MA COS’ELO STO TALIAN? I VENETI, E NON SOLO, HANNO ESPORTATO UNA LINGUA UFFICIALE: IL TALIAN

«El talian ze la seconda lengoa più parlada del Brasil. Ricognossesto par el governo brasilian come na lengoa de imigirassion, referensa cultural del Brasil». Talian non è un italiano senza la i ma è una lingua a sé stante, che probabilmente nessuno ha mai sentito nominare. Ma parlare, sì. In Veneto. Non solo: essa è impiegata come lingua madre da circa 500 mila persone in 133 città, complessivamente da 4 milioni di persone nel mondo. E ne siamo noi gli autori, o meglio (a Cesare quel che è di Cesare), i veneti. Noi, che ci lamentiamo (o vantiamo) che l’italiano si parli solo in Italia, non sappiamo che abbiamo una lingua tutta nostra che, andatasi ad integrare ed arricchire con il portoghese delle terre d’emigrazione, ha acquisito la propria autonomia. Paradossalmente: a) di questa lingua i parlanti si vergognano; b) essi credono che si tratti di italiano puro e semplice; c) molti di loro non sono mai entrati a contatto con un italiano «vero».

Dal 2009 il talian è persino patrimonio linguistico negli Stati brasiliani del Rio Grande do Sul e di Santa Catarina e lingua co-ufficiale, con il portoghese, nel comune di Serafina Corrêa, la cui popolazione è al 90 per cento di origine italiana; nel 2014 è stato dichiarato parte del patrimonio culturale del Brasile ed è impiegato come lingua madre in 133 città. Una lingua viva, usata quotidianamente sul lavoro, all’università, nelle canzoni e nelle poesie, in teatro, alla radio o in tv: nella piccola città di Sananduva si può, ad esempio, ascoltare nei programmi settimanali «Radio Sananduva» e «Taliani bonna gente», oltre 20 anni di programmazione ininterrotta.

Durante la seconda guerra mondiale il talian fu proibito dal dittatore Getúlio Vargas: entrando in guerra a fianco degli alleati fu proibito insieme al tedesco; la sfida degli emigranti, molti dei quali carcerati, era incentrata sull’impossibilità di parlare un’altra lingua che non fosse il talian; fortunatamente, la lingua dei veneti del Brasile non solo si è mantenuta dopo allora, ma fortificata.

Darcy Loss Luzzatto è autore di un vocabolario «brasiliano-talian» di oltre 800 pagine: «I nostri vecii, co i ze rivadi, oriundi de i pi difarenti posti del Nord d’Italia, i se ga portadi adrio no solche la fameia e i pochi trapei che i gaveva de suo, ma anca la soa parlada, le soe abitudini, la soa fede, la so maniera de essar. Qua, metesti tuti insieme, par farse capir un co l’altro, par forsa ghe ga tocà mescolar su i soi dialeti d’origine e, cossita, pianpian ghe ze nassesto sta nova lengua, pi veneta che altro, parchè i veneti i zera la magioranza, el talian o Veneto brasilian». Di lui è riportata una pagina su Wikipedia, ma in dialetto veneto, che lo descrive come «uno dei esponenti pi conossui de leteratura taliana o vèneto-brasiliana». Perché, per chi non lo sapesse, esiste un «Wikipedia in lengua vèneta» con 10.975 voci (10.975 voxe).

Il talian, parlato dai discendenti di quei veneti che partirono nel 1875 in seguito alle disastrose condizioni nelle quali la loro regione si era venuta a trovare per l’annessione all’Italia, si illumina anche di illustri: da Anna Pauletti Rech cui la città di Caxias do Sul ha nominato un intero quartiere, a Raul Randon, classe 1929 (nipote dell’emigrante Cristoforo), titolare di un gruppo industriale con 9 mila addetti a Caxias do Sul e di un’impresa agricola con ettari di vigneti e meli, che di recente ha ottenuto dall’università di Padova la laurea in ingegneria gestionale ad honorem. E molti altri.

Ma cos’elo sto talian? Lo chiediamo a un’esperta, la padovana Giorgia Miazzo; interessata alla cultura dell’America Latina, vi ha vissuto molto tempo. Origini, passione e sensibilità, unite alla padronanza di alcune lingue, l’hanno portata a confrontarsi con le comunità italiane all’estero e a plasmare un enorme bagaglio culturale, umano e professionale raccolto nelle sue ricerche antropologiche e linguistiche. Ha così realizzato un progetto, anche editoriale e didattico, inerente alla ricostruzione della memoria storica e linguistico-culturale dell’emigrazione veneta nelle Americhe, in cui espone il fenomeno del talian.

Domanda. Come mai si è avvicinata, quasi immedesimata, al talian?
Risposta. Sono un’interprete e traduttrice, ho trascorso anni all’estero, anche in Brasile, e lì, da linguista, mi sono appassionata alla realtà dell’emigrazione. Così ho avviato il progetto «Cantando in talian» che cerco di portare avanti parallelamente in Italia e in Brasile, perché da entrambe le parti c’è una grandissima ignoranza, intesa come carenza di conoscenza di questo fenomeno, sia dal punto di vista sociologico-storico che dal punto di vista linguistico.

D. Cos’è il talian?
R. Un miscuglio fra i dialetti del Nord Italia – li chiamo dialetti solo perché non sono stati riconosciuti in Italia, ma sono lingue a tutti gli effetti – con un peso sicuramente molto più forte in Veneto, terra di grandissima emigrazione. Il portoghese risulta nelle parole mancanti, e l’attaccamento alla propria terra fa sì che questa lingua si «lusitanizzi». Il talian è un fenomeno meraviglioso e unico in quanto costituisce un’isola linguistica importante soprattutto per il numero di persone che ancora la usano, che sono milioni non solo in Brasile. Nel mondo intero riflette alti numeri: in Messico la comunità di Chipilo ha accolto 5 mila persone dal Trevigiano, che ancora parlano il veneto; altre significative realtà sono in Venezuela e in Sudafrica, sebbene il numero brasiliano non abbia eguali. Questa lingua diventa anche prestito: all’interno delle comunità venete in Brasile, ad esempio, invece di dire «zoccolo» si impiega il termine «tamanco», in origine lo zoccolo portoghese.

D. In cosa è consistita l’emigrazione veneta in Brasile?
R. Gli emigrati veneti arrivarono in Brasile quando – fattore importantissimo – a soli 10 chilometri di distanza si parlavano due veneti diversi e ci si guardava male tra Marostica e Bassano del Grappa. È allora che questa lingua giunge in Brasile e in qualche modo si mescola: il talian è a tutti gli effetti un miscuglio di veneto soprattutto con base vicentina-bellunese-trevigiana e con parole portoghesi. L’uso dello stesso e la convivenza fra quelle genti fa sì che l’italiano diventi più portoghese-brasiliano. Con questa caratteristica: se in Veneto manteniamo ancora i confini tra un dialetto e l’altro, tra una provincia e l’altra, in Brasile la lingua si è integrata e, oltre al veneto, ha preso anche qualche calco del lombardo, del piemontese, del friulano, del trentino. E si possono ascoltare comunità che usano la lingua portoghese ma che usano espressioni tipiche venete. Sicuramente è una lingua differente perché ha preso un’altra strada, e se vogliamo possiamo passarla come una nuova lingua neolatina perché in realtà non coincide con i nostri dialetti veneti; ma sicuramente garantisce una grande comunicazione con noi, perché è una lingua che capiamo.

D. Brasile dove?
R. Parliamo del Rio Grande do Sul, che è una realtà più mescolata tra vicentini-trevigiani-bellunesi, a differenza di altre comunità in Brasile. A me piace sempre ricordare quella della città di Colombo, nello Stato del Paraná, vicino a Curitiba: gli emigrati sono partiti tutti dalla Val Brenta ed hanno formato un talian che è praticamente identico alla lingua che ancora parliamo in Italia, con alcune parole che per noi sono ormai in disuso; per esempio per dire «suocero» o «suocera» dicono «il mi missiè e la mi madonna», parole che usavano i miei nonni. Questa è un’altra realtà stupenda, quella di una lingua più arcaica, di 100 anni fa, che non si è mescolata con il portoghese né con altre realtà del Veneto o del Nord Italia. In sintesi: ci sono tanti talian come ci sono tanti dialetti veneti. Quando opero in queste comunità avverto la loro vergogna di parlare talian: non conoscono la differenza tra veneto, talian e italiano, pensano che il loro talian si parli in Italia e lo parlano senza sapere nulla della propria lingua, perché quando emigrarono erano quasi tutti analfabeti.

D. Come reagirono il Governo italiano e quello brasiliano a quell’ondata migratoria?
R. Mentre il Governo italiano aveva tutto l’interesse a mandare via gente, perché eravamo in troppi, il Governo brasiliano e le compagnie di navigazione si facevano forza della grande ignoranza di coloro che arrivavano; all’epoca il Brasile intendeva fortemente popolare la terra meridionale. che rischiava di essere dominata o presa da altri Stati, e dare in mano ai bianchi il potere evitando che passasse ai neri, sebbene la schiavitù fosse stata abolita. Si aggiunge a ciò il fatto che il governatore Don Pedro II aveva compiuto dei viaggi in Veneto e nel Trentino, rimanendo ammaliato dalla bellezza e dal nostro modo di lavorare la terra, e conosceva i veneti come gente calma, morigerata, grandi lavoratori, ma soprattutto ignoranti, devotissimi alla famiglia e alla religione, in breve gente che avrebbe obbedito. Questa migrazione del 1875 la si può definire eroica perché è stata la più antica e la più difficile; dal 1900 parte poi l’Italia meridionale, circa 3 milioni di persone. Il Nord continua a partire, ma in una emigrazione diversa: quelli del Sud, infatti, vanno verso San Paolo. Nei recenti Mondiali di calcio tenutisi in Brasile si è fatto cenno all’emigrazione siriana, libanese e africana, mentre dell’europea, di quella tedesca, della nostra non si è parlato: una vergogna, anche perché i tedeschi partirono 50 anni prima di noi. Il 1875 fu una data importante perché partì la prima nave, «Sofia», con 380 famiglie, alla volta del Brasile, per sopravvivere e trovare fortuna.

 

D. Perché si chiama «talian» e come è percepito?
R. Perché qualcuno in Brasile, intorno a un tavolino, ha deciso che si dovesse chiamare così. Per essere più corretti, si sarebbe dovuto chiamare «italo-veneto-brasiliano». Inoltre non bisogna dimenticare le piccole comunità, che hanno bisogno di più ascolto, quali quelle insediate a Rio de Janeiro o a Minas Gerais; all’interno di quest’ultimo sono tre quelle di origine veneta, che nel 2007 siamo andati a trovare. Era questa la prima volta che loro vedevano un italiano. Le piccole comunità sono le meno contaminate dalla politica, la quale fa grandi danni sulla cultura. Lo stesso errore lo compiono le scuole di italiano quando in Brasile dicono che il talian non esiste più, che è la lingua degli ignoranti: chi parla veneto è visto in termini non buoni, perché sono i veneti i primi a nutrire una grande vergogna per la propria lingua, si sono sempre visti così, hanno sempre lavorato nei campi, sentendosi inferiori. Il popolo veneto non ha una grande autostima, eppure ha fatto grandi cose, e con umiltà. Con il mio progetto contrasto la tendenza a spostare coloro che parlano talian sull’italiano, facendo piuttosto conoscere la lingua dell’emigrazione che ha attraversato l’Oceano, una lingua sacra perché ce l’ha fatta dando la forza al popolo che la parlava tramite le messe, i canti, i ritornelli, i proverbi. Questa gente ce l’ha fatta con la cultura, con il folclore, con la lingua rimasta viva, che ricorda la propria famiglia e la propria terra. Tutto ciò non è stato fatto in italiano, ma in talian; il nostro lavoro cerca di dare dignità al dolore di coloro che hanno sofferto in modo estremo, senza che mai nessuno dicesse «grazie».

D. Il tema della migrazione è particolarmente acceso. Ma la nostra?
R. È delicato: se parlo nel mio lavoro di emigrazione la gente borbotta. L’anno scorso sono morte 6 mila persone nel Mediterraneo, emigrazione vuol dire vergogna, umiliazione, orfani. Ricordare la nostra emigrazione rende attiva la nostra memoria storica: ci definiamo un Paese antico ma non ricordiamo cos’è successo 100 anni fa. Anche nelle scuole andrebbero cambiati i programmi, si parla di Medioevo per tre anni e non si tocca la storia recente.

D. In che modo ha sviluppato il suo progetto e quali sono gli enti culturali e accademici che lo hanno sostenuto?
R. Ho aperto due sezioni dello stesso progetto, «Cantando in talian» e «Scoprendo il talian», e ne ho fatto due libri, in seguito tradotti in portoghese. «Scoprendo il talian. Viaggio di sola andata per la Merica» racconta la parte storica del Veneto non solo attraverso i miei racconti ma anche attraverso le lettere degli emigrati e un’analisi dei numeri e delle partenze, sulla base di una ricerca che ho compiuto in 12 anni tra il Rio Grande do Sul, il Paranà, Santa Caterina, Minas Gerais, e attraverso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, la UFSC di Santa Catarina, l’UFPR del Paraná e l’UFRJ di Rio de Janeiro. È stato un lavoro di valorizzazione del patrimonio culturale e immateriale linguistico dell’emigrazione veneta in Brasile attraverso la musica e la glottodidattica ludica. Nell’altro libro, «Cantando in talian», per il tramite di 10 canti degli emigranti sono sviluppate delle attività didattiche funzionali all’uso della grammatica, della morfologia e del lessico con proverbi, espressioni tipiche, focus culturali che parlano di città, culinaria, architettura, e tutto questo è un ponte tra Italia e Brasile. In queste comunità ogni anno tengo corsi settimanali di 20 ore per bambini, adulti e anziani, cantiamo e parliamo di lingua e cultura.

 

D. Esistono dizionari di talian?
R. Il primo dizionario è stato scritto da un polacco, che viveva così a stretto contatto con le comunità venete cha l’ha imparato. Ci sono lavori anche più recenti, libri di teatro o libri che parlano delle storie di emigrazione. Forse il mio ha qualcosa in più, nel senso che è stato visto dal di fuori, non dall’interno di una comunità, e perciò non riferisce di un solo talian poiché con le canzoni ho accorpato le varianti: non c’è un solo talian.

D. E quanti?
R. In un altro libro, uscito nel 2016, «Le grandi migrazioni», parlo anche della Lombardia, del Friuli, del Trentino Alto Adige, del Piemonte. Ne ho scritto un altro, per ora solo e-book ma che uscirà in formato cartaceo: «I miei occhi hanno visto. Storia di sguardi e di emozioni di viaggiatori migranti» è una raccolta di articoli e foto che ho fatto durante i miei viaggi, non solo in Brasile ma anche in Perù, Africa, Canada, dove ho incontrato comunità italiane, e affronto il tema degli stereotipi che noi italiani applichiamo.

D. Tutto questo come è pagato?
R. Da me. Nella vita insegno lingue, sono traduttrice, interprete, giornalista. Mantengo me e il progetto vendendo i miei libri, organizzando serate, ho vinto dei premi, alcuni in denaro. Non so se continuerò, la mia goccia nell’oceano l’ho messa, lavoro nei fine settimana, ma il tutto viene ripagato perché è una grandezza ricchissima quella di vedere gli occhi lucidi di questa gente.

D. Chi parla talian è di origine umile: esistono eccellenze talian?
R. Ci sono eccellenze e persone che ce l’hanno fatta. Nel 2011 ho conosciuto Maria Della Costa, scomparsa nel 2016, una delle più grandi artiste che abbiamo avuto in Brasile a livello teatrale tanto da nominarle un teatro a San Paolo. Mi ha regalato un libro sulla sua carriera artistica. Nella letteratura c’è Dalton Trevisan, autore del libro «O vampiro de Curitiba»; poi c’è Adoniran Barbosa, il cui vero nome è Giovanni Rubinato, di origine padovana, il maggiore esponente di samba a San Paolo; Anna Rech, originaria di Seren del Grappa, in provincia di Belluno, che partì nel 1876 vedova con sette figli, e dovette affrontare l’ostilità delle autorità all’imbarco al porto di Genova dovuta alla presenza di figli disabili. Lei disse: «O mi lasciate partire o mi butto in mare», e partì, quindi costruì una piccola locanda a Caxias do Sul che divenne un punto di arrivo per i viandanti. Oggi un intero quartiere lì porta il suo nome. Il trevisano (Mansuè) Geremia Lunardelli divenne il maggior produttore di caffè al mondo tanto da ricevere l’appellativo di «rei do café». Un altro esempio quello dei fratelli Randon, partiti da Cornedo, nel Vicentino, nel 1888 e che giunsero nel Rio Grande do Sul costruendovi un’industria meccanica di autobus.

D. Il talian è tutelato?
R. Il talian è una delle 30 lingue dell’emigrazione in Brasile e la lingua più parlata di tutte le 30. Ma ci sono note dolenti: da una parte mi fa piacere che in Brasile siano state promulgate delle belle leggi a favore di questa lingua, perché diventi patrimonio storico immateriale, e gli studiosi ne portano avanti il progetto di valorizzazione. Ma sono contraria alle modalità in cui ciò viene effettuato: vedo che si formano «gruppetti», e quando diventano gruppetti non è più un «patrimonio». Ciò che faciliterebbe il salvataggio di questa lingua è l’unione, non la divisione.   (ROMINA CIUFFA)




TURISMO INTELLIGENTE E CULTURALE: LE NUOVE SFIDE E PROSPETTIVE PER IL BRASILE E L’ITALIA SECONDO GEOGRAFI ED ACCADEMICI

Brasile e Italia, quale politica turistica? Glaucio José Marafon, Marcelo Antonio Sotratti e Marina Faccioli, nel libro «Turismo e território no Brasil e na Itália-Novas perspectivas, novos desafios», raccolgono gli interventi di geografi ed universitari: è questo il risultato di un lavoro di cooperazione tra l’Istituto di Geografia Igeog della Uerj, l’Università dello Stato di Rio de Janeiro, e il Dipartimento del Turismo dell’Università di Roma Tor Vergata. Cinque testi brasiliani e cinque italiani.

Nuove prospettive e nuove sfide al centro anche del convegno del 2 febbraio 2016, ospitato a Palazzo Pamphilj, sede dell’Ambasciata del Brasile in Italia. Presenti i geografi Marafon, dall’Università Uerj di Rio de Janeiro, e Faccioli, dall’Università di Roma Tor Vergata, il professor Aniello Angelo Avella, che del libro ha scritto la prefazione e si presenta a nome dell’Istituto italiano di cultura di Rio de Janeiro; con essi dibattono André Cortez per l’Ufficio Promozione commerciale, Investimenti e Turismo dell’Ambasciata, segretario del settore politico e dei rapporti con il Parlamento (sono con lui Flaminia Mantegazza e Ana Paula Torres), Ottavia Ricci per il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Giuseppe Imbesi dalla Sapienza di Roma, Stefano Landi dalla Luiss-Guido Carli, Stefano Sassi, giornalista ed economista, e Maurizio Vanni, dall’Università del Museo sociale argentino di Buenos Aires. L’incontro è arricchito dalla presentazione del video speciale della Rai «I 450 anni di Rio de Janeiro e il contributo degli italiani».

Contribuiscono al testo alcuni professori dell’Igeog: Amanda Danelli Costa, Clara Carvalho de Lemos, Marcelo Antonio Sotratti, Rafael Angelo Fortunato, Vanina Heidy Matos Silva; da Tor Vergata Alessandro Macchia, dalla Sapienza e la Politecnica marchigiana Paola Nicoletta Imbesi, le ricercatrici Anna Tanzarella e Francesca Spagnuolo; e Christovam Barcellos per la Fundação Oswaldo Cruz. Il libro è edito dalla stessa Uerj.

ANIELLO ANGELO AVELLA. «Navegar é preciso», bisogna navigare. Così Avella introduce il volume, citando Fernando Pessoa. E specifica: viaggiare sì, ma intelligentemente. Il turismo culturale, fenomeno di grande attualità («espressione resa problematica dalla difficoltà di definire e conciliare i termini turismo e cultura», specifica), merita di essere studiato nei suoi diversi aspetti, tra i quali hanno rilievo i «motivi legati alla tradizione del viaggio culturale e alle sue implicazioni socioeconomiche, utili a mostrare i meccanismi per mezzo dei quali è possibile usufruire della cultura come momento di ozio».

È altresì necessario ricordare la peculiarità del «nuovo» a cui porta il viaggio, creando relazioni tra persone e popolazioni differenti e situazioni di socialità che producono trasformazioni delle identità sociali. Ciò causa, secondo il professore filobrasiliano, la messa in discussione del proprio stile di vita e dell’immagine di sé agli occhi degli altri.

Del Brasile Avella è un grande esperto: professore di Storia della cultura dei Paesi di lingua portoghese nella Facoltà di Lettere e filosofia di Roma Tor Vergata, responsabile scientifico della cattedra Agustina Bessa-Luís istituita presso la stessa facoltà dall’Instituto Camões (Ministeri della Cultura e degli Affari esteri del Portogallo), «visiting professor» nella Universidade do Estado do Rio de Janeiro (Uerj), coordinatore degli accordi di cooperazione scientifica di Roma Tor Vergata con le università brasiliane. Oltre a ciò, è associato al Consiglio Nazionale delle Ricerche e fondatore dell’Associazione eurolinguistica Sud; è socio della più antica istituzione culturale del Brasile, l’Instituto histórico e geográfico brasileiro, fondato nel 1838; è membro dei consigli scientifici ed editoriali di riviste internazionali; ha ricevuto nel 2004 il riconoscimento della «Medaglia Tiradentes» dall’Assemblea legislativa dello Stato di Rio de Janeiro. È autore di numerose pubblicazioni nell’ambito delle relazioni culturali fra l’Italia e i Paesi di lingua portoghese, in particolare il Brasile. Per il quale consiglia, al «visitatore intelligente», una guida speciale: la collezione che Don Pedro donò al Brasile stesso subito dopo la morte della moglie napoletana, Teresa Cristina di Borbone, dalla quale prende il nome. 20 mila pezzi, da libri rari a fotografie d’epoca e quadri di grandi autori italiani (ci sono anche Tiziano, Annibale Carracci e Salvator Rosa), collocati a Rio de Janeiro tra la Biblioteca nazionale, il Museo storico nazionale e l’Istituto storico e geografico brasiliano (IHGB).

Riporta Avella che, grazie all’imperatrice napoletana, in Brasile si rinvengono anche elementi di arte etrusca e pompeiana, che lei portò con sé nel bagaglio sulla nave che la condusse a Rio nel 1843. Oltre a ciò, la statua del greco Antinoo, che lei donò, nel 1880, all’Accademia di Belle Arti di Rio, oggi trasferita nel Museo nazionale delle Belle Arti. Per l’esperto è proprio la borbonica Teresa Cristina uno dei principali punti di giuntura per la cultura italo-brasiliana, e fu lei a rendere Rio de Janeiro punto di partenza e di arrivo delle escursioni oltreoceaniche nei campi della musica, della letteratura, del teatro, delle arti plastiche, con implicazioni politiche e sociali. Per questo il Secondo Impero fu, secondo lo studioso, un momento decisivo (l’espressione è di Antonio Candido) nella costruzione del sistema di relazioni politiche, sociali e culturali tra Brasile e Italia, quando queste da episodiche divennero sistemiche.

Ricorda anche Nísia Floresta (1810-1885), educatrice e poetessa brasiliana pioniera del femminismo in Brasile, direttrice di un collegio a Rio de Janeiro e autrice di numerose pubblicazioni in difesa di donne, indios e schiavi. Nata nel Rio Grande do Sul, avendo abitato anche nel Pernambuco e a Rio de Janeiro, si trasferì nel 1849 in Europa (Portogallo, Inghilterra, Italia, Grecia ed altro) fino addirittura a morire a Rouen, in Francia.

Primo forte collegamento: è il 1859 quando a Firenze pubblica «Scintille d’un’anima brasiliana», cinque saggi («Il Brasile», «L’abisso sotto i fiori della civiltà», «La donna», «Viaggio magnetico» e «Una passeggiata al giardino di Lussemburgo»); ed è il 1864 quando a Parigi è dato alle stampe il primo volume di «Trois ans en Italie, suivis d’un voyage en Grèce», dove la scrittrice affronta i problemi politici e sociali italiani e riflette sulla storia e le manifestazioni culturali locali. Per il prefattore del libro curato da Marafon, Sotratti e Faccioli, quello di Floresta costituisce un diario di viaggio valido per lo studio della storia italiana dal punto di vista dei dominati.

Anche Carlos Magalhães de Azeredo, fondatore dell’Accademia brasiliana di Lettere, parla della «divina Roma» nelle sue memorie ricordando gli anni in cui vi abitò nell’ultima decade dell’800, mentre Cecília Meireles ne contempla le rovine tra i suoi «Poemas italianos» del 1953: per lei Roma è il principio di tutto. Quindi Murilo Mendes, Haroldo de Campos, Antonio Callado, Silvano Santiago etc. Senza dimenticare Sérgio Buarque de Holanda, che insegnò a Roma tra il 1952 e il 1954, padre di Chico. Sì, proprio quel Chico Buarque destinato a divenire, da vivo, la leggenda non postuma del Brasile nel mondo, patrono di una nuova spiritualità basata sulle parole: esiliato nella capitale italiana nel 1969, ci conobbe per vie «di traverso». Rientrato in Brasile, questo tropicalista non avrebbe più dimenticato l’Italia, e il ristorante «Il Moro» a Fontana di Trevi.

MARINA FACCIOLI. Stereotipi. Affronta questo tema la geografa Marina Faccioli, tra i coordinatori del libro italo-brasiliano. Laureata in Geografia alla Sapienza di Roma con una tesi sullo sviluppo dell’area metropolitana romana, dottorato di ricerca in Geografia urbana e regionale, ricercatrice per l’Istituto di Geografia economica a Verona, professore associato di Geografia nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Tor Vergata, ha studiato le relazioni fra trasformazioni del processo produttivo e forme di riqualificazione delle risorse culturali localizzate, con specifico interesse per un’analisi in chiave regionalista. Filo conduttore della sua attività di ricerca è il tema della valenza culturale che il sistema territoriale locale è in grado di esprimere quale soggetto di forte coesione socio-economica, con particolare riguardo alla definizione e alla qualificazione di una cultura urbana di carattere postindustriale.

«Non credo che i nostri giovani vadano in Brasile in cerca di stereotipi. Dico sempre che non si conosce una città guardando i monumenti ma girando per le strade, e sono convinta che i giovani siano intelligenti, formati, attenti e sensibili a questo». Aggiunge: «Facendo lezione ai ragazzi brasiliani ho trovato delle differenze con i nostri». Innanzitutto disponibilità e fidelizzazione nei confronti degli italiani, da una parte insita nella storia, dall’altra data dall’eco dell’industria italiana, che «ha insegnato molto in Brasile». Altre diversità riscontrate sono nel «senso della terra, che noi non conosciamo: non abbiamo una storia agricola come quella dei brasiliani, appartenenti a un modello istituzionale di agricoltura familiare».

L’attaccamento alla terra, secondo la geografa, ha condizionato e orientato le modalità di politica turistica accolte dai brasiliani, ossia un turismo nelle campagne diverso da quello agrituristico tipico dell’Italia. Questa differente attitudine raccoglie la domanda dei visitatori che vogliono conoscere qualcosa di più degli stereotipi. Da anni, riferisce, sono attive esperienze di turismo etico in campagna, dove si va a conoscere lo stile di vita a partire da una formula di turismo solidale. «Il loro attaccamento alla terra mi ha stupito, perché sta nella capacità di autopromuoversi».

Rio non esisterebbe se non ci fossero le favelas, sostiene la relatrice. «Sulle favelas si è costruita la città», non si tratta di insediamenti, e lì «le persone oggi si autopromuovono e partecipano al gioco collettivo della valorizzazione turistica della favela stessa. Molti studenti vi si trasferiscono per studiare, proprio perché l’Italia non offre prospettive nel settore, i turisti a Roma continuano a diminuire, e non per gli attacchi terroristici. Dovremmo imparare anche noi a fare politica turistica. Intanto i ragazzi hanno cominciato a lavorare nelle favelas aprendo ristoranti e portando italianità».

Riguardo al mare, «dovremmo imparare dai brasiliani, noi che non riusciamo a valorizzare Ostia e rendiamo il litorale romano un pezzo staccato dalla città». Il mare «non basta più come spiaggia, sole, acqua» ma deve divenire il «pezzo di una grande città». Ciò porta oltre le diversità, è un processo identitario che si costruisce in tanti luoghi diversi. «Ho faticato a far capire ai brasiliani la nostra passione per il localismo, poiché hanno dimensioni tali che si parla di natura, foreste, terra e parchi». E di disponibilità culturale, conclude.

CLAUDIO JOSÈ MARAFON. Ricardo Vieiralves, rettore della Uerj, ha incentivato il lavoro congiunto con l’Università di Tor Vergata e, a partire dal 2010, è stata frequente la presenza di professori italiani nei corsi carioca in Geografia e in Turismo, spiega a Specchio Economico il professor Marafon. Questo ha portato comunque a una riflessione: il Brasile è un Paese che riceve ancora pochi turisti stranieri. «La politica del Ministero brasiliano va nel senso di ampliare i numeri dando maggiore visibilità al territorio brasiliano, per renderlo più attrattivo. Detto obiettivo–specifica Marafon–passa per una politica di sicurezza e divulgazione, giacché spesso l’immagine del Brasile è associata a violenza». E ciò non è necessariamente vero, sottolinea il professore.

Turismo sociale, turismo di avventura, natura: questi ed altri elementi garantiscono al Brasile «di poter ricevere sempre più visitatori da tutto il mondo». Ma la politica deve adeguarsi, ed è ciò che l’incontro di questi esperti mira a evidenziare. Infatti, il Brasile è noto solo per alcune delle innumerevoli attrattive.
Però il costo della vita sale anche per il turista: dopo i grandi eventi, e in prossimità del successivo, i Giochi olimpici 2016 che si terranno a partire da giugno, esso è cresciuto senza compassione.

Cosa pensa Marafon di questo? Costituisce un problema? «Stiamo vivendo una crisi molto forte che ha svalorizzato la nostra moneta, il reale: oggi infatti, un euro corrisponde a circa 5 reali. Per il brasiliano la vita è senza dubbio più cara, ma ciò torna a favore del nostro turismo–spiega–. Per il turista internazionale, infatti, è ora più economico recarsi in Brasile, e questo va visto come un vantaggio che abbiamo».

FLAMINIA MANTEGAZZA. Flaminia Mantegazza, responsabile dell’Ufficio Turismo dell’Ambasciata del Brasile, guidato da André Cortes, parla del «Brasile diverso», del Brasile come «esplosione della natura». Così: «Sono solita dire che l’Italia è un museo culturale a cielo aperto, il Brasile è invece un museo naturale. Nel miscuglio di razze presenti, 30 milioni sono gli italiani. Abbiamo ammirazione per la natura–prosegue–e insieme la necessità di valorizzare ciò che è nostro». Una tradizione che «chi è già stato in Brasile percepisce: quello che c’è fuori lo prendiamo e lo trasformiamo».

Si sofferma, quindi, sulla geografia. «Il Brasile è a 12 ore di volo dall’Italia, che racchiude 28 volte. L’influsso turistico brasiliano in Italia è il settimo, mentre gli italiani che visitano il Brasile sono terzi, superati da Francia e Germania. Il Brasile–prosegue Mantegazza–occupa la prima posizione per le risorse naturali, ma solo la ventottesima nell’indice di competitività internazionale. E siamo qui in Italia anche per imparare questo».

Non si può dire di conoscere tutto il Brasile, per estensione il quinto nel mondo con 8,5 milioni di chilometri quadrati, diviso in 5 regioni e sei bioma: Amazzonia, Cerrado, Pantanal, Caatinga, Pampa e Mata Atlântica. Ne fa un quadro veloce la responsabile dell’Ufficio Turismo: «L’Amazzonia è enorme, il fiume ha una dimensione di 6200 chilometri quadrati e da una sponda non si vede l’altra; esso va dai 3 ai 15 chilometri, ha 1100 affluenti e racchiude ogni specie di pesci. In tutto il Brasile si trovano ancora riserve indigene, non solo in Amazzonia ma anche nel Sud-Est e nella zona di Rio dove abitano le tribù». Queste sono, per la relatrice, le giuste esperienze da fare per un turismo sostenibile, con la possibilità di pernottare in palafitte immerse nella natura. Nel bioma amazzonico la spiaggia è visibile con la bassa marea del fiume, e i suoi alberi altissimi creano l’umidità necessaria a far sì che l’ecosistema si riproduca.

Il Cerrado è un bioma che «rappresenta il 23 per cento del territorio e attraversa 15 dei 27 Stati. Caratterizzato da arbusti bassi con una buccia dura e rami contorti e sparsi, ricco di animali e piante, ha una produzione e un’economia delle quali vivono 30 milioni di persone».

Della Foresta Atlantica fanno parte, tra l’altro, il Corcovado e Rio de Janeiro, infatti «al loro interno si trova la foresta che separa la parte Sud dalla parte Nord. Nel percorso di questo bioma vivono 120 milioni di persone e 10 tribù indigene, e da qui proviene il 70 per cento del Pil brasiliano. Cerchiamo di proteggere la foresta, ma essa è molto diminuita: oggi le istituzioni sono impegnate a preservarla. La Foresta Atlantica scorre e taglia tutto il litorale di Bahia».

La Caatinga è «una zona di cactus e piante grasse di foresta non molto fitta, che rappresenta il Nord-Est sconosciuto; comprende 10 Stati e il 10 per cento del territorio popolato da 27 milioni di persone. I cactus fanno parte di un ecosistema particolare perché si possono mangiare o bere». Invece in un altro bioma, quello della Pampa, ultimo Stato nella frontiera con Paraguay e Argentina comprendente il Rio Grande do Sul, «si trova una vegetazione diversa, con piante al di sopra dei 500-800 metri dal livello del mare, ottima per l’allevamento di bestiame. Qui sono le Cascate di Iguazù e molte altre belezze».

«Il bioma del Pantanal, invece–spiega ancora–comprende entrambi i biomi dell’Amazzonia e della Foresta Atlantica, i quali si contagiano a vicenda, creando un’esuberanza di territorio vergine piena di grotte e fiumi incontaminati con 263 specie di pesci e 2 mila specie di piante acquatiche. Dal 2 all’11 aprile 2016 ospiterà l’Adventure Week, frutto della grande tendenza brasiliana per il turismo di avventura e il turismo naturale».
E, ricorda, nel 2018 il Brasile ospiterà la Conferenza mondiale sull’acqua: esso, pur nei suoi problemi di siccità, raccoglie circa il 12 per cento di tutta l’acqua dolce del pianeta. «Certo che l’ecosistema è devastato. Sebbene riusciamo a mantenere tutto ancora in vita, non sappiamo fino a quando. C’è una grande coscienza delle autorità e del popolo, ma sappiamo anche che l’interesse economico, purtroppo, va oltre».

STEFANO SASSI. «Parlo sempre volentieri del Brasile anche se ritengo che sia una delle cose più difficili da fare». Così introduce il suo intervento il giornalista ed economista Stefano Sassi. «Non dobbiamo dimenticarci che stiamo parlando di un continente e non di uno Stato. Non si può parlare del Brasile pensando solo a Rio de Janeiro, anzi: forse la cosa meno brasiliana del Brasile è proprio Rio de Janeiro, che ritengo la più bella città dopo Roma. Non per i monumenti ma per la natura: quando i portoghesi arrivarono, videro questo fiume che brillava oro e capirono la bellezza del posto. È l’unica città nel mondo che ha all’interno un parco nazionale, scimmie e serpenti e, fino alla metà degli anni Ottanta, anche otto giaguari che sono stati spostati perché, affamati, scendevano nelle favelas».

Oggi si parla di cambiare l’immagine del Brasile, prosegue il giornalista. «Ho letto che i brasiliani cercano di dare l’appellativo di ‘viaggio intelligente’ alla visita in Brasile. Ma quando parliamo di cultura del Brasile dobbiamo decidere che cosa intendiamo per cultura. I 500 mila brasiliani che ogni anno vengono in Italia sanno esattamente che cosa vengono a vedere, i 200 mila italiani che vanno in Brasile non lo sanno. Al di là della fotografia particolare che tutti conosciamo, quella delle spiagge, le palme, le belle ragazze: ma il Brasile non è questo, o non è solo questo. Fino a qualche tempo fa non sapevo che vi sono reperti etruschi portati da una borbona, come non sapevo per esempio che in Brasile c’è la più grossa isola idromarina del mondo, più grande della Svizzera, con oltre 1 milione e 100 mila capi di bufali allo stato brado».

Sassi si sofferma a descrivere ciò che in Italia si sa meno del Brasile, dal genere musicale del Forrò (ben oltre il Toquinho che tutti sono abituati a conoscere), località che sono patrimonio dell’umanità (cita Minas Gerais), completamente conservate, indios, conventi francescani, alligatori. «C’è un problema di informazione. La lacuna è di voi brasiliani, che dovete far conoscere il vostro Paese, dire che cosa avete, perché il turista sceglie sulla base di quello che sa. Il Brasile andrebbe visitato in lungo e largo, ma ci vuole una vita».    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Febbraio 2016

 

 




7 SETTEMBRE: L’INDIPENDENZA DEL BRASILE DAL PORTOGALLO LUNGO UN CAMMINO DI SCHIAVITÙ E SANGUE

Il 22 aprile del 1500 Pedro Alvares Cabral avvistò terra: era l’attuale Santa Cruz de Cabràlia, nello Stato nordestino di Bahia. Il Brasile non era affatto una meta accattivante: abitata da indigeni, e non v’erano dichiarati propositi colonialisti da parte degli europei, sebbene quel territorio fosse stato già spartito tra Spagna e Portogallo, ancor prima della sua scoperta ufficiale quando, con il trattato di Tordesillas (7 giugno 1494), i due iberici definivano la frontiera che divideva il continente brasiliano da Nord a Sud, dall’attuale stato di Parà fino alla città di Laguna (modificata in seguito con l’espansione portoghese ad Ovest). Allo sbarco di Cabral l’intento era mite: si intendeva popolare le Americhe ed usare le terre brasiliane come base per il commercio con le Indie, l’impresa di navigazione puntava sugli scambi con i prodotti locali. Era necessario capire come.

L’occupazione vera e propria inizia comunque, sebbene 32 anni dopo, con la fondazione nello Stato di San Paolo di Vila de São Vicente, che è nel guinnes dei primati come la «cidade mais velha do Brasil»: nel 1531 il re del Portogallo João III inviò in Brasile i coloni con Tomé de Sousa, primo governatore generale. I portoghesi trovarono un popolo ingenuo (che li accolse prima di doverli odiare) privo di organizzazione militare che poterono assoggettare con facilità più che con destrezza e, in base al vecchio Trattato di Tordesillas integrato da quello di Saragozza del 1529, il nuovo territorio entrò ufficialmente a far parte della zona d’espansione territoriale del Portogallo. Risale al 1533 la prima struttura politica ed amministrativa brasiliana, basata sulle «capitanias», come volle re João III, concessioni terriere di tipo feudale date dal sovrano a nobili che, in cambio di un tributo, ottenevano pieni poteri sulla terra; ciò però implicava anche indipendenza di interessi presso ogni capitanato (ve n’erano 12), che di fatto era una comunità separata dalle altre, per tale ragione non attenta al commercio e alla difesa del Paese dagli interessi stranieri. Il re ritenne, per ovviare a questa dispersione, di fondare un potere centrale, nominando un governatore generale: il 29 marzo 1549 fu fondata la capitale, Salvador.

Fu allora che l’accoglienza brasiliana si tradusse in ostilità e nel conflitto bianchi-neri: da una parte i portoghesi costringevano gli oriundi a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, dall’altra la tratta degli schiavi fece giungere dall’Africa più di 4 milioni di neri. Contro le barbarità i preti gesuiti costruirono «reducciones», villaggi di civilizzazione e difesa contro le razzie dei coloni portoghesi e spagnoli, in cui i missionari accoglievano i fuggiaschi ed insegnavano la fede cristiana. Intanto gli schiavi si rifugiavano nelle regioni dell’interno più inaccessibili dove si organizzavano in «quilombos», il più emblematico dei quali è il quilombo di Palmares – comunità autonoma, regno o repubblica secondo alcuni – che occupava una vasta area, grande quasi quanto il Portogallo, nella zona nordorientale del Brasile, tra gli odierni Stati dell’Alagoas e Pernambuco, e che arrivò a contare 30 mila abitanti. Ancora oggi questo quilombo è il simbolo della resistenza degli africani alla schiavitù, così come lo è Zumbi dos Palmares.

Quando giunsero le navi della Compagnia Olandese delle Indie Occidentali nel Pernambuco, fu destabilizzato il mercato della canna da zucchero e facilitata la fuga degli schiavi per contrastare il Portogallo. Ma l’Olanda riuscì a prendere solo la città di Olinda e fu proprio a Palmares che gli olandesi puntarono, nel 1644, per tentare un’alleanza antiportoghese: primo tentativo olandese di conquistare le terre brasiliane ad onta della bolla papale «Ea quae pro bono pacis» del 1506 e del Trattato di Tordesillas che la stessa proteggeva, secondo cui alle nazioni europee differenti da Portogallo e Spagna che conducevano esplorazioni era negato l’accesso alle nuove terre, lasciandosi loro unicamente opzioni come la pirateria. Francesi ed olandesi provarono ad insediarsi, saccheggiarono Bahia, addirittura i secondi conquistarono temporaneamente la capitale e dal 1630 al 1654 si stabilirono nel Nordeste fondando la colonia di Nuova Olanda, padroneggiando una lunga striscia della costa più accessibile dall’Europa e controllando l’interno. Ma dopo anni di guerra aperta con i portoghesi gli olandesi si ritirarono, nel 1661.

Nel 1678 il governatore della Capitania de Pernambuco, stanco del lungo conflitto col quilombo de Palmares, si riappacificò col leader di Palmares, Ganga Zumbi, ed offrì la libertà a tutti gli schiavi fuggitivi a condizione che il quilombo si sottomettesse all’autorità portoghese; la proposta venne accettata ma Zumbi, sospettoso e contrario ad accettare la libertà solo per il quilombo mentre gli altri neri del Brasile rimanevano in stato di schiavitù, spodestò Ganga Zumbi divenendo il nuovo leader di Palmares, che invece soccomberà ai portoghesi nel 1694, dopo 94 anni di esistenza. Zumbi, tradito e denunciato da un vecchio amico, sarà localizzato, catturato e decapitato a 40 anni, per divenire eroe e martire. Ma l’insofferenza contro il dominio europeo si era ormai diffusa, oltre che nei quilombos e tra gli oppressi, anche nelle élite creole – strati benestanti di popolazione nata in America da genitori europei, molti dei quali iberici – che la cultura illuministica e le rivoluzioni americana e francese influenzavano.

Il Brasile, un secolo più tardi, giunse all’indipendenza senza una vera e propria lotta di liberazione nazionale, senza un vero e proprio (finale) spargimento di sangue, bensì per una decisione della famiglia regnante. Infatti, nel 1807 Napoleone invase il Portogallo marciando su Lisbona e il principe (futuro Pedro I), scortato dall’esercito britannico che fornì la protezione navale al viaggio, fuggì in Brasile giungendo a Rio nel 1808 e proclamandola capitale del Regno Unito di Portogallo. Il Brasile aprì i propri porti ed escluse lo status di colonia, provocando le ire di molti; così nel 1821 il re decise di rientrare a Lisbona e di lasciare il figlio Pietro come reggente del Brasile. Quest’ultimo, nonostante le pressioni dei liberali per tornare in patria, rimase (nel cosiddetto «Dia do Fico», ossia giorno dell’«io resto») e il Portogallo non poté più dominare il Brasile. Pietro I, istituendo una monarchia costituzionale, ne dicharò l’indipendenza il 7 settembre 1822 al grido di «Indipendenza o morte!», sulle rive del fiume Ipiranga.

Nelle negoziazioni del Congresso di Vienna, al Brasile fu data inizialmente condizione di regno all’interno dello Stato portoghese. Il Portogallo assunse la denominazione ufficiale di Regno Unito di Portogallo, Brasile e Algarve il 16 dicembre del 1815 (Gazzetta di Rio de Janeiro del 10 gennaio 1816), status che venne perso il 29 agosto 1825 dopo la ratificazione del Trattato di Rio de Janeiro siglato alla fine della Guerra d’Indipendenza del Brasile.

Il reggente João VI diveniva Imperatore Titolare del Brasile de jure, e simultaneamente abdicava in favore del figlio Pedro de Alcântara (Pedro I do Brasil), giuridicamente allora Principe Reale di Portogallo, Brasile e Algarve, già imperatore de facto del Brasile: in questo modo, alla morte del padre, avrebbero potuto eventualmente unirsi le due corone. Il Brasile aveva intanto, simultaneamente, un imperatore e un re (1822-1826) e due imperatori (1825-1827). Nel 1831 il regno passò a soli 5 anni a Pietro II, che dopo 9 anni di reggenze fu acclamato imperatore nel 1840, a 14 anni. Il suo regnò durò fino al 1889, quando fu rovesciato da un colpo di Stato che istituì la repubblica. Nel 1888, dichiarò l’abolizione della schiavitù.    (ROMINA CIUFFA)

Il 7 settembre il Brasile celebra l’indipendenza dall’incubo lusitano: colonialismo, corte e schiavismo che non fecero bene a un Paese che Paese ancora non era, bensì una terra totalmente vergine dalle dinamiche europee di conquiste e ricchezza, a scapito di un territorio e di una popolazione accoglienti. È istituita festa nazionale ma, mutata mutandis, la giornata del 7 settembre non è, per la popolazione, motivo di festeggiamenti, bensì occasione di protesta mentre il presidente Dilma Rousseff, vestita di bianco e con la fascia presidenziale, sfila a bordo della Rolls Royce cabrio ufficiale in testa al corteo di Brasilia, alla presenza di circa 25 mila persone. E lancia alla popolazione un videomessaggio, che traduciamo interamente.

Non senza anticipare ciò che Dilma ha fatto: non ha parlato di nulla, ha spostato il baricentro delle responsabilità del Paese prima al di fuori del Paese stesso (la crisi internazionale, i drammi dei Paesi emergenti, i rifugiati sulle spiagge europee) addirittura cogliendo l’occasione per invitarli a recarsi in Brasile, ove saranno accolti (ma come?); quindi spostando il medesimo baricentro in una visione autoattribuente, con un locus of control interno del tipo «il problema è dentro di noi». In un discorso nel quale si fa retorica senza empatia e dove sono presenti molte ripetizioni e scarsa capacità linguistica e comunicativa, accompagnato, per di più, da stacchetti di forte impatto, stile Casa Bianca, che aprono ciascuno dei paragrafi in cui esso è stato distinto. «Casa verdeoro».

L’avvocato e politico Flavio Bierrenbach, per anni ministro del Tribunale militare, ha commentato altri discorsi della Rousseff: «Seguo la politica brasiliana attentamente da sempre. Ho già visto nella mia vita presidenti che sono buoni oratori, cattivi oratori, mediocri oratori: non ho avuto alcuna sopresa dinnanzi a quello che è quasi un caso di dislessia, incapacità di formulare un’idea con inizio, discorso e conclusione, incapacità di comunicare qualcosa. La presidentessa brasiliana non sa comunicare. Dovrebbe leggere. Risulterebbe più semplice, più intelligente per se stessa e per i suoi discorsi». Mentre, per lo storico Leandro Karnal: «Non è necessario sapere di tutto, o parlare di tutto: il silenzio è meglio in certi casi e crea un’utile illusione di conoscenza sullo spettatore».

La traduzione è effettuata senza apportare modifiche al discorso, mantenendo anche le ripetizioni. (ROMINA CIUFFA)

DILMA ROUSSEFF. «Cari brasiliani e brasiliane, voglio parlarvi oggi, 7 settembre, giorno dell’indipendenza del Brasile, come un momento per riflettere, parlare delle nostre preoccupazioni sul presente ed il futuro del Paese. È vero che attraversiamo una fase di difficoltà, affrontiamo problemi e sfide, e so che la mia responsabilità è quella di presentare percorsi e soluzioni per fare ciò che deve esser fatto. I problemi e le sfide derivano da un lungo periodo di azioni di un Governo che ha compreso di dover spendere ciò che è necessario per garantire impiego, continuità di investimento, programmi sociali. Dobbiamo ora rivalutare tutte queste misure e ridurre quelle che devono essere ridotte. I nostri problemi vengono anche da fuori, e nessuno che sia onesto può negarlo: è evidente che la situazione in molte parti del mondo si è nuovamente aggravata per la crisi internazionale, colpendo ora i Paesi emergenti, Paesi importanti, anche partner del Brasile. Il mondo, oltre a questo, affronta tragedie di natura umanitaria, come quella scioccante dei rifugiati che muoiono nelle spiagge europee mentre cercano rifugio dalla guerra. L’immagine di un bambino di appena tre anni ha commosso tutti noi e ci ha posto una grande sfida».

«Noi, il Brasile, siamo una nazione formata da popolazioni delle più diverse origini che qui vivono in pace. Anche nelle più grandi difficoltà, o in crisi come quella che stiamo attraversando, abbiamo le braccia aperte per accogliere i rifugiati. Colgo l’occasione, nel giorno di oggi, per rinnovare la nostra disponibilità ad accogliere coloro che, espulsi dalla propria patria, vogliano venire qui a vivere, lavorare e contribuire alla prosperità e alla pace del Brasile».

«Insisto: le difficoltà sono nostre, e sono superabili. Ciò che voglio dire, con tutta franchezza, è che stiamo attraversando sfide. È possibile commettere errori, ma li supereremo e andremo avanti. Ecco alcuni rimedi a questa situazione: è vero, sono amari, ma indispensabili. Le misure che stiamo adottando sono necessarie per risistemare la nostra casa, ridurre l’inflazione ad esempio, rafforzarci dinnanzi al mondo, e condurre il Brasile nel più breve tempo possibile alla ripresa della crescita. Possiamo e vogliamo essere esempio per il mondo, esempio di crescita economica e di valorizzazione delle persone. Lo sforzo di noi tutti è quello che ci porterà a superare questo momento. Io lo so. E so anche che l’unione intorno al nostro Paese e al nostro popolo è la forza capace di condurci lungo questo viaggio. È il momento, questo, in cui dobbiamo sorvolare le differenze minori e mettere in secondo piano gli interessi individuali o di parte. Mi sento pronta a condurre il Brasile sul cammino di un nuovo ciclo di crescita, ampliando le opportunità che il nostro popolo ha per andare avanti con più e migliori impieghi. Noi vogliamo un Paese con inflazione sotto controllo, interessi decrescenti, rendite e salari alti. Posso garantire che nessuna difficoltà mi farà rinunciare all’anima e al carattere del mio Governo, che consistono nell’assicurare, in questo Paese di grandi diversità, opportunità uguali per la nostra popolazione, senza battute d’arresto, senza retrocessioni».

«Noi siamo stati capaci di tirare fuori dalla miseria milioni di persone ed elevarne altri milioni ai canoni di consumo delle classi medie. Cresceremo di nuovo per avanzare ancor di più in questo cammino, costruendo un Brasile di lavoratori e imprenditori, di studenti, di esperti nell’agricoltura, nel commercio, nell’industria, nei servizi. Ma sappiamo che ancora manca molto per ottenere questo e perciò abbiamo bisogno di tornare a crescere, per portare, ad esempio, educazione di qualità a tutta la popolazione, dall’asilo al dottorato. Abbiamo esperienze vincenti e voglio contare su una grande vittoria: abbiamo appena vinto il primo posto nelle Olimpiadi mondiali della conoscenza tecnica, cui hanno partecipato 59 Paesi, molto forti nella formazione professionale come la Germania, la Corea del Sud, il Giappone, la Francia. La buona notizia è che l’84 per cento dei vincitori avevano fatto o stavano per fare il Pronatec (il Programma nazionale di accesso all’insegnamento tecnico e all’impiego, ndr), un accordo tra il Governo e il Senai (Servizio nazionale di apprendimento industriale, ndr), che conferisce borse di studio per la formazione tecnica, e vorrei sottolineare che la famiglia di uno dei vincitori della medaglia d’oro ha ricevuto anche la Bolsa Família, che gli ha consentito di accedere alle Olimpiadi».

«Cari brasiliani, care brasiliane, il giorno dell’indipendenza deve essere un momento di incontro del Brasile con se stesso, una celebrazione e un tributo che prestiamo agli eroi che hanno lottato per un Brasile forte, libero, indipendente. È in questo giorno che dobbiamo pensare che Paese vogliamo per noi e per i nostri figli e nipoti. È in questo giorno che onoriamo gli eroi dell’indipendenza, che rendiamo omaggio a tutti i brasiliani che hanno lottato e dato la propria vita affinché il nostro Paese restasse sempre libero dall’oppressione».

«È in questo giorno che riaffermiamo quello che una nazione e un popolo hanno di meglio: la capacità di lottare e la capacità di convivere con la diversità, tollerante nei confronti delle differenze, rispettoso nella difesa delle idee, e soprattutto ferma a difendere la miglior conquista raggiunta e che dobbiamo garantire permanentemente: la democrazia e l’adozione del voto popolare come metodo unico e legittimo di eleggere i nostri governanti e rappresentanti».

«L’indipendenza, cari brasiliani e brasiliane, accade ogni giorno nel Paese, nelle nostre case, nelle nostre famiglie, dentro ognuno di noi. È la forza nella nostra autostima come popolo e la certezza che i brasiliani sono ciò che il Brasile ha di meglio, con il nostro lavoro, la nostra unione, il nostro sforzo per mantenere le nostre famiglie e creare i nostri figli e nipoti, con l’allegria con cui passiamo i buoni momenti ed il coraggio con cui affrontiamo quelli brutti. Siamo tutti in lotta per l’indipendeza del Brasile. Oggi, più che mai, siamo tutti il Brasile».  (ROMINA CIUFFA)

In Italia quest’anno l’Ambasciata brasiliana, con sede a Roma nel Palazzo Pamphilj di Piazza Navona, ha invitato a festeggiare il 193esimo anniversario attraverso un ricevimento privato tenutosi l’8 settembre. Rioma lo ha documentato. L’ambasciatore Ricardo Neiva Tavares ha accolto, insieme alla moglie Cecilia, gli ospiti. Pur mancando un momento culturale, una tavola rotonda che spiegasse cosa sia l’indipendenza per un brasiliano, cosa è accaduto e come si è arrivati a quel 7 settembre in cui il re portoghese stesso ha liberato il Brasile dal Portogallo, l’evento è risultato, come ogni anno, il momento di incontro di moltissimi personaggi che ruotano intorno all’area verdeoro, intorno a caipirinha, pão de queijo, brigadeiros e beijinhos. Presente innanzitutto l’Ambasciatore del Portogallo in Italia, Manuel Lobo Antunes, accreditato anche presso l’Albania, Malta e la Repubblica di San Marino e, come Rappresentante permanente, presso le organizzazioni delle Nazioni Unite con sede a Roma (Fao, Ifad e Wfp/Pam). La sua partecipazione significa molto e infonde all’evento un afflato di storia e resurrezione.

L’apertura di Palazzo Pamphilj, appartenuto dal 1470 alla famiglia Pamphilj, completamente rinnovato dal Cardinale Giovanni Battista Pamphilj che, dal 1644, chiamò i più importanti artisti e architetti dell’epoca, come Bernini e Borromini per riprogettare l’intero isolato, è sempre un momento importante, che coniuga la storia, l’arte e l’architettura italiane con l’insediamento brasiliano: l’edificio infatti, ospita dal 1920 questa Ambasciata, ed è diventato una proprietà brasiliana nel 1961. (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Ottobre 2015