QUARTETTO D’ELICOTTERI

di ROMINA CIUFFA (pilota di elicottero ed aereo). Pubblicato su AVIAZIONE SPORTIVA, aprile 2009. Questo è un volo e noi stiamo tutti volando. Ed è un sogno e noi stiamo tutti dormendo: lo ha fatto un visionario, il tedesco Karlheinz Stockhausen, eccentrico, narcisista, pur sempre Stockhausen, padre dell’elettronica moderna, uno dei più grandi compositori del XX secolo. «Questo brano è dedicato a tutti gli astronauti del mondo», asserì messianico quando lo consegnò al violinista Irvine Arditti, che gli aveva chiesto un quartetto d’archi, un genere che lui non avrebbe mai scritto. Poi sognò violini e rotori, un ritmo serrato, le pale di un elicottero al pari di violini. E sia: un quartetto d’elicotteri.

Scrive Stockhausen: «Ebbi un sogno: ascoltavo e vedevo l’immagine di quattro esecutori che suonavano in quattro elicotteri in volo. Nello stesso tempo vedevo un pubblico numeroso in una sala di proiezione e altre persone in piedi, fuori dalla sala, in una grande piazza all’aperto. (…) Per gran parte del tempo i quartettisti suonavano tremolii che si mescolavano benissimo con i timbri e i ritmi delle eliche e dei motori degli elicotteri, utilizzati come strumenti musicali. (…) Quando mi risvegliai ebbi viva la sensazione che mi fosse stato comunicato qualcosa dal cosmo di cui non dovevo svelare nulla». Nasce così uno dei maggiori e più complessi lavori musicali mai realizzati, l’Helicopter String Quartet, e diviene la terza scena del Mercoledì, parte della monumentale opera lirica Licht, esagerata, tra le più voluminose mai scritte nella storia della musica e anche esemplare interesse di Stockhausen per la cosmologia, le formule matematiche, le proporzioni geometriche e le allegorie. Nelle sue intenzioni, Mittwoch rappresenta il rapporto tra conflitto e riconciliazione, nel Quartet è il percorso dalla terra al cielo, un viaggio dal terrestre verso l’utopia. I tre caratteri principali del ciclo (Nascita, Conoscenza e Morte) scelgono il teatro del cielo per mettere in scena la metamorfosi che dallo stadio terrestre della Guerra porta all’utopia celeste della Solidarietà.

«I musicisti all’interno dei quattro elicotteri – precisa Stockhausen – devono seguire il ritmo dei motori e delle pale: sono dunque i piloti ad influenzare il tempo dell’esecuzione. Di tanto in tanto i quattro solisti si ritrovano ad eseguire lo stesso ritmo anche se sono isolati e si trovano a qualche chilometro di distanza l’uno dall’altro». In questo modo gli elicotteri divengono strumenti musicali e le pale corde accordate. Il cielo, uno studio di registrazione. In prima mondiale il 26 giugno 1995 quando, nel corso dell’Holland Festival, volarono sulla città di Amsterdam i quattro elicotteri stockhauseniani, arancioni; oggi, per la terza esecuzione mondiale, sorvolano Roma e decollano dall’Auditorium nell’ambito del Festival delle Scienze i violinisti del Quartetto Arditti (due violini, una viola e un violoncello), audaci interpreti di un sogno. Visionari quanto il loro creatore. Il cielo è piovoso al pari dell’inconscio stockhauseniano.

Lui aveva previsto tre microfoni: uno per lo strumento, uno per la voce, il terzo all’esterno, accanto alle pale, ad afferrare il suono del motore, dell’aria, del volo. Gli altoparlanti della Sala Sinopoli restituiscono un rombo, mentre sullo schermo all’interno dell’Auditorium si disegna l’immagine dell’elicottero che si stacca da terra. Quindi, altri tre elicotteri si uniscono e il quartetto degli angeli meccanici traccia un grande cerchio nei cieli di Roma per far “diventare musica un battito d’ali”. Lo schermo si divide in quattro, uno per elicottero, uno per musicista. L’evento è presentato a terra dallo scienziato Piergiorgio Odifreddi che parla di sogni, cieli, angeli e dei calcoli matematici usati per far scorrere il suono nello spazio. Uno dei quattro elicotteristi impegnati è Gianni Bugno, due volte campione mondiale di ciclismo, oggi appassionato di volo: è pilota di elisoccorso ed è stato pilota dell’elicottero di ripresa del Giro d’Italia 2008. L’esibizione è di 18 minuti e 36 secondi. Le voci sono indicate negli spartiti in quattro diversi colori, come le camicie dei quattro artisti; la partitura è complessa, affatto orecchiabile – stride – e gli strumenti non hanno un procedimento melodico definito. Un delirio.

Si diventa Stockhausen tutte le volte che si realizza l’irrealizzabile, che si dà spago a un sogno. Quando si hanno deliri di onnipotenza («Sono stato istruito su Sirio e ci ritornerò anche se vivo ancora a Kürten»). Quando ci si stacca dalla pista e si decolla, fino a quando non si tocca terra ancora. Questo quartetto d’elicotteri dà atto dell’inafferrabilità di un suono sordo, di una sviolinata senza armonia, dell’assordante pesantezza dell’essere, passeggeri a bordo dell’elicottero di un genio; imita con il suono degli archi e delle pale il linguaggio del cosmo; si addentra nell’immaginifico. Sognare di volare si lega al simbolismo della salita, della discesa e della caduta; Freud vedeva nel volo onirico l’espressione di un desiderio fisico non soddisfatto nella realtà. Stockhausen lo ha avverato, in qualche modo. Che ciò sia di spunto anche per il più grande dei sonnambuli.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su AVIAZIONE SPORTIVA (diretto da Rodolfo Biancorosso) – aprile 2009

 




NEW YORK: ARRIVANO I FREAKS!

New York, febbraio 2006. Signori e signore, direttamente da Coney Island, New York, i Freaks! I mostri, quelli strani! Insectivora. Lei mangia insetti. Prende una manciata di vermi, li mette in una bustina di plastica, poi li divora. Ancora, scarafaggi. Ottimi. Completamente tatuata dalla testa ai piedi, sul polso spicca un ragno rosso. Quindi prende da una piccola gabbia un topolino, piccolo, bianco, uno di quelli che un bambino a volte fa ruotare ininterrottamente sulla sua ruota per un’intera vita (del topo). Il topetto le corre sul braccio, è bianchissimo, la coda rosa come la pancia di un bimbo. Lei per la coda lo prende e, come una Visitor della serie americana più famosa degli anni 80, piega il collo all’indietro, le si può vedere solo il mento ora, infila il topo dentro la bocca, riabbassa la testa e la coda è ancora lì fuori, che scodinzola un po’ mentre un po’ rallenta. Riapre la bocca, lo prende in mano, lo bacia, lo accarezza. Lei, che è una femmina, si chiama Matilde e si fa un altro giro sul braccio destro di Insectivora. Poi rientra nella gabbietta.  In un attimo Miss Hollyday si contorce all’indietro, con il busto arriva fino a terra e scruta, poi facendo un giro su se stessa lo porta sino ai reni e la testa ora è proprio a quell’altezza, prosegue e la pone in mezzo alle gambe.

Una passeggiata così e si sdraia dentro una scatola, i coltelli vengono piantati dappertutto, poi si rialza et voilà. Passeggia Snake Woman, e come Insectivora con la sua Matilde, ecco arrivare uno splendido boa bianco con striature arancioni e la lingua biforcuta. Qualche metro di serpente che la avvolge interamente, la contempla, la bacia tirando fuori la linguetta velocemente che con altrettanta velocità ripone in bocca, delicatamente la massaggia con il suo lungo e largo corpo. Un esemplare incantevole di animale domestico. La padroncina poi si siede su una sedia elettrica, che l’Uomo Tatuato le accende. Ora è in grado di accendere una lampadina con la lingua, che tira fuori come il suo serpente, velocemente, e fa una fiamma.  L’Uomo Tatuato dice che era talmente povero che ha cominciato a eseguire i lavori più strani, quindi si è fatto tatuare giorno per giorno tutto il corpo e sul viso e sulla testa rasata ha raffigurato tutto il sistema stellare. Nel bel mezzo della fronte ha un pianeta. Poi stelle, costellazioni. Chiede se qualcuno conosce un uomo che ha una maglietta come la sua, con la propria faccia disegnata sopra, e sostiene che i tatuaggi li ha proprio, ma proprio dappertutto. E che ha imparato talmente bene a sopportare il dolore, che si sdraia su un tappeto di aghi arrugginiti e un altro lo mette sul pancione, quindi un uomo di 100 chili e una ragazza di 70 gli montano sopra. Lui lo chiama il «panino umano».

L’altro amico mangia bicchieri di vetro, lamette, tovaglioli, accende sigarette e le ingoia. Un altro ancora si infila un cacciavite e un coltello nel naso mentre Miss Hollyday, la contorsionista, ne ingoia uno da selvaggina e a momenti se lo litigano, poi lo tira fuori dal manico. Insectivora, intanto, sale delle scale fatte di spade affilate che in un attimo tagliano carote. Lei, invece, dice che si è allenata sulla sabbia di Coney Island. Famosa per la sua sporcizia e per essere il ricettacolo di tutte le bottiglie di birra e i vetri delle spiagge newyorkesi.  La ruota delle giostre gira ancora a Coney Island, anche in inverno, mentre a Manhattan, Times Square, si apre il sipario. Il Miliardario! Un applauso. Limousine. Cipriani. Champagne. Première. Frack. Bruscolini. Gli ruba la scena il paralegale: occhiaie, nevrosi, non sa ancora se iscriversi a legge. Sta compilando la scheda del «billable», di ciò che va messo in conto al cliente, includendovi la macchina usata per portare a spasso la nuova ragazza. Sfruttato, non è nessuno. Gli tolgono giorni di ferie – e di vita – come fossero bruscolini, lo fanno lavorare 20 ore al giorno.  Siori e siore, ecco a voi la Personal Trainer! Quella che non deve chiedere, mai. Quella che guarda il cliente correre per un ora al prezzo di 120 dollari più la mancia. Quella che insegna un’ora di qualunque cosa in ogni palestra della City solo per avere tutte le membership (membership uguale potere) e incontrare l’Avvocato che l’inviterà a cena stasera e ai Caraibi il fine settimana. E crede di potere. Tutto. Che si sveglia alla cinque perché è alle sei che l’Avvocato va ad allenarsi, prima del meeting delle sette.

Ma la vera attrazione della serata, ecco qui, immancabile, imperdibile, unico, il broker! No, no, non quello di Wall Street, non titoli mobiliari ma immobili. Lui, l’agente, il padrone della città. Colui che può tutto. Che riesce a negare la tangibilità della cosiddetta «bolla» dell’inflazione. Tutto il mondo ne parla, lui no. Lui, invece, sostiene che «è il momento giusto per comprare a Manhattan». Perché? «Perché te lo dico io». Più preciso? Al dettaglio, testuale: «Perché comprare a New York è sempre un affare». Con enfasi sul «sempre» e sulla «e» lunga, che poi è la «a» di «always». Muove i fili e decide chi deve vivere dove.  Quindi, ladies and gentlemen, l’attrazione, quella che tutti stavano aspettando: l’attrice. Lei sì che ci sa fare. Ha un sito, mica bruscolini. Nel quale spiega cos’ha fatto (ma cos’ha fatto?), dove ha studiato (sì, ma cosa?), e una carreggiata di foto. La sera s’infila nei jet-set. È brava, altro che coltelli, altro che serpenti. Lei s’infila sul serio. E s’iscrive a un corso di regia. Coerente, no? Un attimo di suspence, perché ora sta per arrivare niente poco di meno che l’Amministratore del palazzo. Che con il broker se la intende. Che cambia appartamento nel palazzo a proprio piacimento, che riscuote i soldi e prende la «stecca», che fa rispettare il regolamento. Che si apre il ristorante al piano terra dello stabile.

Senza parlare di quando si mette pure a fare il PR e l’intero palazzo lo usa per fare feste a pagamento di migliaia di persone. Applausi, prego. «Give him love», ancora applausi. Sta per arrivare (applausi) la coppia più bella del mondo (e ci dispiace per gli altri): direttamente dal palcoscenico di Milano, con scalo a Parigi, ecco a voi il Fashion Designer e la Fashion PR, o meglio i «Sono nella moda». Cosa, precisamente? «Nella moda. Organizzo». Cioè, disegni? Come Ridge Forrester? Ma no, solo Forrest Gump. Lui non ha mai preso una matita in mano. E lei conosce tutti e vive nell’Upper East Side di Manhattan, proprio come quelle di Sex and the City, la serie più acclamata degli ultimi quattro anni. Samantha, però, vive nel Meatpacking District, Downtown, e anche quello fa molto tendenza: è infatti lì che si ritrovano l’Avvocato, la Personal Trainer, il Broker.  Non perché ci sia Samantha: Samantha, personaggio della serie, non c’entra, è solo lo specchio di quello che accade a New York. Ma è vero che nella prima pagina dei giornali c’è la foto di Angelina Jolie e di Brad Pitt, la nuova coppia hollywoodiana conosciutasi sul set di «Mr and Mrs Smith», e tutti sono preoccupatissimi per lo stato d’animo di Jennifer Aniston, poverina, lasciata così da Mr Smith e non solo: costretta anche a leggere, tutti i giorni, insieme al caffè, la crasi «Brangelina», grande creazione del Giornalista americano del Gossip (rullo di tamburi: il Giornalista! Quello che scrive in prima persona e nella recensione espressamente dichiara che quel film non è il suo genere), mentre prima Braniston o Jenniferad non l’aveva mai detto nessuno (probabilmente perché non suonava bene, non di certo per le labbra della Jolie).

Poi, nelle pagine successive, sfogliando per caso, en passant, l’omicidio intenzionale (ma, come per magia, è già diventato di secondo grado) della piccola sudamericana Nixmary Brown, 7 anni, trapiantata a Brooklyn, gonfiata di botte dalla madre e poi stuprata, torturata su una sedia di legno e uccisa dal patrigno. Ma via, di corsa ad altro. Signori e signore, ecco a voi il sindaco Michael Bloomberg! Con lo sketch più provato, quello che riesce sempre: «Bisogna fare qualcosa». Il bisogna-fare-qualcosa gli sorge spontaneo in seguito alle accuse rivolte agli ufficiali di zona che hanno ben più volte ascoltato le denuncie dei vicini di casa della famiglia senza fare nulla. Omissione. Bisogna fare qualcosa. Azione. Scavare la fossa alla bambina, questo sì. Dopo una camera ardente aperta due giorni che ha visto file di chilometri e nonne che pregavano e uomini in completo che gettavano fiori e signore che lanciavano baci al piccolo cadavere, e dopo una messa gremita di gente che ha preso il giorno di ferie per salutare la salma, bisogna-fare-qualcosa.

Ma questo è tra la seconda e la decima pagina, dipende. Prima Brangelina e le strazianti parole dell’agente della Aniston in risposta a una stampa troppo attiva che ha pubblicato la notizia della nuova fiamma di Brad Pitt senza che la consorte Jennifer (assicura la portavoce) ancora ne fosse a conoscenza e dopo che il furbetto aveva negato alcun approccio sul set con la Tomb Raider. Commovente, davvero. E, a proposito d’attori, stasera ce n’è uno vero con noi: ho l’onore di presentarvi il Governatore della California, Arnold Schwarzenneger! Proprio lui, siori, quello che ha negato la quarta clemenza per condanne a morte, e l’assassino Clarence Ray Allen, vecchio, cieco, è stato ucciso il 17 gennaio. L’Orso che corre, così era stato chiamato, l’ha scontata, il giorno dopo il suo settantacinquesimo compleanno. Terminator fa un inchino.  Bisogna-fare-qualcosa, bisogna-fare-qualcosa, suona il ritonello da un’armonica scordata. Jennifer Aniston va aiutata, e (spettatori, lorsignori, «the last but not the least», il Presidente degli Stati Uniti d’America!) New Orleans ha già abbastanza soldi dai fondi europei. Il palco ora è sporco, lo spettacolo sta per finire e come scenografia resta la sola sedia di Nixmary. Si chiude il sipario. Insectivora, insieme al topo Matilde, non ha più voglia di mangiare; Miss Hollyday, l’Uomo Tatuato, il Mangiatore di Vetro e quello di Coltelli si alzano. Nessun applauso questa volta.  Lo spettacolo dei Freaks non è piaciuto. Snake Woman si arresta, stenta, tentenna, non si alza ancora dalla sua sedia elettrica e il suo serpente arancione, che la guarda e aspetta un suo cenno per muoversi, capisce immediatamente che la sua padrona quella sedia non la vuole lasciare perché è più sicura della sedia di Nixmary. Arriva il Panino Umano, la solleva e la porta via ancora seduta. Tornano a Coney Island. Non valeva la pena arrivare fino alla città per vedere i Freaks, i mostri.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Febbraio 2006




L’URAGANO JAZZ SPOSA L’URAGANO KATRINA: DALLA SOFFERENZA SI DIVENTA EROI

New York, ottobre 2005. Undici settembre trascorso più velocemente di quello del 2001, vigili del fuoco per le strade a celebrare con birre e barbeque, un’atmosfera calda e una bella giornata. Anziché stare a New Orleans, ora al suolo, stremata. New Orleans, anche detta The Big Easy, la facile, la rilassata, l’opposto delle frenetiche città americane del Nord. Si dice che il Mississipi, in indiano «grande padre delle acque», vi arrivi stanco e riposi formando un lago – magari ascoltando un po’ di jazz -, per poi infine gettarsi nel Golfo del Messico e culminare il proprio viaggio in mare.  Il prossimo 28 febbraio il più famoso Martedì Grasso del mondo – quello di New Orleans -, sarà, sicuramente, diverso. Indubbiamente i volti ricorderanno le maschere delle antiche tragedie greche in quello che ora è un teatro di morte. Il presidente George W. Bush ha dichiarato di assumersi ogni responsabilità per il «caos» verificatosi nei soccorsi: troppo tardi. Rapine, stupri e violenze sono il plusvalore aggiunto dell’opera umana all’opera naturale. Il sindaco Ray Nagin azzarda un’ipotesi di vittime in numero superiore a quelle dell’11 settembre.

La città del Carnevale, ora, è una città fantasma, per giorni capeggiata da boss che hanno dato vita alle più tremende torture: i sopravvissuti hanno dovuto procurarsi pistole, darsi i turni anche per dormire, comprare a peso d’oro medicine, cibo, armi e droga in cambio di gioielli e merci in aste di vendita notturne, i bagni divenuti l’incubo più grande, luogo di violenze e stupri; gli stessi poliziotti della città hanno rinunciato. Stanchi di aspettare i rinforzi, stanchi di aspettare «i nostri eroi», i cittadini si sono fatti giustizia da soli. Poi, i primi soldati e volontari giunti hanno fatto uso della legge marziale con licenza di uccidere.  Moltissimi sono morti per volontà umana, non per volontà di Katrina. Katrina non è colpa di nessuno, Katrina è solo un uragano accorso nella città del jazz ad ascoltare della buona musica. È a New Orleans, infatti, che il jazz ha trovato il suo primo baricentro alla fine dell’800, quando la città era un miscuglio di popoli, razze e colori originati dalle varie dominazioni. Jazz che nasce anche «grazie» alla restrizione: i diritti dei neri ebbero una buona estensione sotto gli spagnoli, vennero ristretti da Napoleone e aboliti dagli americani. Da quel momento in poi i neri cominciano a cantare le loro melodie in silenzio.  In onore del re Luigi XIV, il 9 aprile 1682 l’esploratore francese Robert Cavelier La Salle, giunto nel Golfo del Messico navigando lungo il Mississipi, dai territori del Nord (l’odierno Canadà), rivendica tutta la valle del Mississipi per la Francia e la chiama Louisiana. Poco prima, nel 1570, vi era morto l’esploratore spagnolo Hernando de Soto, in cerca d’oro.

Il finanziere scozzese John Law, delegato dal re francese, comincia a vendere azioni di enormi paludi infestate dalla malaria spacciandole per paradisi terrestri e porta alla rovina molti francesi nel 1720. Tra il 1762 e il 1763 la Francia, esausta per le guerre con gli indiani locali, cede alla Spagna il territorio ad ovest del Mississipi (Louisiana), e all’Inghilterra quello ad est (Mississipi). Segue la guerra d’indipendenza, quindi il territorio della Lousiana viene barattato con un trono in Etruria per gli spagnoli da Napoleone il quale, nel 1803, ne autorizza la vendita agli Stati Uniti. In quel mentre il Governo americano ha invero già stanziato 10 milioni di dollari per il solo acquisto di New Orleans e della Florida: la Louisiana viene così, quasi in segreto e in oltraggio ad alcuni trattati, venduta dalla Francia per 15 milioni di dollari, diviene uno Stato nel 1812 e New Orleans comincia ad ospitare uno dei porti più importanti del mondo e supera anche le successive guerre di secessione.

Esplode l’uragano Jazz: se durante la schiavitù – dal 1619 al 1865 – ai neri è proibito esibire la propria musica e molti sono costretti a imparare la musica bianca per continuare a suonare, in campagna le tradizioni africane sopravvivono trasformate in canti popolari in inglese. Nel 1830, il «minstrel show» diviene una moda: bianchi truccati da neri che mettono in scena grotteschi balli e canzoni. Su questa scia il bianco Stephen Collins Foster diviene famoso per le sue canzoni «negre» e le pagine di Luis M. Gottschalk contengono i prodromi del jazz. Dopo l’emancipazione del 1865, soffia forte il tifone che si trasforma in uragano: spirituals, corali, concertisti neri, blues, sia pure ancora al servizio dei bianchi, come giullari, nei bordelli, nelle bettole. L’indolenza climatica di New Orleans – un caldo umido intollerabile -, feconda un ragtime per banda con improvvisazioni e ne fa jazz, nei primi del ‘900 ne consacra i re, indiscussi, Louis Armstrong e Sidney Bechet, quindi ne sviluppa i ritmi.

Mentre le «jazz-belles», prostitute di New Orleans, permettono il mescolamento di culture, con la parola «jass» si incitano i clienti delle case di tolleranza a ballare sotto la musica dei «jasbo». È dunque nello Storyville, quartiere dei bordelli e della «Big Easy» della città, che s’incontrano le due comunità nere di New Orleans: i creoli, piccolo borghesi e integrati nella società, e i neri americani, che costituiscono la parte più povera del proletariato americano. Il blues accompagna il lavoro degli schiavi, lo spiritual e il gospel ne accompagnano le preghiere, le «bands» accompagnano i cortei funebri verso il cimitero e, tornando in città, suonano melodie vivaci e improvvisano su progressioni armoniche.  A seguito della chiusura dello Storyville, voluta dalle autorità militari statunitensi per non turbare i militari di leva nella città all’entrata in guerra degli Usa, i musicisti si rifugiano nel Southside di Chicago, quartiere nero, dove quello che è iniziato a New Orleans trova storica consacrazione in album e capolavori di intramontabili artisti. Lì si crea il Chicago Style, nel quale la cultura occidentale e bianca si mischia con il jazz nero e lo contamina, valorizzando l’elemento solistico, l’improvvisazione del singolo e la dominazione del sassofono. Di lì a poco, lo swing. Dalla schiavitù, dal dolore, dalla restrizione, i più estasianti ritmi del mondo.

Il jazzista Dizzy Gillespie ricordava che «jesi», in un dialetto africano, significa «vivere a un ritmo accelerato». Forse è per questo che Katrina ha scelto New Orleans per valorizzare tutta la propria espressività. Simile al jazz, simile al blues, un ciclone è un violento movimento rotatorio di masse d’aria, combinato con un moto di traslazione intorno a un centro di bassa pressione. Esso è provocato da un complesso di fenomeni atmosferici determinati dalle alte temperature equatoriali che, in certe zone, creano centri di minima pressione e di aspirazione verso cui convergono i venti, seguendo un moto a spirale che determina un vortice. I meteorologi chiamano uragano un vento di eccezionale intensità, di forza 12, la massima, nella scala di Beaufort, corrispondente a una velocità al suolo di oltre 120 chilometri orari.  Nell’articolo del mese scorso ho scritto che gli americani non temono la natura né gli uragani. L’ho scritto prima che Katrina venisse a cercare un albergo a New Orleans.

Ora che l’ha trovato e che si sta godendo la vista del Golfo e delle immoralità umane, è un Deus Ex Machina e un po’ Dioniso, dio dell’orgia e delle nefandezze e dio anche, paradossalmente, dell’ordine naturale, un dio che punisce per redimere e condanna a morte l’intera città di Tebe per non averlo ossequiato, dando a Cadmo un’unica motivazione: perché è giusto così. Perché dalla sofferenza si diventa eroi. L’impressione sull’attitudine americana è confermata: si è bloccata l’entrata negli States, sono stati posti infiniti controlli, le metropolitane e gli edifici sono letteralmente setacciati e all’ordine del giorno c’è ancora, per l’Amministrazione Bush, il proseguimento di una lotta contro il terrorista. Gli avversari di Bush fanno rilevare che l’ordine del giorno non è cambiato dall’arrivo di Katrina, che subito dopo la quale il presidente statunitense è volato a San Diego per «business», che l’Air Force One è poi passato da New Orleans, riportandolo a Washington, scendendo appena un po’ sotto le nuvole per dare una rapida occhiata dall’alto alla situazione. Qualche altra visita presidenziale, ma la presenza di questo come di qualunque altro presidente non serve quanto il suo intervento dall’alto e non di un elicottero.

I fondi sono richiesti alla popolazione in ogni forma, con una multimedialità da spavento, mentre quelli governativi sono stanziati per costruire una democrazia in Irak; e che i meteorologi avevano annunciato l’arrivo di questa grande ascoltatrice del jazz di scala 5 sin dalla settimana precedente, quando l’acqua del Golfo diveniva più calda, e più calda, e più calda ancora, proprio come musica. È facile dire tutto ciò, più difficile dire cosa avrebbe potuto fare perfino un presidente degli Usa per dirottare un uragano.

Purtroppo non suona più jazz la calda New Orleans, i suoi neri restano sempre neri e c’è chi è pronto a giurare che se la popolazione fosse stata bianca o l’uragano si fosse abbattuto su Kennebunkport sarebbe stato diverso; chi suggerisce a Bush di immaginare «cittadini bianchi lasciati sui tetti delle proprie case per oltre cinque giorni»; chi lo invita a «trovare pochi elicotteri da mandare lì facendo finta che la gente di New Orleans e il Golfo siano vicino Tikrit»; chi scopre la mancanza, a Washington, di una Casa Nera, e pensa al prossimo Mardi Gras a New Orleans senza sfilate. Ma Katrina ha permesso anche all’America di ricordare che gli tsunami stanno dappertutto e che, contro l’Irak forse sì, ma contro la natura non ci sono padri eterni.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – ottobre 2005




NEW YORK, UNA MATRIOSKA E TANTE BAMBOLE

New York, settembre 2005. Nonostante l’incredibile umidità che si è schiantata sulla City durante l’estate e gli uragani che hanno devastato il sud dell’America, si ricomincia daccapo. È strano dire «ricominciare» nella città che non si è mai fermata. Si usa parlare di «stile italiano» quando si fa riferimento a un agosto di vacanza. In America agosto è un mese come un altro. Ci sono ferie, non vacanze. Sono dovute, così come il barbecue. Intoccabile. I giorni di vacanza si «scontano» o si perdono – prendere o lasciare -, e si sommano ai giorni di malattia.  Quindi nessuno corre via dagli uffici durante l’estate, quando comunque il tempo permette di trascorrere incantevoli fine settimana fuori città (con poche ore, dalla Costa ovest si arriva ai Caraibi) e settimane caldo-umide dentro i refrigerati uffici cittadini. Viene da chiedersi perché sia nato l’italian style: perché gli italiani, ad agosto, non lavorano?Perché i Tribunali chiudono le porte, gli avvocati fanno baldoria, i negozi abbassano la serranda e non si trova un locale aperto nemmeno a pagarlo oro? Forse perché nessuno li paga, perché le ferie non saranno mai corrisposte, perché non ci sono mezzi pubblici né aria condizionata.

In America, invece, sembra andar tutto a gonfie vele. Belle vele gonfiate dai venti di uragani passeggeri in grado di muoverle senza, però, farle rovesciare. La natura non mette paura: neve, calura, tempeste, uragani o diversità, niente. Quello di cui gli americani hanno paura è solo il terrorismo. Non la natura. E così, subito dopo i secondi attacchi nelle metropolitane di Londra della scorsa estate, il sindaco Michael Bloomberg ha sguinzagliato poliziotti a controllare borse a campione nelle subways di New York.  A tempesta le polemiche: questo darà modo di compiere discriminazioni fondate sulla religione, sulle mode, sul Paese di appartenenza. Come dire: non si sorvegliano ragazze bianche con borse Louis Vuitton, ma uomini con barba lunga e turbante di diversa razza. Sbagliato? Discriminatorio? Non che una Louis Vuitton non possa contenere una bomba a orologeria messa a punto dai più grandi esperti – tanto più che ce ne sono di varia misura e colore -, ma sembra più facile, a prima vista, ritrovarla in un turbante.  La verità, pura e semplice, è che New York accoglie qualunque tipo di razza, colore, religione e orientamento sessuale. A New York non importa chi c’è a New York, sono tutti suoi figli, e fa bene farsi delle corse in metropolitana e guardare quanta integrazione ha raccolto la città più importante del mondo.

La City non discrimina, allatta tutti e trova lavoro e opportunità di ogni genere a chi ha la pazienza di stare ad ascoltarne le vibrazioni. Perché di vibrazioni si tratta: buttarsi per terra come un indiano ad ascoltare i binari, le ruote del prossimo treno stridere sui ferri, e prenderlo in corsa, ancora fumante, senza lasciarlo passare. Montarci sopra. Correre. Guardare tutte le nuove facce, le varie culture, apprezzare ogni tipo di colore, lingua, mondo, sessualità, razza, sedersi in mezzo a nuove e vecchie idee, mischiare, confondere, ubriacarsi di diversità. Non c’è più una verità perché ve ne sono tante, e nessuno si prende la bega di contraddirne altre: ve ne sarebbero troppe da contestare. Vederne tante fa rivalutare l’assolutezza della propria. Come indicare una sola strada quando ve ne sono così numerose? Quale sarà quella vera? Nessuna, proprio come nessuna è quella sbagliata. Guai ad arrivare da ingenui italiani e credere di poter interferire con l’intero mondo e con la sua splendida natura. 

Perdersi nel Queens è come ritrovarsi improvvisamente nella casbah, con segnali e scritte in arabo, un’indecisa parlata americana, molte signore con buste della spesa sul treno che porta da Jackson Heights a Manhattan – come dire, vivo nella City ma la spesa la faccio a casa mia -, un piccolo sobborgo oltre il quale c’è «l’America». Chinatown, la via brasiliana, Little Italy (solo due strade ormai e caffè pseudo-italiano), Harlem, Greenwich Village: quartieri che racchiudono comunità peculiari che vanno poi a vivere la City e a farne respirare il polmone.Una matrioska piena di bambolette, ognuna delle quali ha il proprio spillo, amuleto, idioma e peculiarità, e tutte insieme solo – nessuna esclusa – possono dar vita alla più grande matrioska, New York, la madre. Pare strano, forse, che proprio New York sia stata colpita in questa nuova lotta di religioni e culture, proprio la città che ospita tutto il mondo e offre opportunità non importa a che colore. New York odia il presidente Bush e non l’ha votato.  Più volte sono stata apostrofata, in rappresentanza di tutta l’Italia, con un «You italians, voi italiani, siete violenti e state appresso a Bush e a Blair», da newyorkesi di Manhattan e da «bridges and tunnels», come sono chiamati coloro che vivono nei quattro boroughs-quartieri – Brooklyn, Queens, Bronx e Long Island -, di New York perché devono attraversare ponti e tunnel per raggiungere il quinto quartiere, centrale, Manhattan. Una portoricana mi stava difendendo proprio pochi giorni fa dall’attacco di un inferocito bridge-and-tunnel di Brooklyn. In questo modo – considerazioni da fare a parte sulla fama degli italiani a New York, che è tutt’altro che buona se si escludono spaghetti e monumenti -, una portoricana ha salvato un’italiana da un americano. Tre realtà completamente diverse che si mischiano e si parlano addosso su un marciapiede qualunque davanti a un locale di Greenwich Village, dove il jazz cresce e impasta le culture.

Abbiamo fatto tanto per crescere, abbiamo anche buttato via la lira, ma ancora ci manca la mamma e mangiamo spaghetti, e non riusciremo mai a costruire una matrioska con capitale Bruxelles, perché la vera, unica, grande e ottava meraviglia del mondo è già qui, a New York, e ha una fiaccola che si riflette sull’Hudson River.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Settembre 2005