BENEDETTO MARASÀ: ECCO COME L’ENAC STA RIFORMULANDO IL PRIMO REGOLAMENTO SUI DRONI

Il regolamento dell’Enac è a tutti gli effetti il primo in Europa e forse nel mondo ad occuparsi di «droni» o «Sapr» (che definisce mezzi aerei a pilotaggio remoto senza persone a bordo, non utilizzati per fini ricreativi e sportivi): veri e propri «robot telecomandati» come quelli che si vedevano nei cartoni animati in tempi non sospetti. Anche solo questo paragone rende chiara la complessità della materia che, oltreché nuova (dunque sconosciuta, dunque pericolosa), può chiamare in causa problematiche connesse all’uso improprio che di tali mezzi-strumenti può esser fatto in un continuum che va dalla negligenza, imprudenza, imperizia (colpa) al dolo vero e proprio del diritto penale. Tanto da essere coinvolte le Forze dell’Ordine. E richiama anche scenari fantascientifici di un futuro (ora quasi presente) in cui le strade sono dominate da velivoli.

E dai droni il regolamento Enac, emanato in attuazione dell’art. 743 del codice della navigazione, distingue immediatamente gli aeromodelli (specificando che questi ultimi non sono considerati aeromobili ai fini del loro assoggettamento alle previsioni del suddetto codice e possono essere utilizzati esclusivamente per impiego ricreazionale e sportivo). Il fatto di precisare sin da subito che siano due cose diverse (e diversamente regolate) rende conto del contrario: ossia della gran poca differenza che intercorre tra questi mezzi, entrambi pilotati remotamente, proprio come i robot della nostra infanzia. Ai sensi del regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 216/2008, sono di competenza dell’Enac i Sapr di massa massima al decollo non superiore a 150 chili e tutti quelli progettati o modificati per scopi di ricerca, sperimentazione o scientifici. Inoltre, non sono altresì assoggettati alle previsioni i Sapr Stato di cui agli articoli 744, 746 e 748 del codice della navigazione; i Sapr che hanno caratteristiche di progetto tali per cui il pilota non ha la possibilità di intervenire nel controllo del volo; i Sapr che svolgono attività in spazio chiuso; i Sapr costituiti da palloni utilizzati per osservazioni scientifiche o da palloni frenati.

Ne parla Benedetto Marasà, vicedirettore generale dell’Enac.

Domanda. L’uso dei droni è, nel primo regolamento, distinto rispetto alla sua criticità, ossia pericolosità: come?
Risposta. Questo regolamento, formalmente del novembre 2013, è in realtà entrato in vigore quattro mesi dopo. Esso costituisce una prima elaborazione rispetto al nulla che c’era prima, lo abbiamo chiaramente strutturato considerando le criticità legate non solo al tipo di operazioni che si effettuano, ma anche al tipo di macchina che si usa. Registriamo innanzitutto 2 categorie per peso: droni sotto i 25 chili, a loro volta distinti tra operazioni critiche e operazioni non critiche, e droni superiori ai 25 chili, che consideriamo sempre al pari di operazioni critiche perché le dimensioni, il peso, la velocità, sono caratteristiche che includono di per sé la criticità, a meno che non vengano usati in aperta campagna o in luoghi disabitati, nei quali possono essere impiegati per riprese cinematografiche o per controllare le condizioni delle montagne, delle slavine. Le operazioni critiche sono quelle che si svolgono in ambienti congestionati, cioè dove ci sono persone, installazioni, centri abitati; quelle non critiche si svolgono su luoghi poco frequentati o quantomeno dove non ci sono rischi per la sicurezza e per l’ambiente.

D. Il diverso impiego del drone rende differenti le formalità cui ottemperare?
R. Al di sotto dei 25 chili teniamo anche conto del fatto che si tratta di macchine abbastanza semplici, quindi non richiediamo un certificato di navigabilità né la licenza del pilota, ma un’attestazione di competenza in un regime semplificato. Se l’attività non è critica essa viene autodichiarata dall’utilizzatore del drone e noi ne prendiamo nota anche perché, potendo l’impiego di tale mezzo non essere pacifico, dobbiamo sapere chi lo sta usando e in quale area. Per i droni che operano in aree critiche o superiori ai 25 chili, ci vuole un’autorizzazione formale rilasciata da noi; nel primo regolamento in effetti non avevamo previsto una licenza di pilotaggio, ma solo un’attestazione di conoscenze del pilota rilasciata da una scuola autorizzata, quindi noi autorizziamo la scuola, la quale svolge un programma di addestramento che dobbiamo riconoscere e che rilascia l’attestazione di competenza.

D. Verificate la competenza delle scuole una per una?
R. Lo facciamo a livello preventivo. La scuola che si proponga come centro di addestramento per piloti od operatori ci presenta un programma di addestramento, noi ne valutiamo la congruità, quindi viene pubblicizzata sul nostro sito. Oggi ce ne sono già circa 80.

D. Come si fa a scegliere una scuola dato che ce ne sono tantissime?
R. Onestamente non so dire; noi in questi casi siamo sempre combattuti se stilare un elenco ufficiale dove chiaramente poi convoglierà il mercato, oppure no. In tale ultimo caso chiunque si presenti all’Enac con il proprio programma, che sia valutato da noi positivamente, si immetterà nel mercato senza comparire in una lista Enac, e starà all’operatore o al pilota scegliere dove andare. Non è una vera e propria certificazione quella che noi diamo alle scuole di pilotaggio, è più un riconoscimento basato sui programmi che intendono svolgere e sulla serietà delle persone che vi fanno parte. E se molte di queste scuole sono anche centro di addestramento per persone navigate con una certificazione riconosciuta a livello europeo, ci sono anche scuole private.

D. Da un certo punto di vista si tratta di aeromodelli, dei quali si parla anche nel regolamento in una sezione apposita. Quali le differenze dal vostro punto di vista?
R. Gli aeromodelli oggi possono raggiungere anche delle velocità notevoli, e sono repliche di aeroplani in scala ridotta. Sono da tenere sotto controllo, ma più in termini di obblighi che di verifiche, e infatti per essi noi abbiamo inserito, nella terza ed ultima parte del regolamento, dei requisiti da rispettare, e devono volare in ambienti riservati, fuori dal possibile impatto con le persone, ma non vi sono verifiche da parte nostra, né dichiarazioni da presentare. Ma ora le cose stanno evolvendo a livello europeo e mondiale, e cominciano a spuntare non solo i regolamenti degli altri Paesi.

D. Quale sarà l’impatto dell’Europa nel settore?
R. Noi siamo stati i primi in Europa, e forse anche nel mondo, a fare questo regolamento. Ma oggi ne sappiamo di più, ci sono molte iniziative, la Commissione europea si è anche espressa in una dichiarazione durante una conferenza internazionale nel mese di marzo, e l’Easa, l’Agenzia europea della sicurezza aeronautica, ha emesso delle linee guida. Anche se in questo momento sono dei «concetti» e non sono dei veri e propri regolamenti, è chiaro che in qualche modo ci dobbiamo avvicinare alle indicazioni internazionali, perciò abbiamo predisposto due modifiche essenziali al nostro regolamento: innanzitutto vogliamo distinguere i droni al di sotto dei 2 chili che, in caso di perdita di controllo o impatto, non creano, sempre che lo creino, un danno eccessivo, soprattutto se si adottano criteri di protezione. Per questi piccolissimi droni abbiamo in mente una sorta di liberalizzazione nel senso di non prevedere nemmeno un’autorizzazione, a meno che non vogliano essere utilizzati in aree abitate. Abbiamo anche una riserva delle Forze dell’Ordine, con le quali stiamo discutendo per cercare di evitare un regime estremamente restrittivo giustificato dai timori sull’uso improprio. Un’ipotesi che faceva la Polizia era che addirittura per ogni volo di un drone essa fosse avvisata, e questo ci sembra eccessivo, per il rischio di bloccare un settore che comunque non vogliamo appesantire dal punto di vista dell’innovazione. C’è una grande paura che queste cose possano diventare armi, soprattutto in questi tempi, ma dovremmo limitare di aprire le finestre quando passa un corteo. Certo che determinate precauzioni sono importanti, ma non dobbiamo far diventare il drone uno strumento «criminoso» per definizione. Il nuovo regolamento dovrebbe semplificare l’impiego dei droni fino a 2 chili, tra i 2 e i 25 chili mantenere le caratteristiche attuali, per i droni superiori ai 25 chili strutturare un vero e proprio regime di sorveglianza con certificazione di navigabilità individuale, licenza da rilasciare al pilota, un’attestazione di sicurezza, ed un regime che bene o male è quello degli aeromobili.

D. Come stanno reagendo le grandi società dell’aviazione generale italiana?
R. Cominciano ad esserci anche iniziative importanti, ad esempio abbiamo aperto un «test center» a Grottaglie, in provincia di Taranto; nella stessa area, infatti, l’Alenia produce le parti del Boeing 787 in uno stabilimento che impiega più di 1.500 persone. Abbiamo nominato l’aeroporto di Grottaglie come test center proprio per avere un posto dove fare la sperimentazione con i droni. L’Agusta a luglio vi porterà un elicottero a pilotaggio remoto, che viene costruito in Polonia, che è chiaramente un drone anche se all’interno dell’elicottero c’è il «pilota di sicurezza», un pilota che sta a bordo ma solo per intervenire in caso di perdita del controllo remoto; e l’intenzione dell’Agusta è avere un elicottero di più di 750 chili non pilotato. La Piaggio ha già prodotto il P180, velivolo da 9 posti che in ambito militare è già in fase di sperimentazione a Trapani, e che in ambito civile potrebbe diventare un drone con una capacità di carico notevole di quasi mille chili.

D. Il trasporto passeggeri su un drone, con il pilota da terra e da remoto, è futuribile?
R. In futuro sarà così, ma non è qualcosa che si realizzerà nei prossimi 10 anni. I droni militari, a titolo di esempio, effettuano controlli da remoto da 8 mila chilometri e anche più di distanza. Dobbiamo prevedere che tra 20 anni probabilmente questa diventi una realtà anche in ambito civile. Tutte le iniziative in tema di droni, soprattutto quelle fatte da grandi aziende, non hanno lo scopo di riprendere matrimoni o fare film, ma si orientano verso un trasporto industriale. Le regole cominciano ad esserci, ma il settore industriale è più avanti delle regole. Oggi abbiamo la pressione dell’industria grande e piccola, e giornalisti che vorrebbero essere autorizzati a utilizzare droni da un chilo con telecamera istallata per fare riprese e scoop. Ma il problema non è tanto il singolo, quanto un insieme di droni che, alzandosi per aria, possono scontrarsi e cadere.

D. Si corre anche il pericolo che tanti droni si scontrino tra di loro in situazioni più movimentate.
R. La sperimentazione si sta muovendo in quest’ottica e segue alcuni criteri tecnologici, il primo è quello di un controllo che limiti il raggio d’azione in modo da creare una specie di schermo intorno, ed è chiaro che questo si può fare solamente con un controllo di tipo computerizzato. Il secondo criterio è quello di operazioni fuori dal campo visivo dell’operatore, cosa che in ambito militare è una realtà, ma che nel civile risulta più complessa: bisogna affrontare il discorso della tecnologia e del controllo satellitare. È chiaro che in questa fase iniziale e sperimentale è importante che le condizioni siano quelle dichiarate dai costruttori, ma c’è anche il problema dei materiali: cioè molti dei droni che oggi sono sul mercato non hanno affidabilità aeronautica, la vita delle pale dell’elica o del rotore nei droni che si comprano al negozio di giocattoli è di 5 ore, dopo si rompono; l’elica deve compiere centinaia di giri al minuto, e se non è costruita con caratteristiche aeronautiche è inaffidabile. Se si compra un drone online non è certo che esso abbia le garanzie che noi riteniamo necessarie per il volo aeronautico.

D. Non si può semplicemente comprare un drone e «farlo volare»?
R. La tendenza è questa, lo compro e lo faccio volare; perciò dobbiamo provare a non essere invasivi nel senso di non richiedere il rispetto di requisiti impossibili o troppo restrittivi. Ci stiamo muovendo in un’ottica di valutazione del rischio, e il rischio è nella velocità, nell’ambiente in cui si opera, nelle caratteristiche di sicurezza del mezzo, nella privacy, tutti argomenti nuovi per noi e assenti in tema di aeroplani. Siamo in un momento di maggiore consapevolezza e chiarezza, guardando a un settore che sta esplodendo da un punto di vista industriale con centinaia di iniziative direi non difficili da regolare ma difficili nel bilanciamento tra regole e sviluppo.

D. Avete anche affrontato il tema dei droni legati a un cavo: in quali casi i droni sono «messi al guinzaglio»?
R. Il cavo è un elemento di garanzia soprattutto quando il drone viene utilizzato in ambienti congestionati. Ancora oggi non abbiamo la certezza che i dispositivi elettronici siano talmente affidabili da garantirne il controllo totale, quindi in certi casi prescriviamo le operazioni con il cavo, e tutto questo quando non è dimostrata l’affidabilità totale del controllo del drone. Si tratta soprattutto dei casi di riprese cinematografiche, oggetto di molte richieste che ci pervengono. Il cavo garantisce che, nel caso di perdita di controllo in zone critiche, come può essere una piazza del centro di Roma, si riporti a terra il drone senza problemi.

D. Come si può punire l’abuso di coloro che usano droni senza essere in possesso dei requisiti richiesti?
R. Con le Forze dell’Ordine abbiamo rapporti quotidiani sotto questo punto di vista, ma noi facciamo le regole, poi è chiaro che esse devono essere rispettate e che per farlo ci vuole la coscienza civile. Una delle cose che stiamo facendo è lavorare per identificare coloro che utilizzano il drone, apponendo ad esempio targhette con codice a barre così che tali mezzi possano essere rintracciabili, oppure più semplicemente tenere un registro degli utilizzatori tale che all’occorrenza si possa individuare chi è che ha fatto danno. Ovviamente le sanzioni non dobbiamo stabilirle noi.

D. Posso prendere un drone, portarlo in un altro Paese e farlo volare lì?
R. No, in questo momento ci sono le barriere, non c’è riconoscimento. Con gli altri Paesi ci sono scambi continui di notizie, informazioni e regolamenti, ma non c’è un riconoscimento. Ognuno ha le proprie regole di volo. Nelle proprietà private l’operatore si assume la responsabilità, ma noi stiamo sempre parlando di ambienti pubblici. Per un drone straniero in Italia il discorso è lo stesso, e la buona norma vuole che si capisca che tipo di autorizzazione ha e così convalidarne il volo se presenta caratteristiche simili a quelle richieste. In futuro ci saranno condizioni di reciprocità, una volta che sarà emanata la regolamentazione europea, già in fase di sviluppo; l’Easa sarebbe pronta, a fine anno, con una prima bozza per i droni di semplice costruzione, e presto potremmo avere regole internazionali.

D. Ci sono limiti di velocità e di tempo per il volo?
R. L’utilizzo del drone, almeno in attività quali osservazione, rilevamenti e fotografie, non è lunghissimo, parliamo di un tempo di 15-20 minuti, dopodiché il mezzo deve tornare, anche perché ha delle batterie che ne limitano l’autonomia. Certo è che quando cominceranno a volare i droni a combustibile il problema si porrà, oggi l’autonomia è limitata ad una mezz’ora e niente più, e costa poco farlo scendere e cambiare la batteria.

D. La telecamera deve essere verificata?
R. No, non ci occupiamo della telecamera, l’importante è che sia istallata in maniera sicura, poi la sua tipologia dipende dall’uso che se ne voglia fare. Oggi ci sono droni con telecamere notevoli o con più telecamere. Per quanto riguarda la privacy, quando abbiamo fatto il primo regolamento abbiamo interpellato anche l’Autorità che ci ha suggerito una frase che abbiamo riportato nel regolamento, che fondamentalmente dice che l’operatore è responsabile di utilizzare il drone nel rispetto di tutte le norme della privacy, quindi non può andare a fotografare delle persone o guardare dentro le case, quindi chiaramente la privacy impone delle regole ma poi dopo è la coscienza e la moralità dell’operatore che ne deve fare buon uso.

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Luglio/Agosto 2015

 




TRATTAMENTI NEGLI ISTITUTI PENITENZIARI (PARTE DUE): L’EDUCAZIONE FORMALE IN CARCERE

La prima parte dell’articolo è contenuta al link: www.rominaciuffa.com/carcere-funzione-rieducativa

 

 

 

 

L’ISTRUZIONE IN CARCERE. Il verbo «educare» deriva dal latino e-duco, ossia «porto fuori». Si «portano fuori» norme, principi, valori, regole di comportamento. Anche nel caso di condanne molto lunghe, l’educazione formale è necessaria all’apprendimento di regole di civiltà da impiegare nei rapporti con gli altri detenuti, con gli operatori, nelle attività svolte all’interno del penitenziario, comunqhttps://www.rominaciuffa.com/wp-admin/post-new.phpue e sempre per valorizzare aspetti del sé non curati in precedenza. L’alfabetizzazione risulta essere carente all’interno dei luoghi di pena tanto per il basso livello sociale da cui provengono spesso i rei quanto per l’elevata presenza di extracomunitari; e, a monte, la sua assenza è tra le cause – fatte risalire a una più generale mancanza di educazione – che spesso conducono al reato. Un’istruzione formale è dovuta al carcerato secondo il senso più pregnante e diretto dell’articolo 27, comma 3 della Costituzione: rieducare vuol dire, prima di tutto, educare. Dunque, istruire.

Educare in carcere significa, prima di tutto, educare alla libertà: non solo quella del mondo libero, ma del mondo mentale. Il pensiero dev’essere costruito per divenire costruttivo, per capire il nesso eziologico di un’azione con la sua conseguenza. È necessaria un’educazione alla moralità, non intesa come valori di un ceto, di una classe politica o di una religione, bensì valori d’umanità, diritti dell’uomo, civiltà e regole, per la crescita del detenuto e la sua responsabilizzazione. Sulla religione, che è anche rieducazione ma che non va confusa con «moralità», sono sollevati problemi relativi alla multirazzialità e alla soggettività della scelta religiosa, anche in senso ateo.

La Costituzione del 1948, oltre a dettare la norma dell’articolo 27, statuisce nell’articolo 34: «1. La scuola è aperta a tutti. 2. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. 3. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. 4. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». La norma fissata dal Costituente impone al Legislatore di creare le condizioni per garantire l’istruzione in carcere, non più da intendersi come coercizione ma alla stregua di un’opportunità per i singoli detenuti.

Il termine «trattamento» era stato usato anche nella legislazione precedente, ma l’Ordinamento penitenziario ha provveduto ad una formale esplicazione. Questa visione più ampia rende necessaria la previsione di nuove figure di operatori, quali educatori, assistenti sociali, insegnanti, volontari (articoli 17 e 78 dell’Ordinamento stesso), psicologi, pedagoghi e psichiatri criminologi che, sotto il controllo interno del direttore dell’istituto e quello esterno del Magistrato di Sorveglianza, prestano la propria opera attraverso interventi singoli o di gruppo.

L’istruzione in carcere, oltre che un diritto costituzionale, è più che altro elemento del trattamento rieducativo del condannato: l’andamento e gli esiti influiscono sull’eventuale adozione di misure come permessi-premio o riduzioni di pena. Da cui se ne capisce l’importanza di un’attuazione a fianco della predisposizione di nuovi progetti: uno per tutti, quello di educazione ambientale del Centro di Educazione ambientale di Ferrara. Eppure, se nella quasi totalità delle carceri italiane viene garantito il diritto all’istruzione mediante corsi istituzionalizzati o gestiti da volontari, è di fatto impossibile consentire l’accesso alle lezioni di tutti coloro che ne fanno richiesta, i locali non sono idonei o non sono presenti, lo svolgimento delle attività è legato solo al senso di responsabilità e alla sensibilità dei singoli docenti.

L’ALFABETIZZAZIONE IN CARCERE. Il detenuto è un minore, un adulto, un extra-comunitario: richiede alfabetizzazione. Un’educazione permanente implica che se ne ripensi il contenuto in modo da tener conto di fattori quali età, differenze di sesso, lingua, cultura e status economico, handicap. È indispensabile che le procedure adottate in materia di educazione degli adulti siano fondate su eredità, cultura, valori ed esperienze pregresse degli interessati, e condotte per facilitare e stimolare la partecipazione attiva e l’espressione dei cittadini. Ma si è ancora lontani da una visione dell’educazione come sinonimo di scolarizzazione. Alfabetizzazione in carcere significa, dopo l’abc, informatica e biblioteca. Le prigioni devono esser dotate di tecnologia e personale, i mezzi garantiti da un elevato livello di sicurezza informatica per evitare manomissioni o «evasioni virtuali».

Si tratta, soprattutto, dell’apprendimento dei più comuni programmi informatici per l’avvio di una professione futura. La biblioteca carceraria deve offrire risorse documentarie e servizi paragonabili alle biblioteche del mondo libero e sviluppare una collezione «bilanciata» che rappresenti un’ampia gamma di punti di vista a disposizione degli utenti detenuti per una lettura senza vincoli ideologici. Ciò che la persona in stato di reclusione legge, dipende dalla qualità e dalla pertinenza della raccolta bibliotecaria. Con personale qualificato, una raccolta di opere che rispondono ai bisogni educativi, ricreativi e di riabilitazione dei detenuti e con uno spazio fisico invitante, la biblioteca può costituire una parte importante della vita carceraria e dei programmi per i detenuti e rappresentare una rilevante «linea di comunicazione vitale» con il mondo esterno, essere uno strumento di gestione efficace per l’amministrazione del carcere perché riduce l’ozio e incoraggia un uso costruttivo del tempo, e costituire la risorsa informativa vitale che fa la differenza tra il fallimento e la riuscita all’esterno del carcere per un ex detenuto appena scarcerato.

L’International Federation of Library Associations, Sezione Libraries Serving Disadvantaged Persons, ha stilato un documento allo scopo di fornire uno strumento per la pianificazione, l’implementazione e la valutazione di servizi bibliotecari rivolti ai detenuti, che riflettano un livello accettabile di servizio bibliotecario, raggiungibile in buona parte dei Paesi in cui le politiche nazionali e locali sostengano l’esistenza di biblioteche carcerarie. Oltre a costituire uno strumento pratico per la fondazione, il funzionamento e la valutazione delle biblioteche carcerarie, il documento funge da affermazione di principio del diritto fondamentale dei detenuti a leggere, apprendere ed accedere all’informazione.
In buona parte dei Paesi del mondo gli individui che costituiscono le popolazioni carcerarie hanno un limitato bagaglio sia di istruzione che di competenze sociali e non provengono da ambienti in cui la lettura è un’occupazione frequente o popolare; i detenuti e il personale non sono necessariamente utenti di biblioteca auto-motivati, perciò «dovrebbe essere prestata grande attenzione all’atteggiamento amichevole della biblioteca verso gli utenti». La cooperazione è un ingrediente necessario per garantire che i bibliotecari carcerari siano in grado di dispensare un buon servizio; e l’isolamento, si indica, può essere diminuito stringendo relazioni con altre biblioteche carcerarie in tutto il mondo.

IL LAVORO INFRAMURARIO E IL LAVORO EXTRAMURARIO. Il lavoro penitenziario mantiene la funzione di cardine del trattamento rieducativo: infatti, a norma dell’articolo 15, comma 2 dell’ordinamento penitenziario, a tali fini, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è addirittura assicurato il lavoro. Le forme di lavoro penitenziario e le modalità di esecuzione dello stesso sono classificabili in due grandi categorie: lavoro inframurario ed extramurario.

Il lavoro inframurario si caratterizza per la figura del datore di lavoro e il carattere poco produttivo dell’attività prestata. Anche detto dei «lavori domestici», è strutturato in attività solitamente non imprenditoriali, che si esplicano in servizi destinati all’istituzione stessa, come il servizio di cucina per detenuti e per operatori penitenziari o quello di pulizia dei locali comuni. La trilateralità di rapporti che caratterizza le altre forme di lavoro penitenziario – detenuto lavoratore, amministrazione penitenziaria e datore di lavoro – è qui assente, finendo questi ultimi due per essere inglobati nel medesimo ruolo, cosicché le esigenze rieducative del condannato risultano strettamente collegate ad elementi appartenenti alla normale disciplina del lavoro subordinato o autonomo.

Si differenzia da esso il lavoro inframurario alle dipendenze di terzi, anche detto delle «lavorazioni» – ad esempio, produzione di coperte, confezionamento del vestiario e della biancheria per gli agenti di custodia e per i detenuti, attività di falegnameria – caratterizzato da una maggiore produttività organizzata su base industriale e modellata sul prototipo dell’ambiente libero. Riguardo al lavoro extramurario, l’articolo 21, come novellato dalla legge n. 663 del 1986, e l’articolo 48 del decreto presidenziale 230/2000 (Reg. Es. O.P.) consentono al detenuto di avere accesso ad una normale organizzazione produttiva alle dipendenze di un imprenditore, con provvedimento discrezionale del direttore dell’istituto opportunamente motivato.

Negli ultimi anni il lavoro penitenziario ha perso l’originario carattere afflittivo e si è visto assegnare una remunerazione dagli articoli 22 e 23 dell’O.P., ha ottenuto il diritto agli assegni familiari e si è applicata la disciplina sul collocamento. Nonostante i passi in avanti, le attività di lavoro riguardano un numero di soggetti trascurabile, mentre resta rilevante il lavoro domestico intramurario, includendovi l’ordinaria manutenzione degli immobili penitenziari, con la sua scarsa imprenditorializzazione. Tranne poche eccezioni, l’Amministrazione penitenziaria è rimasta per lungo tempo l’unica committente delle proprie episodiche lavorazioni – tavoli, sedie, armadi, coperte ecc.- e ciò è stato imputabile all’impreparazione manageriale della dirigenza carceraria, alla carenza di manodopera esperta nelle lavorazioni, alla mancanza di maestri d’arte, all’inadeguatezza delle strutture carcerarie e alla difficoltà di introdurvi processi produttivi e tecnologici: il tutto a scapito del trattamento rieducativo del detenuto e della qualificazione professionale necessaria al successivo (re)inserimento sociale.

Sia la legge 12 agosto 1993 n. 296 recante nuove misure in materia di trattamento penitenziario nonché sull’espulsione dei cittadini stranieri, che la legge Smuraglia del 22 giugno 2000 n. 193 hanno delineato nuovi strumenti e aree per la creazione e gestione di lavoro intra ed extramurario, affidando al volontariato e alle cooperative sociali la funzione di soggetti maggiormente qualificati ad agire in tali spazi. Il problema, oltre alla difficile reperibilità della liquidità necessaria, è la difficile assunzione di responsabilità da parte dei soci lavoratori (detenuti) e la fatica a costruire livelli gerarchici in una cooperativa di soggetti da rieducare che non accettano di essere comandati da chi si trova nelle loro stesse condizioni, e l’accettano solo «da altri».

IL PROGETTO DELLA REGIONE LOMBARDIA PER LA PROMOZIONE DI INTERVENTI DI INCLUSIONE SOCIALE DEI CITTADINI DETENUTI. La stessa Amministrazione penitenziaria denuncia «l’inidoneità e l’inagibilità degli istituti penitenziari, le difficoltà d’accesso e di controlli, la mancanza di continuità o le eccessive pause nei colloqui familiari-educatori-avvocato o nell’ora d’aria, la scarsa professionalizzazione di detenuti, un regolamento contabilità dello Stato non adeguato che, determinando un eccessivo costo del lavoro, rendono problematica una positiva resa sul mercato a qualsiasi imprenditore nonostante gli sgravi fiscali previsti dalla Smuraglia. Sono ammesse anche colpe proprie dell’Amministrazione»: si tratta a tutti gli effetti della denuncia dell’approssimativa sistematizzazione della problematica, della mancata emanazione di linee guida, dell’assenza di verifica e di esportazione di positivi progetti realizzati, e di una inadeguata ricerca di partner. Non è tutto rose e fiori, in gabbia.

Per questo l’Amministrazione penitenziaria, distribuita in numerose realtà locali, compie un’attività di promozione, ricerca e organizzazione di attività lavorativa, anche in collaborazione con altre strutture pubbliche e private, avvalendosi delle novità introdotte dal Nuovo Regolamento di esecuzione dell’O.P. del 2000 e dalla legge Smuraglia. Presupposto essenziale è la predisposizione di politiche attive d’intervento capaci di coniugare l’aspetto trattamentale con le necessità imprenditoriali. Il punto non è solo o tanto la rieducazione, quanto la disponibilità di imprese ad assumere detenuti ed ex detenuti. Un progetto, «Responsabilità sociale di impresa: lavoro, carcere e imprese», si ripromette la promozione di interventi volti alla loro inclusione sociale. Obiettivo dichiarato è favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti nelle imprese profit e no profit lombarde, intervento che riguarda in primo luogo i diretti interessati e le istituzioni penitenziarie ma che, per diffondersi in modo significativo e proporzionale alle potenzialità e ai vantaggi per le imprese, necessita di promozione anche e soprattutto extramoenia.

Le testimonianze fornite da operatori e imprenditori sulle esperienze maturate hanno dato atto delle potenzialità e dell’attuale efficacia della collaborazione tra istituzioni regionali e locali, sistema camerale, mondo imprenditoriale e cooperativo. In Lombardia, l’inserimento lavorativo di detenuti conta su diverse esperienze di successo soprattutto nell’ambito delle cooperative sociali (95 imprese hanno dato lavoro almeno a una persona proveniente dal circuito penitenziario), mentre è ancora ridotto nelle imprese profit. Di queste esperienze possono avvalersi le altre Regioni nella predisposizione di interventi simili in territori diversi, la cui situazione è spesso resa assai più problematica dal contesto, dalle effettive opportunità lavorative, dalla povertà intrinseca al territorio, dalla differente visione dell’individuo e del suo background.

L’inclusione sociale dei detenuti rientra nelle prassi della responsabilità sociale d’impresa: il sistema camerale lombardo è impegnato a promuovere e accompagnare le piccole e medie imprese, informa sui vantaggi diretti derivanti da questa opportunità sia negli sgravi fiscali, sia nella responsabilità sociale. Il primo protocollo tra la Regione Lombardia e l’Amministrazione penitenziaria competente è stato siglato nel 1999 ed ha avuto ad oggetto l’insediamento di una Commissione, con l’obiettivo specifico di creare una rete di rappresentanza per la diffusione del rientro dei detenuti nella società e nei propri territori. La Regione stessa ha coinvolto soggetti diversi e stretto alleanze per diffondere la conoscenza delle opportunità normative e degli strumenti a disposizione nelle imprese lombarde. Il sistema camerale lombardo partecipa al tavolo della Commissione Lavoro Penitenziario istituita presso il Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria, per sviluppare iniziative dirette agli scopi dell’articolo 27 della Costituzione, in relazione al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3 comma 2 della stessa: il ruolo di cui si è fatto carico è quello di trasmettere le esigenze delle aziende e trasferire in ambito carcerario il know-how proprio dell’impresa.

L’impegno assunto dall’Unioncamere Lombardia è promuovere l’incontro della società delle professioni con la popolazione carceraria e sensibilizzare le imprese, accompagnandole nel processo di integrazione sociale. Svolgendo un ruolo di «interfaccia», le Camere forniscono alle imprese gli strumenti per conoscere la realtà carceraria e portano all’attenzione degli organi regionali e territoriali preposti all’Amministrazione penitenziaria le esigenze delle imprese, dalla rigidità degli orari ai controlli, all’accesso a sgravi fiscali e contributivi di cui le imprese non sono a conoscenza. Altro contributo allo sviluppo del progetto è l’individuazione dei settori economici di maggiore potenzialità, tra cui spiccano l’artigianato e quelle attività che puntano sul singolo individuo.

La convenienza non è solo riscontrabile per le imprese, che hanno a disposizione maggior manodopera, ma riguarda l’intera società: la riabilitazione attraverso il lavoro è tra le forme più efficaci di prevenzione del crimine. Il beneficio è calcolabile come la riduzione dei costi sociali che si verifica per la diminuzione delle recidive: un detenuto inserito nel mondo del lavoro a fine pena è meno portato a commettere nuovamente reati; la popolazione carceraria impegnata in progetti lavorativi ha la possibilità di sostenere la famiglia e di vivere l’esperienza punitiva senza preoccupazioni economiche; una volta scontata la pena, ha meno probabilità di tornare a delinquere per necessità.

La citata legge Smuraglia per le imprese profit e le cooperative sociali, insieme alla legge 8 novembre 1991 n. 381, contenente la disciplina delle cooperative sociali, prevede varie misure con le quali è favorita l’attività lavorativa dei detenuti e sono applicati sgravi fiscali e contributivi ai soggetti pubblici o privati (imprese o cooperative sociali) che assumono detenuti in esecuzione di pena. La Commissione regionale per il Lavoro Penitenziario, prevista dall’articolo 25 bis O.P., svolge un ruolo di coordinamento e di supervisione e si occupa di dare uniformità agli interventi in un circuito unitario. Potendosi avvalere delle agevolazioni previste dalla legge Smuraglia, l’Amministrazione Penitenziaria ha istituito una specifica Agenzia che, interagendo con le numerose agenzie e attività progettuali presenti nel territorio, costituisce una struttura di supporto ed operatività per la Commissione. L’Agenzia regionale per la Promozione del Lavoro Penitenziario ottimizza, con la collaborazione delle Direzioni degli Istituti penitenziari e degli Uffici di Esecuzione penale esterna, le modalità di inserimento nel mondo del lavoro; riceve i curricula di tutti i detenuti occupabili trasmessi dalle Direzioni, raccoglie le offerte di lavoro ed ha la facoltà di proporre, in base a queste ultime, anche il trasferimento in ambito regionale dei detenuti.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Luglio 2014

 

 

 

 




AMMIRAGLIO MARCO BRUSCO: GUARDIA COSTIERA E CAPITANERIA DI PORTO, UN MARE DI SICUREZZA

Una donna in ogni porto significa qualcosa di diverso dal solito stereotipo del marinaio: la Capitaneria di Porto oggi, infatti, è dotata di una forte componente femminile, donne che sono in prima linea nelle più complesse operazioni della Guardia Costiera. Fatta luce su ciò, altri quesiti: quale differenza c’è tra Capitaneria di Porto e Guardia Costiera, locuzioni talvolta impiegate confusamente nella terminologia comune? E l’emergenza ambiente: cosa sta facendo l’Italia per prevenire i gravi incidenti in mare che mettono a repentaglio la salute delle nostre coste e della stessa popolazione? Risponde l’Ammiraglio Ispettore Capo Marco Brusco, dall’8 ottobre 2010 Comandante generale del Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera, facendo il punto sulla situazione dei mari italiani.

Domanda. Il 20 luglio scorso la Capitaneria di Porto ha celebrato il 146esimo anniversario. In che modo?
Risposta. Ci vantiamo nel dire che la Capitaneria di Porto, nata ufficialmente per volontà di Cavour che ne firmò il decreto istitutivo, è la prima istituzione creata dal nuovo Stato d’Italia. Abbiamo voluto legare la celebrazione a una mostra storica sulle Capitanerie di Porto nei 150 anni d’Italia, e ad una mostra fotografica su Lampedusa dedicata al fenomeno migratorio e all’opera di soccorso svolta dalla Guardia Costiera. A rafforzare la collaborazione tra lo Stato italiano e quello panamense, sancita nel giugno 2010, durante la cerimonia del 20 luglio scorso, abbiamo consegnato alla Guardia costiera del Paese centro-americano due delle quattro unità navali previste.

D. Quale differenza c’è tra Capitaneria di Porto e Guardia Costiera?
R. Prima c’era solo la Capitaneria di Porto. Nel 1989 i reparti del Corpo delle Capitanerie di Porto che svolgono compiti di natura tecnico-operativa sono stati costituiti in Guardia Costiera. Questa, pertanto, rappresenta un’articolazione del Corpo. Il provvedimento, in realtà, non ha fatto altro che riconoscere un servizio da sempre svolto, lungo le coste e in mare, dalle Capitanerie, ma ha evidenziato l’aspetto operativo della Guardia Costiera per assimilarlo a quello che normalmente l’utente immagina anche attraverso il frasario internazionale sui soccorsi in mare, sulla sicurezza della navigazione etc. La Capitaneria di Porto nacque con una finalità amministrativa dei porti e delle coste, e noi teniamo molto a questo carattere iniziale. Da quando sono Comandante generale ricordo ai miei entusiasti giovani che siamo 11 mila persone e che, sebbene l’aspetto operativo sia affascinante, la nostra radice è amministrativa marittima. Abbiamo avuto la responsabilità delle coste prima che gli enti locali venissero delegati alla gestione del demanio marittimo, e abbiamo svolto un ottimo lavoro che ci rende orgogliosi. Anche la stessa utenza a volte ci rimpiange.

D. Quali legami ha la Capitaneria di Porto con le istituzioni governative?
R. Nel 1919 il Corpo fu militarizzato per volontà del Parlamento e del Governo, e dal 1923, quando venne incluso nella Regia Marina, è rimasto legato alla Marina Militare mantenendo però una particolarità: quella di espletare la maggior parte del proprio lavoro alle dipendenze del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, prima denominato della Marina mercantile. Svolgiamo anche determinate funzioni per il Ministero dell’Ambiente e per le Risorse Agricole e Forestali nel settore della pesca marittima; infine ci occupiamo di altre mansioni anche a favore di altri Ministeri. Rimane fermo il legame con il Ministero della Difesa nei nostri compiti militari o di collaborazione con la Forza Armata.

D. Quali sono in particolare i rapporti con la Marina Militare?
R. I rapporti, in alcuni contesti operativi, rimangono essenzialmente di complementarietà; la Marina si pone a difesa degli interessi nazionali e di protezione della libera navigazione, garantisce la sicurezza delle linee di traffico, contrasta la pirateria e il terrorismo, mentre le Capitanerie hanno ruoli specifici, derivanti da competenze di dicasteri diversi da quello della Difesa, quali la ricerca e il soccorso in mare e nei laghi maggiori, il controllo delle attività di pesca, la tutela ambientale, l’antinquinamento, la sicurezza dei porti, della navigazione e del trasporto marittimo, la polizia giudiziaria a competenza speciale, il concorso nel controllo dell’immigrazione clandestina via mare, il concorso nella protezione civile. Sempre più spesso la sinergia che scaturisce dalla dipendenza delle Capitanerie dalla Marina si manifesta nella condivisione dei dati sul traffico marittimo, nell’espletamento delle attività concorsuali e nello scambio di informazioni durante le attività operative di pattugliamento, sorveglianza e controllo svolte in mare dalle singole unità operative.

D. Tra tanti, quali sono i compiti in cui più vi identificate?
R. Il salvataggio delle vite umane in mare. Nelle nostre centrali operative usiamo un sistema molto moderno: anni fa abbiamo recepito la Convenzione d’Amburgo che istituiva un Centro di responsabilità nazionale presso il Comando generale di Roma, che dirigo alle dirette dipendenze del ministro dei Trasporti. Oltre a ciò abbiamo 15 Direzioni marittime inclusa l’Autorità dello Stretto di Messina, 54 Capitanerie di Porto, 48 Uffici circondariali marittimi, 126 Uffici locali marittimi e 38 Delegazioni di spiaggia. I sottocentri di responsabilità creano una rete tale da consentirci di conoscere immediatamente qualsiasi cosa avvenga nel territorio costiero o nel nostro mare, direttamente o attraverso le sedi periferiche. Da qualche anno abbiamo anche una competenza sui laghi maggiori.

D. Qual è l’impegno internazionale della Guardia Costiera?
R. Negli ultimi tempi, in ragione di rinnovate potenzialità acquisite, consistenti in mezzi navali e aerei, la Guardia Costiera ha operato in missioni ad ampio raggio di carattere internazionale, come quelle di disinquinamento svolta in Libano per conto del Ministero dell’Ambiente e in Senegal per contrastare l’immigrazione clandestina per conto del Ministero dell’Interno e sotto l’egida dell’Agenzia europea Frontex.

D. Quali mezzi impiegate in mare?
R. Usiamo motovedette di vario tipo; quelle d’altura ci sono servite molto anche in ambito Frontex all’estero, in Senegal, Grecia e Turchia, ma sono utili anche all’attività di controllo in alto mare o nei limiti del mare territoriale. Nel caso dei migranti impieghiamo le vedette SAR, (Search and Rescue) che sono veloci e consentono di intervenire con qualsiasi condizione meteo marina. Ora abbiamo una nuova barca, la Classe 300 Ammiraglio Francese, auto-raddrizzante: ritengo che il loro impiego sia stato decisivo per gli eventi delle Isole Pelagie. Abbiamo in programma di dotare l’Italia di un certo numero di motovedette Classe 300 per il «gioco degli incastri» da noi definito «maglia a triangoli», in base al quale se accade qualcosa, interviene nel tempo minore la vedetta che si trova nella posizione più vicina. Abbiamo barche destinate a impieghi più specifici, come l’attività di polizia sottocosta. Nella stagione estiva è utile un mezzo più snello e con minore equipaggio a bordo, e i gommoni veloci sono usati per attività ambientali o di vigilanza costiera. Abbiamo in costruzione da parte della Fincantieri 2 pattugliatori di circa 90 metri e un Supply Vessel per attività di polizia marittima in realizzazione presso un cantiere napoletano che dovrebbe essere operativo nel giro di un anno e mezzo.

D. Di quali mezzi aerei siete dotati?
R. Ora stiamo impiegando tre velivoli Atr 42, in attesa di averne un quarto. La componente elicotteristica invece, dislocata nelle basi di Sarzana e di Catania, consta di nove elicotteri AB412 e di quattro AW139.

D. Com’è svolto l’addestramento?
R. Per noi è essenziale. Il nostro personale deve avere due molle: la prima è costituita dalla formazione stessa, la seconda da una costante carica psicologica. La formazione di base è svolta negli Istituti di formazione della Forza Armata con il conseguimento del titolo accademico al termine del corso, sia da parte degli ufficiali nell’Accademia Navale di Livorno sia dei marescialli nella Scuola Sottufficiali di Taranto. I primi, tramite una convenzione stipulata con l’Università di Pisa, conseguono la laurea in Scienze del governo e dell’amministrazione del mare; i marescialli, grazie alla nuova convenzione stipulata con l’Università di Bari, conseguono la laurea triennale in Scienze e Gestione delle attività marittime con indirizzo ambientale. Per ciò che concerne la formazione specialistica, essa è mirata ai settori di interesse del Corpo ed è svolta, in relazione alle risorse disponibili, sia in autonomia con docenza da parte di ufficiali e sottufficiali nel comprensorio Gregoretti della Direzione marittima di Livorno sia presso enti esterni. Nel corso del 2011 il Corpo si doterà di un ulteriore comprensorio nella sede di Messina per la formazione del personale «in house» relativa a due temi significativi quali il VTS e il SAR. È prevista l’acquisizione di una nave a vela, che gli allievi impiegheranno dal 2012. Inoltre svolgiamo corsi periodici nei centri della Marina Militare tra la Maddalena e Taranto, predisponiamo master e curiamo l’apprendimento di una seconda lingua che è prevalentemente l’inglese e in qualche caso il francese e lo spagnolo; abbiamo anche un allievo e un’allieva che parlano l’arabo.

D. Ha citato il «VTS», che cosa è?
R. VTS è l’acronimo di Vessel Traffic Service, un servizio di informazione e di ausilio alla navigazione reso alle navi al fine di prevenire incidenti in mare. Questo servizio confluisce in un sistema più complesso, denominato VTMIS (Vessel traffic management information system), che unisce i diversi sistemi di monitoraggio del traffico marittimo in un unico sistema i cui dati possono essere condivisi con altre organizzazioni ed enti della Pubblica Amministrazione.

D. Quali risultati ha ottenuto finora questo sistema?
R. Ha dimostrato un elevato livello di efficienza. Le aree marittime particolarmente sensibili sono già state sottoposte a monitoraggio continuo: è il caso dello Stretto di Messina, dell’area delle Bocche di Bonifacio, dell’area della Sicilia occidentale e meridionale, del complesso portuale della Liguria, delle zone in cui si trovano le rotte di accesso e di uscita dal Mare Adriatico e delle aree dove sono i principali porti che trattano prodotti petroliferi e merci pericolose. Questo sistema è particolarmente utile anche in caso di situazioni di emergenza e soccorso in mare: un sistema di allarme a bordo permette infatti di mettere in contatto la nave con la centrale Operativa del Comando Generale in Roma e quindi di seguire in tempo reale l’evolversi delle fasi dell’emergenza.

D. Qual’è la situazione relativa alle donne nel vostro Corpo?
R. Non abbiamo problematiche particolari con l’elemento femminile, anzi le donne sono incentivate e ricoprono anche incarichi di rilievo, lo stesso capo della mia Segreteria Particolare è una donna. Molte sono attualmente in comando con il grado di tenente di vascello: devo dire con molto orgoglio che le ragazze dimostrano di essere ottimi comandanti anche nelle zone più difficili, ad esempio nel Napoletano, dove ci sono ben tre di loro.

D. In che modo la vostra struttura informa gli utenti delle proprie attività?
R. Punto molto sul valore della comunicazione, sulla quale abbiamo compiuto passi da gigante. Poiché facciamo un buon lavoro per la collettività, è giusto che esso sia reso noto con ogni mezzo all’utenza. In passato è capitato di non aprirsi ai media, forse per il timore di parlare all’esterno dell’Organizzazione; io ritengo invece che quanta più comunicazione viene effettuata, tanto più si garantisce trasparenza e si riesce a far capire cos’è il nostro Corpo e dove vuole andare. Diamo pubblicamente risposte molto precise: Lampedusa è il caso più eclatante nel quale il lavoro dei nostri uomini è stato riconosciuto per la qualità dal Capo dello Stato italiano e dal responsabile dell’UNHCR (United Nations High Commisioner for refuges). Sono del parere che il linguaggio usato per comunicare deve essere quello di tutti non il nostro, tanto che, quando ero al comando sia a Genova che a Livorno, spesso invitavo i giornalisti in Capitaneria per insegnare ai nostri giovani l’uso del linguaggio.

D. Avete predisposto una campagna per i giovani studenti. Com’è nata l’idea?
R. Spesso sono i figli a fare educazione nelle famiglie, soprattutto per quanto attiene l’ambiente o la cultura del mare: per questo siamo entrati a parlare di tali argomenti nelle scuole elementari e medie. Nei licei i ragazzi sono più disincantati e distaccati, i bambini sono invece più curiosi e interessati. Abbiamo ottenuto risultati sorprendenti incredibili, tanto da essere invitati e coinvolti in varie iniziative dalle stesse scolaresche.

D. Siete anche nel web?
R. Si. Il nostro sito www.guardiacostiera.it, di facile consultazione, contiene tutte le informazioni utili per l’utenza. Anche ad esso affidiamo la divulgazione del decalogo per un buon uso del mare e delle sue risorse biologiche, pubblicando sul web anche le ordinanze sulla sicurezza della balneazione. Abbiamo da sempre emanato «ordinanze balneari» per il buon comportamento e siamo stati i primi ad adottare, attraverso esse, le regole per il rispetto dell’ambiente marino. Questo ci ha fatto diventare i primi ecologisti italiani. Naturalmente, è importante anche la comunicazione interna che curiamo attraverso lo specifico portale.

D. Durante l’estate è stato attivo il progetto «Mare sicuro 2011», operazione della Guardia costiera per prevenire gli incidenti in mare. Di che si è trattato?
R. Nel progetto, caratterizzato da stagionalità, oltre ai 3 mila militari abilitati al salvamento, sono state impegnate 200 unità navali e pattuglie a terra lungo le coste e i maggiori laghi italiani. Sono stati intensificati i controlli per il rispetto dei limiti di velocità e delle aree riservate alla balneazione, senza dimenticare la tutela dell’ambiente marino. Siamo per la prevenzione più che per la repressione.

D. Quali sono le principali cause degli incidenti in mare?
R. Sono due: l’imprudenza e la scarsa conoscenza delle norme, a volte tecniche e di difficile comprensione per l’utente medio. Per ridurre gli incidenti c’è bisogno di un’azione informativa il più possibile chiara e capillare. Occorre trasmettere in modo comprensibile i principi basilari della cultura nautica.

D. Ricordando l’incidente della petroliera Erika naufragata nel 1999 che, per cedimenti e deficienze strutturali, riversò sulle coste dell’Atlantico 20 mila tonnellate di olio combustibile causando una delle più gravi catastrofi ecologiche e un danno valutabile in 200 milioni di euro, cosa può dire sulla sicurezza delle navi?
R. In passato la presenza in mare di navi al di sotto degli standard di sicurezza è stata spesso causa di incidenti; necessità primaria è stata quella di creare organismi di controllo internazionali, sensibilizzando gli Stati d’approdo al fine di verificare l’integrità degli scafi battenti bandiera estera, con particolare attenzione per quelli più obsoleti. Il «Port State Control» è quindi il potere di uno Stato di sottoporre a verifica le navi straniere che fanno scalo nei propri porti, per accertarne la conformità alle norme internazionali in materia di sicurezza della navigazione, di antinquinamento e di condizioni di vita a bordo, nonché la corrispondenza alle norme nazionali applicabili. L’organizzazione nazionale PSC in Italia è affidata alle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera. Secondo il rapporto  2010 del Paris MOU, solo in Italia le navi ispezionate sono state 2000, di cui 121 non autorizzate a ripartire sino al completo ripristino delle condizioni di sicurezza. Risultati che confermano l’Italia ai primi posti nella classifica dei Paesi con i migliori risultati stilata dal Paris MOU.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Settembre 2011




DOMENICO DE ANGELIS: BANCA POPOLARE DI NOVARA, ECCO COSA VUOL DIRE PER NOI «POPOLARITÀ»

Il credito popolare affonda le proprie radici nell’Europa del XIX secolo, come risposta alle difficoltà di accesso al credito della piccola imprenditoria urbana e rurale. Fin dalle prime associazioni di credito promosse dal politico ed economista Franz Hermann Schulze-Delitzsch e da Federico Guglielmo Raiffeisen, ispiratore del movimento cooperativistico e mutualistico delle casse rurali in Europa a fine ‘800, il modello organizzativo popolare si ispirò ai principi di democrazia societaria e di finalità mutualistica. Nel corso del tempo questo modello si è evoluto e oggi le banche cooperative rappresentano una forza di primo piano per il settore bancario europeo, forte di 140 milioni di clienti e di una quota di mercato del 20 per cento. In Italia, le Banche Popolari nascono nella seconda metà del XIX secolo per iniziativa dell’economista Luigi Luzzatti e con la fondazione, per opera del politico e banchiere Tiziano Zalli, della prima Banca Popolare, quella di Lodi fondata nel 1864. Coerentemente con i principi ispiratori, con il caratteristico assetto cooperativo e con la particolare attenzione rivolta alla piccola imprenditoria e alle famiglie, il modello del credito popolare ha i propri cardini in tre punti: nella democrazia partecipativa attraverso il sistema del voto capitario («una testa, un voto»), nella trasparenza della gestione, necessaria per ottenere il consenso di una vasta platea di soci e nella vicinanza alla clientela derivante dalla vocazione localistica che fa del radicamento territoriale e della conoscenza della clientela dei punti di forza.

Da sempre al servizio delle famiglie e delle piccole imprese, il Gruppo Banco Popolare si articola in 5 banche locali, radicate nei propri territori di riferimento, rispettando la «popolarità» del nome. Tra i primi gruppi bancari italiani con quasi 2.200 sportelli, circa 200 mila soci e oltre 20 mila dipendenti, esso è un punto di riferimento in regioni come Veneto, Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana ed Emilia Romagna, aree di presenza storica. Il Banco Popolare nasce il primo luglio 2007 dalla fusione tra il Banco Popolare di Verona e Novara e la Banca Popolare Italiana. La sua storia è la storia della crescita, del consolidamento e dell’incontro di una ventina di istituti di credito locali. Nel corso del Novecento, e soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, la Banca Popolare di Verona, la Banca Popolare di Novara, la Banca Popolare di Lodi, il Credito Bergamasco e le altre banche confluite nel Gruppo si sono radicate nei propri territori promuovendo la crescita delle economie e delle comunità locali. Questo rappresenta una matrice comune su cui il Banco costruisce la propria identità e la propria unicità di gruppo.

Domenico De Angelis, amministratore delegato della Banca Popolare di Novara e consigliere di gestione del Banco Popolare, spiega in che modo la sua banca, in sintonia con le altre del Gruppo, possa costituire un valido strumento di supporto per le comunità di riferimento, soprattutto in un momento in cui la crisi ha investito le famiglie e le piccole e medie imprese. La BPN nasce come Società Cooperativa di Credito Anonima per Azioni nel 1871, per iniziativa di alcuni esponenti del mondo politico e imprenditoriale cittadino. Il primo sportello viene aperto nel 1872. Nel 1912 l’Istituto è uno dei principali del Piemonte e nel primo dopoguerra approda a Genova, Milano e Roma. Negli anni successivi sviluppa ulteriormente i servizi offerti e incrementa il proprio radicamento grazie a nuove filiali nelle grandi città e nel centro Italia. Nel 1971 conta circa 300 sportelli e oltre 55 mila soci. Nell’ultimo quarto del secolo l’Istituto si espande nel sud Italia e all’estero – Inghilterra, Germania, Spagna, Francia, Svizzera e Lussemburgo -, acquisisce partecipazioni nei vari settori del credito, accentua il ruolo di banca universale e si quota alla Borsa Italiana. Alla fine del ‘900 ha più di 500 sportelli e 100 mila soci. In seguito viene attuato un ampio processo di riorganizzazione e razionalizzazione, che porta nel 2002 alla fusione con la Banca Popolare di Verona-Banco S. Geminiano e S. Prospero, per dare vita al Banco Popolare di Verona e Novara S.c.r.l. Alla nascita del Banco Popolare il primo luglio 2007, la Banca Popolare di Novara è una delle realtà portanti del nuovo Gruppo.

Domanda. In che modo le banche del Gruppo sono distribuite nel territorio?
Risposta. La Banca Popolare di Novara è radicata principalmente nel Nord-Ovest: Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Milano; nondimeno ha una presenza considerevole a Roma, a Napoli e in Campania, nel Molise, con sportelli anche in Basilicata, Puglia e Calabria. In Lombardia abbiamo una notevole presenza del Gruppo attraverso il Credito Bergamasco, tuttora quotato, e la Popolare di Lodi, che possiede numerose filiali pure in Sicilia. La Banca Popolare di Verona è fortissima nel nord-est e in Emilia Romagna.

D. Non sorgono problemi nell’identificazione delle banche territorialmente predominanti all’interno del Gruppo?
R. Abbiamo una definizione molto precisa delle aree geografiche di competenza delle banche del Gruppo e, nell’ottica del piano industriale di imminente uscita, andremo a realizzare ulteriori semplificazioni per evitare che più banche si trovino ad insistere sugli stessi territori.

D. Lei si divide tra la Banca, di cui è amministratore delegato, e il Banco, di cui è consigliere di gestione. Come sono i rapporti con la holding?
R. Sono entrato alla Banca di Novara nel 2000 come direttore centrale e capo dei mercati di tutta l’attività commerciale della banca; dal 2002, in seguito alla fusione con Verona, sono diventato direttore generale, dal 2004 amministratore delegato e dal 2008, non appena è stato fatto il Banco Popolare, sono stato nominato consigliere di gestione. I rapporti tra la Banca che amministro e il Gruppo sono ottimi. Il mio impegno è particolarmente concentrato nel mercato locale; il mio compito è quello di ottimizzare le nostre attività sui territori di riferimento mantenendo un modello di tipo federato e il concetto di una banca locale, efficiente e molto ben radicata, attenta alle esigenze delle piccole e medie aziende e delle famiglie.

D. Cosa vuol dire essere una banca «popolare»?
R. Vuol dire fare banca con una attenzione specifica verso i bisogni delle imprese e delle persone dei territori nei quali siamo sorti e operiamo: è questa la vocazione di una banca popolare, non certo quella di addentrarsi nel mondo della speculazione finanziaria.

D. Quali vantaggi comporta il fatto di far parte di un grande gruppo?
R. Avere alle spalle il Banco Popolare nel coordinamento, nei controlli, nella qualità di prodotti e servizi ci permette di competere con le primarie banche italiane. Di fronte a ciò convivono all’interno del Gruppo banche di piccole e medie dimensioni – quella di Novara ha oltre 400 sportelli, però con alle spalle un grande banco che, per finanza, politiche creditizie, controlli, sistemi informatici, prodotti, efficienza, ufficio estero, li pone alla pari con quelli degli istituti di maggiori dimensioni. Questo modello organizzativo sta dando i propri frutti: quando sono entrato nella Banca Popolare di Novara nel 2000, essa non aveva bilanci eccellenti, mentre oggi gode di un’ottima considerazione. L’obiettivo per le banche di territorio è quello di divenire istituti «di prima chiamata» ed essere considerati partner affidabili nelle scelte quotidiane. L’essere parte integrante di un grande Gruppo popolare con estese capacità tecniche e metodologiche rende inoltre più plausibili le sfide di internazionalizzazione, progettualità e competenza che una banca di medie dimensioni come la Popolare di Novara da sola avrebbe difficoltà ad affrontare. In questo modo possiamo predisporre prodotti più sofisticati, un servizio qualitativamente migliore, servizi esteri efficienti per finanziare esportazioni e importazioni e tutte quelle attività che un cliente più «evoluto» richiede. La holding ci mette a disposizione strumenti, prodotti, competenze e professionalità che ci consentono di seguire quella clientela, anche di non grandi dimensioni, che fa della vocazione all’esportazione il criterio ispiratore della propria attività. Questo è il vantaggio del nostro modello.

D. In che modo intervenite a sostegno del territorio?
R. Come banche popolari abbiamo quale scopo di impiegare una parte dell’utile che produciamo in termini di ricerca, cultura, beneficienza, ricerca scientifica, università e restauro di monumenti: a questo fine abbiamo pertanto creato apposite fondazioni. La nostra fondazione «Banca Popolare di Novara per il territorio» opera dal 2002, con l’obiettivo di contribuire a sostenere interventi e iniziative a favore delle aree in cui è presente la Banca, finanziando centinaia di enti e associazioni con un impegno sempre crescente. La Fondazione persegue la propria attività in assoluta autonomia ed opera nell’area storica in cui è tradizionalmente presente la Banca Popolare di Novara, cioè principalmente in Piemonte, nella Lombardia occidentale e in Liguria, e ci ha consentito di intervenire per aiutare gli stessi territori. Abbiamo sponsorizzato stage universitari, master, progetti di sviluppo economico del territorio, associazioni di imprese. La Fondazione persegue la propria attività in assoluta autonomia e questo ci ha consentito di svolgere un ruolo veramente utile a supporto dei nostri territori, specie in un momento difficile come quello che stiamo vivendo.

D. Il fatto di essere molto radicati nel territorio vi consente di avvertire più facilmente la crisi di certi clienti. In che modo l’avete registrata?
R. Una banca che ha nel Piemonte la propria storia e centro operativo ha sentito la crisi così come l’hanno sentita tutte quelle aziende dei settori della manifattura, del meccanico, dell’industria pesante presenti nella regione. Il Piemonte da qualche anno sta soffrendo, ma vediamo oggi che gli imprenditori che hanno investito in tecnologia e politiche di marketing adeguate stanno tornando a fatturare e a guadagnare più del 2007. Il vero problema è che questo da solo non riesce a supplire al fenomeno di forte deindustrializzazione dei grandi poli esistenti in Piemonte. Di fatto, la crisi si sente ancora molto nelle famiglie e nelle piccole aziende: le famiglie stanno soffrendo per fenomeni di tipo occupazionale e reddituale, le piccole aziende perché il mondo dell’indotto della grande produzione soffre a sua volta; l’artigianato, per esempio, soffre perché è molto legato alla grande produzione pesante. Si vedono forti segnali di ripresa su alcune eccellenze particolarmente inclini all’esportazione – il settore agroalimentare, compresa la produzione del riso, sta andando molto bene – ma il contesto delle piccole aziende, che è votato all’interno e all’indotto della produzione pesante, soffre insieme alle famiglie. Non tutte le imprese possono permettersi di spostare il baricentro all’estero.

D. In che modo uscire dalla crisi?
R. È chiaro che questo non è un momento d’oro del settore bancario. Oggi dobbiamo lavorare bene, stare vicino ai clienti, impegnarci e cercare di farci stimare da un punto di vista professionale, perché un buon rapporto personale è ancora la chiave del successo. Raccogliamo anche colpe di scandali finanziari di «oltreoceano», che hanno minato all’immagine del sistema bancario mondiale in un modo per me esagerato: le banche italiane, come ha sostenuto il governatore Mario Draghi, sono gestite con criteri di attenzione e rigore; quegli scandali ci hanno obbligato a lavorare anche per riportare la tranquillità all’interno del mercato nazionale. Il sistema italiano si è dovuto confrontare con le paure che arrivavano dall’estero per situazioni non tipiche del sistema bancario italiano, e ci siamo trovati a dover ricostruire la fiducia dei clienti, che però noi «popolari» abbiamo sempre mantenuto grazie ad un lavoro costante sulle famiglie e sulle piccole aziende.

D. Lei nota differenze particolari tra il nord e il sud di Italia?
R. La verità è che oggi avere una diversificazione territoriale in zone che non sono a forte vocazione di industria tradizionale è un vantaggio. Filiali a Roma, Napoli, Benevento, Avellino, Salerno, Bari non hanno la stessa vocazione di industria di produzione del Piemonte, ma sono molto più legate ai servizi, al turismo, al settore pubblico, e quindi sono molto più diversificate. Oggi d’altronde soffrono proprio le imprese che si trovano in quelle che erano le capitali della produzione pesante degli ultimi 50 anni, in Piemonte più che nelle altre regioni perché era il polo per eccellenza di questa industria pesante.

D. Il Banco Popolare ha votato un aumento di capitale. Come hanno reagito i soci della Banca Popolare di Novara?
R. Le sottoscrizioni da parte dei nostri soci sono andate molto bene. C’è nel Gruppo una forte prossimità tra i clienti, i territori e la banca. Abbiamo una buona credibilità nelle zone storiche dove operiamo a maglia stretta. Nelle province in cui siamo più radicati abbiamo filiali quasi in ogni Comune, e qui la tradizione e la nostra vicinanza al cliente hanno permesso di riscontrare, al momento di compiere operazioni sul capitale, una grande disponibilità e la volontà del cliente di essere vicini al Banco. La fiducia dei nostri clienti si manifesta proprio in occasione di aumenti di capitale o nella grande partecipazione alle assemblee di bilancio; all’ultima, per esempio, hanno preso parte e hanno dato il loro voto favorevole quasi 10 mila soci. Questo vorrà pur significare qualcosa. (ROMINA CIUFFA)

 

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Luglio/Agosto 2011




SANDRO TREVISANATO: SOGEI, INNOVAZIONE PER LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Società operante nel settore delle tecnologie informatiche appartenente al Ministero dell’Economia e delle Finanze, la Sogei è impegnata da oltre trent’anni a contribuire alla modernizzazione del Paese mettendo a disposizione del settore pubblico il patrimonio di conoscenze e di esperienze tecnologiche, organizzative e fiscali acquisite, ai fini di una maggiore semplificazione delle procedure amministrative e di una più ampia integrazione tra le pubbliche amministrazioni. Anche in ambito internazionale l’azienda svolge un ruolo rilevante per lo sviluppo dell’e-Government e per il superamento del digital divide attraverso la diffusione delle migliori best practice. Già presidente della Sogei dal 2001 al 2006 e rieletto con la stessa carica nel luglio 2008, Sandro Trevisanato è uno dei pochi oggi in grado di descrivere come si è modificato il ruolo della società nei suoi oltre trent’anni di attività. «Nacque nel 1976 con l’obiettivo di realizzare una moderna anagrafe tributaria; di proprietà prima del Gruppo Iri, poi di Telecom Italia; nel 2002 fu acquisita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che ne detiene il 100 per cento, e fino a quel momento l’attività era prevalentemente concentrata nel settore fiscale», ricorda.

Negli anni successivi la Sogei ampliò il proprio raggio d’azione operando dal 2004 nella riorganizzazione e nel rilancio nel settore del gioco pubblico; nel 2005 realizzò il sistema di controllo della spesa sanitaria con l’invio delle tessere sanitarie ai cittadini e gestì il passaggio, in un nuovo sistema elaborativo unitario, dei sistemi di Equitalia dislocati nel territorio nazionale. Un grande impulso innovativo le fu dato dall’Atto di indirizzo emanato dal ministro Giulio Tremonti il 3 settembre 2009, che ne potenziò il ruolo di partner tecnologico dell’Amministrazione finanziaria prevedendone anche lo sviluppo delle attività all’estero.
Coerentemente con le direttive ministeriali e con il piano di e-Gov 2012 diretto ad esportare le migliori procedure realizzate per l’Amministrazione finanziaria italiana, la Sogei intraprese varie iniziative nei Paesi dell’Europa orientale e in quelli di successivo ingresso nell’Unione Europea e del bacino mediterraneo.

«Abbiamo partecipato a numerose gare europee per servizi e gemellaggi amministrativi, tra le quali la gara, vinta in consorzio con l’Agenzia delle Dogane, per verificare l’allineamento agli standard europei di e-Government dei Paesi balcani. Tra le iniziative di sviluppo di progetti internazionali la Sogei si è aggiudicata in Tunisia la gara per l’e-Accessibilitè, che mira a rendere fruibili ai diversamente abili i servizi erogati via web dalla Pubblica Amministrazione tunisina. Ulteriore partecipazione a gare internazionali–precisa Trevisanato–sarà quella per la fornitura di consulenze informatiche dirette a garantire l’armonizzazione dei sistemi informativi fiscali e doganali negli Stati membri e in altri Paesi, gara di prossima pubblicazione da parte della Direzione generale (Taxud) della Commissione Europea».

Un altro progetto di grande interesse per i cittadini, nel quale la Sogei è impegnata, in collaborazione con l’Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, è la carta d’identità elettronica. «Sebbene nato nel 1997, il progetto CIE ha incontrato notevoli difficoltà per una serie di fattori. Il ministro Tremonti, con l’emanazione degli atti di indirizzo di Sogei e del Poligrafico dello Stato, ha voluto dare nuovo impulso alla diffusione di questo progetto strategico per il Paese, rafforzando l’intento di far confluire nella CIE la tessera sanitaria CNS. Tra le due aziende c’è stata subito un’intensa collaborazione con continui scambi di idee, incontri di approfondimento su aspetti tecnico-funzionali, tavoli di lavoro–spiega Trevisanato–. Una sinergia rafforzata dal decreto Sviluppo varato il 5 maggio scorso dal Consiglio dei ministri, grazie al quale progressivamente, secondo le risorse disponibili, saranno unificate in uno stesso supporto la carta d’identità elettronica e la tessera sanitaria».

Grazie al lavoro svolto, non è lontana la realizzazione del progetto e le previsioni indicano un progressivo assorbimento della tessera sanitaria che la Sogei ha promosso e realizzato e che ingloba il codice fiscale. Ma oggi si prospetta un altro consistente impegno per la società in seguito all’approvazione del federalismo fiscale. Così Trevisanato illustra le attività programmate: «La Sogei è impegnata fortemente in questa grande operazione sin da quando è cresciuta l’esigenza di disporre di informazioni comuni per assistere le autonomie locali. La Sogei è punto di riferimento per la centralizzazione dei dati, indispensabile per consentire alle Amministrazioni pubbliche di superare la frammentazione e l’assenza di rapporti strutturati. Ciò consentirà di snellire i processi amministrativi degli enti migliorando i servizi erogati a cittadini e imprese».

Il progetto prevede la creazione di un nucleo di banche-dati centrali presso le strutture dell’Anagrafe tributaria, che conterranno le informazioni comuni a tutti i soggetti istituzionali coinvolti; una soluzione ideata per rafforzare l’azione dei Comuni nel contrasto all’evasione fiscale, in alternativa all’aumento della pressione del Fisco. La costituzione delle attuali banche-dati integrate presuppone come prioritario il loro carattere di bidirezionalità. Un sistema integrato, quindi, composto da un insieme di informazioni, alcune disponibili esclusivamente per i loro titolari, altre per tutti i soggetti della fiscalità allargata.

«Disporre di un quadro informativo completo consente lo sviluppo di servizi statistici in grado di descrivere in dettaglio la realtà sociale ed economica; il salto di qualità è rappresentato dalla possibilità di disporre di strumenti che consentano di formulare una previsione del gettito tributario attraverso l’uso di modelli in grado di descrivere le dinamiche e i comportamenti delle variabili che incidono su di esso. È evidente–continua Trevisanato–come la disponibilità di tali strumenti sia di particolare importanza per gli enti territoriali meno evoluti, tendenzialmente medio-piccoli e non dotati di risorse finanziarie per realizzare specifici strumenti informatici in grado di elaborare, organizzare e interpretare le ingenti moli di dati fornite dall’Amministrazione finanziaria».

Per assistere le Amministrazioni locali nel settore fiscale, la Sogei ha elaborato soluzioni d’avanguardia come la possibilità di accesso personalizzato alle informazioni sulla fiscalità immobiliare a livello comunale, e la realizzazione dell’area riservata del sito per la gestione della fiscalità locale e per l’aggiornamento della banca dati dell’ICI. Trevisanato si dice convinto che, operando in collaborazione con l’Amministrazione fiscale e gli enti locali, la Sogei potrà fornire anche ai Comuni un contributo per il nuovo compito istituzionale che sono chiamati a svolgere.

«Ad esempio, collaboriamo con l’Agenzia del Territorio fornendo prodotti che consentono ai Comuni di operare correttamente, rapidamente ed economicamente nell’individuazione degli immobili fantasma, con il risultato di entrate fiscali aggiuntive–aggiunge Trevisanato–. Come già affermato, dal 2004 Sogei assiste l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato nella gestione e nel controllo del settore dei giochi. L’azienda, inoltre, gestisce il patrimonio informativo dell’anagrafe tributaria ed è collegata con i Comuni italiani registrando nascite, decessi nonché l’evoluzione anagrafica di tutti i cittadini. Ricordo che quando fu creata la tessera sanitaria, accertammo che permanevano nei registri delle Asl, non collegate tra loro, e di conseguenza nelle liste dei medici, i dati di decine di migliaia di persone defunte per le quali lo Stato continuava a pagare il contributo sanitario. In sostanza l’operazione tessera sanitaria si è autofinanziata tenendo conto solo della bonifica dei dati».

Nelle scorse settimane l’Assemblea degli azionisti ha approvato il bilancio societario relativo all’esercizio 2010. I risultati hanno registrato una crescita rispetto al 2009 e agli obiettivi fissati nel budget 2010. Anche quest’anno la maggiore efficienza realizzata dalla società ha permesso di raggiungere l’obiettivo primario, quello di erogare sempre maggiori servizi nonostante la costante riduzione delle tariffe applicate dalla Sogei ai propri clienti istituzionali. Il valore della produzione si è attestato sui 366 milioni di euro, corrispondenti a un incremento del 15 per cento rispetto al 2009, con un miglioramento del 32 per cento rispetto all’anno precedente sia nelle prestazioni professionali che nelle forniture di beni e servizi.

In che modo sono stati raggiunti tali positivi risultati? «Grazie ad un sensibile incremento della produttività delle risorse umane e, soprattutto, a un aumento della capacità produttiva complessiva, aumento meno che proporzionale rispetto alla crescita dei ricavi registrata nell’esercizio–spiega Trevisanato–. L’esercizio 2010 è stato anche caratterizzato dalla realizzazione di investimenti relativi alle infrastrutture impiantistiche e alla sicurezza per un ammontare pari a 18 milioni di euro; vista la grande importanza che la società attribuisce alla valorizzazione delle competenze interne, vanno inoltre sottolineati gli investimenti riguardanti il personale, che costituisce il patrimonio primario della Sogei. Nel 2010, infatti, sono proseguite le attività formative, già avviate nel 2009, con l’erogazione di circa 5.600 giornate di formazione e il conseguimento di oltre 70 certificazioni professionali, ritenute ‘distintive’ su metodi gestionali, processi produttivi, prodotti, tecnologie e linguaggi di programmazione».

Una giustificata domanda che si pone il cittadino riguarda il vantaggio che lo Stato trae dalla crescita della Sogei. La risposta dei vertici dell’azienda è semplice: con minori costi, la società fornisce più servizi. Risponde in proposito Trevisanato: «Entrai in azienda nel dicembre 2001, quando l’azionista era ancora Telecom Italia e costava allo Stato quasi mille miliardi di lire e in quel periodo si occupava solo di fiscalità; oggi la Sogei costituisce un costo di 360 milioni di euro e, oltre a mantenere le competenze nel settore della fiscalità, elabora i dati dei settori giochi, sanità ed Equitalia, si occupa della tenuta di conti correnti e svolge servizi aggiuntivi, il tutto a minori costi. E ciò è avvenuto in una società che dal settore privato è passata a quello pubblico». 

Ma quali potranno essere i suoi sviluppi futuri? «Il 2011 è un altro anno che vede questa azienda protagonista quale fornitrice di servizi informatici d’eccellenza all’Amministrazione Pubblica. La Sogei è impegnata nel proseguimento di tutte le azioni dirette al rinnovamento tecnologico avviate nel 2010 e nel miglioramento dei servizi erogati. I settori tecnologici di interesse, la ‘service oriented architecture’ e l’integrazione dei dati. Il completamento delle iniziative già avviate in tema di virtualizzazione dei server di gestione dinamica delle infrastrutture elaborative le consentirà di modulare la propria offerta di servizi informativi in una logica di ‘private cloud’. Confrontarsi su questi temi è indispensabile per far evolvere i sistemi informatici, in modo da facilitare alle strutture organizzative dell’Amministrazione finanziaria il perseguimento dei propri obiettivi, e per continuare a garantire un miglioramento costante in presenza di elevati volumi di servizi da erogare con continuità e, soprattutto, con un alto livello di affidabilità».

Un interrogativo da porsi verte su come essa garantisce la sicurezza e la riservatezza dei dati di tutti cittadini e delle istituzioni che custodisce. È il cuore informatico dell’Amministrazione fiscale e finanziaria, costituito da un insieme di banche dati tra le più vaste del mondo, almeno tra quelle pubbliche, spiega Trevisanato. I dati custoditi controllano le situazioni di cittadini, società, immobili, conti correnti, dichiarazioni fiscali e Iva, gestite nell’assoluta tutela della riservatezza. L’obiettivo della sicurezza è al centro dei continui interventi migliorativi apportati all’azienda. È necessario, infatti, che sia tutelato anche fisicamente l’ambiente in cui vengono conservati i dati.

Per garantire ulteriormente l’integrità delle banche-dati la società dispone di un sito di «disaster recovery», ossia un luogo distinto nel quale è contenuta una duplicazione dei dati stessi. L’azienda è impegnata a predisporre la sicurezza totale dei sistemi di trasmissione e conservazione dei dati, che circolano su canali protetti e sono conservati su supporti che ne garantiscono l’assoluta impenetrabilità. Vengono controllati con molta cura tutti gli accessi al sistema informativo ed è garantita per alcuni anni la tracciabilità di ciascuno di essi.

«Il capitale umano è la ricchezza della Sogei, nella quale lavorano circa 1.800 dipendenti, in gran parte tecnici e molti di essi laureati. Gli impiegati hanno un notevole livello di capacità e ne vengono curati di continuo l’evoluzione e l’aggiornamento sotto il profilo professionale; rilevanti risorse finanziarie sono destinate alla ricerca e allo sviluppo in collaborazione con qualificati istituti fra cui il Consiglio Nazionale delle Ricerche e con varie Università».         (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Giugno 2011




UMBERTO PASQUA: CON IL NOSTRO VINO ABBIAMO FATTO CRESCERE TRE GENERAZIONI

Sono nate e cresciute moltissime generazioni di uve e specificamente tre generazioni nella famiglia Pasqua da quando, nel 1925, i fratelli Pasqua – Natale, Riccardo, Umberto e Nicola – fondarono l’azienda di vigneti e cantine che porta il loro nome, oggi guidata dalla seconda generazione, i fratelli Carlo e Giorgio che della società sono gli amministratori delegati, e Umberto che ne è il presidente, affiancati dalla terza generazione, quella di Carlotta, Riccardo e Giovanni. Umberto Pasqua, laureato in Economia e Commercio nell’Università di Verona, ha ricoperto prima d’ora una serie di incarichi – amministratore delegato dell’Immobiliare Fratelli Pasqua, vicepresidente del Golf Club di Verona, consigliere nazionale della Federazione Italia Golf – e, per la società per azioni Pasqua Vigneti e Cantine, è stato responsabile commerciale e del marketing dell’azienda, amministratore delegato e, dal 2008, presidente.

Domanda. Com’è nata e in quale zona opera l’azienda Pasqua?
Risposta. Fondata a Verona nel 1925, oggi la struttura viene gestita da me e dai miei fratelli Carlo e Giorgio, mentre è già in campo la terza generazione. Nel 1980 abbiamo investito in vini di alta qualità e costituito la «Cecilia Beretta», un’azienda agricola nella zona della Valpolicella; poiché i nostri genitori sono originari della Puglia, nel 2000 abbiamo creato anche un’azienda agricola a Surano. Nel giugno del 2007 abbiamo poi trasferito la prima nella moderna sede di San Felice Extra, nel cuore dei vigneti di proprietà in zona Valpantena, a nord est di Verona.

D. In che modo la terza generazione Pasqua prende parte alle attività della famiglia?
R. Carlotta, figlia di Carlo, si occupa delle relazioni esterne. Giovanni, nipote di Natale, giovane enologo, collabora nel controllo e segue la parte tecnica; mio figlio Riccardo cura il progetto avente per oggetto gli Stati Uniti e il Canada, e più in generale l’espansione dell’azienda all’estero. Questi giovani della terza generazione stanno maturando l’esperienza necessaria per assicurare un futuro e una continuità all’azienda in un continuo scambio di idee, di proposte e di decisioni fra di noi.

D. Che dimensioni ha l’azienda?
R. Gli stabilimenti occupano una superficie di circa 19 mila metri quadrati, e sono progettati secondo le più moderne tecnologie. Abbiamo la proprietà di circa 200 ettari di vigneti e ne controlliamo mille; produciamo principalmente vini veronesi quali Valpolicella, Amarone, Soave, Bardolino, per i quali riscontriamo un grande interesse da parte del mercato. Costruita con materiali provenienti dalla Valpolicella, la cantina si sviluppa all’interno di un’area complessiva di 70 mila metri quadrati, con serbatoi in acciaio della capienza di 60 mila ettolitri e di 3 mila ettolitri di fermentini. La cantina sotterranea si estende per 3 mila metri quadrati in due livelli ed è destinata ai processi di affinamento in legno e in bottiglia.

D. In che modo rendete il vostro prodotto riconoscibile rispetto alle molteplici marche di vini che si trovano in circolazione?
R. Siamo convinti che il valore di un’azienda sia il suo stesso marchio, e ci impegniamo a farlo conoscere ed affermare in misura sempre maggiore. Qualunque ipermercato espone migliaia di etichette e risulta difficile che il consumatore scelga, per un caso, proprio il nostro vino. Per questo crediamo nell’innovazione, anche se nel nostro ambito non è semplice inventare cose nuove. Abbiamo creato un nuovo tipo di vino da uve Corvina e Cabernet, un Ruffiano che abbiamo chiamato Appassimento. I vini appassiti provengono da uve messe a riposo in apposite cassette di legno quindi vinificate più avanti nel tempo e che, solo per ciò, esprimono caratteristiche ben decise del luogo di origine e del prodotto come lo intendiamo.

D. Il prezzo influisce sulla scelta dei consumatori?
R. È necessaria molta determinazione in un mercato in cui c’è una grandissima competizione e in troppi usano la leva del prezzo. Ma un prezzo inferiore non è la soluzione dei problemi, perché finisce per far venire meno la strategia alla base. Per aumentare il valore bisogna aumentare la qualità; nel vino le quote di mercato sono tutte molto basse, non c’è una specifica azienda dominante, bisogna concentrarsi in certi segmenti e in determinate tipologie e non limitarsi ad attrarre clienti semplicemente abbassando i prezzi.

D. In che modo attuate l’innovazione all’interno dell’azienda?
R. Un esempio è il «packaging», ossia l’applicazione di etichette moderne, eleganti e distintive per qualsiasi tipo di vino. Nel 2007, in seguito ad un ampio progetto di ricerca e di marketing, abbiamo sviluppato il vino «Le Soraie» e le nuove linee «Le Collezioni» e «Villa Borghetti». Abbiamo aggiornato il marchio Pasqua infondendogli un carattere più moderno, arricchito dal motto «A family passion» che riassume la filosofia aziendale.

D. Qual’è la fascia di consumatori alla quale vi rivolgete?
R. L’azienda agricola Cecilia Beretta appartiene a una fascia alta, quindi si rivolge molto alla ristorazione e alle enoteche. Essa produce circa 200 mila bottiglie l’anno di vini veronesi di alto pregio, primo fra tutti l’Amarone Terre di Cariano, premiato con i Tre Bicchieri dalla rivista Gambero Rosso. Particolare importanza rivestono i vini Amarone, Valpolicella, Valpolicella Ripasso, Bardolino e Soave. Le ultime novità sono nate nel segno dell’innovazione e della sperimentazione, come i tre vini a indicazione geografica tipica prodotti con uve appassite Picaie Rosso, Picaie Bianco e Le Soraie. Il primo è molto richiesto; si tratta di un rosso composto da uve Corvina, Cabernet, Sauvignon e Merlot. Per il Picaie si appendono i grappoli nelle soffitte nelle case di campagna, dove i contadini lasciavano l’uva ad appassire fino a dicembre. L’uva è selezionata e viene vinificata dopo 3 mesi. La linea Villa Borghetti, che prende il nome della proprietà in Valpolicella, rappresenta una selezione dei vini veronesi più rappresentativi. Il portafoglio include anche il Pinot Grigio, lo Chardonnay, il Cabernet Sauvignon delle Venezie e, nell’ambito del Progetto Mezzogiorno, vini pugliesi quali il Primitivo e il Fiano, e siciliani come l’Insolia e il Nero D’Avola.

D. Come sono distribuiti i prodotti della vostra azienda?
R. La nostra produzione è destinata per il 65 per cento nei mercati esteri; distribuiamo i nostri prodotti in circa 50 Paesi, abbiamo un importatore in ogni Paese e a volte due, quando sono distribuiti sia vini della cantina Pasqua che quelli della Cecilia Beretta; nel mercato interno operiamo molto con la grande distribuzione, mentre i più grandi gruppi commerciali sono seguiti direttamente dal personale dell’azienda; nelle città maggiori abbiamo fino a dieci agenti. Cerchiamo di avere una distribuzione controllata il più possibile da noi; mio figlio si occupa direttamente dei mercati americani dei quali, nonostante la crisi, gli Usa e il Canada si stanno riprendendo bene. Stiamo esaminando l’ipotesi di investire anche nell’area asiatica.

D. A proposito di estero, dove si vende meglio il vino Pasqua?
R. I mercati esteri costituiscono le nostre priorità e alcuni di essi hanno ancora spazi di crescita, come quelli americano e asiatico. Ma non tralasciamo i mercati del Nord Europa, che hanno tenuto meglio degli altri nei momenti di crisi. In quest’area registriamo soddisfacenti risultati in Svezia, Danimarca, Norvegia, Germania, mercato questo storicamente molto positivo; quindi Olanda e Belgio. La Francia sembra un’area difficile, ma richiede solo un distributore che abbia voglia di crescere con noi. Operiamo bene anche in Russia, Australia, Nuova Zelanda, Giappone.

D. C’è una diversificazione per il mercato estero?
R. Fondamentalmente offriamo lo stesso prodotto presentandolo anche nello stesso modo. Puntiamo a ridurre il numero di referenze e a razionalizzare tutti i costi di produzione. Nelle produzioni di piccole quantità la diversificazione non ha senso, perché genera solo dispersioni anche per quanto riguarda le fasi di lavorazione diverse dalla produzione, quali l’etichettatura, l’imballaggio, la spedizione.

D. I disciplinari italiani sono stati molto criticati in quanto troppo rigidi. Lei cosa pensa?
R. Alcuni sono stati fatti bene, altri meno. È giusto regolamentare la produzione, deve esserci un controllo rigido ed efficace affinché la produzione non sia eccessiva e sia salvaguardata nello stesso tempo la qualità. Oggi non è più come una volta, quando i contadini non concepivano il sistema di diradare i grappoli poiché volevano produrre il più possibile; oggi per ottenere alti livelli di qualità occorre che la produzione non sia troppo elevata e scegliere se la cantina deve puntare alla quantità o alla qualità.

D. In relazione all’etichettatura in atto nell’Unione Europea, si è parlato di cannibalismo da parte dei vini di qualità inferiore in danno di quelli superiori. Qual è il suo pensiero?
R. È chiaro che si emana una certa regolamentazione per evitare che sia ingannato il consumatore, il quale va rispettato poiché è il nostro «datore di lavoro» e ha diritto ad ottenere informazioni corrette e trasparenti. Talvolta si può parlare di cannibalismo, in alcuni casi questo accade ma in altri si rispettano le norme e le etichette sono realizzate nel modo corretto.

D. In che misura la crisi ha influito sul modo di bere e di scegliere, fra i tanti, un prodotto di qualità?
R. I vini di qualità vendono sempre. C’è stata forse una riduzione del prezzo, ma ciò dipende anche da dove il prodotto viene venduto: se si tratta della grande distribuzione che offre molti vini di qualità elevata e di gran pregio, oltreché molto costosi, il target rimane pressoché invariato, in quanto il loro prezzo continua a limitare il numero dei consumatori, che sono orientati su fasce inferiori. Ma per l’esattezza, una certa sofferenza si è registrata nel comparto dell’alta ristorazione, che ha rallentato la vendita di determinate bottiglie. In alcuni casi in Italia il consumo di champagne ha avuto un calo considerevole, ed è stato sostituito anche dal prosecco: sembra un assurdo, ma la «bollicina» è comunque gradita. Diciamo che una corretta fascia di qualità e di prezzo è sempre richiesta, ma è determinante il marchio. Altrimenti cala la domanda e si instaura una guerra dei poveri sul prezzo, che ottiene solo il risultato di peggiorare la situazione.

D. Sulle scelte dei vini da parte dei consumatori influisce la concorrenza tra le case vinicole o prevalgono le scelte personali?
R. È chiaro che la competizione c’è sempre stata e continuerà ad esservi, per cui bisogna essere più bravi degli altri e tenere sotto controllo i costi rilevanti della distribuzione. È necessario confezionare il prodotto a un costo giusto per avere un margine, sebbene spesso ci si scontri con concorrenti che riducono i prezzi in misura eccessiva. Queste iniziative, che non giovano a nessuno, non sono causate solo dalla crisi economica, ma innanzitutto dalla mentalità. Anche prima di quest’ultima crisi economica esistevano questi metodi distorsivi delle vendite. Crescere, investire tutti i giorni sul marchio, farsi conoscere costa molto, per ottenere risultati sensibili da una campagna promozionale occorrono anni, ma è la strada che abbiamo deciso di percorrere.

D. La vostra azienda ha celebrato i 150 anni dell’Unità di Italia in qualche modo particolare?
R. Come abbiamo creato una bottiglia celebrativa per i nostri 85 anni, così per quest’occasione abbiamo selezionato un’edizione limitata di 150 bottiglie di Amarone dall’annata 2007, con un’etichetta tricolore in cui compaiono il volto di Giuseppe Garibaldi e le date 1861-2011. Proprio queste terre vocate al vino nella seconda metà del 1800 furono teatro delle battaglie che nella terza Guerra d’indipendenza permisero al Veneto di unirsi all’Italia. Le bottiglie sono state poste in distribuzione in enoteca e rese disponibili per i collezionisti anche attraverso il nostro sito.

D. Quali altre iniziative avete ideato e collegate con il vino?
R. Innanzitutto abbiamo puntato su una «democratizzazione» di questo prodotto con lo scopo di mettere alla portata di tutti l’enogastronomia di alta qualità made in Italy. È nato così il «Pasqua Star Taste Master», corso di degustazione svolto congiuntamente a una campagna sociale nel quale esperti della cucina e del vino si incontrano con i giocatori della squadra di calcio del Milan per sostenere il buon cibo e il buon bere. Abbiamo creato il «Wine Dating», gioco-aperitivo che punta alla sensibilizzazione dei cinque sensi per avvicinare il mondo dell’enologia ai giovani in modo responsabile e corretto, usando la linea ad hoc Setteventiquattro. Inoltre dallo scorso dicembre la nostra azienda è stata protagonista del primo «Wine e shopping outlet store» italiano, nel quale il vino incontra lo shopping, l’arte e il design comunicando il concetto di «gusto accessibile» attraverso l’accostamento del mondo dell’alta enologia e del bere consapevole a luoghi commerciali apparentemente diversi e lontani.

D. Qual è tra i vostri marchi quello più ricercato dai vostri clienti?
R. I marchi più ricercati sono l’Amarone della linea Cecilia Beretta e l’Amarone della Villa Borghetti, mentre i più venduti, oltre all’Amarone, sono il Ripasso, il Prosecco, il Valpolicella e il Pinot Grigio. Cerchiamo di concentrarci in un settore determinato: riteniamo che sia inutile offrire tanti marchi per poi limitarne la produzione; preferiamo produrre un quantitativo tale che abbia un senso.     (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Maggio 2011

 




DIANA BRACCO: DAL CEBION ALLA DIAGNOSTICA PER IMMAGINI ALLA CONQUISTA DEL MONDO

Chi non ha preso un Cebion? Nel 1934 fu Elio Bracco a metterlo in commercio. Solo 7 anni prima aveva fondato a Milano la società italiana prodotti E. Merck che nel 1930 prendeva il nome di Italmerck, quindi, nel 1936, di Anonima Bracco. Risale al 1931 il primo stabilimento, e solo quattro anni più tardi i dipendenti salgono a 82 dagli iniziali 17, così divisi: 41 operai di cui 30 donne, 26 impiegati, 12 tra chimici, tecnici, medici e 3 dirigenti. La storia della famiglia Bracco si intreccia con la storia dell’industria chimica italiana, e non si arresta né per la seconda guerra mondiale né per la crisi delle aziende farmaceutiche degli anni Settanta, una crisi che Bracco supera investendo con lungimiranza in ricerca e sviluppo e, poi, con un ambizioso piano di internazionalizzazione basato anche su acquisizioni rilevanti come quella della società Squibb Diagnostics negli Stati Uniti.

Oggi il Gruppo Bracco, che in Italia ha grandi insediamenti industriali e un Centro di Ricerca e Sviluppo a Colleretto Giacosa, in provincia di Ivrea, occupa circa 2.800 dipendenti e nel 2010 ha realizzato un fatturato di oltre un miliardo di euro, di cui più del 70 per cento nei mercati esteri. L’azienda possiede un patrimonio di 1.500 brevetti e investe annualmente in ricerca e sviluppo oltre l’11 per cento del giro d’affari di riferimento. Attualmente il Gruppo opera nei settori della diagnostica e della strumentazione tramite la Bracco Imaging, e l’Acist, azienda specializzata nei dispositivi medicali e nei sistemi avanzati di somministrazione di mezzi di contrasto. Nella terapeutica e nei servizi, invece la società è presente in Italia con la Divisione Farma, che si occupa di specialità etiche e prodotti da banco, e con il Centro Diagnostico Italiano di Milano, che fornisce prestazioni specialistiche a cittadini e imprese.

Presidente e amministratore delegato del Gruppo è Diana Bracco, che è subentrata al padre Fulvio. «Dopo il Liceo, la scelta della Facoltà non fu per me un passo facile: perché ero affascinata dalla professione medica, ma la chimica e l’impresa avevano fatto parte della mia vita sin dall’infanzia», racconta la Bracco che è laureata in Chimica nell’Università di Pavia e ha due lauree honoris causa in Farmacia e in Medicina. «Alla fine scelsi la chimica, e a distanza di tanti anni posso dire che quella decisione si è rivelata felice, perché mi ha dato un grande aiuto lungo tutto il corso della mia carriera imprenditoriale, e in particolare si è rivelata utile per comprendere i processi industriali».

Seguendo le tradizioni familiari, Diana Bracco ha ricoperto numerosi incarichi all’interno della Confindustria: è stata presidente della Federchimica, è stata la prima donna a guidare l’Assolombarda, la potente associazione degli industriali milanesi, e dal 2008 è presidente del Progetto speciale «Ricerca&Innovazione ed Expo 2015» della stessa Confindustria. È anche vicepresidente della Camera di Commercio di Milano, presidente dell’Expo 2015 e membro dei consigli di amministrazione dell’Università Bocconi di Milano e del Sole 24 Ore. Impegnata sul fronte della responsabilità sociale d’impresa, Diana Bracco è presidente della Fondazione Sodalitas per lo sviluppo dell’imprenditoria nel settore sociale e, dal 2010, della nuova Fondazione Bracco.

Domanda. La sua è un’azienda familiare pur essendo ormai una multinazionale: cosa comporta questo?
Risposta. Mi sento di dire che le imprese familiari sono dotate di una linfa vitale che dà loro un valore aggiunto: l’anima. Tutte le imprese familiari si fondano sulla volontà di un imprenditore di costruire qualcosa che rimanga nel tempo: un progetto di vita al quale ogni generazione apporta un nuovo tassello: mio nonno capì le potenzialità del mercato; mio padre ha avuto il merito di puntare sulla ricerca e di realizzare un’industria integrata, creando nuovi stabilimenti produttivi; io ho creduto con forza nell’innovazione e nell’internazionalizzazione del Gruppo.

D. Come è cominciata la vostra avventura imprenditoriale?
R. Tutto cominciò con la farmaceutica nel 1927, quando mio nonno divenne rappresentante commerciale della Merck tedesca. Ancora oggi nel nostro catalogo sono presenti sia specialità etiche, cioè prescrivibili unicamente dal medico, mirate a una selezionata gamma di patologie gastrointestinali, neurologiche, endocrinologiche e cardiovascolari, con farmaci a marchio proprio o su licenza; sia prodotti da banco, i cosiddetti Otc, acronimo inglese per «over the counter», cioè farmaci acquistabili senza prescrizione medica, e altre specialità come integratori alimentari, nutraceutici e cosmetici reperibili in farmacia. Tra il grande pubblico ancora oggi siamo conosciuti grazie ai prodotti che hanno fatto la storia dell’automedicazione in Italia: Cebion, Xamamina, Euclorina, Collirio Alfa e a nutraceutici come il Cebion Defend e il Friliver.

D. La Bracco deve però il proprio sviluppo alle tecniche di «imaging». A cosa serve la procedura diagnostica, che costituisce oggi la vostra principale attività?
R. La diagnostica per immagini svolge un ruolo cruciale nel migliorare il benessere delle persone e serve non solo alla prevenzione, ma anche al monitoraggio e alla cura di moltissime patologie. Nel 1962 la Bracco brevettava il suo primo mezzo di contrasto per urografia e angiografia, la iodamide: senza la generazione dei mezzi di contrasto cosiddetti «non ionici» o «a bassa osmolarità» pronti all’uso, di cui lo iopamidolo è imbattuto capostipite, non si sarebbero potute realizzare eilevanti evoluzioni nell’ambito della radiologia diagnostica e interventistica. La possibilità di iniettare composti così sicuri e ben tollerati a bolo rapido senza alti rischi per il paziente ha consentito lo sviluppo e la diffusione di tecniche come l’angiografia digitale per via venosa e lo studio dinamico degli organi parenchimali con tomografia computerizzata.

D. In che modo vi distinguete tra le altre aziende nel panorama mondiale della diagnostica?
R. Oggi la Bracco Imaging offre un ampio portafoglio di prodotti e soluzioni per tutte le modalità diagnostiche: la tomografia computerizzata, l’angiografia e l’angio-cardiografia, la risonanza magnetica, gli ultrasuoni, la medicina nucleare. L’offerta Bracco nei mezzi di contrasto è integrata dalle strumentazioni e dalle soluzioni per la diagnostica realizzate dall’Acist, società statunitense controllata dal Gruppo, la quale progetta e produce sistemi avanzati di iniezione che comprendono soluzioni utili nei settori della cardiologia e della radiologia tramite cateterizzazione, risonanza magnetica e tomografia computerizzata, con sistemi avanzati per la sicurezza del paziente.

D. Come siete riusciti a rendere internazionale il Gruppo?
R. Non avremmo potuto conquistare i mercati di tutto il mondo senza prodotti innovativi, frutto di una costante attività di ricerca che costituisce il vero filo conduttore di oltre 80 anni della nostra storia aziendale. Oggi operiamo in 90 Paesi direttamente o indirettamente tramite società affiliate, joint venture, accordi di partnership, di distribuzione e licenza. La prima tappa del nostro processo d’internazionalizzazione, fu negli anni Settanta, l’entrata negli Stati Uniti, che costituiscono la vera frontiera dell’innovazione e creano opportunità di conoscenza in ogni campo. Attualmente nel continente nord-americano abbiamo circa un terzo dei nostri collaboratori e la centrale mondiale della ricerca clinica, ossia il cuore della valutazione dei prodotti, che si confronta con la Fda, Food and Drugs Administration.

D. Quando siete arrivati anche negli altri Paesi?
R. La società ha consolidato la propria presenza in tutta Europa sia tramite società controllate appartenenti al Gruppo, come nel caso di Svizzera, Germania, Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Benelux, Austria e Paesi Scandinavi, sia tramite accordi di distribuzione indiretta. A Ginevra, tra l’altro, è attivo uno dei principali centri di Ricerca e Sviluppo della Bracco Imaging. In Giappone siamo presenti con la Bracco Eisai, una joint venture da noi controllata al 51 per cento, che si dedica allo sviluppo e alla produzione di mezzi di contrasto. In Cina, invece, siamo giunti dalla fine degli anni Novanta e dal 2002 abbiamo dato vita alla joint venture Bracco Sine Pharmaceutical, società per la produzione e la distribuzione di mezzi di contrasto, che controlliamo al 70 per cento. Negli ultimi anni la Cina ha compiuto impressionanti progressi in ambito diagnostico, soprattutto nelle grandi città i cui ospedali hanno raggiunto livelli scientifici di livello mondiale con ampio uso di apparecchiature e tecnologie innovative. Questo processo sta ora raggiungendo anche le aree rurali e costiere, che finora erano invece meno coinvolte nel cambiamento.

D. Quali sono state le ultime tappe del processo di ampliamento della vostra presenza sui mercati mondiali?
R. Sono state la creazione di filiali in Brasile e nella Corea del Sud attuata nel 2009, e l’acquisizione di un’azienda operante nei Paesi Scandinavi e Baltici nel 2010. Siamo molto interessati anche al Messico, alla Colombia e all’Argentina, dove abbiamo sottoscritto accordi di distribuzione locali. Tutto ciò fa del Gruppo Bracco una delle società italiane a maggiore vocazione internazionale, con una quota del 30 per cento del mercato mondiale delle procedure con mezzi di contrasto per radiologia, un dato, questo, che rappresenta grande motivo d’orgoglio per un’azienda familiare italiana e, credo, per l’intero Paese.

D. Lei da sempre presta molta attenzione alla responsabilità sociale d’impresa e presiede la Fondazione Bracco e la Fondazione Sodalitas. Perché per un’impresa oggi è rilevante impegnarsi nella comunità in cui opera?
R. Per me non c’è cultura d’impresa senza responsabilità verso la persona, prima di tutto. Poi, responsabilità verso la comunità, che è insieme responsabilità verso il contesto sociale, economico e territoriale in cui l’impresa opera, e responsabilità verso le generazioni future. La mia storia personale e il mio impegno alla guida della Fondazione Sodalitas lo testimoniano.

D. La Fondazione Bracco è nata da poco più di un anno: quali sono i suoi obiettivi?
R. Affonda le proprie radici nel patrimonio di valori della famiglia Bracco e vuole tramandarli alle generazioni future. La Fondazione si propone di valorizzare il patrimonio culturale, storico e artistico nazionale, sviluppare la sensibilità ambientale, promuovere la ricerca scientifica e la tutela della salute, favorire l’educazione, l’istruzione e la formazione professionale dei giovani, attuare iniziative di carattere assistenziale e solidale per contribuire al benessere della collettività, prestando un’attenzione particolare alla «gender question», ovvero ai problemi femminili nei vari ambiti di attività.

D. Oltre a essere un’imprenditrice, lei è anche una mecenate. Quali progetti culturali ha sostenuto la Fondazione Bracco?
R. Ne cito soltanto due, uno internazionale e l’altro italiano. A Washington abbiamo sostenuto la National Gallery of Art nella realizzazione della mostra sui vedutisti veneziani intitolata «Venezia: Canaletto e i suoi rivali», in corso fino al 30 maggio. In Italia la Fondazione Bracco ha contribuito al restauro della Sala degli Ambasciatori nel Quirinale. Eseguita dalla Soprintendenza storico-artistica per il Polo Museale di Roma d’intesa con il Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, l’iniziativa per noi rappresenta un’occasione storica: è la prima volta, infatti, che un soggetto privato ha l’opportunità di essere partner della Presidenza della Repubblica. L’obiettivo del restauro è riportare all’aspetto originario la Galleria di Papa Alessandro VII Chigi. Le operazioni restituiranno a questa – una delle più belle pagine del barocco romano – la decorazione pittorica originale delle pareti e la luminosità grazie all’apertura delle finestre sul Cortile d’Onore, murate su ordine di Napoleone nel 1811. Un modo per riappropriarci di un pezzo significativo della nostra storia, proprio nell’anno in cui si celebrano i 150 anni dell’Unità d’Italia.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Maggio 2011




ERTHARIN COUSIN: ONU, INSIEME A OBAMA PIANTIAMO SEMI PER SFAMARE IL MONDO

Ambasciator non porta pena, è detto. Ma una pena ce l’ha Ertharin Cousin, rappresentante permanente degli Stati Uniti presso le Agenzie dell’Onu: la fame nel mondo. Il World Food Programme, in italiano Programma Alimentare Mondiale, è stato istituito nel 1963 con sede in Italia, a Roma, e costituisce il braccio operativo del sistema delle Nazioni Unite per gli aiuti alimentari. Tra gli obiettivi di sviluppo del millennio che le Nazioni Unite si sono prefissate di raggiungere entro il 2015, dimezzare la percentuale della popolazione colpita dalla fame nel mondo è diventato prioritario e per raggiungerlo l’ambasciatrice è giunta a Roma, inviata personalmente da un suo vicino di casa: Barack Obama. Lui stesso le chiese, durante un party natalizio tra amici, di portarlo alla presidenza.

Domanda. Sembra che da sempre sapesse dove dirigere le sue energie. Qual è stato il filo conduttore della sua vita?
Risposta. Ho iniziato con naturalezza la carriera forense, che ho proseguito per 30 anni, una decisione mossa da un unico desiderio: quello di aiutare gli altri. Mio padre era un attivista operante per i diritti civili nella nostra comunità a Chicago, nel West Side, mia madre un’operatrice sociale. Ci hanno cresciuti insegnandoci l’impegno per la comunità, così fu per me molto naturale decidere di divenire un avvocato. Cominciai a Chicago, praticando il Community Law e occupandomi soprattutto di violenze domestiche e di problemi tipici di uno stato di povertà. Il passo successivo fu l’Onu, mi occupavo non dell’organizzazione bensì dei singoli membri. Era il 1983 quando Chicago elesse per la prima volta un sindaco afroamericano, Harold Washington, un momento di assoluta importanza per la storia della nostra città. Avevo lavorato per la sua campagna elettorale, e mi occupai di quella di Jesse Jackson nelle elezioni presidenziali statunitensi del 1984. In quelle occasioni ebbi modo di ampliare i miei orizzonti e ottenni l’opportunità di occuparmi di altre campagne e di divenire direttore degli uffici regionali del Segretario generale dello Stato dell’Illinois e direttore del Chicago Ethics Board. Quindi mi avvicinai al settore privato, nel ruolo di qualità di direttore degli Affari governativi per la compagnia telefonica AT&T. In quel periodo Bill Clinton si candidava alle presidenziali, vincendole, e mi fu richiesto di lavorare per il suo team, così mi trasferii a Washington; avevo studiato International Law and Policies con l’ex Segretario di Stato Dean Rusk ma, devota al lavoro di comunità, non avevo mai pensato che avrei potuto usare tali competenze allo stesso fine. Mi sentii molto onorata quando la Casa Bianca mi chiese di lavorare per il Ministero degli Esteri.

D. È rimasta per molto tempo alla Casa Bianca?
R. Ho seguito le attività di Hillary Clinton in Cina, per la Conferenza sulle donne, per poi occuparmi nel 1996 delle operazioni per la campagna presidenziale Clinton-Gore. Dopo la vittoria fui nominata vicepresidente degli Affari governativi, comunitari e politici, ma soprattutto, dal 1997 ho lavorato per il Board for International Food and Agricultural Development, ente che assiste i progetti agricoli dell’Agenzia per lo Sviluppo internazionale, quindi per il Jewel Food stores, una compagnia con 35 mila impiegati, fino a divenirne vicepresidente per gli Affari pubblici. Le soddisfazioni economiche derivate dall’impiego nel settore privato non mi bastavano. La mia domanda è sempre stata una: cosa posso fare per rendere la vita degli altri migliore? Così nel 2002 sono entrata a far parte dell’America’s Second Harvest, oggi Feeding America, la più grande organizzazione americana per la fame, che sostiene le oltre 200 banche del cibo nel Paese. Durante quel periodo ci siamo impegnati a portare il cibo nelle zone colpite dall’uragano Katrina, e quell’esperienza mi ha fatto capire quale fosse il mio dono, aiutare gli altri. Quindi ho cominciato a lavorare per aiutare varie organizzazioni americane non profit, sviluppando gli accordi necessari alla loro sopravvivenza. In questo modo ho capito che senza il settore privato queste organizzazioni non avrebbero futuro, e ho appreso a mettere a punto le partnership appropriate, che è il know-how che ho portato con me in questa esperienza di ambasciatore dell’Onu.

D. Quando è entrata a contatto con l’attuale presidente degli Usa?
R. Nel Natale 2006 ho incontrato per caso, in una festa dei vicini, il senatore Barack Obama che mi ha detto: «Sto pensando di farlo, e vorrei che lei mi aiutasse». Io risposi: «Se si candiderà, io ci sarò». Capii subito, quando genericamente disse «farlo», che si riferiva alla corsa per le presidenziali. Ho partecipato in gennaio ad un incontro più ufficiale e sono divenuta consulente senior della sua campagna. Inizialmente nessuno pensava che avrebbe vinto. Con i Clinton avevo lavorato molto, e avrei di certo appoggiato Hillary se Barack, che è un amico e un vicino, non me l’avesse chiesto, ed è stato impossibile per me dirgli di no. Ho così informato il team Clinton che avrei seguito Obama e loro, consapevoli del fatto che provengo dall’Illinois, sono stati comprensivi. Li ho rassicurati che non avrei mai compiuto alcunché potesse ledere la loro campagna, e così è stato. Abbiamo lavorato duramente. Quando iniziammo, nessuno conosceva Barack Obama se non dal discorso che tenne al Congresso, che ricordo come il giorno più freddo mai avuto nell’Iowa. Più avanti era molto chiaro che avrebbe vinto, poiché il suo messaggio cominciò ad essere ascoltato in tutto il Paese, ed io iniziai a chiedermi cosa avrei voluto fare in tal caso.

D. Come avvenne lo spostamento dagli uffici presidenziali verso l’ambiente diplomatico degli aiuti?
R. Una volta eletto, informai il presidente che avrei voluto lavorare per organizzazioni umanitarie e lui mi disse: «Che idea grandiosa!», perché era a conoscenza del fatto che da sempre ero stata entusiasta di svolgere un lavoro di aiuto alla comunità. Anche il team di Obama esultò dinanzi alla mia scelta. Nel settembre 2009 sono stata nominata dal presidente rappresentante permanente presso le Agenzie dell’Onu per il cibo e l’agricoltura, tre organizzazioni maggiori e tre minori, tutte operanti a Roma: il WFP (World Food Program), l’Ifad (International Fund for Agricultural Development), la Fao (Food and Agricultural Organization), l’Iccrom (International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property), l’Idlo (International Development Law Organization) e l’Unidroit (International Institute for the Unification of Private Law).

D. In cosa consiste il suo compito?
R. Non si tratta solo di fornire cibo, bensì di dare alle popolazioni gli strumenti perché possano procurarselo da sé e divenire, nel tempo, più indipendenti. Lo facciamo attraverso programmi specifici come il P4P, Purchase for Progress, e accordi in cui cerchiamo di garantire equità tra le parti e sostegno verso i Paesi in via di sviluppo. Il WFP costituisce il braccio operativo del sistema delle Nazioni Unite per quanto riguarda gli aiuti alimentari; anche la Fao si occupa di aiutare l’agricoltura, ponendosi come foro neutrale in cui le nazioni si incontrano alla pari per negoziare accordi e discutere linee di condotta. L’Ifad promuove e finanzia programmi e progetti che mettano i poveri delle aree rurali in condizione di sconfiggere la povertà. Tra le minori, l’Iccrom è il Centro Internazionale di Studi per la Conservazione e il Restauro dei Beni culturali e si occupa della conservazione del patrimonio sia mobile che immobile in tutto il mondo; l’Idlo pensa allo sviluppo del diritto in ambito internazionale e l’Unidroit, più specificamente, all’unificazione del diritto privato fra i vari Paesi. Rappresentiamo gli Stati Uniti presso ciascuna di queste organizzazioni, e gli altri membri del team sono esperti nei vari settori; personalmente sono nell’executive board del WFP. La nostra squadra è composta da esperti in emergenza e sviluppo rurale. Gli Stati Uniti sono i sostenitori più rilevanti nelle tre organizzazioni principali. È importante che i fondi, che provengono dai contribuenti, siano utilizzati come previsto: qui ci occupiamo di questo, ci assicuriamo che il programma incontri determinati requisiti. Mi reco anche personalmente sul campo, osservando che i programmi disegnati qui a Roma siano di fatto sviluppati nei vari Paesi, e verifico l’impiego effettivo delle nostre risorse, perché il programma sia usato a beneficio reale del Paese in questione.

D. La sua esperienza in Italia le dà modo di comprendere differenze precipue con gli Stati Uniti. Quali in particolare?
R. Noto che l’America è spesso scollegata dal resto del mondo; in Europa, diversamente, vi sono connessioni naturali fra Paesi vicini, e in Italia è più facile sentirsi allievi del mondo. Mi accorgo qui di avere più responsabilità non solo per ciò che accade negli Stati Uniti ma per lo sviluppo dell’intero mondo, e sono molto orgogliosa di essere americana per la generosità che il nostro Paese usa nel sostenere i vari programmi. Con questo mandato ho l’opportunità di testimoniare l’impatto reale che i programmi umanitari, che ero abituata a conoscere da un diverso punto di osservazione, hanno sullo sviluppo mondiale, e non avrei potuto afferrarne l’importanza solo leggendo i documenti prodotti. Ovunque mi troverò dopo questa missione, resterò sempre legata al mondo. Mi rendo conto che la comunità globale è molto responsabile della salvaguardia dei Paesi sottosviluppati, ma i più vulnerabili non sono meno responsabili del proprio destino. Australia, Giappone, i Paesi del Bric – Brasile, Russia, India e Cina -, non c’è un Paese più responsabile di altri per ricchezza, e il maggiore sviluppo di alcuni rispetto ad altri rende i primi solo responsabili a un differente livello, non «più» responsabili.

D. In che modo i Paesi meno sviluppati possono collaborare in questa strada comune verso una crescita sostenibile?
R. Un programma molto interessante è quello che ha adottato l’Unione Africana, il Caadp (Comprehensive Africa Agricolture Development Program), e che tutti i Paesi dell’Unione europea stanno firmando. Con esso infatti si impegnano non solo ad investire nell’agricoltura, ma ad investirvi almeno il 10 per cento del proprio prodotto interno, in tal modo riconoscendo che la sostenibilità di ogni programma è direttamente legata alla proprietà del programma stesso. Meglio detto: ogni Paese deve porre le basi per il proprio destino. Non c’è nulla che gli Stati possano fare da soli, come partner di sviluppo, per garantire la sostenibilità dei programmi in Paesi in via di sviluppo. È sempre richiesta una partnership con questi ultimi, che devono impegnarsi al pari dei Paesi sviluppati e investire le loro stesse risorse, anche economiche, per migliorare le proprie condizioni.

D. Nei Paesi del Bric spicca la Cina. Considerando l’enorme crescita avuta negli ultimi anni, può essere ancora mantenuta al livello degli altri tre?
R. I Paesi facenti parte del Bric sono considerati meno sviluppati di altri, e sono ora definiti come di nuovo sviluppo. Ma la Cina costituisce senza dubbio l’esempio di cosa può accadere se il Paese si impegna per primo nella propria crescita sostenibile.

D. In che modo è presente il Vaticano negli aiuti alla comunità globale?
R. Il Vaticano ha numerosi programmi nel mondo nei quali investe significativamente, ed ha osservatori presso ogni organizzazione; esso è riconosciuto dall’Onu e partecipa al dibattito politico nella Fao e nei programmi del WFP. Lavoriamo con la Santa Sede come con altri colleghi, ovviamente non c’è alcun riferimento alla religione; a Roma ne avverto la presenza anche sul piano del cattolicesimo, ma nell’esercizio delle mie funzioni, così come negli Usa, il Vaticano corrisponde a uno Stato come un altro con cui collegarci nella nostra missione.

D. Quali sono i suoi rapporti con Roma e l’Italia?
R. Sono a Roma perché la missione si trova qui; il WFP iniziò all’interno della Fao, la cui sede è sempre stata qui, e quando se ne è distaccata è stato naturale mantenere la sede. A Roma nascono i programmi a beneficio di tutto il mondo . Amo questa città, i suoi abitanti sono genuini e generosi, ho conosciuto persone che rimarranno per sempre presenti nella mia vita, che mi hanno aperto le loro case sapendo che potevo trovare difficoltà di integrazione non avendo padronanza della lingua. Mi hanno reso una persona più aperta rispetto a prima, e non avrei mai pensato di ricevere da questa esperienza un tale ulteriore beneficio a favore del mio bagaglio culturale. Ho visto molti luoghi in Italia, l’Umbria ad esempio, la Toscana, il Nord, ho visitato alcuni Paesi del Nord Europa e programmo altri viaggi nel mio tempo libero. Ogni cosa qui è molto vicina, e non sono abituata a questo modo di viaggiare.

D. Cosa c’è nel suo futuro?
R. Dopo quest’esperienza non so cosa ci sarà, né dove. Gli ambasciatori tradizionalmente restano in carica per circa tre anni, e io sono a metà. Continuerò a lavorare su ciò che sto facendo qui. Sono stata sul campo molte volte, non mi opporrei ad essere trasferita permanentemente in un luogo specifico dove poter mettere a frutto, direttamente, la mia esperienza. Per il momento mi impegno completamente nel mio lavoro a Roma, poi sceglierò l’opportunità più consona alle mie esigenze di aiutare il prossimo.

D. In che modo l’America è stata presente nei luoghi di Haiti dopo il terremoto che l’ha colpita distruggendola?
R. Si è trattato di uno dei disastri naturali più devastanti mai visti. Gli Stati Uniti lavoravano per sostenere l’agricoltura di Haiti anche prima del terremoto; dopo il disastro, 900 mila persone si sono spostate verso le campagne. Questo ci ha dato modo di intervenire nello sviluppo rurale di quei luoghi attraverso i nostri strumenti. Abbiamo stretto un accordo con il Brasile per portare trattori ad Haiti; ci siamo impegnati a creare un mercato accessibile per acquistare semi e materiale agricolo. Dobbiamo continuare anche oltre il momento dell’emergenza, ed essere presenti in tutto il periodo della ricostruzione del Paese.

D. Per New Orleans, invece?
R. A New Orleans sono andata almeno venti volte e posso testimoniare tutti i cambiamenti dalla settimana successiva all’uragano Katrina ad ora, le differenze nella vita degli abitanti, la ricostruzione delle case e dei centri di commercio: è un caso di intervento privato a supporto di quello pubblico su un’area devastata. Proprio usando questo come modello abbiamo potuto lavorare per Haiti. Il punto è il ruolo del settore privato e degli investimenti nello sviluppo, essenziali per creare economia nei luoghi non sviluppati attraverso accordi equi. Il nostro obiettivo è individuare tante più opportunità possibili per ogni mercato e assistere, usando le organizzazioni di riferimento, nella sottoscrizione di accordi per lo sviluppo.

D. Nel summit del G-8 2009 tenutosi a L’Aquila, il presidente Obama annunciò l’investimento in tre anni di circa 3,5 miliardi di dollari per lo sviluppo agricolo e la sicurezza alimentare. Di che si tratta?
R. Il Governo Usa ha lanciato il programma «Feed the Future» per riaffermare l’impegno nei confronti della fame e della sicurezza alimentare a livello globale. Esso aggiunge risorse ai programmi già in atto, promuovendo la collaborazione tra gli interessati e investendo in produttività agricola, ricerca e mercati bonificati, per aumentare la fornitura di prodotti alimentari e ridurre i prezzi.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Aprile 2011




GIORGIA MELONI: IL FUTURO È UN DIRITTO CHE I GIOVANI DEVONO POTER ESERCITARE OGGI

Il futuro non è più quello di una volta. Lo si legge, come un brocardo, su molti muri, scritto da giovani writers inseguiti da provvedimenti che impediscono loro di fare graffiti per le città. C’è una verità formale e sostanziale in ciò che scrivono. Formale: l’arte cambia e ad essa devono adeguarsi le vecchie generazioni, i giovani hanno bisogno di esprimersi nei modi a loro più congeniali e di avere le attenzioni che la classe dirigente dedica solo a se stessa. Sostanziale: il futuro di ieri è stato pensato solo come privilegio degli adulti di oggi. Ai giovani restano precarietà, immobilizzazione, riforme sbagliate, sfiducia nel sistema, fuga di cervelli, futuro incerto. Per questo il Ministero della Gioventù è stato affidato a una giovane guida, Giorgia Meloni, classe 1977, in grado di comprendere le esigenze delle nuove generazioni senza suggestioni provenienti dal passato, ma con il pragmatismo che è il futuro a richiedere perché i giovani di oggi possano crescere.

Domanda. «Diritto al futuro» è, per questo Ministero, un progetto concreto. Di cosa si tratta?
Risposta. Di diritto al futuro parliamo con riferimento a un pacchetto di provvedimenti per i quali il Ministero della Gioventù ha mobilitato complessivamente 300 milioni di euro. Si tratta di una serie di iniziative tese a combattere la condizione di precarietà con la quale i giovani si confrontano giornalmente, aventi un grande comune denominatore: investire nella persona, rifiutare l’assistenzialismo generalizzato e difendere il doppio principio dell’uguaglianza e del merito. Da una parte, intendiamo costruire una società in grado di dare a tutti le medesime condizioni di partenza, rimettendo in moto l’ascensore sociale che in Italia è bloccato da una serie di rendite, privilegi, barriere; dall’altra, vogliamo che questa uguaglianza diventi presupposto per la meritocrazia: una volta garantito lo start, chi corre più veloce arriverà più lontano e prima.

D. Quali sono i temi centrali del futuro?
R. Abbiamo affrontato, con lo stesso provvedimento, due grandi emergenze italiane: la disoccupazione giovanile e la denatalità. In Italia ci si sbraccia più sul diritto di abortire che su quello di mettere al mondo un bambino. Oggi una donna su quattro che partorisce non rientra al lavoro, la scelta della genitorialità è sempre meno popolare e i figli sono diventati un bene di lusso; per questo va premiato e incentivato il binomio responsabilità-merito, che è sotteso a una scelta tanto impegnativa. Abbiamo anche previsto un plafond di 50 milioni di euro che consente di dare a tutti gli under 35 con figli, precari o disoccupati, una dote di 5 mila euro da portare nell’azienda che li assume a tempo indeterminato.

D. Il problema della disoccupazione si aggrava. Qual’è la vostra posizione?
R. Ci siamo posti il problema del precariato e delle ragioni per cui un modello funzionante negli altri Paesi produce, nel nostro sistema, conseguenze invece inaccettabili. La difficoltà che i giovani hanno in un contesto flessibile non è data, a mio avviso, dalla loro indisponibilità ad accettare una vita lavorativa versatile, ma dall’inadeguatezza e dalle resistenze della società che li accoglie ad uniformarsi a questo cambiamento: oggi una posizione atipica rende il lavoratore «figlio di un Dio minore», poiché non garantisce le opportunità che derivano da un contratto a tempo indeterminato. Oltre al problema pensionistico, nell’immediato prevale l’incapacità del sistema di adeguarsi alle nuove forme laburistiche che, anche quando prevedano prospettive di stabilizzazione, non sono ritenute rilevanti ai fini dell’accesso al mercato del credito. Le banche non concedono mutui, la discriminazione parte da qui. Per questo abbiamo destinato 50 milioni di euro per il fondo di garanzia sull’acquisto della prima casa: lo Stato garantisce il mutuo al 70 per cento fino a 200 mila euro per giovani coppie, single con figli e giovani famiglie il cui reddito derivi per più del 50 per cento da lavoro atipico.

D. È innegabile, però, che i problemi derivati dall’incertezza investano tutti, non solo i giovani genitori, e che la genitorialità è ormai un’opzione e non più lo sviluppo naturale di un percorso medio. Ciò avviene non solo per il cambiamento dei valori in uso, ma anche e soprattutto per l’impossibilità di decidere di essere genitori senza avere un lavoro, una casa, un futuro; un circolo vizioso in cui, se i giovani non genitori non sono aiutati, difficilmente possono accollarsi la responsabilità di un figlio. Sono discriminati?
R. Questi sono problemi reali e riguardano tutti, non solo i nuclei familiari. Lo Stato però ha risorse limitate e lavora su priorità che lo portano ad investire sugli ammortizzatori sociali, lasciando prevalere il cosiddetto «favor familiae» e il problema della rigenerazione della società, ma senza per questo disconoscere i single, le coppie di fatto senza figli e le coppie omosessuali: non è una questione morale, ma esclusivamente economica.

D. Dopo gli studi, i giovani non trovano e a volte non cercano lavoro. In che modo il suo Ministero affronta il problema?
R. Ci siamo posti il problema di come aiutare a combattere il gap presente nel nostro sistema tra istruzione e mondo del lavoro, cominciando a incrementare le iniziative di job placement all’interno delle scuole e dell’università. Abbiamo portato avanti un progetto, il Global Village Campus, oggi rinominato Campus Mentis, suddividendo in cinque gruppi 600 tra i migliori laureati italiani, mettendoli per cinque settimane in contatto con i responsabili delle risorse umane del mondo imprenditoriale italiano e internazionale operativo in Italia. Tre gli obiettivi: dare un segnale ai ragazzi sull’investimento che lo Stato è in grado di compiere su di loro; mostrare al mondo imprenditoriale le capacità di questo straordinario materiale umano non sfruttato; fare formazione rispetto all’ingresso nel mondo del lavoro. Il progetto pilota ci ha dato ottimi risultati: entro l’anno dal suo avvio il 77 per cento dei giovani partecipanti ha ricevuto significative proposte di lavoro. A partire da quel successo, nella seconda edizione abbiamo investito ulteriori risorse e collaborato con l’Università La Sapienza di Roma coinvolgendo 1.800 ragazzi, ossia triplicando i numeri e creando tre campus, in Veneto, in Sicilia e a Roma, che nei prossimi tre anni diverranno 20 in tutto il territorio nazionale e coinvolgeranno 20 mila ragazzi. Se il dato del 77 per cento dovesse essere trasferito da 600 a 20 mila partecipanti, parleremmo di un’iniziativa strutturale significativa. Ciò dipenderà non solo da noi, ma dalla situazione politica che troveremo.

D. All’estero i giovani escono di casa molto presto e si pagano gli studi da sé. Cos’è che blocca l’Italia?
R. L’assenza di strumenti per i nostri giovani, quale quello del «prestito d’onore». Questo resta il modo più semplice per chiamarlo, ma dovremmo cancellare dalla nostra mente l’idea che tale locuzione evoca in Italia, diversa dal resto del mondo. Nelle grandi democrazie occidentali è un sistema rodato che consente ai giovani di mantenersi da sé attraverso un prestito che poi restituiranno quando saranno nella condizione di farlo. Barack Obama ha studiato all’università grazie all’esistenza di un mondo del credito che ha investito su di lui: il presidente americano ha più volte dichiarato di aver finito di restituire il prestito da poco. Oltre al fattore economico immediato, ce n’è uno diverso: frequentare l’università sentendo il peso personale dell’indebitamento pone in una condizione psicologica diversa, che è di maggiore responsabilità. È necessario creare un’alternativa al rifugio nella solidità della famiglia. Il nostro Ministero ha dedicato agli studenti 18 milioni di euro, per finanziare una somma fino a 25 mila euro in cinque anni, dando loro l’onere della restituzione solo dopo un certo numero di anni. Questo è un provvedimento che in realtà non vorrei rifinanziare: nel mondo anglosassone lo Stato non entra minimamente, è una cosa tra privati; noi siamo costretti ad intervenire poiché è assente un tale meccanismo virtuoso, ma con ciò speriamo di dimostrare al sistema del credito che conviene investire sui ragazzi, perché domani questo circolo possa andare avanti senza l’impegno di fondi pubblici.

D. Come favorire l’imprenditoria giovanile in questo clima di pessimismo crescente?
R. Tra le nostre misure, il Fondo Mecenati riguarda il sostegno al talento e si fonda sull’alleanza tra pubblico e privato nell’investimento sugli under 35. Ogni anno in Italia alcune grandi aziende, fondazioni, organizzazioni private investono fondi propri a favore di giovani meritevoli indicendo concorsi, mettendo in palio borse di studio, portando avanti una serie di iniziative per aiutarli ad aprire un’impresa. Abbiamo deciso di riconoscere il valore sociale di tali azioni per moltiplicare le risorse, cofinanziando al 40 per cento le iniziative dei privati che investono sugli under 35 in alcuni settori che secondo noi sono strategici.

D. In che modo sviluppare la ricerca?
R. Finanziando prioritariamente gli spin off universitari, ossia la trasformazione dei risultati della ricerca in attività produttive. In Italia non trasformiamo le ricerche in attività commerciali. Dal 2000 ad oggi sono stati depositati oltre 100 mila brevetti: di questi nemmeno 700 hanno avuto un seguito. Certo non tutto ciò che viene brevettato è significativo, ma tra le 100 mila idee presentate e le 700 sviluppate è molto probabile che alcune, opportunamente monetizzate, avrebbero potuto contribuire alla nostra economia.

D. Oltre a questo pacchetto, quali altri progetti stanno maturando?
R. Ai cinque provvedimenti di «Diritto al Futuro», si aggiungono altre questioni che il Ministero della Gioventù tiene in considerazione, tra cui il coinvolgimento degli enti locali. Stiamo portando avanti discorsi a cerchi concentrici con i Comuni, le Province e le Regioni, per centrare gli stessi obiettivi, includendovi il filone della valorizzazione della cultura d’impresa. Il problema è legato all’assenza di ascensore sociale: in Italia a dar vita a un’impresa sono sempre gli imprenditori esperti, gli altri hanno la percezione che gli ostacoli da rimuovere siano troppi. Mancano informazioni e formazione su opportunità, leggi, agevolazioni, contributi, aspetti legali. Il nostro sistema di istruzione è culturamente tarato sul lavoro subordinato, che insegna a cercare lavoro e sprona poco a divenire datori. Abbiamo tentato di fare formazione con una serie di iniziative: abbiamo emesso un bando del valore di oltre 4 milioni di euro, rivolto alle associazioni studentesche che presentino progetti in collaborazione con le Università, e alle organizzazioni giovanili degli imprenditori; attualmente sono aperti in 21 Università centri per la valorizzazione della cultura di impresa, nei quali alcuni esperti accompagnano, per i primi due anni di start up, tutti i ragazzi che intendono avviare una impresa.

D. Quali altre iniziative avete preso?
R. Abbiamo dato vita a un portale, www.giovaneimpresa.it, dedicato all’imprenditoria giovanile, che offre tutte le informazioni e la consulenza necessaria gratuitamente. Ad esso collaborano tutte le associazioni giovanili imprenditoriali che ci aiutano a fare consulenza on line. Abbiamo stilato una serie di alleanze tra categorie professionali che, attraverso il Ministero della Gioventù, si sono impegnate a rivolgere ai ragazzi consulenza anche online, gratuita o alla minima tariffa. E abbiamo in cantiere un’iniziativa più strutturale che riguarda la leva fiscale: una tassazione al 10 per cento per tutte le imprese giovanili di nuova costituzione.

D. Qual’è la sfida di questo Ministero?
R. Non di certo risolvere la questione giovanile con un Ministero senza portafoglio, ma divenire l’interlocutore del Consiglio dei ministri a 360 gradi, perché in tutto quello che il Governo fa c’è un elemento che coinvolge le giovani generazioni, ossia il futuro. La mia generazione ha ereditato l’assenza di sensibilità da parte delle generazioni precedenti nei confronti di quelle a venire. Abbiamo avuto anni di grande ricchezza economica, che le classi politiche hanno dilapidato per garantirsi consenso immediato, ed oggi paghiamo pensioni a chi ha smesso di lavorare a 40 anni. Voglio invertire questa tendenza e pormi il problema di quello che sto lasciando dopo di me: in questo le riforme della scuola e dell’Università costituiscono un segnale centrale.

D. Riforma della scuola e dell’Università: qual’è la sua posizione?
R. Il problema è nella difficoltà che si incontra ogni volta che cambia un Governo: si tende a modificare il sistema esistente migliorandolo anziché annullarlo, perché ciò costerebbe di più. Prima del sistema va riformata la cultura: tendiamo a parlare di scuole e università prevalentemente per i 5 mila che all’interno vi lavorano, senza porci il problema di quelli che vi studiano e preoccupandoci più di dare posto a 10 mila insegnanti che ad impegnare gli studenti per il futuro. Oggi ci sono 327 facoltà che non hanno più di 15 studenti e 37 corsi di laurea con uno studente. Questo Governo ha fatto scelte coraggiose. Al netto della questione tagli, che è stata recuperata trattandosi, a conti fatti, di un taglio del 3 per cento che, ponendo attenzione agli sprechi delle nostre università, potrebbe esser recuperato, oggi si stanno realizzando progetti che il movimento studentesco ha sognato per 20 anni. È l’esempio del giudizio sulla qualità dell’insegnamento, delegato agli studenti. Abbiamo dovuto varare una legge per combattere prassi intollerabili e inadeguate, addirittura per dire che «chi ha una cattedra deve andare ad insegnare». Nella legge di riforma dell’università è specificato che i docenti devono firmare il tesserino, dimostrare di essere stati per un certo numero di ore all’interno dell’Università e che quelle ore siano destinate agli studenti. Abbiamo fatto una legge per dire che non possono essere inseriti parenti nelle cattedre. Ne abbiamo varato un’altra per dare maggiore credibilità al tema della ricerca, richiedendo la dimostrazione in 6 anni che la ricerca per cui si occupa un posto universitario è utile, e solo in tal caso da ricercatori si può divenire docenti o associati. Non concepiamo l’idea di ricercatore a tempo indeterminato, cosa che non succede in nessuna altra parte del mondo. Uno dei problemi è l’uso della scuola come ammortizzatore sociale riducendo, anche tramite stipendi molto bassi, l’autorevolezza e la qualità dell’insegnamento; abbiamo trasformato i nostri docenti nei peggiori d’Europa e questo ha anche abbattuto la loro passione nel proprio mestiere. Abbiamo abolito una serie di sperimentazioni, dato vita a una semplificazione del sistema e rimesso in piedi tutta la grande questione degli istituti tecnici e professionali. Insegnavano una divisione tra «chi pensa» e «chi fa», ed ora è necessario rivalorizzare la creatività dei secondi, gli unici in grado, nelle specificità italiane, di non essere soggetti alla concorrenza cinese. Se riuscissimo ad avviare un’offensiva culturale per restituire valore a chi crea, avremmo posti di lavoro già disponibili per una serie di mestieri legati all’artigianato. È necessario tornare all’umiltà. Può capitare di dover fare un lavoro meno prestigioso di quello per cui si è preparati, ma è solo un passaggio di cui il Paese ha bisogno per andare avanti con l’economia, che rispecchia la cultura della gavetta iniziale.

D. Gli italiani restano ancora a casa?
R. Sono molte più le donne, rispetto agli uomini, ad uscire dalla casa familiare prima dei 34 anni. Ciò non è nemmeno legato alle opportunità, perché le donne storicamente ne hanno meno degli uomini, bensì si ricollega alla maggiore autodeterminazione femminile che non rende drammatico l’impatto con l’indipendenza.

D. I giovani avranno la pensione?
R. La nostra generazione avrà le pensioni, ma non quelle che conoscevamo: andremo in pensione non prima dei 65 anni e la nostra sarà presumibilmente più bassa di quella che avremmo avuto con il sistema retributivo. Pochi di noi arriveranno a prendere l’80 per cento della retribuzione come prevedeva il sistema retributivo. Oggi le pensioni sono assolutamente inadeguate, vanno fatte riforme strutturali e combattute una serie di discriminazioni tra contratti di lavoro subordinato e nuove forme di flessibilità.

D. L’obiettivo primario del Ministero?
R. Lavorare sulle competenze e rendere la nuova generazione più valida di quella precedente.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Febbraio 2011




GERARDO LONGOBARDI: ECCO LE NOZZE TRA COMMERCIALISTI ED ESPERTI CONTABILI

Dal primo gennaio 2008 c’è un’alleanza, quella tra i dottori commercialisti e i ragionieri commercialisti, che in altri tempi non si sarebbe attesa. Questa unione ha creato una nuova forza, l’Albo unico che, per scelta, non è stato seguito dalla fusione delle rispettive Casse di previdenza, evenienza anzi considerata la principale minaccia derivante dall’Albo stesso. Istituito con il decreto legislativo n. 139 del 2005, l’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili ha acquisito un assetto giuridico riflettente l’evoluzione della professione economico-giuridica-contabile, di antica tradizione ma pronta ad aggiornare le proprie competenze in ragione delle esigenze del contesto sociale ed economico. Per questo nell’Ordine sono confluiti gli iscritti dei preesistenti Albi tenuti dall’Ordine dei dottori commercialisti e dal Collegio dei ragionieri e periti commerciali. Nei primi due mandati successivi all’unificazione degli Albi le presidenze spettano ai dottori commercialisti e le vicepresidenze ai ragionieri commercialisti. Nell’Ordine di Roma ora la carica di presidente è ricoperta da Gerardo Longobardi, la vicepresidenza da Luigi Mandolesi. Del nuovo periodo e dei cambiamenti all’interno di quest’Ordine parla il presidente Longobardi.

Domanda. Com’è, oggi, l’Ordine?    
Risposta. Comprende le circoscrizioni dei Tribunali di Roma e di Velletri ed ha il più alto numero di iscritti in Italia, circa 10 mila, cui debbono aggiungersi gli oltre 2 mila praticanti, con tutte le prerogative, le difficoltà e le opportunità che ciò comporta. Il mio mandato scadrà il 31 dicembre 2012: cinque anni che servono per gettare solide fondamenta per costruire l’Albo unico che dal primo gennaio 2008, data in cui ho assunto l’incarico di presidente, unisce i dottori commercialisti e i ragionieri commercialisti.

D. L’istituzione dell’Albo unico è stata utile per far crescere le due categorie e per farsi ascoltare nelle sedi opportune? Quali i principali cambiamenti?
R. Unire le nostre strutture è stata un’esperienza complessa, ma che abbiamo avviato con molti e utili incontri preparatori. Abbiamo esigenze molto sentite sia dai nostri iscritti sia dall’esterno. L’obiettivo del Consiglio è stato quello di avvicinare le istituzioni all’Ordine. Attraverso l’Equitalia Gerit, ad esempio, i nostri colleghi possono non solo ottenere informazioni sulle cartelle esattoriali, ma anche provvedere al loro pagamento mediante assegni, carte di credito, bancomat; l’Agenzia delle Entrate ha messo nella nostra sede uno sportello dedicato ai professionisti e ai loro clienti, ossia alla maggior parte delle imprese operanti nell’area romana, come ha fatto anche l’Inps.

D. In quali rapporti l’Ordine è con il Comune di Roma?
R. Abbiamo ottimi rapporti con il Campidoglio, grazie anche alla lunga amicizia che lega la nostra professione all’attuale assessore al Bilancio del Comune di Roma, l’on. Maurizio Leo. I commercialisti sono al servizio di un Paese che ha bisogno di cambiare pelle e può farlo solo con una spinta da parte di chi è all’interno del sistema economico e riesce a dialogare con le istituzioni. Sul federalismo fiscale, di cui tutti parlano, abbiamo voluto essere anche propositivi istituendo una Commissione che tratta con il Comune di Roma e ha elaborato un documento, lo Statuto del contribuente locale, da diffondersi nei prossimi mesi. Tale Statuto potrà essere fatto valere anche dai cittadini-contribuenti romani, ed è il nostro fiore all’occhiello perché verrà alla luce grazie al contributo della Commissione paritetica costituita dai rappresentanti della nostra Commissione per il federalismo fiscale e dai rappresentanti del Comune di Roma.

D. E in tema di giustizia?
R. Abbiamo instaurato ottimi rapporti anche con il Tribunale di Roma. I tempi per le esecuzioni immobiliari si sono accorciati nella nostra zona grazie all’intervento dei commercialisti nel ruolo di custodi, per cui sono state accelerate pratiche prima lentissime e ciò è stato riconosciuto recentemente anche dai giudici della IV Sezione del Tribunale di Roma. Abbiamo inoltre sviluppato un protocollo d’intesa con la Sezione fallimentare per accelerare la chiusura dei fallimenti, specie quelli aperti da più lungo tempo.

D. La formazione all’interno della professione è seguita anche da una fondazione: di che cosa si tratta?
R. La Fondazione Telos, presieduta dal collega Giovanni Castellani, è una delle due anime culturali dell’Ordine. Nata con il contributo del Collegio dei ragionieri e dell’Ordine dei dottori commercialisti di Roma prima dell’unificazione, essa svolge attività dirette ad integrare la nostra formazione anche con pubblicazioni distribuite gratuitamente ai nostri iscritti; offre corsi, ad esempio il «Business in English» in inglese sull’economia, a costo bassissimo, presso la sede dell’Ordine e in aule limitrofe che danno anche la possibilità a 150 partecipanti di assistere a convegni e ad altre attività. Cura inoltre la pubblicazione della nostra rivista semestrale Telos, che inviamo a tutti gli iscritti e all’esterno. La Fondazione, da noi finanziata, svolge queste attività ad alto livello, dalla ricerca alla pubblicazione di testi. L’ultimo verte sull’abuso del diritto, argomento sul quale la Corte di Cassazione si è pronunciata con tre sentenze del dicembre 2008.

D. In che consiste l’abuso del diritto?
R. La circostanza che un contribuente ottenga dei vantaggi fiscali senza valide ragioni economiche con operazioni quali per esempio fusioni o scissioni. Una lettura restrittiva delle pronunce della Cassazione porta a non investire in Italia e mette in difficoltà gli operatori economici nel momento in cui avviano un’operazione economica rilevante. Nel nostro ultimo testo sono contenute critiche verso questa giurisprudenza, avallata anche dall’Agenzia delle Entrate. In proposito abbiamo anche elaborato una proposta di legge, e abbiamo intenzione di collaborare con i quattro Ordini più numerosi d’Italia, quelli di Milano, Napoli e Torino, e con il nostro Consiglio Nazionale per contribuire a risolvere una situazione che crea gravi difficoltà a tutti gli operatori economici.

D. Cosa è il CPRC, acronimo di Centro prevenzione e risoluzione conflitti?
R. È una costola dell’Ordine, istituito presso la nostra Fondazione Centro Studi Telos. Il Centro si occupa di mediazione, finalizzata alla conciliazione, con l’obiettivo di contribuire a risolvere l’intasamento delle aule dei Tribunali causato dai milioni di controversie in sospeso. Lo scopo è stato quello di creare una corsia preferenziale per talune di esse. I conciliatori riusciranno a sfoltire le pratiche nelle materie previste una volta che la conciliazione diventerà obbligatoria per legge, nel prossimo mese di marzo. Questa novità legislativa ha causato molto fermento in altre categorie professionali, che hanno visto nella conciliazione un restringimento del proprio ambito di lavoro. Noi crediamo che sia necessario, invece, ragionare più da cittadini e meno da professionisti, perché l’ingolfamento delle aule giudiziarie e la lunghezza dei processi riduce la certezza del diritto. Nei prossimi cinque anni la mediazione potrà determinare un alleggerimento della macchina della giustizia e noi ci proponiamo come soggetti mediatori attraverso il nostro Centro, sorto prima ancora dell’esistenza della legge, quando fummo accusati di essere dei visionari. Fino ad oggi abbiamo formato oltre 200 conciliatori e siamo pronti per gli impegni futuri.

D. In che modo fate formazione?
R. La nostra categoria è stata la prima ad introdurre in Italia la formazione professionale continua. I nostri iscritti devono non solo dimostrare di essere validi sul campo ma dare testimonianza della propria preparazione acquisendo 90 crediti nel triennio formativo attraverso la partecipazione a convegni, seminari, master o con la pubblicazione di articoli di carattere professionale. Ciò significa che, oltre alla normale attività, i colleghi devono dedicare alla formazione, in media, almeno 30 ore l’anno per l’aggiornamento. Dobbiamo impegnare una parte del nostro tempo nella formazione e per questo ho immaginato un Ordine dotato di un solido impianto culturale, quello delle Commissioni culturali e della Fondazione. Inoltre prosegue l’attività della scuola di formazione per i futuri commercialisti, la Aldo Sanchini, dal nome di un presidente dell’Ordine scomparso qualche anno fa. Presieduta dal collega Ludovico Zocca, gestisce corsi di durata biennale, con un anno dedicato alle materie giuridiche, l’altro a quelle aziendali. Le lezioni si svolgono nelle aule dell’Università Sapienza di Roma; abbiamo ottimi rapporti anche con l’Università di Tor Vergata, con la quale il nostro Ordine partecipa in modo paritetico al Consorzio Uniprof, che sviluppa attività di ricerca e di organizzazione di eventi.

D. Internet può aiutare la formazione e abbassare i costi. Lo usate?
R. Il progetto di formazione a distanza tramite internet, voluto inizialmente dal compianto presidente dell’Ordine di Milano Luigi Martino, si basa sul fatto che, per essere continua, indispensabile, utile ma anche meno gravosa, la formazione professionale deve essere erogata anche a domicilio, a costo zero, con rilascio di crediti formativi e con il riconoscimento garantito dell’identità dell’utente. Due anni fa abbiamo presentato il progetto, già operativo, nell’aula Campidoglio del Comune di Roma; vi partecipano gli Ordini di Milano, Napoli e Roma di avvocati e commercialisti, ossia circa 70 mila professionisti. Solo a Roma sono 30 mila gli avvocati e i commercialisti.

D. Ha parlato di due anime culturali all’interno dell’Ordine. Oltre alla Fondazione, qual’è la seconda?
R. L’altro braccio culturale è costituito dalle Commissioni. All’interno dell’Ordine ne abbiamo 37, competenti per aree, alcune istituzionali (Albo, disciplina, parcelle, praticanti), altre squisitamente culturali, dedicate alle aree fiscale, aziendale, societaria, giudiziale. Insieme alla Fondazione, tutte garantiscono lo svolgimento della formazione, avendo raggiunto nel 2010 una media di 1,7 convegni al giorno. Inoltre, ai 350 convegni gratuiti l’anno organizzati dall’Ordine, dalla Fondazione Telos e dalle associazioni di categoria, se ne aggiungono un centinaio a pagamento organizzati dalla Fondazione o da terzi. Questa attività, di cui siamo orgogliosi, ci ha permesso di assicurare a tutti gli iscritti una formazione gratuita di alto livello, anche valutando i risultati ottenuti dai docenti. Questa esperienza credo sia difficilmente ripetibile in futuro, quantomeno a costo zero: la nostra è attività di volontariato rivolto ai professionisti e indirettamente alla loro clientela.

D. Avete trovato resistenze nel procedere alla creazione di un Albo unico?
R. Qualsiasi cambiamento porta reazioni e critiche, ma l’unificazione ci ha offerto l’opportunità di rappresentare le nostre categorie all’esterno in modo unitario. I problemi di carattere tecnico esulano dal nostro Albo e riguardano principalmente la gestione delle Casse di previdenza dei dottori commercialisti e dei ragionieri, le cui sorti abbiamo ritenuto di affidare ai nostri rappresentanti istituzionali.

D. Vi ha aiutato il numero degli iscritti?
R. Mancava un Ordine di grandi dimensioni che ha in sé molte risorse e può farsi conoscere a livelli superiori. Abbiamo investito molto sulla comunicazione; il sito dell’Ordine registra oltre 2 mila contatti al giorno, lo stesso vale per i siti del Centro prevenzione e risoluzione conflitti e della Fondazione Telos. Abbiamo un direttore generale, 20 collaboratori tra dipendenti e consulenti, un ufficio stampa, inviamo un bollettino settimanale a tutti gli iscritti e a chi ne fa richiesta, curiamo una rassegna completa della giurisprudenza della Sezione tributaria della Corte di Cassazione, e tutte le sentenze da essa rese, di mese in mese vengono commentate e inviate ad iscritti e a chi le chiede.

D. In che rapporto siete con gli iscritti?
R. Bisogna andare loro incontro in un momento di crisi economica; di fatto assumiamo il rischio d’impresa dei nostri clienti, visto che questi preferiscono pagare prima i loro fornitori poi i loro consulenti. Siamo impegnati a cercare opportunità professionali nuove. La nostra attività principale è la consulenza fiscale: circa il 75 per cento di essa è «dedicata alle tasse». Occorrono altre possibilità per sviluppare la nostra professionalità, non solo occupandoci di tasse ma, ad esempio, attraverso la conciliazione, la consulenza e l’assistenza finanziaria alla clientela. In questo periodo stiamo anche stilando intese con le banche più importanti.

D. Quale il futuro per i giovani professionisti di oggi?
R. I giovani iscritti al nostro Albo sono tanti e, per avvantaggiarli, ai nuovi chiediamo un contributo minore nei primi 5 anni. Gli introiti che percepiamo sono destinati in larga parte al nostro Consiglio Nazionale; possiamo contare su un’entrata di circa 2 milioni 300 mila euro. I giovani si trovano in situazioni difficili anche per l’assenza di sbocchi professionali, e non intendiamo gravarli di una quota eccessiva; siamo altresì attenti a creare le strutture di aiuto nei settori dell’informazione e della formazione professionale perché possano poi scegliere le strade confacenti alla loro preparazione. Abbiamo una bacheca dove i giovani possono offrire ai più anziani la loro collaborazione.
D. Si parla di giovani professionisti, ma in realtà gli ostacoli non consentono loro di avviare la professione prima di una certa età. Tutto ciò non li penalizza?
R. Per diventare commercialisti ed essere iscritti all’Albo oggi sono necessari una laurea triennale, due successivi anni per conseguire la laurea magistrale, tre anni di praticantato e il superamento dell’esame di Stato. Si può dire che la professione si comincia con i capelli bianchi, di certo non prima dei 30 anni di età. Se si compie il praticantato in uno studio, è necessario avere prospettive che compensino il disagio subito fino a quel momento. È obbligo dell’Ordine dare la possibilità ai giovani di compiere scelte meditate, per questo l’attività del Consiglio dell’Ordine di Roma sarà dedicata soprattutto ad essi e alle opportunità per la professione.

D. Cosa conta, per lei, più di tutto in questa professione?
R. La deontologia professionale è un nostro biglietto da visita: lealtà e correttezza nei rapporti tra gli iscritti e con la clientela. La considero l’equivalente dell’educazione del cittadino. All’esterno, invece, sarebbe opportuno che, soprattutto in materia fiscale, si ponesse una maggiore attenzione nella produzione legislativa perché, se essa consentisse una contribuzione fiscale corretta, aiuterebbe l’evoluzione del Paese. Noi commercialisti siamo dalla parte dei contribuenti e non degli evasori: sulla distanza la correttezza e la professionalità pagano.             (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Novembre 2011