emigrazione in Brasile e la lingua più parlata di tutte le 30. Ma ci sono note dolenti: da una parte mi fa piacere che in Brasile siano state promulgate delle belle leggi a favore di questa lingua, perché diventi patrimonio storico immateriale, e gli studiosi ne portano avanti il progetto di valorizzazione. Ma sono contraria alle modalità in cui ciò viene effettuato: vedo che si formano «gruppetti», e quando diventano gruppetti non è più un «patrimonio». Ciò che faciliterebbe il salvataggio di questa lingua è l’unione, non la divisione.   (ROMINA CIUFFA)




MORRO DOS PRAZERES: I COLORI DELLA FAVELA CHE HA UCCISO UN VENETO

MORRO DOS PRAZERES: I COLORI DELLA FAVELA CHE HA UCCISO UN VENETO di Romina Ciuffa. “Morro dos Prazeres” significa letteralmente “collina dei piaceri”. È una piccola, spettacolare favela a sud di Rio de Janeiro che si staglia a 275 metri, vicino il quartiere bohémienne di Santa Teresa, e da essa è visibile tutta la Rio più nordica sebbene ancora meridionale, dal Pão de Azucar al Botafogo, una delle viste più intense della città carioca, la cidade maravilhosa. Prazeres conta meno di 700 residenti. Il suo nome è un tributo a Madre Maria dei Piaceri, che tenne una messa alla base della collina dove una volta era una cappella (oggi v’è un blocco di appartamenti). Il suo passato non è dorato: è stato un Quilombo, ossia un punto in cui gli schiavi si rintanavano nel XIX secolo.

Nel 2008 è stata il set del film Elite Squad, il famosissimo Tropa de Elite. Non è facile giungervi, ed è parte dell’unità di “Escondinho/Prazeres”. Comunità “pacificata”, la polizia vi è entrata e, “teoricamente”, la favela è “tranquilla”. Che la polizia entri in una favela e la pacifichi non vuol dire che la favela sia pacificata. Nella maggior parte dei casi, pacificação non è affatto sinonimo di pace, tutt’altro: i residenti si sentono più insicuri. Il BOPE (Batalhão de Operações Policiais Especiais, ovvero Battaglione per le operazioni speciali di polizia) tende a confrontarsi con i cittadini in maniera più dura, ed essi si sentono paradossalmente più protetti dai narcotrafficanti. I tiroteios (gli scontri a fuoco) restano, cambiano solo gli addendi: se prima erano tra narcotrafficanti, poi sono tra narco e polizia, e i residenti sono meno tutelati. Questa è vox populi. E il povo si lamenta perché se prima poteva tenere le porte aperte e nessuno avrebbe rubato né commesso crimini, con l’entrata del BOPE le cose cambiano e iniziano i furti e gli stupri, non più assiduamente controllati dai precedenti detentori del potere (molti dei quali in carcere, altri latitanti, altri ancora nella comunità).

Mi soffermo oggi sul Morro dos Prazeres, che conosco bene, e ne pubblico il mio reportage fotografico, a poche ore dal caso di cronaca nera verificatosi alle 11 ora locale dell’8 dicembre: due motociclisti italiani, durante un viaggio previsto di 35 mila chilometri, dopo una visita al Cristo Redentore sarebbero entrati per sbaglio nell’area e fucilati. Dal Morro il Cristo è ben visibile.

Ma non basta un occhio a Dio: il veneto Roberto Bardella, di Jesolo, è morto, raggiunto dai colpi alla testa e al braccio; suo cugino Rino Polato (di Fossalta di Piave) si è salvato (dichiara alla polizia locale: “Roberto mi faceva notare quanto fosse degradato l’ambiente circostante. Ci siamo resi conto di aver imboccato una strada sbagliata”). Vestiti da centauri, sono forse stati scambiati per poliziotti. “Avremmo fatto trecento metri, quando abbiamo visto quel gruppo di uomini, tutti molto giovani, che sbarrava la strada e puntava le armi. Ho sentito un colpo sul casco e ho visto cadere Roberto che stava davanti. Mi sono fermato. Sono stato bloccato, strattonato e poi buttato giù dalla moto”. Poi, Polato è stato preso e tenuto per due ore in una vettura bianca, quindi rilasciato. Il suo telefono, scomparso, è stato poi ritrovato a pezzi. La Delegacia Especial de Apoio ao Turismo (Deat) lo ha accompagnato al Consolato italiano, e sabato 10 è rientrato in Italia. Solo.

Un incidente. Ma questo basti a confermare non la pericolosità del Brasile, quanto la pericolosità del turista. Rectius: la sua leggerezza. Non si creda – è un invito – che le palme bastino a rendere omaggio ad un Paese che resta emergente, sofferente, insoddisfatto, povero. I media hanno esaltato le Olimpiadi, i Mondiali, la Giornata dei Giovani e la presenza del Papa, le buone azioni del Governo, e mai hanno rivelato gli scandali effettivi che hanno distrutto intere comunità, l’aumento del costo della vita che ha reso impossibile la sopravvivenza di molti, l’esistenza di un grande, immenso, giro di spaccio nazionale ed internazionale. Non si può pensare al Brasile canticchiando Caetano Veloso, in un localetto fumante ascoltando un successo di Tom Jobim. Il Brasile non è bossanova. Il Brasile è questo: è il dolore di famiglie sfrattate, la scarsa educazione, l’analfabetizzazione. Quando per costo della vita si intende più il prezzo che vale una vita: ossia, nulla. Un iPhone, una motocicletta, ma anche solo una decina di reais. Non si visita una favela con leggerezza, non si cammina nelle spiagge di Jericoacoara di notte da sole, non si rischia la vita come l’hanno rischiata, e persa, gli ultimi italiani casi di cronaca nera più recenti. C’è sempre un errore alla base di tutto questo.

Ho vissuto nella favela della Rocinha e frequentato tutte le favelas di Rio de Janeiro. Sono stata sempre molto attenta e mi sono garantita protezione prima di tutto. Sono scampata a sparatorie e i colpi di fucile li ho visti passare sopra di me che correvo. La favela non è un Risiko, non è un gioco. Ma non lo è neanche Leblon, non lo è Ipanema, né Copacabana, che prolificano di ragazzini affamati di denaro. Bisogna, prima di affrontare un viaggio in Brasile, approntarsi una preparazione in sociologia, antropologia, psicologia, storia. Solo allora si potranno capire quelle che al turista medio sembrano le contraddizioni di un Paese, mentre a me sembrano solo elementi di coerenza. Sarebbe strano il contrario. Non si entra con una moto in una favela, regola numero uno. Salvo che non sia una moto della favela. Non si compra maconha (marijuana) nella favela, salvo che non si sia introdotti da un favelado di quella stessa favela. Non si passeggia allegramente in una favela con una macchina fotografica a lungo obiettivo, salvo che non si sia garantita protezione.

Il Morro dos Prazeres è una comunità colorata, ne danno conto le mie fotografie. Alzi gli occhi e vedi Cristo. Alcune case sono in vendita. L’atto di acquisto non è registrato nello Stato di Rio de Janeiro e non risulterà da nessuna parte, se non nel Registro della Favela. Smettetela di fare i gradassi: la favela non è un centro sociale. La favela è un luogo fatto di persone vere che soffrono fame e tubercolosi, che se è vero che non pagano la luce allo Stato perché hanno i gatos, i fili collegati in ogni punto dell’area che garantisce loro dell’autoconservazione, questo rientra nella sociologia del luogo. Cacciati dalla città, i poveracci si rifugiarono nei morros quando ancora la città non si era resa conto di quanto valessero quelle colline. Ora sono le più ambite dai grandi imprenditori, dali politici, dai ricchi. Il gap tra povertà e ricchezza è tra i più alti del mondo. Ogni singola comunità (favela) ha una vita a se stante, una storia a se stante, una genealogia a se stante. Sono attivi progetti e le comunità sono comunità di buoni. Non facciamoci influenzare dai media. Ma attenzione alla leggerezze.

Eccoli, i colori che ho visto nella collina dei piaceri, dove il pittore è Cristo: al link http://www.riomabrasil.com/morro-dos-prazeres/

(Romina Ciuffa)