NO POTHO REPOSARE, PER IL GHETTO DI BAULENI IO NON DORMO

Innanzitutto, questo video. Confesso: si piange. Va ascoltato e visto come una delle canzoni d’amore più grandi di tutti i tempi e, nelle sue immagini, un significato ancora più forte, che descriverò qui sotto. Ma, innanzitutto:

 

PER DONARE RESTA MENO DI UN MESE:
https://www.musicraiser.com/it/projects/9415-africa-sarda-studio

Figlio di un contadino e di una casalinga, l’avvocato sardo Badore (Salvatore) Sini (Sarule, 1873 – Nuoro, 1954) il 23 luglio del 1915 – estate rovente fresca di una guerra iniziata da due mesi e destinata ad annidare tragedie e morte, il resto è storia – scrisse la poesia A Diosa, lettera di un innamorato che parte per il fronte. Con A Diosu, la risposta di lei, il puzzle si chiudeva in un poema di corrispondenza tra i due amanti lontani. Gli addii di quei giorni, quelli di chi non sarebbe mai tornato dalle trincee, mutatis mutandis erano già il “post” di un RIP attuale. Così si esprimeva: “E avessi avuto le ali per volare, sarei volato da te mille volte: sarei venuto almeno per salutarti o anche soltanto per vederti appena”. In dieci minuti – Sini non poteva sapere – aveva scritto quello che sarebbe a breve divenuto il testo di una delle canzoni più rappresentative e romantiche della Sardegna, l’O Sole mio napoletano: Giuseppe Rachel (Cagliari, 1858 – Nuoro, 1937) la musicò nel 1920 e ne face un valzer inglese, inserendola nel repertorio del Corpo musicale filarmonico di Nuoro da lui diretto. La si conobbe con il nome di No potho reposare. Riposo non trovo.

Ma chi l’avrebbe detto, chi, che oggi quel brano sarebbe stato interpretato da un gruppo di ragazzini africani intrappolati in un uno slum? Che avrebbe risuonato in un ghetto sporco, povero, invisibile quando non inesistente, nel bel mezzo dello Zambia? In un compound, quello di Bauleni, che la cantante sarda Carla Cocco – tra le cui collaborazioni altisuona il brasiliano Toquinho – ha preso talmente a cuore da creare Africa Sarda Studio, avente ad oggetto la realizzazione di uno studio di registrazione e di una scuola di musica all’interno del ghetto, per il quale non dorme più. No potho reposare, per l’appunto.


Toquinho e Carla Cocco, Auditorium Parco della Musica

Questo brano ne è (solo) uno dei risultati: africani che, con lei, cantano in sardo. Già questo, un miracolo. Sono Francisca, Alan, Florence, Ethel, Julia, Romance, Madaliso, Jaco e il fratello Jay, ed anche Daniela Schiavone, del servizio civile per In&Out of the Ghetto, associazione coinvolta nell’impresa. È Jaco ad aver prodotto il brano con due casse e un mixer arrangiatissimi, in quello che è solo l’abbozzo del futuro studio: una sedia ed un tavolo. Lavorando senza voler fare pause pranzo per due giorni di seguito, costruendo da sé le basi a partire da zero. Carla, intanto, istruiva in loco i ragazzi al brano e al canto. Poi, la produzione.

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Non è la guerra di Badore questa, non è la prima guerra mondiale, in un certo senso è peggio: il destino del Compound di Bauleni è segnato, non è legato alle sorti di un conflitto, di alleanze, di fughe, di comandi, di territori, di diplomazia. Esso è bensì segnato dalle stesse condizioni intrinseche che lo fondano. “No potho reposare” divenne patrimonio universale, oggi è qualcosa di più (non mi riferisco alla versione dei Tazenda o di Anna Oxa): entrare in uno dei ghetti più poveri dell’Africa e risuonare da lì – per essere portata nel mondo ed avere la capacità intrinseca di togliere dei ragazzi dalla strada, dar loro se non un futuro un presente fatto di talento e obiettivi – va oltre i riconoscimenti per l’arte e la commercializzazione. L’arte non è il delirio onnipotente di un futurismo che crede che un pennello possa portare al futuro, su parametri oppositivi quali modernità contro antico, velocità contro stasi, violenza contro quiete; né è un quadro tutto blu esposto al Moma-NYC di Manhattan , davanti al quale mi sedevo in tutte le mie pause pranzo – diverse da quelle di Jaco – lavorando da avvocato Corporate a Times Square: osservavo e riosservavo, segretamente agli antipodi di una sindrome di Sthendal, con l’intimo intento di cercare di capire il monocromatismo di Yves Klein che, con Blue Monochrome, rappresentava, secondo la sua idea, una “finestra aperta sulla libertà” ed evocava nelle intenzioni l’immaterialità e l’utopia, tanto che a quel blu veniva dato un nome, International Klein Blue. Lo ritengo alla stregua di “petaloso”. Arte non è questo:

Arte non è utopia. Come musica non è X-Factor o talent, non sono parolacce da parte di una giuria di incompetenti ed influencer, non è divismo né autografi in uno store. Musica ed arte, insieme, sono quelli dell’African Voice Band, l’opera prima di chi ha qualcosa da realizzare, quando non solo immaginare, quando non solo desiderare. A volte nemmeno “utopizzare”. Carla Cocco sta facendo tutto questo da sola, richiedendo solo piccoli contributi attraverso la piattaforma di Musicraiser, acceleratore di crowdfunding per trovare fondi online, vere e proprie donazioni alla causa in cambio di “ricompense” che vanno da cd a house-concerts, gadgets e quant’altro. Nel caso di Africa Sarda Studio, è possibile anche ricevere oggetti artigianali creati dagli abitanti del ghetto: direttamente dalle mani di Mary (anche lei cantante del disco in uscita Africa Sarda & is Amigus) e della sua mamma Delia: portamonete, zaini, borse, coperte patchwork made in Bauleni, realizzati con il kitenge, tessuto africano. QUI: https://www.musicraiser.com/it/projects/9415-africa-sarda-studio.

“No potho reposare” recita: (ROMINA CIUFFA)

IL TESTO ORIGINALE E LA SUA TRADUZIONE
Non potho reposare amore, coro,
nè in dispiaghere o pessamentu.
Non trovo riposo, cuore mio:
il pensiero è sempre rivolto a te.
Non essere triste, gioia d’oro,
non dispiacerti e non stare in pensiero per me.
Ti giuro di desiderare te soltanto perché ti amo, ti amo, ti amo.

pro venner nessi pro ti saludare,
Amore mio, tesoro da voler bene,
il mio affetto è riservato a te.
Se avessi avuto le ali per volare,
sarei volato da te mille volte:
sarei venuto almeno per salutarti
o anche soltanto per vederti appena.

sas formas e furavo dae chelu

unu mundu bellissimu pro tene
pro poder dispensare cada bene.

Se mi fosse possibile prendere
le forme spirituali di un angelo invisibile,
ruberei dal cielo sole e stelle per formare
un mondo bellissimo tutto tuo
cosi da poter dispensare ogni bene.

Amore meu, rosa profumada,
amore meu, gravellu olezzante,
amore, coro, immagine adorada.
Amore, coro, so ispasimante,
amore, ses su sole relughente,
Amore mio, rosa profumata; amore mio,
garofano odoroso; amore, cuore,
immagine venerata;
amore, cuore, io spasimo per te; amore.
Sei il sole lucente che spunta la mattina in oriente.

lizzu vroridu, candidu che nie,
semper in coro meu ses presente.
Amore meu, amore meu, amore,
Sei il sole che mi illumina
e mi esalta il cuore e la mente;
giglio in fiore, candido come la neve,
sei sempre presente al mio cuore.
Amore mio, amore mio, amore:
ti auguro di vivere senza amarezza e dolore.


in fundu de su mare a regalare
a tie vida, sole, terra e mare.

Se avessi potuto prendere tutto in una volta
la luce delle stelle e del sole
e il bene dell’universo,
mi sarei immerso come un palombaro
in fondo all’oceano per farti dono di vita,
sole, terra e mare.

s’essere istadu eccellente iscultore,
Ma non balen a nudda marmu e tela
Se fossi pittore ti farei un ritratto,
se sapessi scolpire degnamente ti dedicherei una statua di marmo.
Invece dico con dolore:
non so fare queste cose.
Ma il marmo e la tela nulla contano in confronto alla vela d’oro dell’amore.

Ti cherio abbrazzare egh’e basare
ma da lontanu ti deppo adorare.
chi de sa vida nostra tela e tramas
Vorrei abbracciarti e baciarti
per unire la mia anima al tuo cuore.
Ma debbo venerarti da lontano.
Il pensiero del tuo amore mi conforta,
tela e trame della nostra vita
hanno lo stesso destino in virtù del tuo amore.

sos profumos, sos cantos de veranu,
sos zeffiros, sa brezza relughente
sas menzus cosas dò a tie, anghèlu.

L’incanto dei tramonti, la prima alba.
L’aurora, il sole splendente, i profumi,
i canti della primavera, gli zefiri,
la brezza che fa splendere il mare.
L’azzurro del cielo sono tutti doni per te,
mio angelo.




CATALUNYA VS SPAGNA: NE FACCIO UNA QUESTIONE EDIPICA E NEUROLINGUISTICA

Trovo che la Catalunya sia come un adolescente che, in piena febbre di crescenza, è in freudiana lotta con il padre. E che Madrid sia un classico padre, protettivo ed egoista, nel contempo amorevole, che non vuole dare al proprio figlio l’indipendenza di cui questi ha bisogno per crescere. Come in ogni conflitto intrafamiliare, entrambi hanno ragione: il primo, perché anela a un’indipendenza che gli spetta, voglioso che gli vengano ricosciuti l’individuale esistenza nel mondo, i talenti e le capacità; il secondo, perché come i padri è geloso della dipartita e interessato alla permanenza.

E uno schiaffo dal padre, uno schiaffo da Madrid a Barcellona, è ammesso dall’art. 154 del codice civile spagnolo che, modificato e «intenerito» dalla legge n. 54 del 2007, conferisce ai genitori la facoltà di esercitare la patria potestà impiegando un tratto autoritario in combinato disposto con il successivo art. 155, il cui oggetto è un dovere di obbedienza del minore «a sus padres». Purché non si sconfini nel reato di lesioni dell’art. 147 del codice penale, non giustificate dallo ius corrigendi attribuito al genitore a soli fini educativi, né nel secondo comma dell’art. 173, che fa riferimento all’abitualità di un condotta domestica degradante, fisica o psichica. Per la dottrina, la sberla è ok. Reiterata o violenta, o senza fini di educazione, no.

La Spagna ha il «diritto di correggere», a suon di sberle, la Catalunya?
La domanda pregiudiziale è: che tipo di relazione c’è tra Madrid e Barcellona? La Catalunya è figlia della Spagna?

È una questione storica: l’attuale Catalogna, nel Paleolitico medio pertinenza di greci e cartaginesi, poi parte dell’Impero Romano, quindi insediata dai Visigoti, è conquistata dai Mori e chiamata al-Andalus, organizzata in regni e contee che parlano catalano, aragonese, basco, castigliano-leonese e galiziano, infine inglobata nell’Impero carolingio con buona pace dell’indipendenza. I limiti territoriali del Principato dei «cathalani» vengono definiti solo con il passaggio, sotto la casata di Barcellona, alla Corona d’Aragona. La conquista delle Baleari e di Valenzia, quindi di Sicilia, Sardegna (ad Alghero tuttora si parla catalano) e Napoli, e il passaggio alla Corona di Spagna per unione dinastica, danno respiro ai catalani fino all’avvento della dinastia dei Borboni. È del 1640 la ribellione popolare contro i soldati mercenari nelle case dei contadini catalani prossime alla frontiera. La Repubblica catalana, autodichiarata sotto protezione francese, con la conquista di Barcellona del 1652 perde Stato, istituzioni, leggi e capacità di decisione politica. Nel 1716 il quartiere barcellonese del Born è distrutto e vi viene costruita una fortezza militare.

Con la dittatura del generale Franco – aiutato da Hitler e Mussolini – e la guerra civile, è il tempo di una brutale repressione politica (i bombardamenti aerei su Barcellona sono effettuati dall’Aviazione legionaria italiana con il supporto della Legione Condor tedesca dal 16 al 18 marzo 1938, un bilancio di oltre mille morti e 2 mila feriti). La lingua catalana viene vietata. Il presidente Lluís Companys nel 1940 è fucilato nel castello di Montjuïch. Dopo Franco, nel 1977 è ristabilita la Generalitat con Josep Tarradellas. Il catalano in questi anni è introdotto nelle scuole. Nel 2006 è approvato uno Statuto per via referendaria, ma la Corte Costituzionale ne dichiara l’inefficacia giuridica e nega la definizione della Catalogna come nazione.

Dal 2011 il Partido Popular di Mariano Rajoy governa la Spagna. Il primo ottobre 2017 la Catalunya va al voto referendario senza il consenso del padre, che considera il referendum anticostituzionale e sequestra le urne, taglia i collegamenti ad internet, invia polizia non pacifica, fa «prigionieri» politici. Ma i catalani, quasi tutti, dicono «ens n’anem», andiamo via dalla Spagna. Il «president» Carles Puigdemont chiede un margine di dialogo e negoziazione; Rajoy vuole chiarezza: avete o no dichiarato l’indipendenza?

Ora risponderei alla mia domanda: i catalani sono figli di Madrid, ma d’adozione, e riconosciuti. In quanto tali a loro si applica la norma che non consente al padre di schiaffeggiare oltre una certa misura (educativa) il figlio. Guerre civili e metodi impositivi non sono schiaffi di ius corrigendi ma uso abnorme.

I catalani parlano una lingua propria, che non è un dialetto. Che differenza c’è? Presto detto: la lingua è un dialetto con un Esercito ed una Marina (Max Weinreich). Ossia, il dialetto è la variante di una lingua, una specificità; come tale, si riconosce all’interno di essa. La lingua riflette, invece, l’anima del parlante, distinta dalle anime altrui intese come confluenza di elementi storici, culturali, caratteriali, territoriali, archivio dell’esperienza di un popolo. Il «català», nelle sue varianti locali, distingue il proprio parlante dagli altri anche in funzione dell’influenza psicologica che la costruzione, il modello motorio collegato alla riproduzione vocale e alla scrittura, i cambiamenti strutturali nelle regioni del cervello, la mappatura cognitiva, sviluppano nell’essere umano. La differente reazione neuronale dipende dal fatto che l’apprendimento di una lingua come nativa avviene contemporaneamente all’acquisizione delle conoscenze concettuali e delle esperienze corporee e sensoriali. Un esempio su tutti: per lo psicologo David Meyers i tedeschi, ritenuti privi di humour, sarebbero tali in quanto, nel pronunciare le vocali con la dieresi, inclinano verso il basso le labbra assumendo un’espressione triste, e l’uso che il cervello associa alla tristezza influenza negativamente l’umore.

Caratterizzata da una forma interna che esprime la concezione del mondo della nazione che la parla (Wilhelm von Humboldt), la lingua è «manifestazione fenomenica dello spirito dei popoli: la loro lingua è il loro spirito e il loro spirito è la loro lingua». I catalani non solo si sentono diversi, essi sono diversi. È nella forza spirituale delle nazioni l’effettivo principio esplicativo e la vera causa che determina la diversità delle lingue. Una base, questa, per il principio di autodeterminazione dei popoli interna ed esterna: il diritto di scegliere il proprio sistema di governo e di essere liberi da ogni dominazione esterna. Per il diritto costituzionale canadese (nel caso della secessione del Quebec) ed il diritto internazionale, il principio si applica solo in tre situazioni: ai popoli soggetti a dominio coloniale, ai popoli il cui territorio è occupato da uno Stato straniero, ai gruppi minoritari che all’interno di uno Stato sovrano si vedano rifiutare un accesso effettivo all’esercizio del potere di governo. È questo il caso della Catalunya?

Ho vissuto molti anni a Barcellona. Ho parlato fluentemente il catalano, più del castigliano che conosco come un madrelingua. La madre edipica. Ciò mi ha permesso di avere una visione completa della Spagna, in quanto ho utilizzato le strutture neurolinguistiche del primo e del secondo sistema. Sono sì consapevole che gli interessi politici ed economici entrano in gioco nelle richieste del presidente catalano Carles Puigdemont alla Spagna di Rajoy; sono sì consapevole del fatto che l’Europa tende, pericolosamente, verso una disgregazione. Ma ciò avviene non solo o non tanto per questioni di moneta, prosperità e comando, bensì spirituali: l’adolescente, se non muore, prima o poi compirà 18 anni. A quel punto, il padre non sarà più soggetto alla paghetta e all’educazione, nel contempo non riceverà una percentuale sui guadagni del figlio.

A meno che non vadano d’amore e d’accordo. E così, il primo potrà essere accudito in futuro da un discendente capace e affettuoso, il secondo riceverà un’eredità che lo riporterà nella casa paterna. E il Natale si farà insieme. La Pasqua, però, con chi vuoi. (Romina Ciuffa)

Romina Ciuffa, Formentera (giugno 2017)

BARCELLONA. LA MIA GALLERIA

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