HA LA MENTE DI DONALD MA TUTTO IL RESTO FA DA SÉ

Chi ha paura di Donald Trump? Da italiana, mi dà un non so che di certezze, come guidasse un robot di quei manga giapponesi, che a noi bambini dava sicurezze a prescindere da chi fosse l’umano che lo pilotasse: Mazinga, ad esempio, condotto da Tetsuya, ragazzo insicuro, dal carattere inquieto e solitario, una personalità difficile minata da un complesso di inferiorità derivantegli dall’essere orfano e dall’esigere dagli altri la stessa preparazione maniacale a cui lo aveva abituato il dottor Kabuto, costruttore del robot. Ma Mazinga era un porto franco di certezze e di vittorie, le paure erano solo umane, dunque giuste.

Un robot è necessario per ripristinare l’ordine. Ma che ci sia un uomo, dentro. Non temo Trump, temo la guerra. E temo per la salute degli americani, non solo quella psicologica. La cura Obama è stata un’esperienza di democrazia e respiro, soprattutto per i più ceti più bassi, ma non poteva durare a lungo, subito spazzata via da una «Trumpcare» che non piace nemmeno ai rappresentanti (la Camera statunitense ha approvato la riforma con 217 voti a favore e 213 contrari dopo averla sospesa per mancanza di voti, prima sconfitta del nuovo presidente, ed ora il Senato si prepara per una strada in salita di emendamenti ed accordi «aum-aum»). Sarà costosa principalmente per i contraenti che presentano già una malattia e per coloro che, in nome del diritto di scegliere se assicurarsi, andranno impavidi verso l’alea della libertà sanitaria. Fondi federali, gli «high-risk pools», per i malati gravi, manterranno bassi i costi delle assicurazioni della fascia media della popolazione (che Obama aveva contribuito ad alzare a favore della classi più povere) prestandosi al rischio di lunghi periodi di attesa per i pazienti prima che le spese sanitarie siano pagate dallo Stato.

Intanto, procedono i lavori di costruzione del muro di Trump, 3.220 chilometri di confinamento e 9 metri di altezza, dove gli operai lavorano con giubbotti antiproiettile e solo una piccola parte di circa mezzo milione di imprese edili di proprietà ispanica ha preso in considerazione l’appalto; se lo ha fatto, è stato (si giustificano) perché il lavoro è lavoro. Secondo la National Autonomous University of Mexico, inoltre, la costruzione del muro metterebbe a repentaglio la vita di 800 specie animali autoctone, 180 delle quali già a serio rischio di estinzione. L’Italia sta a guardare indignata, ma la situazione, mutatis mutandis, non è migliore. Il muro è un muro psicologico, fondamentalmente. Lampedusa, porto di scarico degli scafisti mediterranei et altera. Al sindaco del piccolo comune siculo, Giusy Nicolini, è stato conferito il Premio Unesco Houphouet-Boigny sulla ricerca della pace «per aver salvato la vita a numerosi rifugiati e migranti e averli accolti con dignità».

L’accoglienza, come quella in un villaggio turistico, è una cosa; la vacanza un’altra. Gli immigrati giungono in Italia e sono raccolti con quello che in un villaggio vacanze è un calice di prosecco. Poi resta solo il secco: è l’inizio di una vacanza tormentata, in un Paese ostile, perso, disorganizzato. Si configurano tutti gli estremi per un danno da vacanza rovinata. L’italiano li detesta perché vendono rose e cartine la sera, spacciano, lavano forzatamente i vetri al semaforo, chiedono soldi sotto forma di ricatto nei parcheggi e, quando va bene, dietro le quinte muovono le fila delle cucine di ristoranti italiani, giapponesi, francesi, pur non sapendo dove siano il Giappone dei manga e la Francia della nouvelle cuisine. Il «bangla» va anche di moda quando può, e nei quartieri è spesso accettato, considerato come un vecchio conoscente, per due chiacchiere e una liquidazione veloce; pezzo di arredamento del rione, conduce una vita oscura di cui nessuno sa nulla. Risuona il sempreverde luogo comune: «Se ancora vendono rose dei cimiteri, qualcuno che le compra ci sarà», e non sono i morti. Io, quella degli italiani, la chiamo ipocrisia.

Il procuratore della repubblica Carmelo Zuccaro dà intanto indicazioni per consentire un miglior controllo dell’attività della navi Ong, mosso anche dall’evidenza che alcune di esse spengono il transponder per non farsi localizzare, e propone la presenza di ufficiali di polizia giudiziaria su tali navi (non per controllarle, bensì per fare quei rilievi che il personale delle Ong non è autorizzato a compiere), aggiungendo: le navi Ong non dovrebbero battere la bandiera dello Stato in cui sono varate e acquistate, ma quella dello Stato in cui la Ong ha sede. Si muovono gli attivisti a difesa dei rifugiati; spesso sono gli stessi che pretendono il crocefisso appeso con il Cristo morto nelle aule di scuola dei propri figli. Ma Dio è morto, per l’appunto.

Non è più una questione di destra o di sinistra, di cattolicesimo o burka, ammettiamolo: siamo terrorizzati dagli extracomunitari. Dio è morto, Mazinga è morto. Ed è morto l’ambulante senegalese Maguette Niang, causa un infarto durante una corsa con la busta piena di borse per sfuggire al blitz anti-abusivi dei vigili romani, indagati poi per omicidio colposo in un contesto politico che non tutela le zone di pregio. E mentre il Governo parla di una legittima difesa notturna, secondo cui è possibile utilizzare un’arma da fuoco «di notte» e non di giorno; mentre Renzi, appena rinominato segretario del suo partito, fa un passo indietro viste le reazioni scaturite dall’approvazione alla Camera di una norma illogica; mentre Matteo Salvini grida «vergogna!» e Silvio Berlusconi si oppone all’emendamento; mentre il capoverdiano Edson Tavares, già denunciato per maltrattamenti, a Rimini sfregia per sempre con l’acido la fidanzata ventottenne Gessica Notaro, ex Miss Romagna; mentre in centro a Roma si consuma un amplesso in pieno giorno davanti la sede del celebre palazzo occupato dell’ex Federconsorzi, che attende lo sgombero da oltre tre anni e il cui proprietario continua, suo malgrado, a pagare le tasse; mentre accade questo ed altro, si guarda al presidente Usa come a un detestevole marziano, perché ha elevato due muri, uno fisico, l’altro sanitario. Ed altri ne eleverà.

Continuo a credere ai cartoni animati anni 80. L’ordine può essere ripristinato solo dai vecchi robot. I nuovi sono fallaci: i social network non contengono un pilota, ma milioni di parole al vento. Papa Bergoglio sprona all’accoglienza, e riceverà Trump in Vaticano il 24 maggio, poco prima del G7 di Taormina; sarà quindi atteso da Sergio Mattarella. Dichiara il tycoon: «La tolleranza è la pietra miliare della pace. Per questo sono orgoglioso di fare uno storico annuncio questa mattina, e condividere con voi che il mio primo viaggio all’estero come presidente sarà in Arabia Saudita, poi in Israele e poi in Vaticano a Roma». Le origini tedesche possono metter paura, come anche la sua ricchezza (autoprodotta attraverso i suoi stessi sforzi, quelli del padre Fred, quelli del nonno Friedrich, semplice barbiere immigrato negli States).

Sarà l’età, ma a me piace immaginare Donald guidare Mazinga come faceva Tetsuya, rinchiuso in un robot di artiglieria pesante, pericolosa, ma che spesso salva la vita di un pilota insicuro. Il punto è: vogliamo essere un cavallo di Troia o un robot? Vogliamo aiutare o essere aiutati? Perché non si può avere tutto: Mazinga ha la mente di Tetsuya ma tutto il resto fa da sé.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – maggio 2017




USA: MA COME SI DICE, IN ITALIANO, “PICCIRIDDU”?

New York. Si lamenta perché, dice, in America non si parla che l’americano. Dice che le scuole, i media, i cervelli sono, monopolizzati. Si sente italiano più che americano e, a dirla tutta, in Italia c’è stato solo pochi giorni che, contati su 49 anni, non lo rendono proprio italiano. Ma dice «grazie assai» e «statte buono». Ascolta Lucio Battisti, Rita Pavone, Daniele Silvestri, Vasco Rossi. «Sonno» lo pronuncia «sono», e «gente» per lui è un plurale. Non è alto e in America questo non fa onore, soprattutto quando si tratta di giocare a basket. Ha occhi scuri, capelli scuri, cuore scuro. Suo padre è morto. Sua madre vive nell’America più profonda. Entrambi sono nati calabresi. I suoi nonni erano emigranti e così hanno dato alla famiglia una possibilità di crescere.

È tornato qualche anno fa al proprio paesino, arroccato sui monti dell’entroterra calabrese, per salutare un cugino. Ma l’avevano ucciso. Perché? Non lo sa. Dove? Non lo sa. Da chi? Non lo sa. Nessuno parla, come suo cugino. Mi vengono in mente «I cento passi» del regista Marco Tullio Giordana, e la storia di Peppino Impastato di Cinisi, che il padre aveva provato a mandare, ma guarda un po’, proprio in America, una meta a caso: non c’era riuscito, anche se l’idea di aprire una radio negli Stati Uniti l’aveva stuzzicato. Gli zii americani ce li aveva pure Peppino, ma era rimasto in Sicilia a fare propaganda contro Tano Badalamenti. Non che il cugino di «Grazie Assai» abbia avuto a che fare con Tano, ma «non lo so» hanno risposto pure a lui quando ha chiesto il perché. Un altro viaggio «Grazie Assai» se l’era fatto qualche anno prima, accompagnando suo nonno al cimitero, lo stesso. Li aveva aspettati tutto il paese all’aeroporto. È tornato! È tornato!

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità»: alza il volume della canzone di Daniele Silvestri mentre mi racconta che gli manca l’Italia e che suo cugino Gaetano l’aveva conosciuto solo negli ultimi anni, perché prima lui parlava poco l’italiano – s’interrompe e ripete: «Sempre perché qui non impariamo niente» -, e il cugino non una parola d’inglese. A dire il vero, poche pure di italiano: È tornato!

«È la solita vita, la solita rincorsa a una corriera già partita, perpetuo movimento sulla strada che all’andata, così come al ritorno, è sempre una salita». Sai, mi dice, era proprio un brav’uomo mio cugino Gaetano. Ha lasciato una moglie e tre figli. Andavo al paese e tutti mi volevano bene, mi facevano sentire di appartenere. «I belong», e stringe il pugno. Poi mi racconta che nell’Indiana, dove vive, ha tre amici napoletani. Sarebbero quattro fratelli, ma uno s’è perso per strada. Perché? Che è successo? Niente d’importante ma, mentre lo dice, ride, anzi ridacchia; ha rubato 50 mila dollari al fratello. E come? Un giorno è andato in banca, ha firmato i «segni» al posto del fratello e ha riscosso sull’unghia (ma sull’unghia non lo dice). Il giorno dopo la banca ha chiamato il fratello: perché avrebbe firmato assegni per una cifra non disponibile sul conto? Io non ho mai firmato assegni. Non ne sapeva niente, davvero. L’altro aveva da anni la delega in banca, anche in America questa volta la si è fatta franca. Chiedo: «E cosa è successo poi, fra i fratelli?», chiedo, perché m’interessa sapere più questo che non di come sia andata sul piano legale; più come una famiglia napoletana impiantata in America con varie Green Card e quattro ristoranti («Ma non sai quanto è buona quella pizza»), si mantenga nel tempo, se è vero che essere lontani dalla propria terra unisce.

Risposta? Sì, unisce. E perché allora, domando, un fratello avrebbe fatto questo all’altro? Perché aveva bisogno di soldi e la moglie, l’unica italiana tra le quattro spose per i quattro fratelli, qui non ci sapeva proprio stare, non ci voleva stare, non ce la faceva più. Mica è facile. «È la solita vita, è il solito miracolo che svolta la giornata, l’evento microcosmico di minima portata, una mancia ricevuta, una cena regalata; e con la dignità rimasta, volevo vederti arrivare vestita di seta, di festa, magari fare quattro salti in pista, ma forse è meglio se rimani là».

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità: una casettina di periferia, una mogliettina giovane e carina, tale e quale come te».

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Arrivato in Italia, lo arrestano per precedenti reati, e lui si guadagna il titolo: è ufficiale, è la pecora nera della famiglia. Che poi nera non è, ma solo impaurita, forse, come se qualcuno stesse tirando in aria colpi di fucile al gregge per farlo riagglomerare fuori dal suo rettangolo d’erba. Ed ora che è fuori – perché i reati commessi in Italia non erano poi così gravi -, attende che si prescriva quello americano, se già non è prescritto. Ppoi ci penserà. Più probabilmente non tornerà nemmeno, perché lui l’inglese, come pure i suoi fratelli che vivono da anni in America, non lo parla proprio. Non gli entra. È un bravo guaglione, lui e gli altri tre. Per fare la pizza la lingua non serve.

E, canta ancora Daniele Silvestri, «dovrò dosare la fatica, imparerò a parlare in questa lingua sconosciuta, sognando di riuscire, un giorno, a fare ricevuta tra gente compiaciuta e che di me si fida». Si fida? Chi si fida? «Grazie Assai» mi dice che «la gente italiana sono apprezzati in America», e qui viene il dubbio: ma se non ci fidiamo l’uno dell’altro in madrepatria? Ma se prima di firmare un contratto chiediamo pure di che quartiere uno è? Ma se siamo tutti cani con le museruole? No, forse qualcuno si salva.

«E non è piccola la sfida, querida, disperso in questo angolo d’Europa unita». Fidarsi pure in Europa, che ora ci è alle calcagna. Fidarsi della storia? Non ha insegnato nulla. Delle esperienze? Ma quelle di chi? Fidarsi di me? Questo mai. Quando anche una guerra decisa sei ore prima ha interferito nei rapporti umani e disumani, fidarsi? E di chi? Di lui. Lui quale? Indicalo meglio. Quello laggiù, con la cravatta? No, scusa, quello con il tatuaggio sul collo? Scusa, non so a chi ti riferisci. E poi si vede che quella cravatta è finta. Io direi più lei. Come lei, lei quale?

Dispersi in un angolo di vita, «ti metto la valuta in una busta, la spedirò per posta, ma poi non basta mica: se tu sapessi quanto costa la vita, sapessi quant’è faticoso riuscire a tenerla pulita». Dove sono le opportunità? Gli dico che è stato più fortunato lui di Gaetano, che non ha avuto nemmeno la possibilità di annusarla, l’America; di annusarla, l’Europa; di annusarla, l’Italia. Perché il lutto, dopo il suo funerale, è stato tenuto dalle donne per tre mesi. E poco prima, quando nel viaggio precedente il compaesano emigrato era tornato a casa orizzontale, gli uomini hanno allontanato le femmine, hanno aperto la bara e hanno controllato che la salma fosse dentro. Lui era lì, non capiva, perché allontanare le donne? Cosa succede ora?

La mia domanda era stata, inizialmente: cos’è una Funeral Home? E cosí chiude il capitolo e mi risponde: «Tutto questo per dirti che qui, in America, la Funeral Home ospita ed espone la salma, che poi viene portata al cimitero e sepolta». Ed io che credevo che si facesse festa davanti al morto, si mangiassero pasticcini, si bevesse vino e, sussurrando nella stessa o nelle stanze accanto, si spettegolasse su quante donne aveva avuto e sul vestito della figlia: «Che orletto mal fatto»! No, mi spiega, questa non è l’America. This is more British. La festa si fa in Europa. La festa, una cerimonia per commemorare il defunto.

Mi guarda, l’aria un po’ sognante, e mi dice: «Non vedo l’ora di tornare al mio paese». Il paesello su una rocca, lo sprofondo dell’Italia, è nascosto nel cuore di un grande americano. Opportunità, mi dice. Sì, è vero, sono nato fortunato. L’America è un Paese ricco di opportunità. Ma freddo. Ma duro. Ma conservatore. Ma schivo. Lo sa che è stato fortunato, perché è un Giano bifronte che conosce due realtà, una nel cuore e l’altra nel cervello. Racconta che suo padre, dopo i 18 anni, gli faceva pagare 20 dollari a settimana d’affitto e un dollaro ogni volta che non avesse sistemato la stanza. In America.

Dall’altro lato, sua madre cucinava, il padre tornava e leggeva il giornale, e i figli li hanno fatti perché Dio li ha voluti, secondo la tradizione cattolica: Italia. Lui sta bene, fa una bella vita, comoda, lavora duro e può permettersi i propri lussi, ma lo vedi che non è soddisfatto, lo senti che gli manca un pezzo, e te ne accorgi quando ti guarda e lucidamente ti dice che non si vuole legare, e poi ti domanda: «Ma come si dice, in italiano, picciriddu?» (ROMINA CIUFFA)




AGGRESSIVITÀ E FRUSTRAZIONE: DALL’EFFETTO ARMA AL MODELLAMENTO TV

Un eccesso di aggressività si avverte: madri che uccidono figli che uccidono padri che uccidono mogli, stupri, lacerazioni con l’acido, cadaveri occultati, giochi di pulsione distruttiva per dirla freudianamente. Precedentemente ho parlato del conflitto interiore, il dubbio, l’angoscia correlata. In questo articolo l’intenzione è quella di dare un senso alle teorie sull’aggressività e la frustrazione, estremamente collegate alle teorie sul conflitto. Non è un segreto che, più passa il tempo, più la frustrazione avanza. Essa è generata dalla politica, dalle istituzioni, dalla qualità della vita, dal confronto con altri Paesi: sebbene l’erba del vicino sia sempre più verde, e questo è il caso di ricordarlo. Ma di certo l’Italia ha raggiunto un picco storico di frustrazione. Intendo per frustrazione una reazione personale e comportamentale accompagnata da sintomi vegetativi, che può portare a disturbi psicosomatici, disturbi mentali quando non vere e proprie malattie. Essa si verifica quando un ostacolo si presenta, un obiettivo non è raggiunto, un compito è interrotto, la propria autostima è minacciata, non è possibile gratificare un bisogno, e in tutte quelle situazioni in cui l’individuo sperimenta un «fermo» rispetto alle proprie aspettative più ampie.

Kurt Lewin (1890-1947), gestaltista, teorico della funzione del campo C=f(P,A) secondo cui il comportamento di un individuo è una funzione regolata da fattori interdipendenti costituiti dalla sua personalità e dall’ambiente che lo circonda, effettua esperimenti sulla sospensione ed interruzione del compito e nota che l’energia mobilitata continua ad operare e cerca vie di scarico, un accumulo che è percepito soggettivamente come un’esperienza emotiva spiacevole e dolorosa.

Sigmund Freud (1856-1939) ricollega la frustrazione alla mancata gratificazione dell’Es, per lui elemento libidinoso della psiche che non conosce negazione né contraddizione, e, nel suo modello energetico della motivazione, fa confluire l’accumulo connesso in altro: l’uso di meccanismi di difesa conduce a differenti soluzioni di sfogo, la prima delle quali è la sublimazione dell’energia ossia il suo scambio in attività sostitutive (lo sport ad esempio), o lo spostamento verso altri bersagli, spesso aggressivo. Ricordando i tre luoghi psichici freudiani: l’Es (la parte impulsiva, irrazionale, animalesca), il SuperIo (l’etica, la coscienza morale che sorge gradualmente e tende a reprimere gli impulsi dell’Es), l’Io (che si situa tra l’Es e il SuperIo, media tra le due tendenze e consiste in un continuo tentativo di equilibrio). Quest’ultimo è sempre in oscillazione anche in soggetti sani adulti. Un esempio per tutti il fil «Un giorno di ordinaria follia» in cui il protagonista Bill Foster, interpretato da Michael Douglas, per la frustrazione di una giornata qualunque raggiunge il punto di non ritorno, armandosi e minacciando la città.

Collegano frustrazione ed aggressività molti autori, in senso energetico l’etologo tedesco Konrad Lorenz (1903-1989), secondo cui compito della società e degli educatori è reprimere le spinte o creare valvole di sfogo (negli anni di Freud la militarizzazione era un’alternativa molto valida). Sono John Dollard (1900-1980) e i colleghi del gruppo di Yale a dare il massimo rilievo al collegamento tra frustrazione ed aggressività. Secondo essi l’aggressività presuppone sempre frustrazione, e quest’ultima conduce sempre ad un comportamento aggressivo, un legame che può essere rivisto solo attraverso strategie di ridirezionamento verso attività in grado di consentire la scarica. Si verifica uno spostamento quando muta il target della spinta aggressiva attraverso comportamenti diretti verso altri soggetti ed oggetti distinti rispetto alla causa generativa.

Ma questa teoria è considerata estremista: per Robert Richardson Sears (1908-1989) e George Armitage Miller (1920-2012) «non sempre», ossia frustrazione e aggressività sarebbero collegati solo ove vi siano condizioni particolari (la frustrazione prepara l’aggressività ma non la implica), ed è Leonard Berkowitz (1926-2016) che, con gli esperimenti ben noti degli «indizi aggressivi», rilevava il cosiddetto «effetto arma»: se nel campo è presente un oggetto che richiama aggressività, esso catturerà l’attenzione selettiva dell’osservatore che avrà non solo difficoltà a ricordare altri dettagli (problema dei falsi ricordi, molto rilevante nelle testimonianze e deposizioni processuali), ma sarà maggiormente predisposto all’uso della violenza. L’indizio aggressivo «arma», infatti, suggerisce il comportamento violento, finanche lo legittima, ed innesca una sequenza distruttiva, configurandosi come appiglio. L’esempio più lampante è costituito dai disordini pubblici e gli scontri che avvengono nel corso di manifestazioni in cui sono presenti forze dell’ordine dotate di armi, manganelli ed altri oggetti simili. Berkowitz aveva condotto un esperimento per avallare la sua teoria, e aveva evidenziato come i soggetti ignari, umiliati e derisi da un complice dello sperimentatore, tendevano ad infliggere più scosse, e più prolungate, al provocatore quando venivano a conoscenza che alcune armi, presenti nel campo di sperimentazione, appartenevano a costui.

La teoria degli indizi aggressivi è applicabile in Paesi quali gli Stati Uniti d’America, dove le armi possono essere acquistate, il nuovo presidente è favorevole al loro uso – in questo modo ampliando la motivazione dei cittadini a possederle se non altro per potersi difendere da altri che ne abbiano comprate – e non a caso nel Paese sono molto comuni le stragi nelle scuole generate dagli stessi studenti. In questo anche i media hanno un’elevata responsabilità, ma per dare atto di questo a breve mi soffermerò sugli studi di Bandura.

Intanto Dolf Zillmann pone un limite alla teoria dell’effetto arma, integrandola con l’evidenziazione dell’interpretazione tra arousal (eccitazione) ed aggressività: dopo le provocazioni i soggetti compivano attività fisica su una cyclette, e coloro che subito dopo il termine dell’esercizio fisico potevano somministrare una scossa al provocatore erano meno aggressivi rispetto ai soggetti che attendevano 6 minuti. Ciò perché questi ultimi non potevano più attribuire l’arousal allo sforzo fisico, e dovendo scaricare la tensione accumulata la riversano nel comportamento aggressivo. Diversamente accadeva ai primi. L’attribuzione della frustrazione ad una motivazione, diceva Zillmann, arresta l’aggressività.
L’aggressività per Seneca era follia, per i greci coraggio in battaglia, Thomas Hobbes (1588-1679) parlava di un uomo «homini lupus», mentre Friedrich Nietzsche (1844-1900) dava solo al Super Uomo la capacità di canalizzarla. Per i comportamentisti, l’aggressività è frutto di condizionamento operante (derivato dagli studi di Ivan Pavlov) in cui il rinforzo è dato dalle condizioni vantaggiose del comportamento aggressivo, mentre per i cognitivisti parla Albert Bandura (1925).

Lo psicologo canadese, nell’ambito dei suoi studi sulla «agenticità umana», considera il «modellamento per imitazione» come meccanismo di base per l’aggressività. Dal 1960, con le psicologhe Dorothea e Sheila Ross della Stanford University, condusse una serie di esperimenti sugli effetti che la visione di un soggetto violento in azione può esercitare sugli osservatori: sono i famosi «Bobo Doll Experiments», gli esperimenti con la bambola Bobo. Lo psicologo divise dei bambini di età prescolare in tre gruppi di bambini in età prescolare;  nel primo inserì un proprio collaboratore con il compito di mostrarsi aggressivo nei confronti del pupazzo gonfiabile Bobo. L’adulto picchiava il pupazzo con un martello gridando: «Picchialo sul naso!» e «Pum pum!». Nel secondo gruppo, quello di confronto, il collaboratore giocava con le costruzioni di legno senza manifestare aggressività nei confronti di Bobo. Nel terzo gruppo, quello di controllo, i bambini giocavano da soli, senza alcun adulto con funzione di modello. Successivamente i bambini venivano condotti in un’altra stanza nella quale erano presenti giochi neutri come peluche e modellini di camion, e giochi aggressivi quali fucili, una palla con una faccia dipinta legata ad una corda, e lo stesso Bobo. I bambini del primo gruppo manifestavano un’incidenza maggiore di comportamenti aggressivi rispetto a quelli che avevano visto il modello pacifico e a quelli che avevano giocato da soli. Ossia: l’aggressività si impara. C’è un modello che influenza gli altri. Tali esperimento portarono a conclusioni molto operative nell’ambito deggli effetti della TV sui bambini stessi. E non solo. Ciò dimostra come in un Paese nel quale le armi sono a portata di mano e la televisione propini modelli di violenza continui sia più facile una tornata di «effetto arma» e modellamento stile Bobo. I media italiani non aiutano: i dati lo dimostrano. Inutile rinchiudersi nella torre costituzionale della responsabilità penale personale: non è così. In molti casi, tale responsabilità è dell’intera società.

Nel metodo: sulla frustrazione a stessa seduta di psicoterapia/psicoanalisi si presta ad esserne fonte: il tempo limitato, il distacco dello psicanalista, il fatto di doverlo dividere con gli altri pazienti e, in particolar modo, il pagamento. Un terapeuta di approccio cognitivo-comportamentale mira a sviluppare nel soggetto un riapprendimento, dopo aver valutato quale apprednimento è stato generato dalla sperimentazione della frustrazione da parte del paziente, e come si è modificato il suo comportamento. Un utile test è l’inventario dei meccanismi di difesa, ma sono sempre validi il Rorschach, noto test di interpretazione di macchie, e il Tat (Test di appercezione tematica) di Henry Murray, che porta all’interpretazione di 31 immagini tra foto, riproduzioni, quadri, illustrazioni.  (Romina Ciuffa)




DROGHIAMOCI SULLE ALI DELLA LEGALIZZAZIONE

DROGHIAMOCI SULLE ALI DELLA LEG-ALI-ZZAZIONE di Romina Ciuffa. Pervasi dal braccio di ferro tra Hillary Clinton e Donald Trump, grande mela in bocca a colpi di Adamo ed Eva (l’amore tra i due è simile: la tentazione di conquistare l’America è più grande di quella del serpente divino) perdiamo di vista altre questioni che sono all’esame degli americani. Prima fra tutti la legalizzazione della marijuana: gli stellati blu e rossi sono infatti chiamati oggi a decidere se fumare liberamente spinelli ad uso ricreativo. Vexata quaestio, che da sempre vede in opposizione da un lato le esigenze dell’inviolabilità dei diritti e delle libertà, secondo cui non c’è nessuno che, in uno Stato democratico (anche ove conservatore, che comunque è solo una tonalità della democrazia), possa vietare a un cittadino (abitante di una città, e solo per questo oggetto di e soggetto a regole) di compiere su se stesso le azioni che ritenga funzionali, anche quelle disfunzionali. Un esempio lampante, quello dell’aborto: il miliardario americano proporrà alla Corte Suprema un giudice conservatore che si “destreggerà” l’argomento in senso restrittivo, l’ex first lady – in quanto donna e in quanto democratica – tutelerà il diritto all’aborto oltre a “sinistreggiarsi” nelle questioni umane, gay friendly, femminili quando non femmniste. Dall’altro lato, innegabile, la consapevolezza che, allo scoccare della liberalizzazione della marijuana, quest’ultima consentirà un incasso governativo non indifferente con un ROI (ritorno dell’investimento) che è il caso di definire stupefacente. Certo togliendo (ma davvero?) il mercato dalle mani dei trafficanti (chi fuma legga: l’erba sarà più buona), ma mettendolo nelle mani dei politici (associati dall’uomo di strada e pro forma a droghe pesanti, soprattutto al consumo di cocaina). Un po’ come il nostro monopolio delle sigarette: meglio comprarle al tabacchi che per strada da un africano sotto gli occhi della polizia.

I diritti li abbiamo. Non mi spaventano. Ricordo ogni mattina, appena mi alzo e subito dopo le preghiere, l’articolo 2 della Costituzione italiana che già nel 1947, primo dopoguerra, riconosceva e garantiva (attraverso la Repubblica) i diritti inviolabili dell’uomo. Ma anche l’articolo 32, che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (e garantisce cure gratuite agli indigenti). In materia di legalizzazione della marijuana, queste due norme vanno lette in combinato disposto, come fossero una sola. E deve farsi un rinvio formale al concetto di salute, mutevole nel tempo: cos’è oggi la salute? La marijuana fa bene?

Sì, la marijuana fa bene. A scopi curativi. Nulla quaestio.

Procediamo: la marijuana fa bene, a scopo ricreativo? Da una risposta approssimativa e rapida, da tavolata, diremmo di sì: fa ridere, fa socializzare, fa addormentare. Aggiungo però: fa stordire, fa guidare male, ricrea una situazione comparabile allo stato d’ubriachezza. Causa sedazione, stato stuporoso, sonno. Prima eccezione: ma l’alcol è legale. Perché allora non una droga leggera? Entrambi – alcol e stupefacenti, più in generale sostanze con effetti psicoattivi – sono inseriti nel DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, sistema nosografico per i disturbi mentali e psicopatologici più utilizzati da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, nella pratica clinica e nella ricerca. Ogni disturbo è suddiviso in varie classi, e ciascuno di essi ha una dedica: “Disturbi correlati ad alcol o altre sostanze”, ossia è possibile che un disturbo mentale, anche grave, possa essere causato dall’uso o abuso di sostanze farmacologicamente attive, in cui è presente un agente chimico che produce effetti sull’organismo alterando le normali funzioni biologiche, psicologiche e mentali, modificando il tono dell’umore, i processi cognitivi di vigilanza, attenzione, memoria, la percezione sensoriale, e non da ultimi i comportamenti, spesso provocando temporanee o irreversibili modificazioni delle funzioni cerebrali. 
Tornando a noi. Fa bene la marijuana usata non a scopo terapeutico e perché l’alcol è legale? Non c’è un motivo ben preciso, oltre a ricordare il superato proibizionismo americano. Indubbiamente, bere un bicchiere di vino non induce a berne un secondo; fare un tiro da uno spinello impone con effetti immediati all’organismo di farne un secondo e proseguire. La dipendenza è immediata, anche se transitoria. Se ad essere colpito è l’abuso, non già l’uso, allora si può con certezza dire che è più semplice per un giovane responsabile non abusare di alcool che non abusare di cannabis o marijuana, che sono come le ciliegie: una tira l’altra. 
Ma tornando ai diritti inviolabili ed al collegamento con il diritto alla salute, potremmo comunque rivendicare allo Stato molta della nostra salute che non ci viene garantita (un esempio fra tutti: la mala sanità italiana), ed è altresì assurdo che lo Stato non paghi alle donne gli assorbenti mensili. Ma la questione non viene passata al vaglio, in quanto è più importante soffermarci, a tavola, a disquisire sulla necessità che vi sia una legalizzazione delle droghe cosiddette leggere. USA: sono 4 gli Stati che acconsentono all’uso quasi libero della marijuana, Colorado, Alaska, Washington ed Oregon; sono chiamati invece a votare, nella giornata di oggi, Arizona, California, Nevada, Maine e Massachusetts. Si tratta di referendum per l’uso delle droghe leggere a scopo ricreativo, prescindendo dagli Stati che già lo hanno ammesso a scopo medico.

A New York, oggi basta fare una telefonata ad un amico di fiducia, che darà per scontata la nostra richiesta. Ad un orario ben precisato giungerà il delivery: un ragazzetto ben vestito, non troppo, ma che possa sembrare un professionista, uno stagista, non uno spacciatore dei nostri. Giungerà forse in skate, comunque con uno zainetto. Citofonerà in casa ed entrerà. Si parlerà del più e del meno per un po’, come buoni amici. Lo si inviterà a sedere sul divano. Non uscirà dalla casa per un po’, per non destare sospetti, e per un momento avrete il vostro migliore amico ospite, a lui offrirete un succo di frutta o dei pasticcini. Così lui aprirà la sua valigetta, contenuta nello zainetto, e vi brilleranno gli occhi: sarà amplissima la scelta. Una serie di tubetti ben confezionati, con nome e foto che contraddistinguono le spezie. Il frontman vi indicherà gli effetti di ciascuna di esse: lei fa più ridere, lei è più forte, lei è più calmante e così via. Un avviso: la cannabis si trova raramente e costa molto. Ma si può richiedere e comprare con facilità. Così lui, il vostro migliore amico dallo zainetto verde, vi farà provare la vostra scelta e, soprattutto, la proverà con voi. Come la guardia del corpo di un boss mafioso che prova il suo piatto prima, per verificare che non sia avvelenato. Potete provarne varie. Quindi, sceglierete la vostra, la pagherete, e dopo altre chiacchiere il vostro migliore amico andrà via. Alla prossima. Non ci sono africani per strada, il rischio penale è troppo alto. Non di certo quello che c’è in Italia, dove i nostri spacciatori sono lasciati a spacciare davanti alla polizia che retate non fa. D’altronde, negli States essere ubriachi alla guida di un’autovettura costituisce reato penale.

Io non mi preoccupo della concettualizzazione dello spaccio legale. Io mi preoccupo delle persone. Conosco la società in cui mi trovo e so che è una società in cui non si hanno limiti, né li hanno i politici, né li hanno i cittadini. Mi spiego meglio: so che se le droghe “leggere” fossero legalizzate, liberalizzate, non sarebbe quel mondo ideale alla “vogliamoci bene”, un nuovo ’68, un Che Guevara piegato alla causa, centri sociali finalmente puliti, case popolari e lotti di Garbatella impiegati per davvero dalle nonne che li hanno avuti per diritti quesito. So anche che si instaurerebbe un regime fastidioso, quello della politica, che spenderebbe i suoi bla bla bla per impossessarsi delle migliori partite di marijuana, o appaltarle ai nipoti con gara pubblica. Quale droga vogliamo fumare? Come vogliamo intossicarci?

In Italia non è possibile dimenticare la psicologia dell’utenza: se ci danno una mano, ci prendiamo un braccio. Se ci danno una canna, torniamo a casa con il lanternino. Non siamo ad Amsterdam, non siamo olandesi che lavorano, hanno uno stipendio concreto, un apparato governativo funzionante, regole e limiti. Qui non ci siamo messi la cintura fino a poco tempo fa, mentre in tutta Europa era obbligatoria, ed ancora giriamo con dei gingilli in macchina da inserire al suo posto per non farla suonare. Noi andiamo ad Amsterdam a farcele, le canne. Ma qui il costo delle sigarette è aumentato, la gente fuma tabacco per risparmiare e compra cartine e filtri dal bengalese che gira per i locali e per le strade. Inoltre non esistono più pacchetti di sigarette da 10, “per tutelare i più giovani che, avendo meno disponibilità finanziaria, avranno così più difficoltà a comprarle”: no, perché vendere pacchetti da 20 sigarette conviene di più, dà un incasso maggiore e obbliga a non scegliere. Così, improvvisamente, mi viene in mente Rio de Janeiro, dove almeno il brasiliano di strada e le edicole stesse mi vendono una sigaretta o due, se voglio, e sono io a scegliere il numero del mio consumo. Ovviamente ad un costo maggiore, ma di mia opzione.

Non mi fido dell’Italia. Le droghe non sono a scopo “ricreativo”: la ricreazione si fa con un film, con gli amici, con un libro, suonando, scrivendo, vivendo, emozionandosi. Non tarpandosi le ali, che con la leg”ali”zzazione sono solo il centro di una parola che i nostri nonni non avevano nemmeno in mente, presi com’erano a superare guerre, a coltivare terre, ad educare i figli, a guardarsi negli occhi, ad affrontare i problemi.  (Romina Ciuffa)