ADDIO ANTONIO MARINI, MORTO SUPERSTITE DEI TERRORISTI

di ROMINA CIUFFA (22 agosto 2019). Fino alla fine un superstite, un sopravvissuto alla giustizia-come-si-deve, quella del tempo che fu, che fino all’ultimo non è stato ucciso da chi lo voleva morto. Lo si conosce come l’uomo dell’antiterrorismo, il Pubblico Ministero con PM maiuscole come in un bravo codice di procedura penale; io lo conosco come colui che, pur vedendomi crescere, mi chiamava “direttore”. Non una figura a caso nel patrimonio meteoritico italiano e mondiale della Giustizia, anche l’uomo che ha regalato a Papa Wojtyla il proiettile che non lo uccise, sottraendolo ai reperti giudiziari perché, a fini processuali, non serviva più. Se lo diceva lui, era così. E in questo modo fece sì che quel frammento di piombo fosse incastonato, come voleva Giovanni Paolo II, nella corona della Madonna di Fatima. A tutt’oggi.

Oggi che Antonio Marini non c’è più da ieri, 21 agosto. I giornali si sono precipitati a pubblicare i loro coccodrilli, tutti uguali, nessuno distinto, e probabilmente già pronti essendo lui portatore di un male inesorabile che, per il principio di non contraddizione, non lo ha scalfito minimamente nell’essere, lasciandolo – come sempre – nel suo umore e nella sua forza.

Ne sono testimone: mi chiamava carico di intenzioni, di costanza, mandava messaggi e foto, e parlava di futuro. Suo e del suo libro, la raccolta degli articoli sul terrorismo che lo hanno reso da sempre un grande collaboratore del nostro Specchio Economico, progetto che aveva quasi terminato con il direttore Victor Ciuffa ma che la scomparsa di quest’ultimo fermò. O meglio, rallentò. Ogni mese, per decine di anni, Marini scriveva per noi due rubriche: Giustizia e Terrorismo. Con costanza e attualità, con il senso del tempo e l’importanza di fissarlo.

Umilmente consapevole di non essere uno qualunque, non un “comune mortale”, nel combattere – prima come Procuratore generale facente funzioni, poi avvocato generale della Corte d’appello capitolina – delicate lotte in delicati processi come quelli sull’attentato al Papa, sulla strage della scorta di Aldo Moro in via Fani e il di lui omicidio, sulla morte della studentessa della Sapienza Marta Russo, sull’agguato, firmato dalle nuove Brigate Rosse, costato la vita al giuslavorista Massimo D’Antona.

Alcuni suoi processi sono raccolti nel suo sito in un’apposita sezione: http://www.antoniomarini.com/processi-2/. Il libro voluto da lui e da Victor Ciuffa sul terrorismo uscirà entro l’anno.

Marini muore “in sordina” perché è il giorno in cui, caduto il Governo, se ne attende uno nuovo (i veri eroi non amano essere notati). E così è per me più opportuno dar conto, con le sue stesse parole negli anni, di come si sia sviluppata quella politica (nello specifico antiterroristica) che è anche alla base del cambiamento di oggi in tema di “straniero”.

Ricordando che mi chiamava ogni volta e mi diceva: “Direttore, ti ho mandato l’articolo. Leggilo e dimmi cosa ne pensi”.

  • “Ci si chiede: quanta libertà siamo ancora disposti a sacrificare in nome della sicurezza?”, (ottobre 2006);
  • “Uno dei nodi ancora da sciogliere nella lotta al terrorismo internazionale è la definizione stessa di terrorismo (…)”, (novembre 2006);
  • “Ora, non v’è dubbio che la costituzione delle unità investigative interforze costituisca un importante passo in avanti nell’azione di contrasto del terrorismo internazionale e che, ferma restando l’assoluta libertà del pubblico ministero di avvalersi di altre strutture di polizia giudiziaria nello svolgimento delle indagini, tali unità sapranno fornire un contributo particolare all’accertamento dei delitti più gravi di terrorismo. (…) Le unità antiterrorismo non hanno ancora visto la luce, mentre la pianta malefica del terrorismo internazionale cresce invece a vista d’occhio giorno dopo giorno. A quanto pare, si teme di provocare un accavallamento di competenze e una dispersione del patrimonio investigativo o, peggio ancora, una trasfusione sul piano giudiziario di attività che sono principalmente mirate alla polizia di sicurezza. Ma forse la ragione del ritardo è un’altra. Mancano le risorse finanziarie necessarie a rendere operativo il progetto, risorse che dovrebbero essere individuate e reperite da ministri degli Interni in quelle già disponibili, senza generare nuovi capitoli di spesa. Come al solito la coperta è troppo corta: in mancanza di nuovi fondi, se si copre una parte si rischia di scoprire l’altra (…)”, (gennaio 2007);
  • “L’esperienza accumulata in questi ultimi anni nella lotta al terrorismo dimostra che la comunicazione via internet costituisce uno dei mezzi più efficaci e meno controllabili per organizzare cellule terroristiche e fare proselitismo (…)”, (gennaio 2006);
  • “Mentre le esigenze di prevenzione e di repressione del terrorismo anche internazionale non possono assumere alcun rilievo relativamente al rispetto di alcuni diritti intangibili e assoluti, esse possono però giustificare l’adozione di misure restrittive incidenti sull’esercizio di altri diritti, purché siano soddisfatte le condizioni all’uopo previste dalle singole disposizioni che li tutelano (…)”, (luglio 2007);
  • “Insomma, è tempo di gettarsi dietro le spalle le due tragiche ideologie che hanno dominato il secolo scorso con il loro delirio totalitario. Quanto agli ex terroristi, è tempo che smettano di cercare tribune da cui esibirsi, fornire la loro versione dei fatti, tentare ancora subdole giustificazioni. Lo Stato democratico che intendevano abbattere si è mostrato fin troppo generoso nei loro confronti. Pur avendo il diritto di reinserirsi nella società dopo aver pagato i conti con la giustizia, devono farlo con discrezione e misura, senza mai dimenticare le proprie responsabilità morali che non sono meno importanti di quelle penali (…)”, (giugno 2008);
  • “Così come non dovrebbero dimenticare le proprie responsabilità morali anche coloro che hanno contribuito a teorizzazioni aberranti e a campagne di odio e di violenza da cui sono scaturite le peggiori azioni terroristiche, ovvero hanno offerto al terrorismo motivazioni, attenuanti, coperture e indulgenze fatali. Il riferimento ai «cattivi maestri» e ai tanti fiancheggiatori rimasti impuniti appare evidente (…)”, (giugno 2008);
  • “L’esigenza di combattere il terrorismo non fa venire meno il divieto di estradare o; di espellere lo straniero dal territorio dello Stato quando esistono seri e concreti motivi per ritenere che esso corra il rischio reale di essere sottoposto, nel Paese di destinazione, a tortura o a trattamenti inumani e degradanti (…)”, (settembre 2008);
  • “Configura il delitto di «atto di terrorismo», previsto e punito dall’articolo 280 bis del Codice penale, aggravato dalla finalità di eversione dell’ordine costituzionale, la collocazione di un ordigno micidiale sul davanzale di una finestra dell’ufficio elettorale del candidato alle elezioni per il rinnovo del Parlamento della Repubblica (…)”, (settembre 2010);
  • “Si va consolidando la tendenza a considerare il territorio europeo non più solo un riparo e una retrovia logistica, ma anche un teatro operativo e una base per pianificare iniziative da consumare altrove (…)”, (dicembre 2010);
  • “È, però, principio centrale del diritto internazionale dei diritti umani che esso debba tenere il passo con il mondo che cambia. Alcune delle più gravi violazioni dei diritti umani sono oggi commesse da o per conto di attori non statali che operano in situazioni di conflitto di un tipo o dell’altro, anche mediante reti terroristiche nazionali o internazionali. Di qui l’esigenza di adeguare la normativa alla realtà, riconoscendo le vittime degli atti di terrorismo come vittime di gravi violazioni di tale diritto (…)”, (ottobre 2012);
  • “Il prolungarsi della crisi economica aumenta i fattori di rischio sul fronte dell’eversione e del terrorismo (…)”, (maggio 2013);
  • “Non v’è dubbio che l’Isis, a differenza di altri gruppi terroristici che combattono in Iraq e in Siria, abbia un grande «appeal» tra i giovani stranieri, spesso occidentali (…)”, ottobre 2014.

Non solo il grande PM Marini. Anche un uomo di mondo, che amava l’Opera e le prime, le cene tra amici, perché no la mondanità sic et simplicter ma sempre e comunque colta, le presentazioni dei libri, gli incontri ad altro livello, i salotti di un certo tipo (frequentatore assiduo di quelli di Anna Maria Ciuffa, sempre in prima linea nel giro dei grandi invitati), le alleanze mentali, le rivelatrici disquisizioni su Italia ed internazionale con tutti, ma anche chiacchierate alla mano, contraddistinte da serietà, giocosità, buon umore, dolcezza, energia (insignito anche del Premio Simpatia 2015 nella Sala del Campidoglio). Sempre con la moglie Elisabetta, una coppia nota nel mondo romano ed italiano per intelligenza ed  affettuosità, classe, presenza (spesso ritratta sul Dagospia di Roberto D’Agostino).

Per me il Palazzaccio, la Corte dove mi riceveva e restavamo a parlare per lungo tempo al fluire del Tevere. Per me la promessa di portarmi al Carcere di Regina Coeli, che non conoscevo, sapendo che avevo esercitavo da psicologa in quello di Rebibbia. Per me, giurista e penalista, ma soprattutto grande costituzionalista, un esempio da seguire.

Andato in pensione solo nel 2015, ricevendo subito il Premio alla Carriera Giudiziaria e il Premio Colosseo D’oro. La nuova, più definitiva assenza di Antonio Marini lascia un vuoto invalicabile nel panorama intellettuale e culturale italiano e nella lista di coloro che possano essere consultati per “capire cosa fare”, soprattutto in un momento – quello odierno – in cui mancano combattenti tanto da non esserci nemmeno un voto, e così, con essi, le idee e l’onestà intellettuale, l’esperienza, il coraggio, l’animo. Viene meno un giudice, un uomo di legge, un lottatore, un sentimentale, un romantico, un cervello, un amico.

Solo un terrorista non è riuscito a sconfiggere, ma lo si ricorderà per quelli che ha fermato. In tutti i casi incluso l’ultimo, risolutivo, con una costante: senza paura. (Romina Ciuffa, il tuo direttore e la tua amica)

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NON BASTA INFORMARE: È LA PSICOLOGIA AD INCORAGGIARE I COMPORTAMENTI ECOLOGICI

«Una persona sana di mente non preferirà mai la vista di un cumulo di foglie morte a quella dell’albero da cui sono cadute», scriveva nel 1985 il filosofo e psicologo Edward O. Wilson, teorico della biofilia, ossia la tendenza umana verso la natura. Da quest’ultima l’uomo proviene e a quest’ultima accede attraverso comportamenti differenziali che possono proteggere l’ambiente o indebolirlo, se non deformarlo o distruggerlo.

Il rapporto uomo-natura è l’oggetto di studio degli psicologi ambientali soprattutto in ragione delle distorsioni che l’hanno viziato e che hanno condotto al deterioramento di entrambe le parti dell’equazione ecologica: la natura, che vive una situazione di estrema emergenza causata dall’errore antropocentrico, e l’uomo, la cui qualità della vita si è ridotta, in quanto strettamente collegata alla qualità dell’ambiente e, attraverso di essa, alla qualità dello sviluppo economico.

Alla base del difficile e conflittuale rapporto tra uomo e ambiente stanno il diverso modo di funzionare del «tecnosistema» umano – in particolare di quello economico – in relazione con l’ecosistema, e la tendenza delle società industrializzate ad affrontare la natura come sfida ambientale e non come dimensione entro cui adattarsi. Affrontare la crisi ecologica impone innanzitutto di scoprirne le fondamenta: infatti, la crisi ecologica si profila sostanzialmente quale crisi del rapporto fra il mondo naturale e il mondo umano, segno di un equilibrio distrutto. La delicata situazione presente sottolinea la necessità di tornare a far proprio il concetto di «limite», perché quello adottato sino ad oggi non è l’unico modo possibile di vivere, si offrono anche percorsi diversi: al centro della questione vanno ricondotti l’uomo e lo stile di vita che ha deciso di adottare.

La perdita di biodiversità è frutto di scelte indipendenti di miliardi d’individui che fanno uso di risorse e servizi ecologici: il comportamento umano deve essere guidato nel senso di uno sviluppo sostenibile che, lungi dal costituire una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento che mette l’una di fronte all’altra le generazioni. Il punto di partenza della progressiva presa di coscienza ecologica è l’avvio del programma dell’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, le Scienze e la Cultura, denominato Mab ossia «Man and Biosphere», varato agli inizi degli anni Settanta, un osservatorio privilegiato per affrontare con mezzi e competenze adeguati i diversi problemi dell’ecosistema: nel binomio uomo-biosfera, l’uomo è proposto al centro della Terra come elemento centrale e attivo nei processi bioecologici, e il sistema ecologico è la nuova unità di analisi.

Nel 1987 il concetto di sostenibilità fu lanciato per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica e degli studiosi dal rapporto Brundtland, conosciuto anche come «Our Common Future», della Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo; esso è divenuto un obiettivo dichiarato delle politiche economiche e ambientali dei vari Paesi e degli accordi internazionali aventi per oggetto materie ambientali a partire dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, cui parteciparono 172 Governi, 108 capi di Stato o di Governo, 2.400 rappresentanti di organizzazioni non governative e oltre 17 mila persone.

In quell’occasione fu firmata la Convenzione sulla diversità biologica, finalizzata ad anticipare, prevenire e combattere alla fonte le cause di significativa riduzione o perdita della diversità biologica in considerazione del suo valore intrinseco e dei suoi valori ecologici, genetici, sociali, economici, scientifici, educativi, culturali, ricreativi ed estetici, oltre che a promuovere la cooperazione tra gli Stati e le organizzazioni intergovernative. Un nuovo meeting a Rio si è svolto nel 2012, il «Rio+20», e le dichiarazioni a margine sono state scoraggianti: «Questo è un momento unico in cui il mondo ha bisogno di una visione comune, di impegno e di una forte leadership. Ma il documento che abbiamo per le mani in questo senso è un fallimento», dichiarava Mary Robinson, ex presidente della Repubblica irlandese ed ex alto commissario dell’Onu per i diritti umani; Jeremy Wates, segretario generale dell’Ufficio per l’Ambiente europeo, ha definito il meeting un flop, e Fernando Cardoso, che nel 1992 era presente all’Earth Summit e dal 1995 è stato anche presidente del Brasile, affermava che «la divisione tra ambiente e sviluppo è anacronistica e non porterà alla soluzione dei problemi che stiamo creando ai nostri discendenti diretti. La soluzione è nella crescita sostenibile, non nella crescita a tutti i costi».

L’interesse verso i temi trattati dalla Psicologia ambientale ha richiesto un inquadramento della materia a livello istituzionale e accademico. In Italia non solo è stato compiuto un grande passo in ambito universitario verso il riconoscimento formale della disciplina, ma è stato anche creato, nel 2005, il Centro interuniversitario di ricerca in Psicologia ambientale (Cirpa) per la promozione e lo sviluppo della materia, un consorzio tra le università italiane e gli enti di ricerca, nel quale risultano fino al momento più consolidati gli interessi della ricerca psicologica in questo senso. Sotto la direzione di Mirilia Bonnes e la vicedirezione di Marino Bonaiuto, provenienti dall’Università Sapienza di Roma, il Cirpa vanta un comitato scientifico nel quale sono presenti ricercatori dalle Università di Padova, di Roma Tre, di Cagliari, di Napoli.

«Sostenibilità» fa riferimento alla necessità di venire incontro ai bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri: le variazioni apportate all’ambiente dalle attività umane devono mantenersi entro limiti tali da non danneggiare irrimediabilmente il contesto biofisico globale e permettere alla vita umana di continuare a svilupparsi. Ciò significa fare in modo che il tasso di inquinamento e di sfruttamento delle risorse ambientali rimanga nei limiti della capacità di assorbimento dell’ambiente ricettore e delle possibilità di rigenerazione delle risorse secondo quando consentito dai cicli della natura, per evitare la crescita dello stock di inquinamento e dell’elettrosmog nel tempo, l’effetto serra, l’estinzione di specie naturali, la deforestazione, la desertificazione, la distruzione della foresta amazzonica, e molti altri dei danni irreparabili che l’uomo provoca e ha provocato con il proprio comportamento non «biosferico».

È sull’uomo che si deve incidere per compiere l’improcrastinabile e necessaria inversione di marcia: solo attraverso la modificazione dei comportamenti individuali è possibile salvare il pianeta. Ciò non è cosa facile: il comportamento è frutto di meccanismi spesso incontrollabili o difficilmente trasformabili. Inoltre, la profonda sfiducia del singolo nel sistema rende l’impresa ancora più ardua, dovendo intervenire non solo sugli aspetti cognitivi del comportamento, ma più spesso sulla sfera motivazionale ed emotiva che guida il comportamento umano ed è parte integrante del «making plan» decisionale. Di tale impresa si stanno occupando gli psicologi ambientali con studi e ricerche sul campo e utilizzando metodi quantitativi e qualitativi, attraverso «case studies» che mettono al centro l’uomo – da solo e nella sua componente sociale – con le credenze, i valori, il sistema normativo, le motivazioni, in generale tutti quegli elementi che muovono il comportamento individuale e che vanno a comporre lo stile di vita.

Un comportamento ecologico può essere realizzato in modo intenzionale (prendere la bicicletta al posto dell’auto per un fine ambientale) o non intenzionale (prendere la bicicletta al posto dell’auto per risparmiare i costi della benzina), ma essere comunque efficace sul punto dell’impatto ambientale. È ecologico, o più ecologico di un altro, anche un comportamento che, pur non arrecando beneficio all’ambiente, si pone su un piano neutrale. La maggior parte dei comportamenti rilevanti sono espressione di abitudini, nelle quali l’intenzionalità è pressoché nulla, azzerata da meccanismi di risparmio cognitivo, e l’unità di analisi è più lo stile di vita che non il gesto singolo: le abitudini sono stringhe comportamentali nemiche dell’ambiente ed è soprattutto su queste che devono intervenire gli psicologi ambientali, risvegliando i singoli sulle conseguenze di azioni non ponderate e fornendo delle motivazioni differenti per gli atteggiamenti e la condotta routinaria. Oltre a ciò, la differente direzione motivazionale dei comportamenti colloca, accanto a valori altruistici ed egoistici, valori «biosferici» che sottendono ai comportamenti ambientali e li guidano, e che devono essere stimolati nell’ottica di un cambiamento globale.

La psicologia ambientale ha, inoltre, preso atto di un fenomeno in grado di dare una netta sferzata al comportamento, le «epifanie ambientali», che si presentano all’individuo come una rivelazione improvvisa, repentina, che lo avvicinano al senso della natura, e lo inducono a modificare il proprio stile di vita in funzione di un’ecologicità cosciente. Si verifica, in questi casi, quel ritorno alla natura che gli psicologi ambientali auspicano, si ricuce il rapporto uomo-natura in funzione di quest’ultima e si prende atto della sua presenza, prima invisibile.

Vi sono anche casi, affatto rari, in cui l’uomo nasce con una spiccata predisposizione verso l’ambiente o in cui, avendo l’occasione di vivere in un contesto naturale, matura non solo convinzioni, abitudini e stile di vita ecologici, bensì un’identità ambientale che può eventualmente evolversi nel senso di un impegno costante per la salvaguardia della natura. Per Wilson, «le persone preferiscono stare in ambienti naturali, in particolare nella savana o in un habitat simile a un parco. Amano poter spaziare con lo sguardo su una superficie erbosa relativamente piana punteggiata di alberi e cespugli. Vogliono stare vicino a una massa d’acqua: un oceano, un lago, un fiume o un ruscello. Cercano di costruire le proprie abitazioni su un rilievo, da cui poter osservare in sicurezza la savana o l’ambiente acqueo. Con regolarità quasi assoluta, questi paesaggi sono preferiti agli scenari urbani brulli o con poca vegetazione. In una certa misura, le persone mostrano di non amare le immagini di boschi in cui lo sguardo non può spaziare, la vegetazione è complessa e disordinata e il terreno è accidentato: in breve, le foreste con alberi piccoli e fitti e un denso sottobosco. Prediligono caratteristiche topografiche e aperture che consentono una visione più ampia».

Con il termine di biofilia si è definita una predisposizione dell’uomo verso la natura che per Wilson ha origini genetiche, e ciò si sintetizza nell’innata affiliazione emozionale dell’uomo agli altri organismi viventi, quel rapporto emotivo che da sempre lega gli esseri umani alle altre forme di vita che l’hanno accompagnato nel viaggio dell’evoluzione. «Biofilia–dice Wilson–è la tendenza innata a concentrare il proprio interesse sulla vita e sui processi vitali (…). Fin dall’infanzia, con animo felice, noi concentriamo la nostra attenzione su noi stessi e sugli altri organismi. Apprendiamo a distinguere la vita dal mondo inanimato e a dirigerci verso la vita come una farfalla attratta dalla luce di una veranda».

L’affinità dell’uomo con la natura, e con tutti gli esseri viventi, sarebbe dunque un prodotto della selezione naturale. Il concetto di verde appare come un punto di riferimento molto coinvolgente, archetipico e quasi viscerale. Il fatto che soggetti di differenti culture mostrino preferenze analoghe avvalora l’eventualità di una base genetica delle preferenze umane per l’habitat, che costituisce indubbiamente per tutti gli organismi il primo e cruciale passo per la sopravvivenza. Gli effetti benefici per la salute psichica e fisica dell’uomo derivanti da un contatto diretto con la natura sono ampiamente documentati da un’estesa letteratura scientifica: l’espressione «restorativeness» si riferisce agli effetti positivi che l’ambiente naturale ha per il benessere psicologico dei soggetti.

L’identificazione con il tema ambientale può sorgere, in misura più o meno ampia, anche nelle aree verdi degli ambienti urbani – se presenti, se note, se accessibili – o essere guidata da un’educazione ambientale attenta e mirata. La sola informazione, però, non è sufficiente a produrre un cambiamento nei comportamenti, o comunque un cambiamento stabile, come non sono sempre utili le strategie impiegate dalla politica, ad esempio tasse ambientali e incentivi monetari, in grado addirittura di spiegare un effetto inverso riducendo la motivazione morale delle persone a comportarsi in modo pro-ambientale.

Gli interventi sono distinti in strategie «soft», quelle informative, che hanno lo scopo di incrementare la conoscenza, la consapevolezza, le regole e le abitudini delle persone, come le campagne di sensibilizzazione sulla raccolta differenziata; e «hard» o strutturali, aventi lo scopo di cambiare le circostanze in cui sono messi in atto i comportamenti decisionali; fornire servizi per il riciclo dei rifiuti ne è un esempio. È importante individuare quei comportamenti che possono migliorare, in modo significativo rispetto ad altri, le condizioni ambientali, per indurre più massicciamente i primi; gli interventi devono essere dotati di un buon fondamento teorico e ad ogni intervento deve seguire una valutazione corretta delle sue conseguenze. Dove bisogna gettare un tovagliolo di carta? In quale dei contenitori: indifferenziato, umido o carta? L’azione informativa è utile a colmare il deficit di conoscenza; subito dopo deve intervenire l’azione strutturale, ossia la predisposizione, da parte delle autorità troppe volte sorde, di servizi per la raccolta, perché il comportamento compreso possa essere concretamente attuato. Da ciò consegue la forte necessità di educare la politica prima di tutto.

Sebbene sia sempre più possibile riscontrare una dichiarata consapevolezza ambientale, quest’ultima non risulta accompagnata da una matura azione quotidiana di sostenibilità ambientale, e i lavori realizzati dagli psicologi mostrano il ridotto riscontro delle campagne massicce volte a promuovere comportamenti ecologici responsabili. L’eccesso di informazione e le propagande morali non sono sufficienti a produrre processi di cambiamento di questo genere; secondo gli «ecopsicologi» della branca della «Ecopsicologia» è erroneo ritenere che la sensibilità ambientale possa maturare principalmente attraverso campagne di informazione e di comunicazione, o attraverso interventi di educazione ambientale nelle scuole, senza piuttosto l’esperienza di natura che tende a favorire l’emergere di un nuovo atteggiamento verso l’ambiente naturale, coinvolgendo non solo il sapere razionale ma anche la riflessione astratta, per modificare le immagini mentali e cambiare, riaccendendo un senso di profonda connessione con la Terra, nella consapevolezza che i valori non si modificano in un corso di formazione più o meno convenzionale, bensì attraverso azioni di formazione in cui la persona abbia modo di disimparare credenze che aveva dato come immodificabili nel passato.

In tempi recenti le società europee hanno acquisito la consapevolezza della necessità di comportamenti più responsabili e delle conseguenze delle azioni individuali e collettive sull’ambiente, e l’educazione ambientale ha assunto un ruolo centrale e diverso rispetto alla tradizionale accezione che la confinava nell’ambito dell’educazione naturalistica o negli spazi destinati alle campagne informative o di sensibilizzazione, o nelle aree protette.

La pura didattica o la semplice informazione non sono più in grado di fornire gli strumenti necessari ad agire in modo responsabile ed autonomo e garantire un grado di sviluppo sostenibile della nostra società; l’educazione ambientale deve sempre più configurarsi come educazione alla sostenibilità (ambientale, economica, sociale o dello sviluppo in senso lato): un impegno e un’opportunità in grado di coinvolgere tutti gli attori sociali, chiamati a diversi livelli e con competenze pluridisciplinari a definire obiettivi, strategie, azioni per attività integrate, utili a produrre una crescita culturale tale da riflettersi, mediante modifiche permanenti di atteggiamenti e comportamenti, sulla qualità ambientale e sulla nostra società, per preparare gli individui all’intenzione di prendere decisioni consapevoli rispetto all’ambiente.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2014




FRANCESCO MORACE: LA CRESCITA NON PUÒ E NON DEVE RAPPRESENTARE UN PROBLEMA, MA DEVE ESSERE FELICE

di ROMINA CIUFFA. Festival della Crescita. La domanda sorge spontanea: stiamo crescendo? Personalmente sostengo che si cresce fin quando non ci si alzi di statura; da quel momento, poi, si decresce. Perché le funzioni cominciano a venir meno. Ma aumentano le capacità. La vista lentissimamente cede, la memoria anche, ed altro; ma sappiamo utilizzare modelli più complessi di vitalità e congetturazione, ergo, creazione. Le abilità si moltiplicano, il pensiero sì che cresce. Del Festival ideato da Francesco Morace – sociologo e saggista, da oltre 30 anni attivo nell’ambito della ricerca sociale e di mercato con la sociologa e moglie Linda Gobbi, con la quale ha fondato e presiede Future Concept Lab – l’obiettivo è quello di creare un circolo virtuoso tra i protagonisti della crescita e dello sviluppo, siano essi cittadini o istituzioni, imprese o creativi, studenti o professionisti. Il «Manifesto della crescita», piattaforma progettuale delle tappe e dei contenuti sviluppati nell’arco del 2017, ha orientato la messa a fuoco di contesti e progetti di innovazione in varie città con incontri, workshop e performance dedicate. Crescita è cambiamento. E non metamorfosi, come spiega.

Domanda. Cos’è il Festival della Crescita?
Risposta. Due anni fa Future Concept Lab, che da sempre lavora sul tema del cambiamento, ha deciso di lanciare una nuova visione di crescita felice, agganciandola anche al successo di un piccolo caso editoriale, il mio libro «Crescita felice. Percorsi di futuro civile», che mette in discussione la decrescita felice pur condividendone alcuni passaggi, in particolare la non sostenibilità del modello economico precedente. È la terapia ad essere sbagliata: il tema non è fare un passo indietro e decrescere, bisogna adottare nuovi paradigmi. L’Università Bocconi di Milano tramite la casa editrice Egea ha supportato il festival, insieme ad altre aziende quali Herno, Illycaffè, Intesa Sanpaolo, Conad, Subito, Coldiretti, realtà che hanno creduto nel progetto e non hanno chiesto nulla in cambio, in un concerto di manager ed imprenditori: l’unico modo di venir fuori dall’impasse è mettere a fattor comune la visione della società, dell’economia civile e della crescita sostenibile.

D. Come è strutturato? 
R. È un festival non tematico che analizza la crescita in maniera trasversale. A Milano è più ampio e si svolge in quattro giornate: «Inventare la crescita» con artisti, musicisti, tecnologi; «Educare alla crescita» con professori e pedagoghi; «Comunicare la crescita», chiamando in causa giornalismo, pubblicità e marketing; infine «Coltivare la crescita», che coinvolge più direttamente la Coldiretti con l’agroalimentare e le imprese legate ai territori: giornata delle imprese e del made in Italy.

D. Cosa può fare l’Italia per riavviare un meccanismo virtuoso di crescita felice?
R. Non «scopiazzando» malamente il modello di altre realtà, ad esempio il mondo anglosassone o americano, ma estrarlo da quello che siamo, dal nostro genius loci e da quello che definisco Italian factor, ossia la nostra capacità di incrociare i pensieri, cosa che altre culture non hanno, e di moltiplicarne il valore. Siamo genio e sregolatezza, quelli che non riescono a moltiplicare il valore che hanno in casa.

D. A Milano una lunga tappa. Nel resto del territorio?
R. Milano è un punto di avvio, ma bisogna andare sui territori e a tal fine abbiamo individuato degli ambasciatori della crescita nelle 17 città visitate. Ad oggi sono 250. Con loro abbiamo capito che l’Italia ha uno straordinario potenziale messo in campo. Basti vedere i luoghi meravigliosi che ci ospitano, in qualche modo offerti dalla pubblica amministrazione in cambio di contenuti e relatori, che sono i nostri ambasciatori. Facciamo 10 tappe di più giorni in un anno con soli 300 mila euro: siamo ormai un modello di business che intercetta esigenze e bisogni locali. Un sindaco di un città medio-grande non sarebbe in grado di raggiungere a basso costo l’eccellenza dei contenuti offerti dai nostri relatori, e non saprebbe come gestirli.

D. Cos’è «Future Concept Lab»?
R. Nel 1989 mia moglie Linda ed io, insieme ad altri due colleghi sociologi, abbiamo avviato l’istituto di ricerca con la grande fortuna di avere avuto nei sei anni precedenti una fruttuosa esperienza con la società di ricerca GPF&Associati del sociologo Giampaolo Fabris; la particolarità della nostra «startup», come si definirebbe oggi quello che eravamo ieri, è stato l’intento di specializzarci nell’innovazione, una visione all’epoca non facilmente comprensibile tanto da rapportarci inizialmente solo con aziende straniere. Non marketing classico ma l’idea che l’innovazione è fatta da persone. Abbiamo così ingaggiato gli studenti stranieri che avevamo avuto come allievi per fare cool hunting, termine che oggi con la rete è stato banalizzato ma che nel 1992 ci consentì di ricevere le tendenze, all’epoca tramite diapositive, dalle capitali del design: Tokio, Parigi, Londra, New York e Milano. Dopo poco le città son diventate 40 e i corrispondenti 50, alcuni dei quali ancora con noi.

 

Festival della Crescita 2017, Romina Cuffa, Naby Eco Camara e Seydou Dao

Un momento sul palco del Festival della Crescita 2107

D. Nel concreto, di cosa si occupa?
R. Consulenza e formazione di aziende: sin dall’inizio abbiamo sintetizzato i segnali deboli del cambiamento fornendo un pacchetto derivato da un «laboratorio dei concetti del futuro». Nelle aziende, la direzione «Innovazione» con la quale principalmente lavoravamo non esiste più. Ora lavoriamo con il top management e con molti imprenditori, soprattutto italiani. Abbiamo ricevuto diversi premi in Europa come primo istituto che ha lavorato sulle tendenze socio-culturali.

D. Per questo parlavate di «trend foundation»?
R. Esattamente. Fondare il pensiero nelle aziende è definire uno scenario con megatendenze e paradigmi sulla base di ciò che cambia, suggerire prodotti e progetti che siano in sintonia con i risultati delle nostre ricerche. Per dieci anni, fino al 2012, abbiamo anche avuto un ufficio a San Paolo in concomitanza con il boom brasiliano. Il festival è il naturale proseguimento di questa attività.

D. Un nuovo mondo che oscilla tra «online» ed «onlife»: quali differenze? 
R. Paternalisticamente diciamo: spegnere e accendere i cellulari. La «second life» è stata un’idea «disruptive», innovativa, ma oggi pericolosa perché, tornando nella «total life», ne vanno compresi i confini. Sono le persone i protagonisti del cambiamento. Lo motiva nell’ambito del Festival 2017 TheFabLab di Massimo Temporelli, che cura la robotica e le tecnologie, ma anche Maria Sebregondi, inventrice della Moleskine, la quale spiega come non solo la parola scritta non scomparirà ma sarà invece una grande tendenza del futuro, per via del piacere manuale e artigianale del fare. Le due cose non si contrappongono. Venti anni fa si diceva che questa sarebbe stata la società dell’immagine: nulla di più sbagliato, nel senso che c’è l’immagine, c’è la parola che diventa immagine, c’è l’immagine che diventa parola. Siamo nel centro di una metamorfosi, straordinario concetto elaborato da Ulrich Beck nel libro postumo «La metamorfosi del mondo», in cui la distingue dal cambiamento in quanto quella non può essere decisa da noi, il cambiamento sì. Non si sceglie di diventare farfalla. Dobbiamo riprendere il controllo del cambiamento anche osservando i nostri figli.

D. Cosa si osserva sui giovani? 
R. Per i ricercatori sociali che lavorano sui grandi cambiamenti i ragazzi sono già farfalle ma non sanno dove volare e noi siamo bruchi che sperano di correre più forte, mentre i giovani stanno volando. C’è un gap antropologico ed è la tecnologia a fare la differenza. In questa fase di metamorfosi torna ad essere importante la diversità, e quando c’è diversità c’è vita: l’omologazione è morte. Pertanto anche alle aziende non forniamo più un taglio solo descrittivo delle tendenze di mercato e dei consumatori ma – con il passaggio ai «ConsumAutori» – proponiamo un capovolgimento per cui le aziende non devono più pensare al consumatore bensì lavorare sui valori, divenire campi gravitazionali, essere attrattori in modo trasversale rispetto alla tradizionale modalità del marketing, la quale fornisce un prodotto a ogni tipo di mercato laddove la segmentazione impone di arrivare all’unicum di ciascuno. Quando i grandi imprenditori come Olivetti hanno iniziato ad aprire le loro aziende non pensavano al consumatore ma a trasferire i propri valori attraverso un rapporto territoriale e familiare. Se pensiamo al cambio generazionale questo è stato anche un limite: venti anni fa in termini di marketing non avremmo parlato di grandi valori ma di colore e foggia dei vestiti, mentre ora parliamo di sostenibilità, di condivisione, di unicità nell’universale.

D. Il genius loci come si colloca in questo mutato contesto universale?
R. Nel manifesto della crescita abbiamo aggregato dei temi su cui c’è una condivisione quasi assoluta; uno di questi è l’incrocio delle sapienze locali. Il genius loci va trasferito nei linguaggi, e con le tecnologie odierne va amplificato; così si traduce e viene reso accessibile a chi non lo comprende. Questo è il lavoro di traduzione che cerchiamo di fare nelle aziende, ed ora anche nella pubblica amministrazione: mettere insieme le diversità non nel senso della tolleranza ma come «impollinazione felice» del colibrì, come recita il titolo di un mio libro: prima i colibrì erano solo gli artisti, i borderline, coloro che per definizione non si sentivano appartenenti ad una cultura, volavano e impollinavano; oggi lo è anche il consumatore. C’è una grande generatività che però ha difficoltà a riadattarsi a una logica identitaria, perché l’identità non è che un sistema di relazioni che trova in modo progressivo una Gestalt mutevole. Posso testimoniare che oggi la differenza tornano a farla le persone. Abbiamo lavorato per anni con le multinazionali, fino a un momento completamente impermeabili a questi ragionamenti e attente a cercare il profitto in modo scalabile; ora consapevoli. Vincerà chi è in grado di comprendere l’impollinazione e non chi cerca di scalare i problemi moltiplicando in modo standardizzato il poco valore che ha.

D. Che significa «deponenza»? 
R. Lo mutuo da Mauro Magatti e dal suo «Salto di paradigma»: deponenza è il punto di sfogo che evita l’arroganza del potere, oggi disfunzionale. Un’azienda non può controllare in modo verticale neanche i propri processi; nel contempo necessita di «serendipity», fare di necessità virtù. Non è un rapporto diretto attivo o passivo, è la capacità di intercettare ciò che avviene e portarlo sul territorio di pertinenza; come nel calcio, squadre che non hanno un proprio gioco ma capiscono quello altrui. Qui si tratta di avere un metodo. Il «ConsumAutore» non dice «voglio così e così deve essere», ma ha in testa un progetto di vita che modifica man mano che gli arrivano gli stimoli, e di essi sceglie quelli che sono in sintonia con il proprio sentire. Deponenza, insomma, è quella delle arti marziali, che usano la forza dell’altro indirizzandola contro di lui, anche se più forte.

D. Poiché stiamo parlando di crescita, e abbiamo bisogno di un attaccamento sicuro di bowlbiana memoria, cos’è oggi che ci fa crescere? Qual è il «caregiver» della nostra società? 
R. Ci fa crescere il sistema di relazioni che riusciamo a riconoscere intorno a noi, in Italia quasi sempre straordinario a partire dai luoghi che noi attraversiamo e dalle persone che quotidianamente incontriamo, anche il barista, un collega di lavoro, un passante in piazza. Da questo sistema di relazioni dobbiamo essere in grado nuovamente di attivare energie che siano progettuali, incontrando la diversità. La vera creatività è avere dei limiti e da essi poi ripartire con visioni nuove del futuro, rischiare sulla frontiera dell’inaspettato.

D. Se il «caregiver» è un sistema di riferimento, non possiamo rivolgerci sempre a chi non conosciamo. O sì?
R. Il sistema di relazioni prevede il «caregiver», prevede anche il genitore, prevede molto anche il nonno in questo momento e ancor più gli zii, perché lo zio si sceglie sulla base di chi ci corrisponde di più ed anche per quel sano distacco dal punto di vista affettivo e della frequentazione quotidiana che consente di individuare delle figure carismatiche nel senso dei maestri. L’importante è capire che tutto questo oggi diventa dinamico. Il sistema di relazioni è la nostra identità, la quale non è fatta di status, ed ha in questo momento la possibilità di essere elastica, ci lascia la responsabilità di scegliere. È anche vero che esistono gli incontri felici e fortunati, che sono normalmente quelli che ci cambiano la vita, da un professore ad un allenatore.

D. Un conto è il sociale, un conto è il «social». Escluderemmo il «social» come «caregiver» o potrebbe essere anche adesso, paradossalmente, una figura di attaccamento 2.0?
R. Noi siamo convinti che il social, così come il mondo digitale, possa essere l’amplificatore di tutto, ma non certamente la «foundation», ossia il punto di partenza, e devo dire che più sono giovani i ragazzi, più lo considerano in questi termini. Mentre il trentenne, cresciuto anche con queste nuove possibilità, ha un rapporto che, sia pure non passivo, è comunque di fascinazione, per i dodicenni che usano WhatsApp per mandarsi i compiti di scuola e studiare solo parzialmente, questi strumenti sono di amplificazione di relazioni che hanno già.

D. Purché non sfoci nel patologico.
R. Il rischio c’è sempre, e purtroppo il digitale amplifica anche le patologie.

D. Parlando di patologie senza andare nel clinico e delle nevrosi affettive che si sviluppano con l’uso dei nuovi media (ma non più tanto nuovi), come vede le relazioni che si generano proprio dal virtuale, la famosa «spunta blu» come nuova formula di stalking, in un mondo dove tutto è ossessivo? Ci si ossessiona e si ossessiona attraverso i social: ciò è risolvibile all’esterno o all’interno dello stesso sistema?
R. Ciò è vero, ma è assolutamente minoritario il fenomeno ossessivo. Per il 95 per cento osserviamo ancora una volta la capacità di dare al social quello che è del social, nel senso di rafforzare legami assolutamente reali che già si hanno. Non c’è più una «second life». Cadono in questa dimensione i deboli, con difficoltà di relazione, coloro che erano soli quando non c’erano i social e che molto spesso ne divengono oggetto. Lì credo che la risposta debba essere clinica, e che si debbano distinguere le patologie violente, che vanno curate, da tutto il resto che invece ha possibilità di essere ricondotto alla dimensione del reale, meglio ancora dell’onlife. La realtà è ormai tutto, è il modo in cui usiamo i social, è quanto di più fisico possa esistere e raccontabile anche online. I margini sono a grande rischio perché queste tecnologie radicalizzano il bene e il male e amplificano anche l’aggressività ma non dobbiamo cadere nell’errore di pensare che questo sia il mondo «social».

D. Non solo aggressività: c’è anche la passività nel guardare l’online, uno stato depressivo, quando non ossessivo, che non va nel clinico ma si dirige verso il clinico. Diciamo che se ci fosse una strada, il cartello sarebbe verde come quello autostradale, ed indicherebbe la direzione «clinico».
R. Vent’anni fa i ragazzini avevano crisi epilettiche perché giocavano troppo ai videogiochi. Il problema è che oggi si è talmente estesa questa possibilità che i soggetti più deboli cadono molto più frequentemente. Però tutto il resto si sta sviluppando in una direzione anche molto interessante perché dà ai ragazzi strumenti che prima non avevano per essere più creativi ed anche più in grado di avere un pensiero critico.

D. È la cosiddetta «experteen».
R. Esattamente: il diciottenne, più consapevole di noi ai nostri tempi, non ha più conflitto generazionale bensì una capacità individuale di relazionarsi con strumenti e conoscenze che prima non avevamo.

D. La metamorfosi beckiana come si coniuga con l’identità?
R. Siamo in piena metamorfosi e non ci accorgiamo di diventare farfalla, perché mentre il cambiamento può essere programmato, o immaginato con l’ideologia e la fantasia, la metamorfosi è una cosa che esiste a prescindere da noi, quindi dobbiamo affinare degli strumenti di autoriflessione. Beck parla di catastrofismo emancipativo: il cambiamento climatico, ormai evidente a tutti a parte qualche presidente americano, esiste e ci può portare, da essere umani, a cambiare noi stessi e certi comportamenti perché abbiamo paura. Questo parte da una metamorfosi che Beck dice essere in realtà il frutto di fenomeni collaterali, cose che non abbiamo immaginato o progettato ma che ci troviamo a dover affrontare perché qualcosa è andato storto.

D. Purché non sia una metamorfosi kafkiana: più che dal bruco alla farfalla dall’individuo allo scarafaggio.
R. Speriamo di no. Il rischio esiste ma dobbiamo dire che alla fine ce l’abbiamo sempre fatta, e so che, soprattutto con l’aiuto dei giovani, riusciremo ancora a farcela prendendoci più tempo per riflettere su di noi. Il saggista Thomas L. Friedman, in «Grazie per essere arrivato tardi», parla della diversità tra noi e la macchina così: quando si mette in pausa una macchina la macchina si ferma; quando si mette in pausa il cervello, il cervello comincia a riflettere. (ROMINA CIUFFA)

GALLERY FESTIVAL DELLA CRESCITA 2017, MILANO

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CASO WEINSTEIN: DALLA CONSIDERAZIONE DELLA DONNA ALLA «consiDESIDERIzzazione»

Parlo da uomo a uomo e non mi nascondo: sono più maschilista che femminista. Oltre a ciò, sono sempre stata dichiaratamente darwiniana, e con ciò intendo sollecitare riflessioni sulla natura umana: animale. Dotato di maggiore intelletto l’essere umano (forse), pur sempre un predatore il maschio. Ma, poiché tutta la vicenda Harvey Weinstein (rinvio ai giornali in cerca di click per comprendere la polemica scatenata dall’attrice Asia Argento) ha sollevato un polverone contro il sesso maschile, mi permetto di concentrarmi sull’altro punto di vista non molto considerato, quello dell’uomo, a partire da un tweet dell’attore Alec Baldwin in risposta alla stessa Argento (dopo, si sono reciprocamente bloccati su Twitter, rendon noto i media più educativi): «I casi sono due: se dipingi tutti gli uomini con lo stesso colore, o finisci il colore o finisci gli uomini».

Anzi, parto da un attimo prima, il momento in cui io stessa dico: quanto piace alle donne essere oggetto di considerazione? La definirei, coniando, una «considesiderizzazione», invero. Da che mondo è mondo, la donna fino ad una certa età ha un fare scocciato in reazione alle «molestie» subite da passanti che le sussurrano (o gridano) commenti eleganti o impropri sulle sue bellezze; dopo quella certa età, i commenti tendono a diminuire (in proporzione seni e labbra tendono ad aumentare a suon di chirurgia, per ristabilire l’equilibrio dalla natura violato). Non mi sono mai sentita infastidita da tali complimenti, in qualunque modo mi fossero espressi, tutt’altro: li ho sempre ritenuti – commenti e tentativi più sfrontati – sintomo di un’umanità che, fortunatamente, resta stabile nel suo divenire riproduttivo, istintivo. La considero non una questione «maschile», bensì educativa, scolastica, didattica, formativa, culturale. Avrei dovuto, dovrei, denunciarli tutti?

Parrebbe di sì, ora che so che la modella italo-filippina Ambra Battilana Gutierrez (anche testimone antiberlusconiana nel Ruby bis) ha guadagnato un milione di dollari a seguito di un accordo firmato con Weinstein, sebbene con esitazione e la motivazione che «con quei soldi avrei potuto aiutare mia madre e dare un futuro a mio fratello». Dichiarare questo le fa onore? «Armiamoci e partite». Resto cieca senza capire perché, se tanto molestata ed affranta, non abbia sporto denuncia, piuttosto abbia compensato l’amor proprio con una somma di denaro, quantificandosi. E cieca sono nei confronti di Asia Argento, che parla di maiali nonostante il padre abbia firmato il film «Phenomena» (non dovrebbe impressionarsi più di tanto) ma oggi si sveglia patrocinante di una class action con un mandato tacito firmato da tutte le donne del mondo che «hanno subito molestie» senza dichiararle nella sede ad uopo adibita.

Quando è accaduto a me, un no secco, anche educato, ai «big», ha fermato il mio conto in banca a un livello meritocratico. Avevo già la garanzia di un bestseller, cui mi opposi declinando l’offerta sinallagmatica del mio proponente di turno. Il quale non mi offese, né mi offende, tutt’altro: mi spinse a dimostrare quanto valessi a prescindere da quanto piacessi, e sulla mia autostima ciò ha avuto un effetto dirompente, quello di sentirmi più bella, in quanto desiderata, ma principalmente quello di scrivere meglio oggettivamente. Migliorarmi per migliorare l’intero sistema. Fare.

Per me una ballerina usa la testa prima dei piedi, un’attrice la capacità prima della recitazione. La verità è che le donne vogliono essere corteggiate, provocare, avere posizioni di prestigio «a costo di» sedurre. Per chiunque mastichi il Codice penale, la locuzione «a costo di» è sinonimo di una declinazione dell’elemento soggettivo del reato: il dolo eventuale. Meglio detto: l’agente (in questo caso la seduttrice) non vorrebbe commettere l’azione, ma al fine di ottenere lo scopo primario accetta anche le conseguenze eventuali di una condotta (in questo caso, la seduzione). L’esempio da manuale è la corsa in automobile su una strada trafficata: non c’è dolo diretto di uccidere ma è molto probabile che, in certe circostanze, possa provocarsi un incidente. È escluso qui il dolo volontario, in quanto l’agente non «vuole» in cuor suo che esso accada, ma non si è nemmeno nell’ambito della colpa; tanto che il penalista parla di «colpa cosciente» per indicare il caso sottostante in cui colui che agisce si rappresenta e prevede il risultato offensivo e, tuttavia, erroneamente ritiene con certezza che detto risultato non si verificherà nonostante la condotta. Siamo ad un passo dalla responsabilità oggettiva che la nostra Costituzione nel suo art. 27 esclude, affermando senza giri di parole che la responsabilità penale è personale; e che il delitto preterintenzionale (oltre l’intenzione) fa rientrare dalla finestra del Codice penale.

Ritengo che, in molti degli improvvisi casi segnalati dalle «attricette» e dalle altre professioniste (alcune delle quali presenti ad Arcore o in altri luoghi simili in cui si pratica bunga-bunga), la vittima possa assumere un ruolo attivo, e oscilli tra colpa cosciente e dolo eventuale. Gli artt. 609bis e seguenti del nostro Codice penale proteggono la libertà sessuale e il diritto di esplicare liberamente le proprie inclinazioni personali, impedendo altresì che il corpo possa essere senza consenso utilizzato da altri ai fini di soddisfacimento erotico. Le violenze vanno distinte dalle molestie dell’art. 660, che richiedono una petulanza (ed escludono il reato continuato per definizione) od altro biasimevole motivo negli atti di disturbo (spesso integrati nel mobbing). È qui impossibile non chiamare in causa la famosa «sentenza dei jeans», la quale però ha tutt’altro «sex-appeal». Infatti, in essa si parlava di stupro decontestualizzato, disfunzionale.

Asia Argento e Harvey Weinstein al Festival di Cannes (2004)

Ciò di cui parla Asia Argento (con le dichiarazioni sulle molestie subite dal produttore 20 anni fa) è (nel codice italiano almeno, e cercando di valutare la situazione in termini generali dal punto di vista del nostro ordinamento) l’abuso di autorità, che la legge n. 66 del 15 febbraio 1996 inserisce accanto alla violenza e alla minaccia a scopo sessuale. Fossi il giudice, chiederei all’accusa di definire il concetto di autorità: è tale quella di colui che sceglie chi parteciperà o meno alla produzione di un film multimilionario? Non entro nel merito del caso Weinstein, non ero presente quelle centinaia di volte che il grande seduttore ha violentato le sue inconsapevoli e sorprese vittime durante un provino, un colloquio, una cena; né lo ero negli altri innumerevoli casi di star oggi accusate dello stesso crimine (e non faccio a meno di tener presente il film «Rivelazioni», in cui le molestie sono commesse, in mobbing, da una donna – l’attrice Demi Moore – ai danni di un suo dipendente di sesso maschile – l’attore Michael Douglas -).

“Rivelazioni”, con Demi Moore e Michael Douglas

Distinguo tra stupri, molestie, violenze e abusi generici, da una parte, e sistemi che si sono sempre nutriti di tale consuetudine, dall’altra. I primi sono coperti a tutti gli effetti dalla fattispecie penale; i secondi entro certi limiti. E invito a esporre denuncia, strumento funzionale al perseguimento del criminale, non dei propri scopi, il quale va utilizzato in giudizio, non a mezzo stampa. In quest’ultimo caso, come dalla fattispecie di abuso sono stati tratti vantaggi dalla vittima, così similmente dall’impiego dei media: l’ottenimento di una copertina, di un titolo, di una presenza nel talk show, magari una parte in un film. Sicuramente un posto di rilievo dal parrucchiere.

L’uomo è predatore, ma – se è l’uguaglianza di genere che sosteniamo – la donna non è preda. Usa le armi della seduzione e, ove non lo faccia, non è vittima inerme di un sistema patriarcale. Non più. Ha posti di rilievo in politica, in azienda, nel cinema, ovunque voglia; sa tenere testa a un uomo. Quando, per forza fisica, non vi riesca, è stupro. Quando, per forza intellettuale, non vi riesca, è stupida. O fin troppo intelligente. Ed ora basta chiacchierare: tutte a lavorare. (ROMINA CIUFFA)

 




RICCARDO VITANZA (PAROLE & DINTORNI): COMUNICARE NON SOLO MUSICA, NON SOLO PAROLE, MA ANCHE I LORO DINTORNI

Dintorni. Ossia tutto ciò che c’è intorno alle parole, e non solo. Questo è Riccardo Vitanza, numero uno della comunicazione musicale in Italia che rappresenta, quale ufficio stampa, artisti del calibro di Francesco De Gregori, Zucchero, Claudio Baglioni, Francesco Guccini, Luciano Ligabue, Elisa, Renato Zero, Charles Aznavour, Vinicio Capossela, Umberto Tozzi, Piero Pelù, e infiniti altri simboli musicali, come anche artisti emergenti. Lui li individua, li scopre, li sceglie, li produce attraverso la sua società, Bollettino Edizioni Musicali, e ne fa, attraverso Parole & Dintorni, oggetto dell’interesse della stampa italiana.

Con lui un team di giovani, sul suo imprinting formati ed educati alla cultura giornalistica e alla deontologia dal 1990 ad oggi, così immessi nel mercato anche a partire dalle sue lezioni all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove è docente nel corso di «Ufficio stampa e comunicazione» del master in Comunicazione musicale. Con Parole & Dintorni è anche consulente per la comunicazione di associazioni, società, locali, manifestazioni, progetti, nonché di attori e personaggi dello spettacolo.

Vitanza nasce a Massaua, in Eritrea, l’8 ottobre 1965, con la passione per il mondo dei giornali, che si manifesta sin dalla tenera età. Di umile famiglia, trasferitosi in Italia, dopo aver interrotto gli studi di Giurisprudenza con cinque esami sul libretto nel 1987 comincia a lavorare nel campo della comunicazione come copywriter, e nel 1988 entra nel mondo dello spettacolo come autore di testi, curatore di un periodico e addetto stampa per conto del primo locale afro-latino in Italia, lo Zimba. Nel 1990 inizia l’attività di freelance e si specializza come ufficio stampa nell’ambito musicale, costituendo la ditta individuale Parole & Dintorni. I suoi primi clienti sono Jovanotti, Pino Daniele e Giorgia. Nel 1997, Parole & Dintorni diventa una srl.

Per conoscere il mercato musicale in Italia, bisogna parlare con Vitanza.

Domanda. Riccardo Vitanza e dintorni: qual’è la sua storia?
Risposta. Nel 1987 ho iniziato, a Milano, come copywriter in un’agenzia di pubblicità, quindi ho lavorato per un locale di musica afro-latina e, dopo aver digerito tutti i libri di pubblicità e di giornalismo, mi sono occupato di ufficio stampa esordendo con il tour di Ziggy Marley, su proposta del proprietario del locale con cui collaboravo. È nel 1989 che nasce «Riccardo Vitanza» come ditta individuale, per divenire successivamente «Parole e Dintorni di Riccardo Vitanza». Ero solo e lavoravo in una casa-ufficio di 20 metri quadrati fino al 1994, quando presi il primo collaboratore. Nel 2000 mi trasferii nell’attuale sede di Via Stradivari, con circa 15 persone tra esterni ed interni. Con Trident, che organizzava la gran parte dei tour italiani, cominciai subito ad occuparmi in maniera concreta di artisti importanti, in un rapporto mediato dal capo della società con cui dialogavo. Lavoravo molto con gli stranieri, per conto di varie società, come per l’ultima tournée italiana dei Ramones nonché per i primi rapper d’oltreoceano: Public Enemy, Beastie Boys, Ice Cube, Ice-T, tanto rock e britpop prima ancora che arrivassero Oasis e Blur. Ho lavorato anche con questi ultimi, in particolare il leader Damon Albarn, all’inizio della loro carriera: facemmo 98 paganti in un locale a San Colombano al Lambro, vicino a Lodi. Ho curato l’ufficio stampa del primo concerto dei Cranberries, con 400 persone, e il primo concerto in Italia di Jamiroquai. Ho dunque seguito la comunicazione per i primi esponenti dell’easy jazz. Intorno al 1997 Pino Daniele, Jovanotti e Giorgia mi chiesero di occuparmi di loro come ufficio stampa personale. Nel 2005 mi sono ricongiunto con Ferdinando Salzano, che aveva lasciato Trident per guidare F&P Group e che ora gestisce l’80 per cento della musica italiana per la produzione e l’organizzazione di concerti, e dal 2005 sono il suo comunicatore di fiducia.

D. Come sceglie i componenti del suo team di Parole & Dintorni?
R. Quando appenderò il comunicato al chiodo, ricorderò di aver formato e valorizzato tante persone: è questo il principio da cui parto. Nell’ambiente discografico ne ho cresciute moltissime: di alcune ho trovato un curriculum in cassetta postale, altre le ho conosciute in situazioni differenti, spesso sono miei allievi provenienti dai corsi che tengo all’Università Cattolica di Milano. C’è chi rimane, c’è chi va via. Sono un sostenitore della «quota rosa» in quanto considero la donna lavoratrice superiore all’uomo: attualmente, un ragazzo e 12 donne lavorano per me. Alcuni di loro volano via dopo la formazione, assumo tutti e, rispetto al modus operandi dilagante, dopo che mi è stato dimostrato il valore, dallo stage ai piccoli contributi passo all’assunzione a tempo indeterminato. Mio padre, umile benzinaio, mi ha sempre detto: dai valore al lavoro. Ho un team favoloso che lavora oltre gli orari d’ufficio, e se loro mi danno io do anche di più. Molti datori pagano in nero, a partita Iva, con rimborso: io preferisco assumere. Sebbene ciò mi dia più oneri, ho la sensazione che la persona lavori solo per me e la considero un socio di fatto. La precarietà è un aspetto che non condivido, è deleteria. Più si rende precario il lavoro per un giovane, più lo si destabilizza, in quanto perde fiducia in se stesso e nelle istituzioni, nel Paese e nella vita.

D. Lei ha i più grandi musicisti affiliati al suo ufficio stampa: come avviene la procedura di scelta?
R. Non scelgo, sono sempre scelto. Sono molto bravo a fare il PR per gli altri, ma non lo sono per me stesso anche perché, essendo un capo operativo in ufficio, controllo i miei delegati e sono a stretto contatto con tutti, così è difficile trovare il tempo per fare promozione al mio business. Sono più sulla riva del fiume e attendo che il cliente passi. C’è posto per tutti gli artisti, importanti ed emergenti, è chiaro che l’aspetto economico è modulato.

D. Non solo Parole & Dintorni: lei ha anche la Bollettino Edizioni Musicali. Di cosa si occupa?
R. Di produzioni ed edizioni musicali. Con essa ho lanciato Giovanni Allevi e due cantautori che si sono rivelati anche due grandi autori, Pacifico e Niccolò Agliardi. Due esempi su tutti: «Sei nell’anima» di Gianna Nannini, che ha scritto Pacifico, e l’ultimo album di Laura Pausini, che in parte ha scritto Agliardi. Lavorando su di loro anche come ufficio stampa, li ho aiutati a farsi conoscere, sono stato il volano della loro carriera. Ora sto lanciando Ylenia Lucisano, cantautrice pop folk, al cui nuovo album, in uscita in primavera, sta lavorando il produttore Taketo Gohara. Altri artisti che seguo sono la cantautrice Roberta Giallo; Giulia Mazzoni, pianista molto brava con base a Firenze che ho ceduto alla Sony pur rimanendone editore e comunicatore; due chitarristi classici, solo strumentisti, Roberto Fabbri di Roma e Renato Caruso di Milano. Sto seguendo anche un rapper, Peligro, che adesso sta lavorando al suo nuovo album prodotto da Marco Zangirolami, in uscita il prossimo anno. Ho coperto tutti i vari ambiti con i miei emergenti. Sono io poi che per loro tengo i rapporti e cerco di trovare il partner discografico adatto per la distribuzione. La cosa migliore a quel punto è non pretendere soldi dalla casa discografica ma darle la possibilità di investirli sull’artista. Io mantengo le edizioni e le royalties, ma dopo di me entra in campo una struttura che lavora molto anche sul marketing, attraverso iniezioni di denaro. Cerco sempre di mantenere un low profile, anche personalmente.

D. Su quale base sceglie gli emergenti da seguire?
R. Gli emergenti bussano alla porta, vado loro incontro, vedo se c’è una fattibilità. Li scelgo per la qualità. Il comunicatore è comunque un valore aggiunto, la conditio sine qua non è il prodotto: se è buono, è esaltato e messo in evidenza. A volte prendo anche prodotti non eccelsi ma interessanti dal punto di vista del progetto o del personaggio che lo propone. È anche il carattere dell’artista a fare la sua parte: non deve essere necessariamente il disco a funzionare, conta anche il personaggio. Progetti di questo tipo non ne seguo molti, ovviamente il criterio di scelta è quello della qualità. Ma l’attenzione deve essere rivolta a chiunque, altrimenti non esisterebbero un’etica e una deontologia.

D. L’ufficio stampa è un’obbligazione di mezzi, non di risultato, ma ciò spesso non è chiaro. Non si può garantire la prima pagina del quotidiano ma molti la pretendono: come reagisce?
R. Rispondo: noi operiamo nell’ambi- to dell’informazione, non nella pubblicità. Per quest’ultima, che spesso coincide con la pretesa degli artisti, possono acquistarsi spazi pubblicitari. C’è un rapporto fra ufficio stampa e giornalista fatto di complicità, malizia, alleanze, ma sempre nell’ambito di un’etica e deontologia professionale. L’ufficio stampa fa il proprio lavoro e lo fa bene, tanto che sottolineo sempre ai miei collaboratori di non impiegare superlativi assoluti, perché non siamo noi a dover dire che il disco è bellissimo: noi avvisiamo che il disco esce. L’informazione deve essere presente nel comunicato stampa, e questo è ciò che è richiesto a noi. Non possiamo etichettare il nostro artista, è un errore gravissimo.

D. I tempi sono cambiati. Ora artisti che hanno milioni di visualizzazioni su YouTube sono spesso stonati, mentre la musica di qualità è quasi bistrattata. Dove stiamo andando?
R. Sono cambiati gli scenari. Innazitutto negli strumenti mediatici, dal fax ad internet, fino alle foto, che prima erano diapositive. Prima si collezionavano vinili, ora si è passati allo streaming e al downloading. Nel mondo digitale lo streaming sta mandando in pensione il downloading, che a sua volta ha mandato in pensione il cd. In questo regime di «pensioni anticipate», per i corsi e ricorsi vichiani sta tornando in auge il vinile, che sta ridando vitalità all’industria che da Napster e pirateria ha ricevuto solo grandi danni. Il problema è che con lo streaming, attraverso Spotify ed altri aggregatori, non ci si accorge più che dietro tutto questo c’è un processo duro ed articolato, c’è un’industria che lavora. L’acquirente non lo capisce e non lo riconosce, così pretende musica gratis. Il successo di un artista ormai viene certificato sulla base dei like, delle visualizzazioni, dei followers. Parliamo di «plastica»: quello che conta in realtà è l’acquisto del disco o del biglietto di un concerto, non il like. Gli utenti scorrono e cliccano «mi piace» senza dare peso e importanza, su internet vale tutto e si vuole perpetuare ad ogni costo il quarto d’ora di celebrità. È così che si sono creati anche gli haters, coloro che seminano odio in quanto hanno la possibilità, attraverso i post sui vari social, di interagire con i loro artisti che, sebbene «amici», poiché collegati su un determinato network, non possono rispondere personalmente a tutti quei messaggi, avere un rapporto vero con i fan. Anche la mania del selfie è imbarazzante. Nel villaggio globale, quello che aveva ipotizzato Marshall McLuhan, il veleno è iniettato semplicemente con un tweet, gli insulti arrivano con semplicità. Un tempo c’erano i fan club, che facevano da tramite per inviare la lettera al proprio idolo; oggi tutti, dietro ad un computer, sono in grado di parlare e scrivono direttamente a chi vogliono senza mediazione. Ma ognuno è coevo del proprio tempo, è più facile che un giovane non conosca Bob Dylan non avendo la cultura adeguata, storica o musicale, quindi le storture diventano evidenti. È l’esercito dei selfie, come raccontato dalla famosa canzone di Takagi & Ketra di cui abbiamo curato proprio noi l’ufficio stampa. Il fisico ha lasciato il posto al digitale, e ora c’è lo streaming: il lettore cd in effetti non c’è più nemmeno nelle macchine e nei computer. Ma prediligo la cultura del possesso alla cultura dell’accesso. Siamo figli dei mutamenti tecnologici, dove ci portano non lo sappiamo.

D. Il parallelo è con la psicoterapia: se non la paghi, non funziona. Così la musica. Come tornare ad una musica di qualità e ad un’industria musicale che giri nuovamente?
R. Ascoltare un brano è un’educazione, e la parte educativa deve arrivare dalle istituzioni. L’ascolto «virtuale» non è un ascolto consapevole. Il suono è compresso, perciò diverso, e questo deve essere oggetto di una formazione musicale che dobbiamo fornire, combattendo il disinteresse verso la ricerca di una sonorità pulita. Vivendo con e nella cultura del consumo e dell’usa e getta, ai giovani d’oggi non interessa più la qualità musicale. Noi amavamo la puntina sul vinile, ma nell’attuale cultura dell’accesso, dove ciò che conta è il presente, non c’è pianificazione, e così non c’è ottica di conservazione. Tolte alcune eccezioni, nessuno programma più il futuro: perché comprare un cd?

D. La Siae è molto criticata, e sorgono nuovi mercati «free», della musica libera. Anche i musicisti odiano la Siae. Ha ancora ragione d’essere un ente come questo, in un mondo «mordi e fuggi»? Qual’è la sua opinione?
R. La Siae ha sempre ragione d’essere perché tutela e protegge il diritto d’autore, e questo è fondamentale. Chi ascolta la musica tanto maldestramente deve sapere che essa ha un lavoro dietro, che una canzone non cade dal cielo e la filiera ha dei costi. La musica va pagata perché non si crea gratis. C’è una proprietà intellettuale da preservare, c’è una creatività da tutelare, ci sono dei costi da sostenere in un lungo processo. Una volta che è stato inventato il masterizzatore, la gente ha cominciato a copiare dischi e rivenderli; così in seguito con lo streaming e tutto il resto. Questo è frutto della cultura musicale di oggi, ma la musica deve essere, comunque, pagata.

D. In questo «villaggio globale», come fidarsi dei nuovi artisti che, in realtà, sono per la gran parte esponenti di una musica scadente, anche grazie alle dinamiche dei realities? Perché acquistare un album «fisico» se la qualità non è più garantita?
R. Di questo la colpa è proprio delle case discografiche, che hanno aumentato indiscriminatamente il prezzo dei cd, uniformando tutti, sbagliando. Imperver- savano e imperavano in un momento, disinteressandosi del mercato e di altri rivoli di guadagno, per loro era importante solo vendere il disco a prescindere da come esso fosse e da chi fosse l’artista, purché produttivo in termini di guadagni. In realtà sugli artisti giovani incentivare l’acquisto con prezzi più popolari sarebbe stato ideale, mentre paradossalmente oggi sono i grandi artisti storici ad essere economicamente svalutati, in quanto i loro album sono ormai di catalogo. Ora che le case discografiche da «record company» si sono trasformate in «entertainment company», la sola vendita del disco non produce più il fatturato di una volta, ed esse cercano di guadagnare anche su altri comparti dell’artista: live, sponsorizzazioni, merchandising e simili. Ancora: ci vuole cultura.  (ROMINA CIUFFA)




ALIMENTAZIONE 2.0: GALLINA CHE NON BECCA HA GIÀ BECCATO

All’inizio era il darwinianesimo. Processi di selezione naturale basati sulla meritocrazia non solo di un vivente, ma delle sue stesse parti corporali: la coda serviva – restava. Non serviva, via. Così le abilità. Si può dire che Darwin fosse un meritocratico, sebbene avesse ricevuto una raccomandazione, quella del naturalista John Stevens Henslow, per salire a bordo del Beagle, brigantino britannico in partenza per una spedizione di ricognizione scientifica intorno al mondo, in qualità di naturalista non stipendiato, e sebbene la sua ipotesi, esposta per la prima volta nel 1858, fu presentata contemporaneamente da Alfred Russel Wallace, che era giunto indipendentemente alle medesime conclusioni.

Corrette o meno, o correggibili, le teorie della selezione naturale sono utili a rispondere a chi vuole convincere il mondo – a prescindere da qualsivoglia cultura, antropologia, credo, dunque bandendo il relativismo in favore di un’assolutismo ideologico – a non mangiare carne. Esse sono basate, infatti, sull’assunto di una specie più forte all’interno di un ecosistema perfettamente autonomo. Homo homini lupus, d’altronde. Oggi la carne fa male, le tossine che sprigiona l’animale, mentre muore soffrendo, sono quanto di peggio si possa ingerire. Non è sbagliato ma, per quanto ciò sia vero, si scontra con l’eccesso. Le nonne dicevano: «Allora non è vera fame», quando si chiedeva da mangiare insistentemente e poi non si gradiva il brodino, la carne. Non è vera fame, no. Si voleva il gelato, diciamolo.

Ed eccoli qui, i nuovi affamati: onnivori (i polifagi), locavori (mangiano cibi prodotti nel raggio di un centinaio di chilometri dal luogo del pasto), ecotariani (scelgono cibo la cui sparizione causi un impatto minore sull’ecosistema), macrobiotici (no carne), vegetariani (no carne, no pesce), flexitariani (vegetariani che mangiano solo a volte carne e pesce), vegani (no ai cibi di origine animale, come latticini, miele e uova), freegan (che rifiutano in blocco la società consumistica, non comprano nulla, recuperano gli scarti anche dai bidoni, si nutrono pure di carcasse di animali morti trovate per strada), crudisti (amano cibi crudi di cui non sia superata una certa temperatura per mantenerne le proprietà di attivazione enzimatiche), fruttaliani (solo frutta e verdura), fruttaliani crudisti (escludono frutta e verdura cotte), fruttariani (solo frutta cruda, meglio se dolce), fruttariani simbiotici (solo frutta cruda e mangiata dagli alberi curati in proprio), via via verso il trionfo della concezione biocentrico-igienista.

Nonne, non abbiamo finito. È un melodramma quello dei melariani, per i quali le piante soffrono, tutte tranne i meli: le mele si donano all’uomo con piacere, i melariani lo sanno. Una mela al giorno leva il medico di torno (se il medico mangia solo mela, un peccato originale). Più avanti ci sono i respiriani: loro respirano. Vivono di sola luce. Assorbono prana (energia vitale, spirito) dal naso. Possono concedersi di ingoiare qualcosa solo se ciò non li fa sentire in colpa, «perché stiamo mangiando per gusto, perché ci piace e non per necessità», spiega una di loro in un’intervista. Aggiungendo: «I cambiamenti fisici più rilevanti sono stati la crescita costante di energia e luminosità e la scomparsa del bisogno di defecare. A un livello di pulizia totale si smette anche di urinare, rimettendo i liquidi in circolo e attivando un processo autotrofo». Alcuni riescono a non dormire, a diventare immortali, assicura la respiriana. Oltre, ci sono i raeliani, che meriteranno la reincarnazione scientifica e vivranno per sempre sul pianeta degli Elohim, dove il cibo sarà portato loro senza dover fare il minimo sforzo.

Dopo, ci sono solo i morti.

L’estremizzazione è una componente essenziale della media. Bukowski scriveva: «Non mi fido delle statistiche: un uomo con la testa nel forno e i piedi nel congelatore ha una temperatura media». Così è garantito un livello di maturità e intelligenza al centro, che solleva dall’idea di dover scegliere per forza tra il congelatore ed il forno. Ma si stava meglio quando si stava peggio. Prima non era un problema mangiare; oggi l’attenzione cade sul cibo al punto tale da essersi sviluppati in senso più ampio disturbi alimentari di forte gravità. L’aver posato lo sguardo su di essi li ha fatti emergere, e così avanti l’anoressia, avanti la bulimia, il «binge eating», la pica etc. Che, infine, sono ricollegati all’accudimento materno. E si torna alla madre, comunque: l’alimentazione inizia con la suzione, non con il respiro. Il latte materno proviene da un animale, facente parte della catena alimentare, ma oggi si dice: il latte è la cosa più pericolosa che c’è. Seno buono e seno cattivo, li chiamava Melanie Klein, l’assenza di integrazione dei quali condurrebbe, nello sviluppo evolutivo umano, alla formazione della posizione schizo-paranoide, utilizzata come difesa. Per l’appunto.

Cosa è accaduto, cosa ha portato a vivere di sola aria? A far credere che l’astensione dal cibo sia l’alimentazione corretta? A nutrirsi con il naso, non con la bocca? Nell’epoca degli «apericena» poi. La disperazione individuale, la distruzione planetaria, due facce della stessa medaglia; la psicosi come malessere. L’oncologo Umberto Veronesi, scomparso di recente, direttore dell’Istituto europeo di Oncologia, ha studiato la relazione tra cibo e cancro elaborando una dieta per la prevenzione dei tumori, incentrata su un consumo più coscienzioso dei diversi alimenti; una dieta non lontana da quella mediterranea, vicina a quella vegetariana ma con correttivi. Ma la dieta migliore è la coerenza.

Esagerare nella scelta di un regime alimentare e renderlo ideologia conduce a disturbi mentali, ossessioni, fissazioni, carenze. Una convinzione – di qualunque tipo essa sia – può modificare gli schemi neuronali del cervello, a livello individuale e collettivo, al punto da generare un effetto Pigmalione, la «profezia autoavverantesi» di Robert K. Merton, il quale con William Thomas sosteneva che «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Anche definito effetto Rosenthal, il postulato sottolinea come una previsione possa realizzarsi per il solo fatto di essere stata espressa. Così una corretta disciplina nell’alimentazione supporta fisico e mente; un’eccessiva disciplina li distrugge, e pone in circolo premesse che condurranno all’adempimento della predizione che le ha generate. Accenderemmo un fuoco sapendo che il tronco dell’albero ne soffre? Come potremmo riscaldarci? Oggi, con l’energia solare. Ma poi, dove sedersi, su quali sedie? Per terra. «Per terra» acquisisce un significato talmente pregnante, a questo punto del ragionamento, da poter citare un altro gruppo, quello degli scalzisti o «barefooters», che vanno sempre in giro scalzi. E siamo noi a doverci fare il callo.

Si dice anche: “Gallina che non becca ha già beccato”. Si fa riferimento al fatto che si ha già la pancia piena. Ed, in un certo senso, è così: la reificazione della metafora conduce a dire che sì, si ha la pancia piena, di troppe cose. Abbiamo tutto. Non c’è più pane e patate, altro che guerra. Non c’è più l’istinto di sopravvivenza, è tutto a portata di mano, il grano è nel pollaio e non lo becchiamo. Galline restiamo.

Quella di oggi è vera fame? Nell’epoca del consumismo più sfrenato, dei click, dell’abuso, si può rispondere: no, non è vera fame. Tale nonna, ancora viva, non può più fare il ragù ai nipoti, non può sbattere un uovo per lo zabaione o la sua crema, le è inibito spadellare. Oltre a doversi abituare, con rassegnazione anziana, ad un mondo che svanisce, che lei non aveva distrutto ma che i suoi figli hanno massacrato senza esitare, ora non può che preparare, per il pranzo di Natale, un buon prana, e sapere che, nell’esalare l’ultimo respiro, almeno per quella volta ancora potrà tornare a dare da mangiare ai nipoti. Basterà per tutta la famiglia?   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – luglio/agosto 2017




LA LINGUA STA CAMBIANDO E IL DINOSAURO È PRONTO

In un episodio della lungimirante serie televisiva americana «Ai confini della realtà» degli anni 60 (“Wordplay”, in italiano tradotto “Parole in libertà”), scritto da Rockne S. O’Bannon, si racconta la storia di Bill Lowery, oppresso dal proprio lavoro di venditore che lo obbliga ad apprendere in brevissimo tempo un intero catalogo di materiale medico e relativi termini e nomi difficilissimi. La pressione è così elevata che d’un tratto si trova circondato da un mondo che parla un linguaggio fatto di termini sconnessi tra loro che solo lui sembra non capire. Isolato cercherà il coraggio per continuare a vivere e rientrare in sintonia con il mondo che lo ha isolato. A lui, che non riconosce più i significati delle parole – le stesse ma con altro senso (dinosauro è divenuto pranzo, enciclopedia al posto di cane, patrigno invece di cintura di sicurezza, mentre cena diventa un colore) – non resta altro che adeguarsi. Così, dopo essersi opposto arduamente al cambiamento assurdo e insensato del sistema linguistico, deve cedere: prende l’abbecedario del figlio e, sfogliandolo, si mette a studiare i termini nuovi, aderendo alla schizofrenia collettiva pur di poter comunicare.

La lingua sta cambiando e il dinosauro è pronto. È colpa nostra. Anche i giornalisti hanno perso bravura e cultura. Fanno errori grossolani, refusi. Sbagliano gli accenti, confondendoli tra gravi e acuti o passandoli per apostrofi. Non conoscono l’italiano, non lo rispettano, non lo amano, lo ripudiano, scrivono sempre più in inglese mutuando termini al punto da creare una nuova lingua: sbagliata. Non sanno come si dice una certa parola in italiano per averla dimenticata o non averla mai saputa, né creata (tanto che un bambino ha scritto «petaloso» e, piuttosto che correggerlo, ne è partita una operazione di marketing). Provo una forte empatia – prima che odio – verso costoro, che sono obbligati a scrivere nelle pagine web dei loro giornali articoletti per ottenere visualizzazioni, non letture, «mi piace», non apprezzamenti: click rubati all’agricoltura. Che non hanno mai tenuto in mano una penna e sono scettici sull’esistenza del callo.

Non sanno nemmeno chi fosse il piccolo scrivano fiorentino, una educazione che partiva da casa, intenzionale, forte, severa; assai lontana da quella attuale, che vede il genitore come alleato del figlio in una guerra contro gli insegnanti o, aut aut, come il suo aguzzino.
«Suo padre lo amava ed era assai, ed era buono e indulgente con lui: indulgente in tutto fuorché in quello che toccava la scuola: in questo pretendeva molto e si mostrava severo perché il figliuolo doveva mettersi in grado di ottener presto un impiego per aiutar la famiglia; e per valer presto qualche cosa li bisognava faticar molto in poco tempo. E benché il ragazzo studiasse, il padre lo esortava sempre a studiare». Sistema valoriale inesorabile, integro, nessun riferimento a sfruttamento minorile, abusi domestici, violenza privata, vacanze senza compiti et altera, quel bla bla bla che riflette un nuovo mondo, arrogante, atto a definire lo spazio di potere di un soggetto ancora educando, vergine, giovane, immaturo, irresponsabile. Là dove «immaturità» e «irresponsabilità» sono termini positivi che caratterizzano e descrivono un’età, e costituiscono il substrato affinché trovino giustificazione i comportamenti, anche punitivi, degli adulti. Lo schiaffo della nonna non è mai stato oggetto di denuncia in sede penale, lo schiaffo della nonna è educazione intrinseca, senza se e senza ma.

Quel padre aveva preso da una casa editrice un incarico che lo stancava, e se ne lagnava spesso. «Babbo, fammi lavorare in vece tua; tu sai che scrivo come te, tale e quale», disse Giulio. Ma il padre gli rispose: «No figliuolo; tu devi studiare; la tua scuola è una cosa molto più importante delle mie fasce; avrei rimorsi di rubarti un’ora; ti ringrazio, ma non voglio, e non parlarmene più». Studiare: ecco la parola chiave. La radice dell’albero che darà frutti, il senso dell’apprendimento, la tensione verso il sapere. Nessuna lite con gli insegnanti, coalizzati con i genitori in un progetto di crescita della società civile. Oggi disimpariamo le lezioni, aggrediamo, ci poniamo contro il sistema tout court e dimentichiamo il buon senso: se non insegniamo ai figli a vivere (il che non significa essere vegani, combattere le multinazionali, pretendere azioni positive, bensì mangiare ciò che c’è, cambiare le multinazionali, compiere azioni positive), come possiamo aspettarci che essi avranno un mondo migliore?

Ecco cosa fece Giulio. Una notte si sedette alla scrivania del padre a lavorare di nascosto al posto suo, rifacendo appuntino la scrittura del padre, per moltissime notti. L’insegnamento parte dall’osservazione nel sistema di attaccamento: il bambino osserva, copia, quindi emula, infine agisce dal profondo con indipendenza e lucidità. Il giorno seguente il padre sedette a tavola di buon umore, non s’era accorto di nulla. Giulio, contento, muto, diceva tra sé: «Povero babbo, oltre al guadagno, io gli dò ancora questa soddisfazione, di credersi ringiovanito. Ebbene, coraggio».

Ma intanto si ammalò, le sue prestazioni a scuola peggioravano, e il padre gli disse: «Giulio, tu mi ciurli nel manico, tu non sei più quel d’una volta. Non mi va questo. Bada, tutte le speranze della famiglia riposano su di te. Io son malcontento, capisci!», e in seguito andò a chiedere informazioni al maestro. «Sì, fa, fa, perché ha intelligenza. Ma non ha più la voglia di prima. Sonnecchia, sbadiglia, è distratto. Fa delle composizioni corte, buttate giù in fretta, in cattivo carattere. Oh! potrebbe far molto, ma molto di più». Il sistema famiglia si affianca al sistema scuola senza sovvertirlo: il padre prese il ragazzo in disparte «e gli disse parole più gravi di quante ei ne avesse mai intese. – Giulio, tu vedi ch’io lavoro, ch’io mi logoro la vita per la famiglia. Tu non mi assecondi. Tu non hai cuore per me, né per i tuoi fratelli, né per tua madre!». Ma costei, vedendolo più malandato e più smorto del solito, si allarmò: «Giulio è malato. Guarda com’è pallido! Giulio mio, cosa ti senti?». «È la cattiva coscienza che fa la cattiva salute», conclamava il padre. «Non me ne importa più!», aggiunse. Fu una coltellata al cuore per il povero ragazzo. Suo padre che tremava, una volta, solamente a sentirlo tossire! E il piccolo scrivano fiorentino si ammalò ancora di più. Ma scriveva, scriveva.

Finché una notte suo padre era dietro di lui, «e in un momento aveva tutto indovinato, tutto ricordato, tutto compreso, e un pentimento disperato, una tenerezza immensa, gli aveva invaso l’anima, e lo teneva inchiodato, soffocato là, dietro al suo bimbo». Che gridò: «O babbo! babbo, perdonami! perdonami!». Rispose il padre: «Tu, perdonami! Ho capito tutto, so tutto, son io, son io che ti domando perdono, santa creatura mia, vieni, vieni con me!». E Giulio disse: «Grazie, babbo, grazie; ma va a letto tu ora; io sono contento; va a letto, babbo».

Edmondo De Amicis, prima soldato, poi giornalista e scrittore. Pagine intense, corrette, fluide, commoventi. Testi e insegnamenti senza arroganza quelli presentati nel libro «Cuore», più che un romanzo un Trattato di didattica della didattica, un Manuale dell’educazione senza tempo. Dell’ignoranza attuale hanno colpa la deresponsabilizzazione, internet, i genitori, il populismo, la globalizzazione, il veganesimo, i nuovi hippies, il T9, la nuova democrazia, click, post, tweet: niente di ciò è presente in De Amicis.

Il mondo è cambiato e c’è chi vi si adegua consolidandone il peggioramento. Io no. E dal canto mio sottolineo: c’è un doppio spazio anche nei sottotitoli di chiusura del telegiornale Rai, e se lo guardo, poi non riesco a chiuder occhio.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – giugno 2017




TANIA SCACCHETTI: CGIL, TRA VOUCHER E CARTA DEI DIRITTI UNIVERSALI DEL LAVORO

L’assemblea della Cgil ha eletto il 29 novembre 2016 la nuova segreteria confederale nazionale con l’83 per cento. Cinque i nuovi ingressi al fianco di Susanna Camusso: tra questi anche il nome di Tania Scacchetti, segretaria della Camera del Lavoro di Modena. Nata 43 anni fa a Modena, Tania Scacchetti, sposata, due figli, diplomata al liceo classico, comincia la propria esperienza sindacale nella categoria del commercio da delegata della Cir (Coop italiana ristorazione) mentre frequenta la facoltà di Sociologia a Trento. Nel 2000 entra in distacco alla Filcams Cgil e nel 2005 viene eletta nella segreteria provinciale della categoria. Due anni dopo passa alla segreteria confederale di Modena, dove assume la responsabilità dell’area welfare. Il 3 dicembre 2012 il comitato direttivo della struttura la elegge, a larga maggioranza, nuovo segretario generale provinciale della Cgil di Modena ed è stata riconfermata il 5 marzo 2014, al termine dei lavori del XVII Congresso provinciale. Il 29 novembre 2016, al termine della votazione dell’assemblea generale della Cgil, entra a far parte della segreteria nazionale.

Domanda. Il lavoro occasionale sembrava, all’inizio, un ottimo incentivo nell’attuale crisi del lavoro, dando la possibilità a più lavoratori di essere attivi, ivi inclusi i pensionati, le casalinghe, i disabili, gli extracomunitari, gli studenti. Quindi l’allargamento dell’utilizzo del buono anche ai settori professionali. Da cui i famigerati «voucher». Cosa pensa la Cgil del voucher in sé e delle modalità in cui esso è stato abolito, dopo una campagna che ipotizzava il referendum per il 28 maggio?
Risposta. In Italia il sistema dei voucher ha subìto notevoli variazioni e modifiche. Nel 2003 i buoni lavoro erano destinati solo ai soggetti a rischio esclusione sociale per attività lavorative di natura meramente occasionale, e il campo di utilizzo era riservato esclusivamente a piccoli lavori domestici, assistenza ai bambini e agli anziani, ripetizioni, lavori di giardinaggio, e per manifestazioni culturali e sociali. Tra il 2010 e 2012, lo strumento del voucher ha perso ogni riferimento alla occasionalità, tutti i soggetti e tutti i settori potevano utilizzarlo, con il solo vincolo del tetto economico. Divenne così uno strumento malato, abusato e irriformabile perché sostitutivo del lavoro ‘buono’. Per questo ne abbiamo chiesto l’abrograzione tramite uno dei quesiti referendari a supporto della nostra proposta di legge, la Carta dei diritti universali del lavoro. Oggi siamo di fronte ad una prima vittoria: il Governo ha varato un decreto che ne prevede la cancellazione, ora aspettiamo che il Parlamento faccia la legge, a quel punto potremo dire di aver compiuto un grande passo contro l’impoverimento continuo del lavoro e dei suoi diritti, come unica logica della competizione.

D. Crede che un referendum avrebbe ammesso il voucher o lo avrebbe abolito? Quali sono le prossime iniziative della Cgil per movimentare il Governo e il Legislatore?
R. Da molti mesi siamo impegnati, prima con le assemblee, poi con la raccolta firme e adesso con la campagna elettorale, a discutere e a confrontarci con i cittadini ed i lavoratori. Abbiamo riscontrato molta condivisione sui temi proposti e la volontà di rimettere al centro del dibattito e delle scelte politiche del Paese i diritti del lavoro. Siamo certi che i referendum popolari avrebbero mobilitato molti elettori e trovato il loro sostegno. Finché non avremo una legge in merito che fa decadere la consultazione referendaria, prevista per il 28 maggio, continuiamo la nostra campagna elettorale. In programma abbiamo numerose iniziative su tutto il territorio nazionale e l’8 aprile si terrà a Roma un attivo nazionale dei nostri quadri e delegati per organizzare la nostra sfida per i diritti e conquistare la Carta dei diritti universali del lavoro.

D. Sembrerebbe che l’introduzione dei «buoni-lavoro» abbia, piuttosto che ridurlo, aumentato il lavoro nero. Vero? In che modo? In realtà, molto spesso i voucher sono stati utilizzati come «fuori-busta», una sorta di ricatto anche al dipendente. Cosa ne pensa?
R. Siamo certi che l’uso dei voucher abbia favorito e non ridotto il lavoro nero. In questi anni di completa deregolamentazione dell’utilizzo dei buoni e in assenza, quasi totale, di percorsi certi e controllati di tracciabilità, il voucher, in molti casi, ha remunerato solo una parte residuale delle ore di lavoro svolte da una persona. Un fenomeno diffuso rilevato anche dall’Inps. Il fatto che non esista un contratto a normare l’uso dei voucher, ma che il rapporto sia solo fra il prestatore e l’utilizzatore rende certamente ricattabili i lavoratori: molti ci riferiscono che viene loro detto che li si farà lavorare solo se sono accettati i voucher.

D. E in che modo con l’impiego dei voucher possono essere tutelati i diritti fondamentali del lavoratore (a partire dagli infortuni sul lavoro o la maternità)?
R. I lavoratori pagati con i voucher non hanno tutele, non hanno diritto alla malattia, alla maternità, alle ferie, ai permessi o alla disoccupazione. La maggior parte dei ‘voucheristi’ non riesce ad accumulare un numero di contributi utili a maturare un mese di contribuzione all’anno.

D. Con l’eliminazione del voucher, in che modo possono essere aiutati i lavoratori più deboli? E come tutelarli?
R. Noi abbiamo una nostra proposta, contenuta nella Carta dei diritti, per normare il lavoro occasionale e considerarlo nell’ambito del lavoro subordinato, quindi riconoscendo tutti i diritti previsti dallo stesso. Crediamo che il contratto di lavoro subordinato occasionale debba avere natura meramente occasionale e saltuaria ed essere attivato solo per studenti, inoccupati, pensionati e disoccupati per piccoli lavori domestici, familiari o per la realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali di piccola entità. Pensiamo inoltre che opportunità di qualificazione professionale possano rappresentare un sostegno per i lavoratori più deboli.

D. In che modo l’Italia può combattere l’elusione e l’evasione? Ci sono proposte CGIL che riguardino il lavoro nero e che non è accettata dai vari Governi? Quali sono?
R. In Italia ogni anno vengono evasi dai 91 ai 180 miliardi di euro, 47 solo di Iva, risorse preziose che vengono sottratte al rilancio dell’economia. Infatti, i miliardi evasi non ingrossano né i consumi né gli investimenti, ma sono accumulati prevalentemente in ricchezze private. Per questo crediamo serva una vera e grande lotta all’evasione fiscale per l’equità, l’efficienza e lo sviluppo del Paese. È necessaria una riduzione strutturale della ricchezza evasa più che il recupero di una imposta ormai non pagata. Proponiamo una serie di azioni volte alla trasparenza della formazione del reddito e alla repressione delle irregolarità attraverso la tracciabilità, la rapidità e la semplicità delle informazioni sui movimenti di beni, servizi e denaro, e lo sviluppo tecnologico. Tutto ciò però non può prescindere da una forte volontà politica.

D. I giovani sono patrimonio italiano. Per quanto ormai si parla di giovani anche quando si tratta di ultraquarantenni… Non siamo più un Paese dove il lavoro è un diritto, la meritocrazia una garanzia, una vita «normale» scontata. Molti non fanno figli perché non hanno lavoro né casa. Si fugge dall’Italia, perdiamo così tutto l’investimento fatto sull’istruzione e la formazione, ma forse la piaga più grande è proprio quella dei «giovani» che in Italia restano. Se ne parla, se ne parla, se ne parla… eppure i curricula non arrivano mai da nessuna parte e non vengono letti. Il nepotismo prevale. Le paghe sono al limite del vergognoso. Dov’è finita la «dignità»?
R. Per la Cgil la vera emergenza sociale del Paese è la disoccupazione giovanile e l’aumento dei giovani intrappolati nella condizione di Neet (Not in Education, Employment or Training, ndr). Le riforme del lavoro, ultima il Jobs Act, e il programma europeo di Garanzia Giovani non hanno rappresentato una svolta per la condizione giovanile, anzi hanno contribuito alla precarizzazione e al proliferare di tirocini che raramente si sono trasformati in stabili occasioni di lavoro. Il programma europeo può rappresentare un’importante opportunità, se però non lo si utilizza solo come ‘escamotage’ dalle imprese per ridurre il costo del lavoro. Riteniamo che non sia più rinviabile una discussione su un piano straordinario per l’occupazione giovanile, come proponiamo da tempo.

D. Cosa pensa la CGIL del problema degli immigrati? In generale e dal punto di vista del lavoro. Una posizione chiara? Proposte ferme?
R. Innanzitutto il fenomeno migratorio non è un problema, ma una risorsa, una grande opportunità sia per chi parte sia per le società che accolgono. In Italia, così come in tutti i Paesi di destinazione, la forza lavoro degli immigrati rappresenta un sostegno prezioso perché spesso utilizzata per compensare la carenza di risorse interne in determinati ambiti produttivi e, in generale, per contrastare il progressivo invecchiamento della popolazione. In questi lunghi anni di crisi, i lavoratori stranieri hanno ricoperto un ruolo ancor più centrale per le dinamiche occupazionali. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un’inversione di tendenza: gli emigrati italiani all’estero sono cresciuti più degli immigrati in Italia, e spesso, purtroppo, a partire sono i giovani, con una grande bagaglio, quello formativo. Per questo ribadisco la necessità di un piano straordinario per l’occupazione giovanile.

D. Per quanto riguarda le pensioni, come possiamo immaginare un futuro che ci garantisca di recepirle, e, soprattutto, com’è possibile che si continui ad aumentare l’eta pensionabile ma senza possibilità di trovare lavoro?
R. Gli effetti di una riforma sbagliata come quella Fornero sono sotto gli occhi di tutti. L’innalzamento dell’età pensionabile ha penalizzato moltissime persone poiché i lavori non sono tutti uguali ed è impossibile continuare a svolgere determinate mansioni ad una certa età. Ma, soprattutto, spostare sempre più avanti i requisiti per l’accesso alla pensione costituisce un impedimento alle assunzioni dei giovani. Da mesi siamo impegnati unitariamente per modificare la legge. Con l’ultima manovra abbiamo ottenuto alcuni risultati per la tenuta del potere di acquisto dei pensionati e per consentire ai lavoratori precoci, in determinate condizioni, di accedere alla pensione con il requisito di anzianità di 41 anni, un diritto che secondo la Cgil dovrebbe essere esteso a tutti. Inoltre nella legge di stabilità si prevedono due misure: l’Ape volontaria, strumento per noi negativo ed ingiusto poiché vincola l’accesso anticipato alla pensione ad un vero e proprio mutuo, e l’Ape sociale, in cui, per lavoratori in determinate condizioni di svantaggio, il costo del prestito è a carico dello Stato. I decreti attuativi relativi a questi interventi, in via di definizione, presentano alcuni limiti, in particolare la definizione di platee molto ristrette. Andrà poi affrontato il nodo di come garantire un futuro previdenziale universalistico e dignitoso alle giovani generazioni, che si affacciano tardi nel mercato del lavoro, hanno spesso carriere discontinue e basse retribuzioni. Questi ed altri temi sono oggetto di un confronto per noi necessario e sul quale manteniamo aperta la mobilitazione sindacale.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Aprile 2017




CONFSAL: MARCO PAOLO NIGI, VOUCHER O NON VOUCHER SI “VUOLE” EVADERE

Per lui, il sindacato è una scuola di vita. Scuola anche perché è dalla scuola che proviene, come professore. Segretario generale della Confsal, principale Confederazione dei sindacati autonomi, e dello Snals, storico rappresentante dei lavoratori della scuola, spiega la sua visione tout court sullo stato generale del mondo del lavoro, a partire dai famigerati «voucher».

Domanda. Cosa pensa dei voucher?
Risposta. Il voucher poteva servire a diminuire il lavoro nero ma per come è stato proposto ha dimostrato il contrario, e cioè il suo stesso aumento, un paradosso.

D. In che modo ciò è accaduto?
R. Il primo errore commesso dal Governo è stato quello di non distinguere le categorie: non si può assolutamente pensare di abbracciarle tutte sostituendo la retribuzione con i voucher. Dovevano essere esclusi innanzitutto i lavoratori dipendenti che non possono accedere ai voucher perché hanno i contratti che li tutelano sotto il piano fiscale, retributivo e contributivo; dovevano invece essere incluse altre categorie quali i lavori cosiddetti domestici, a cominciare da giardinieri, casalinghe, elettricisti, falegnami, donne delle pulizie, perché non si possono tutelare con contratti di lavoro occasionale. Eppure i voucher sono stati estesi dal settore «domestico» a quello professionale. La paura nei riguardi di una Confederazione come la Confsal – che aveva detto che avrebbe raccolto le firme per il referendum e, di fatto, le ha raccolte -, più in generale la paura di perdere il referendum, ha portato il Governo a fare un altro errore: non a modificare lo strumento ma a toglierlo di mezzo. E questo è stato un secondo errore, perché il voucher costituisce di base un’idea valida.

D. In che modo i voucher hanno inciso o inciderebbero sulla pensione?
R. Le pensioni sono un sistema che si regge in piedi su un equilibrio finanziario entrate=uscite, è così che garantiamo a tutti le pensioni. Ma nel momento in cui si presenti un disavanzo esso va coperto, altrimenti non è possibile pagare le pensioni, sperando inoltre che i più anziani muoiano, e si dà una reversibilità a una percentuale più bassa. Se si aggravano le uscite bisogna agire sulle entrate e ciò lo fa lo Stato con l’aumento del debito pubblico. I problemi del mondo d’oggi che interagiscono con le pensioni sono anche le coppie di fatto, le unioni civili, i matrimoni con le donne dell’est che si lasciano sposare e ottengono la pensione di reversibilità. Così, a forza di aumentare l’età pensionabile, arriveremo a cento anni. Noi riteniamo che sia necessario aumentare il numero dei contribuenti, per questo eravamo favorevoli ai voucher, concettualmente utili alla lotta all’evasione fiscale e al sommerso. Il voucher è stato creato dal Governo Berlusconi, poi cambiato dai premier successivi Monti e Renzi; prima erano lotta all’evasione, poi si sono trasformati in un incentivo perché invece di assumere, al datore è proposto il voucher, e il resto è dato al nero.

D. Può essere anche considerato come un ricatto al dipendente?
R. Certo, il datore di lavoro cerca di risparmiare sempre mentre il lavoratore è una categoria debole che pur di guadagnare, soprattutto in tempi di crisi, accetta qualunque compromesso. In realtà l’evasione non si risolve perché non ce n’è la volontà, non perché non ce ne siano le possibilità.

D. Secondo la sua esperienza, nel referendum chi avrebbe vinto?
R. Avrebbe vinto chi proponeva il referendum, ossia chi ne voleva l’eliminazione, perché anche i lavoratori si sono resi conto che questi bonus per il lavoro accessorio non andavano a loro vantaggio, peraltro non garantendo nemmeno i diritti classici come in caso di incidente sul luogo di lavoro o i mesi dedicati alla maternità. Dai voucher il «piacere» lo hanno avuto solo i datori di lavoro e questo molti lavoratori lo sanno.

D. I voucher vengono usati negli altri Paesi, ma funzionano?
R. Funzionano e ci sono, come in Germania e nei Paesi del nord.

D. Manca la dignità del lavoro: come si spiega che all’estero le cose funzionino, mentre da noi è un’epopea?
R. In atto ci sono tanti contrasti; il primo è quello di un fisco europeo diverso da nazione a nazione. La paga oraria di un operaio tedesco è uguale alla paga di un operaio italiano, 19 euro l’ora, però il netto che percepisce il lavoratore tedesco è il doppio di quello che percepisce il lavoratore italiano perché il 53-55 per cento glielo porta via la tassazione. Si ha una moneta unica, una politica unica, ma un fisco diverso, quindi la prima cosa che dovrebbe farsi è unificare il fisco in modo che la paga netta di un operaio sia uguale per tutti.

D. E i giovani come faranno?
R. Vorrei fare un discorso partendo più da lontano: è la scuola che mette nelle condizioni di non essere meritevoli. Oggi sono usati solo due voti, il 9 e il 10, e il 5 non lo da più nessuno altrimenti i genitori divengono subito i sindacalisti dei propri figli. Quindi c’è un diritto allo studio ma non c’è un dovere di studiare: in Italia bisogna cambiare la scuola perché se non c’è istruzione non c’è futuro, bisogna rivalutare il ruolo sociale degli insegnanti. I giovani devono fare un percorso di istruzione, educazione e formazione, ci vorrebbe una scuola diversa, dove si studia, dove ci si impegna e dove va avanti il merito. Bisognerebbe aumentare gli anni per la preparazione di base e diminuire gli anni universitari, invece si sta facendo il contrario. L’ho definita umoristicamente la «teoria dell’uovo sodo»: se si mette un uovo a sodare per oltre 6 minuti l’uovo diventa verde ed è da buttare. I giovani di oggi sono diventati verdi. Ho cominciato a insegnare nel 1968 e guadagnavo 107 mila lire al mese, ora gli insegnanti prendono circa 1.200 euro, ma non c’è né paragone né proporzione perché se prima una stanza costava qualche milione di lire, adesso ci vogliono migliaia di euro, per cui un giovane non può neppure comprarsi casa. C’è da dire un’altra cosa; allora era poca la retribuzione ma era alta la considerazione sociale, ora un giovane insegnante viene definito non all’altezza. Bisogna ripartire dall’investimento nella scuola, non considerarlo un costo: non va tagliato bensì considerato un investimento redditizio. Stanno cercando di massificare tutti i cervelli in modo che non abbiano elementi di criticità e che siano manovrabili.

D. Credete ancora nel potere dello sciopero?
R. Lo sciopero è un’arma obsoleta cui un sindacato moderno non dovrebbe neanche pensare, andava bene una volta quando ci si credeva e quando c’era un padrone, una controparte; oggi questa figura non esiste più, non esistono più né l’operaio né il padrone. Se persiste l’attuale situazione di crisi, si possono determinare proteste non controllabili o l’utilizzo estremo dello sciopero. Ultimamente si sono visti gli orrori da parte della Pubblica Amministrazione e del potere politico, che farebbero arrabbiare anche le persone più pacifiche. La storia degli 80 euro introdotta dal Governo Renzi, ad esempio: hanno calcolato questi 80 euro andandoli a sommare al reddito e quindi chi ne usufruisce deve pagare ulteriori tasse, portando i contribuenti all’esasperazione. Inoltre, così facendo hanno parificato colui che prendeva uno stipendio di non oltre 1.300 euro con colui che aveva ottenuto, per scelta del datore, uno stipendio da 1.380, in un certo senso colpendo la meritocrazia anche qui. Altra cosa grave accaduta di recente è stata quella di consentire a Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle di mettere treni sulla nostra linea ferroviaria, causando una congestione del traffico con spaventosi ritardi e non dando alcun vantaggio ai contribuenti nonché viaggiatori, perché i binari si sono «intasati» e si corre sempre il rischio che un treno si fermi e blocchi gli altri. Tutto questo si è fatto per liberalizzare, perché quegli stessi che volevano nazionalizzare sono gli stessi che ora vogliono privatizzare; coloro che hanno rovinato l’agricoltura sono gli stessi che oggi danno gli incentivi per tornare a coltivare la terra. Possono permettersi di farci qualsiasi cosa.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2017

 




RAI: CON IL MIO STIPENDIO PAGO LO STIPENDIO DI BRUNO VESPA

La Rai nasce con un regio decreto (il n. 1067) nel 1923. Subito dopo la prima guerra mondiale, subito prima della seconda, e in periodo fascista, nel quale Benito Mussolini puliva l’Italia dal triennio rosso (gran confusione) e poi, prendendosi tutto il braccio oltre che la mano (in posizione alta e definita peraltro), animava una propaganda monopolistica per sottomettere le masse ad una promozione di valori predefiniti dalla dittatura. Fin qui “tutto bene”. Non è pericoloso precipitare, è pericoloso atterrare. L’atterraggio avviene in questo modo: spostiamoci di tanti anni, e arriviamo al referendum popolare del 1995, che conduce all’abrogazione della legge che riservava esclusivamente alla mano pubblica il possesso delle azioni RAI. Tale privatizzazione non è stata mai avviata. L’oggetto della fornitura, in effetti, è la produzione dei programmi di servizio pubblico, ossia pagati dal contribuente attraverso una forma di tassazione, definita “canone”. Un’eccezione al nomen omen: parlare di “canone” non modifica l’evidenza che si tratti di una tassazione sulla proprietà o, per generalizzare, sul possesso di mura (prima, seconda casa, appartamenti collegati, stanze limitrofe, la nonna che vive all’altro piano etc.). Possedere, solo possedere una TV, è come avere della droga in casa: si è “sanzionati”. 

Perché, oggi, la definirei “sanzione”, se è vero che quest’ultima viene applicata contro la volontà dell’utente, sia pure in funzione della violazione di una regola. In linguaggio dell’uomo di strada, una punizione. In questo caso non c’è violazione da parte dell’utente che possiede una TV, come fosse una busta di stupefacenti: nelle nostre case possiamo possedere qualunque cosa sia legale. Pertanto la “sanzione” è applicata sine causa: non v’è violazione di alcuna norma nel possedere una TV o una radio. Ma se prima la RAI aveva una funzione sociale di informazione, diritto costituzionalmente garantito, oggi non l’ha più per due ordini di motivazioni.

Innanzitutto, perché le frequenze sono state liberalizzate, ed a fronte di un mercato che è libero non può permanere un monopolista obbligatorio. Meglio detto: non perché posseggo un’automobile lo Stato ha il diritto di mandarmi multe a casa per il possesso. Lo può fare solo in ragione di una violazione. Nel caso della TV, mutatis mutandis, non perché se ne possegga una, o 100, ciò voglia dire che la RAI (nei suoi 10 attuali canali televisivi) sia guardata o apprezzata. Sky non obbliga a pagare un canone, è la scelta del consumatore che, seguendo i propri gusti, opta per adottare un servizio a pagamento. Questa è libertà. Ogni cittadino libero ha il diritto di partecipare attivamente a quei processi dove vengono prese le decisioni di interesse pubblico, televisione inclusa. Inoltre, nei telegiornali le notizie sono alterate dalla composizione del Governo, pertanto si sta pagando, con una nuova, ulteriore mazzetta, il corpo politico, che impiegherà tali fondi per trasmettere la propria propaganda scegliendo i contenuti. Non è, esattamente come un centinaio di anni fa, l’approccio mussoliniano?

Va bene, fingiamo di trovarci – e non ci troviamo – in uno Stato democratico, costituzionale, in cui tutti possiamo scegliere i nostri diritti con i soli limiti dell’Altro. La democrazia è un’utopia. Aristotele la collocava tra le forme degeneri dello Stato assieme a tirannide ed oligarchia del resto. La tirannide per il filosofo è una monarchia che ha per fine il vantaggio del monarca, l’oligarchia cura gli interessi degli abbienti; mentre la democrazia degenera quando cerca di ottenere il vantaggio dei nullatenenti rispetto alle altre classi. In nessuno di questi casi si insegue il bene comune ma quello particolare, e la democrazia finisce per diventare una tirannide quando l’arbitrio della moltitudine domina incontrastato e i più agiscono ignorando perfino la legge: i governi infatti non si definiscono buoni o cattivi in base alla forma della loro costituzione, ma in base alle qualità etiche e morali dei loro membri. Specifica: il miglior governo dovrebbe essere formato dalla classe media, cioè da cittadini forniti di modesta fortuna. E sostiene: la miglior forma di governo non darà la cittadinanza ai meccanici. Anche Platone aveva parlato di utopia della Repubblica. Per quest’altro, democrazia, oligarchia e  tirannide non possono essere riguardate come modello politico in grado di garantire la giustizia. Ma tornando ad Aristotele, egli dichiara: la scienza politica non può fare gli uomini, ma deve prenderli come li fa la natura. In un certo senso anche con i propri gusti allora: gli altri, i Latini, dicevano de gustibus non disputandum est.

E qui si passa al secondo ordine di ragioni: i contenuti. Io con il mio stipendio pago lo stipendio di Bruno Vespa e Gigi Marzullo, tra gli altri, che ogni santa sera sono presenti in un palinsesto ripetitivo, con «Porta a Porta» e «Sottovoce», nonché gli stipendi dei soliti, soliti, soliti noti. Per assistere a trasmissioni di basso livello culturale, dove si gioca e ci si diverte secondo un arbitrio di quoziente intellettivo pari a meno qualcosa, dove si vincono soldi mentre non si trova lavoro. Per ascoltare i dibattitti di personaggi votati a nessuna causa, apprendere nuove parolacce, distruggere l’italiano, sentire urlare, gridare, insultare. Inermi. L’Italia della RAI è l’Italia dell’ignorante. Anzi, di coloro che vogliono far passare gli italiani da ignoranti. Serie televisive con attori incompetenti, ingestibili, inguardabili. Chiacchiere, chiacchiere. Tutte queste chiacchiere sono oggi luce, perché si pagano in bolletta. Paghiamo le parolacce, le grida isteriche, il narcisismo, esattamente come quando, entrati in casa, pigiamo l’interruttore della luce. Paragoniamo la «Prova del cuoco» a un bene essenziale quale la fornitura elettrica. Ascoltiamo Paola Perego ed i suoi ospiti registrare uno stereotipo sulle donne dell’est, e senza accorgercene ci cibiamo di questo e di pregiudizi o giudizi precompilati. Non abbiamo la possibilità di oscurare tali canali, perché ci vengono propinati con obbligatorietà. Dovremmo essere messi nella condizione di scegliere tra guardare e non guardare, pagare e non pagare. Avere una TV in casa non vuol dire affatto seguire la RAI TV, più probabilmente dare sfogo ad uno zapping selvaggio da cui uscir fuori frustrati, insoddisfatti, salvo accontentarsi dell’istrionismo pubblico. Salvo leggere un libro. Salvo fare l’amore.

Non che gli altri canali siano migliori, ma non ne paghiamo un contributo. Sono canali privati che vanno avanti da sé. Ora c’è Netflix, ora c’è il digitale, ora c’è Sky: a questi gli utenti medi si appoggiano per trovare una distrazione che si avvicini ai propri interessi. Non possiamo paragonare, così come facciamo, Bruno Vespa a Dio, che muove tutto, che decide di cosa dobbiamo renderci edotti ogni santa sera che RAI ha creato. I contenuti garantiscono cultura; quando si tratta di ridondare, di impiegare il caso del giorno per fare audience, di pagare una parcella, allora Aristotele si rivolta nella tomba, obtorto collo. La RAI TV dovrebbe essere una scelta per il contribuente. Non perché si ha un libro in casa ciò significa che si è alfabetizzati: un bambino di due anni non lo leggerà. Così mi sento io quando velocemente passo dalla Rai a TopCrime: un bambino che cerca il gioco adatto alle sue abilità, e corre nella sua stanza dei giochi. Nessuno, solo perché si ha un libro in casa, pagherà la sua università. E così nessuno, solo perché si ha una TV in casa, pagherà il suo canone, facendosi uccidere subliminalmente.

Che la RAI divenga un’opzione, e che il meccanico trovi lavoro: questa è democrazia, non tirannide od oligarchia. Lo dicono i filosofi, che Sanremo non lo guardano. Loro pensano, come li fa la natura. (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2017