OVUNQUE LA PROIETTI. L’intervista a Carlotta Proietti, gran “figlia di”

  • di ROMINA CIUFFA. La figlia di Proietti, è facile, dicono. Ma l’ho sentita cantare senza saperlo, senza vedere il padre, seduto, ad applaudirla. Vado in giro in modalità «talent scouting», e ho pensato di aver scoperto chi avrebbe potuto risollevare dalla banalità degli spettacoli propinati da troppo tempo a questa parte, dall’inutilità delle voci in circolazione strappate alla recitazione di mantra, dall’urlo della mia coscienza sulle lamentele degli «artisti». La Proietti sì, è figlia di Gigi. Ma allora, sarà per questo che è perfetta sul palco? Sarà per questo che ha un umorismo irrefrenabile? E che, come lui, a casa è pigra?

Non per il fatto che lui l’abbia potuta portare al Brancaccio o spingere, ma per il fatto genetico, scientifico, che il DNA non mente. D’altronde c’è anche una madre, Sagitta Alter. E d’altronde, mio padre è un giornalista. 

MUSICA PIÙ CHE TEATRO. “Ho sempre cantato. Alle elementari – frequentavo la Kendale – c’era un’insegnante meravigliosa che ci faceva cantare ascoltare e suonare la musica più varia: da Benjamin Britten ai Beatles oltre che, per carità, Nella Vecchia Fattoria, che ha sempre la sua dignità… Affiancare musica per bambini a musica di livello rende più facile il percorso successivo. Ho cominciato ad avere una forte passione per i cori e le armonizzazioni, e mi divertivo in camera a farle su Alanis Morissette. A casa tra mia madre e mio padre il richiamo musicale è stato continuo, a partire dallo swing, e papà suonava pianoforte, chitarra, fisarmonica, persino il contrabbasso. Cantando nel coro della scuola e in chiesa, l’insegnante mi fece fare un brano di Pergolesi da solista e cominciai a prendere lezioni private di canto lirico: avevo 16 anni, feci esercizi di respirazione per due anni, e l’insegnante mi diede quell’impostazione da soprano leggero, nonostante io abbia una voce bassa. Poi ho cambiato direzione nello studio, e da questa impostazione lirica sono passata al «belting», contemporaneamente ho cominciato a fare serate nei locali, come veniva. Intanto lavoravo e studiavo Scienze della Comunicazione prima, il Dams dopo, per la mia grande passione della regia: c’era la musica a quel punto, ma c’era pure altro, quindi brancolavo. Le serate che facevo erano jazz e blues, ma non lo prendevo come lavoro”.

IL PRIMO ALBUM. “Nel 2003 è nato il mio primo album, Carlotta Proietti. Il mondo della discografia è ancora misterioso per me, niente ha il gusto del live e vorrei che fosse tutto così; anche se sono sempre stata estremamente timida, e le prime serate cantavo senza dire una parola di più”.

TEATRO. “A teatro cominciai a lavorare come cantante. Poi accadde la mia «prima volta» con mio padre, in teatro ma sempre come cantante nel 2005, per il festeggiamento dei suoi 40 anni di carriera, un suo One Man Show che aveva chiamato Serata d’onore ma in cui aveva chiesto la partecipazione delle due figlie, me e la maggiore, Susanna, costumista, scenografa, pittrice e disegnatrice. Io faticavo a scegliere questa via, lui mi disse: «Vieni a cantare una canzone». Davanti ai 1.500 spettatori del Teatro Brancaccio. Cantavo Moon Dance di Van Morrison, nella versione di Michael Bublé, in duetto con mio padre, swing e grande orchestra. Da lì sono successe una serie di cose a catena. Mia sorella in quella situazione recitava, la compagnia era enorme, è stata un’esperienza incredibile. Da cosa nasce cosa: abbiamo fatto uno spettacolo al Sistina dove è venuto Nicola Piovani, che dopo avermi vista mi ha proposto di partecipare al suo spettacolo Semo o non semo, una serata di canzoni romane: un onore grandissimo. Spesso si pensa «figlia d’arte», ma questa è gente che non ti chiama se non pensa che hai le qualità, e Piovani mi ha cercata così. Ho lavorato con personaggi che per me sono mostri sacri. Ma sempre come cantante. Lo spettacolo ha avuto molte edizioni, e continua ad averne”.

FORMAZIONI E LIVE. “Quando mi ritrovavo a fare le serate dal vivo, comunque, era sempre diverso. Un conto è far parte di uno spettacolo strutturato, in cui sei più protetta, un’altro è gestire il locale, dove sei tu, nuda. Volevo farne un motivo di vita: il mio progetto era portare avanti serate-spettacolo sempre più strutturate, con pretesti con un senso che accompagni le canzoni, anche perché io stessa, da spettatrice, non amo sedermi ad ascoltare cantautori in una serata che è un continuum di canzoni. Ho formato vari gruppi, tra cui l’attuale Blatters. È una formazione di musicisti estremamente validi, un progetto ricco di suoni e inventiva. Con loro abbiamo portato avanti l’esperienza live ma cresceva sempre di più l’esigenza di unire teatro e musica”.

RECITAZIONE.Non volevo più scindere teatro e musica. Così sono andata a fare una scuola di teatro. Si potrebbe pensare che c’entri mio padre, ma in verità lui si era già già arreso, sapeva che volevo fare la cantante. È stata una mia scelta. Mi sono iscritta alla scuola di Paola Tiziana Cruciani, che allora dirigeva Il Cantiere Teatrale. Completata la scuola e con qualche nozione di recitazione in più, ho appreso che musica e teatro non sono affatto distanti come pensavo; quindi la realizzazione di un sogno. E’ nato Se non parlo canto, uno spettacolo con testi recitati e cantati che ho scritto e che mi permettono di poter cantare e recitare, con i Blatters al mio fianco. Da qui l’idea, o meglio il desiderio di registrare i brani, che usciranno a breve in un album nuovo. Recitare mi ha fatto conoscere molti splendidi autori, e provarmi in ruoli sia comici che drammatici, attualmente sono Beatrice in Much ado about nothing (Molto rumore per nulla) di Shakespeare, in lingua originale, che debutterà il 5 ottobre al Silvano Toti Globe Theatre di Roma. A novembre inizieranno le riprese di Una pallottola nel cuore 3, fiction Rai dove mio padre è protagonista, io faccio un piccolo ruolo. E così continuo, sempre”. (ROMINA CIUFFA)

Romina Ciuffa




LA RAI SPEGNE “BRASIL”, PROGRAMMA DI MAX DE TOMASSI. OSSIA SI DÀ LA ZAPPA SUI PIEDI

Chiude così un’era brasiliana in Italia: quella della Rai e di tutti noi. Max De Tomassi, conduttore storico di “Brasil” su Radio Rai1, comunica la cessazione del programma. La prossima, sarà l’ultima puntata. Lui annuncia l’evento con queste parole:

“Carissimi amici di Brasil,

dopo 17 anni di messa in onda ininterrotta, dal 2001 al 2017, e dopo esser diventato uno dei programmi più antichi e di successo di Radio1 Rai, la nuova direzione chiede a “Brasil” di concedersi un periodo di pausa. Sarò coinvolto in un altro progetto musicale di Radio1 e mi auguro che questo nuovo corso sia di vostro gradimento e che possa crescere e ricevere consensi.

Vorrei ringraziare innanzitutto la Rai, per avermi concesso l’opportunità di continuare questo cammino insieme, con la stessa missione di sempre: divulgare la musica di qualità che ancora sorprenda positivamente e crei emozioni.

Vorrei ringraziare anche voi, miei cari e preziosi radioascoltatori, che avete permesso a “Brasil” di diventare grande, con la speranza che presto, possa tornare e farsi ascoltare su queste frequenze.

Vorrei ringraziare la “mia” squadra: dal curatore Danilo Gionta, colonna portante del programma e ormai appassionato di Brasile, ai tecnici e registi che si sono alternati fino ad oggi la domenica notte e durante le programmazioni estive, dallo staff di Facebook a quello dei miei personali Social Network, che mi aiutano quotidianamente a promuovere contenuti di spessore, dalla mia famiglia ai miei colleghi e amici.

La prossima puntata di Brasil sarà l’ultima del 2017: vogliamo “chiudere” in allegria, perché non esiste viaggio senza ritorno”.

Io lo annuncio con queste. Ciò fa riflettere sullo stato dei palinsesti italiani, sempre meno attenti alle esigenze degli spettatori ed ascoltatori, sempre più presi a fare cassa. Quella di “Brasil”, quella di Max De Tomassi, è stata una (lunga) parentesi di qualità in mezzo a tanto parlarsi addosso, uno dei pochi programmi effettivamente amati ma nel contempo culturali, dove si è potuto apprendere molto: da parte di coloro che seguono attivamente il Brasile, e da parte di chi, proprio attraverso “Brasil”, ha potuto conoscerlo. Uno dei pochi media in grado di dare la vera informazione sul Brasile, che da tutti è stato usato per fare audience e lettori attraverso notizie massificate e falsate. Attraverso Max De Tomassi si è potuto ascoltare il Brasile così com’è e, soprattutto, viverlo. Per saperne di più, la mia intervista: https://www.rominaciuffa.com/max-de-tomassi/.

Sento di non poter dire altro, oltre ciò che ripeto in ogni mio articolo, ovunque, sulla obesità della comunicazione in Italia. Sento di dover, questa volta, per un attimo tacere (ma tornandoci in questi giorni sopra). Ascolteremo De Tomassi, e la sua attenta e definita voce – mai un errore, mai un tono di troppo – nel suo nuovo programma. Ma ci muoveremo per portare, ancora e insieme, il vero Brasile alla portata di tutti. A portata di “riomano”.

Intanto, grazie Max De Tomassi per averci insegnato con le sue parole, alla Tom Jobim e mettendolo in pratica, che “il Brasile non è per principianti”.

Romina Ciuffa




HO FONDATO UN CORO BRASILIANO: IL CORO DI RIOMA. L’INTERVISTA AL SUO DIRETTORE, LA BAIANA CLAUDIA MARSS

Ho pensato di fare un coro differente, e ho fondato il Coro di Rioma (Rioma Brasil è il mio giornale di cultura brasiliana, su www.riomabrasil.com), non perché a Roma non ve ne fossero, anzi: oltre agli altri, già ne sono presenti vari del Saint Louis College of Music. Ora questo, un coro brasiliano, differente semplicemente perché lo abbiamo pensato differente. Innanzitutto, un laboratorio: un corso dove apprendere poliritmia, polifonia, vocalità brasiliana, anche la sua nasalità. Ciò era mancante nel panorama romano: la docenza nella coralità brasiliana. Ma ciò che principalmente ci ha mosso è stato ascoltare la grande cantante soteropolitana (ossia, proveniente da Salvador de Bahia) Claudia Marss.

Ascoltare Claudia Marss in un concerto nel chiostro di una parrocchia (si veda: http://www.riomabrasil.com/benedetta-claudia-marss-e-benedetto-coro-di-rioma/), cui si sono uniti i partecipanti di un coro Gospel da lei educato, ci ha dato il la definitivo per la creazione del Coro di Rioma. Il grande amore verso questa docente, portatrice di valori e di «verdeoreficità», hanno rafforzato l’intento. Per la prima volta il Brasile entra dalla porta principale del Saint Louis, unica in Italia parificata all’Università con decreto. Intervistiamo Claudia Marss.

Che progetti hai per il Coro di Rioma? L’idea è di un coro di Musica Popular Brasileira (MPB). Non ne esistono molti in giro e comunque, di certo, non ce ne sono diretti da un brasiliano. E quel che fa la differenza è la percezione ritmica, sia nella conduzione dell’accompagnamento, vocale o strumentale, che nell’appoggio della melodia stessa con i suoi possibili spostamenti. Il tutto senza tralasciare l’importanza della pronuncia e della giusta vocalità. Il mio coro canta la melodia, l’armonia e fa vocalmente anche la ritmica. La musica brasiliana si sta (finalmente) diffondendo com’è successo anni fa con il jazz. Non si limita solamente a quei pochi brani in stile bossa nova che fanno parte del Realbook o a quegli altri ricantati in versione italiana. Roma non è ancora ai livelli di Parigi e New York per numero di artisti brasiliani di grande nome residenti, però la richiesta e la conoscenza del ricchissimo repertorio della MPB sta crescendo esponenzialmente. Come progetto vorrei avviare un coro che faccia dei concerti con e senza di me.

In che modo imposti il programma di lezioni, considerata l’affluenza di italiani ai laboratori con le conseguenti difficoltà? Il coro è un punto d’arrivo. Li voglio formare facendo laboratori sulla poliritmia nei diversi stili, sulla pronuncia e la vocalità, e costruiremo il repertorio mentre si formano i coristi. Ho la consapevolezza di avviare un coro brasiliano in Italia, quindi i coristi saranno italiani. Ecco perché parlo di formazione: non basta mettere insieme un gruppo di persone a cantare. Coro si diventa. Il ritmo, gli accenti, la pronuncia ed i suoi fonemi si imparano. Si può cantare in un’idioma anche se non lo si parla.

Cosa è importante conoscere per entrare a far parte di un Coro? Non è una questione di conoscenza. Si parte dal presupposto che un aspirante corista sia intonato e canti a tempo, anche se non sa leggere la musica. L’ideale è avere un gruppo dove tutti la conoscano, cantino e siano dello stesso livello, ma anche questo è un punto di arrivo. Lavorando con un gruppo misto di appassionati, mi rendo prima conto di come cantano singolarmente e di che tipo di voce hanno; una volta diviso il gruppo, si lavora per imparare a cantare coralmente. Succede solo provando insieme. Un coro può essere buono anche senza solisti di pregio, anzi, alcune volte un bravo solista non è un bravo corista. Si devono ascoltare le diverse sessioni a blocco, e all’unisono nessuna voce si deve sentire più delle altre, trovando un timbro unico che le faccia suonare come una voce sola.

Chi è Claudia Marss? Sono nata a Salvador in una zona del centro storico, a Garcia, vicino Campo Grande. Ho cominciato con la danza, entrando in una compagnia fondata da professori del Teatro Castro Alves. Nel frattempo mi diplomavo anche come perito elettronico. Finita la scuola ho fatto due anni in Conservatorio di chitarra classica, che ho abbandonato per lavorare per la TeleBahia come chitarrista e cantante. Dopo aver vinto il Festival interno l’organizzaione mi iscrisse al premio Trofeu Caymmi, e ne uscii prima come interprete emergente. Era il 1986, e a quel punto la musica ha preso il sopravvento.
Il sopravvento musicale come si esplicitò? Nel 1988 sono entrata come corista nella band baiana di Gilberto Gil con Daniela Mercuri, prima che fosse Daniela Mercury. Ho fatto tutto il 1988 con Gil, quando era candidato come sindaco di Salvador; all’ultimo momento il prefetto decise di candidare un altro e Gil rimase consigliere comunale (il più votato). La campagna tra politica e concerti finì con questo, dopo molte tournée in tutto il Brasile.

Come sei arrivata in Italia? Avevo conosciuto un musicista italiano, Corrado Nofri, che aveva portato il jazz a Salvador (uno dei rari che aveva il Real Book, importato dall’Italia, con il quale fece impazzire tutti). Registrai un paio dei suoi brani, cantammo anche nell’isola di Itaparica, e nel 1990 mi invitò in Italia a fare concerti di promozione del disco. Dopo tre mesi a Vetralla per concerti, a Roma conobbi mio marito e mi trattenni. Era il luglio del 1990.

Com’è continuato il tuo percorso musicale? Con la Folk Magic Band, nata negli anni 70, che Nofri aveva rimesso su negli anni 90, dove si concentrava tutta la musica del quartiere di Testaccio, da Lillo Quaratino, Guerino Rondolone ed altri, una big band di 25 persone con brani originali. Quando cominciò a funzionare, Nofri tornò in Brasile. Mi avvicinai per caso al Blues con Harold Bradley, ed ebbi accesso alla musica Gospel e alla conoscenza di un altro grande americano, Nehemia Brown. Quest’esperienza fece crescere moltissimo la mia voce: da una voce più sottile e nasale passai a un timbro più ricco e amplio, cantando diversamente anche la musica brasiliana.

Dalla nasalità brasiliana al Blues cosa corre? La voce è leggermente di gola, le cantanti brasiliane sono spesso autodidatte ed hanno una vocalità molta nasale: la musica brasiliana non esige più di tanto l’esplosione americana. Ho sperimentato ancora utilizzando la mia radice afro-baiana riletta in chiave jazzistica, più ricca armonicamente con colori percussivi tipicamente afro-baiani ed aperture armoniche più jazzistiche, rentrando ancora nella musica brasiliana, che non ha confini, ma con una sperimentazione più azzardata, senza accontentarmi di cantare semplicemente i brani ma dando loro una connotazione particolare.

Qual’è l’idea migliore che hai della voce? Molti in Brasile hanno usato la voce anche come strumento, non solo emotivamente: ricordo Ellis Regina, grande interprete di colori e di dinamica, ma anche voce potente, o Milton Nascimento, che crea atmosfera e riporta nella dimensione trascendentale solo col suono della voce senza niente di particolare sotto. L’idea della voce come strumento di trasporto. Poi ho scoperto Lenine Andrade, la chiave jazzistica nella musica più brasiliana: cantante che non era semplicemente «canarino», ma anche strumento.

Hai sostituito Amy Stewart. Com’è nata la tua collaborazione con Nicola Piovani? Insieme a Vincenzo Cerami, Piovani aveva scritto uno stupendo spettacolo, “Stabat Mater – La Pietà”, per la solista nera Amy Stewart (che a quel tempo lavorava con molti, tra cui Ennio Morricone), al suo fianco una cantante lirica, Rita Cammarano, e i testi di Cerami letti e recitati da Gigi Proietti. Dopo 5 anni dalla presentazione di questo spettacolo, la compagnia fu invitata a Betlemme a mettere la prima pietra per la costruzione di una gigantesca scuola elementare gestita dai francescsni. Amy aveva uno spettacolo su Billie Holiday e per sostituirla furono fatti dei provini: Piovani mi scelse e mi portò a Betlemme e Tel Aviv.

In quali altri progetti hai partecipato? Molti. Nel 2008 ho avuto una partecipazione con la Fondazione Toscanini, che aveva chiamato la Jazz Art Orchestra e, in omaggio a Nini Rosso, più di 50 musicisti avevano scritto brani da cinema anni 50 e 60. Un progetto molto azzardato è stato quello di voci gospel ed un quartetto d’archi barocco, con arrangiamento della musica dei Padri Fondatori secondo il Gospel degli anni 70. Il testo era del ‘600, la musica del ‘700 (di Bach), spinto fino al Gospel del 900.

Hai lavorato mai in Brasile in seguito? Con molti musicisti che purtroppo non hanno pubblicato dischi, tra cui Franco Brasiliano, Acelino de Paula, Ricardo Feijão, bassista nei primi dischi di Marisa Monte, Robertino de Paula (figlio di Irio), Alvinho Senize, chitarrista di Alcione, Augusto Alves. Una parentesi italiana anche con Roberto Ciotti.

Vi invitiamo a partecipare al Coro di Rioma, perché la coralità possa divenire il simbolo di un passaggio obbligato di crescita, ove non di rinascita e conoscenza interiore e dell’altro. Per contatti didattici o di agenzia: info@riomabrasil.com – www.riomabrasil.com

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LA ROMANIA È UN PESCE, MA SE QUELLO CHE HAI È UN MARTELLO TUTTO TI SEMBRERÀ UN CHIODO

 

LA PREFAZIONE AL MIO REPORTAGE IN ROMANIA. Se quello che hai è un martello, tutto ti sembrerà un chiodo. Se in Italia abbiamo romeni che si distinguono per criminalità – lo dichiarava in aprile anche l’esponente M5S Luigi Di Maio («L’Italia ha importato dalla Romania il 40 per cento dei loro criminali. Mentre la Romania sta importando dall’Italia le nostre imprese e i nostri capitali. Che affare questa UE!») – finiamo per dimenticare che siamo «figli della stessa lupa». Questo il titolo di un libro di Antonio Grego, che sottolinea i legami storici, politici e culturali tra le due nazioni, e ricorda come la Romania sia stata un’area di sbocco dell’emigrazione italiana, proveniente in particolare dal Veneto e dal Friuli Venezia Giulia a partire dalla fine dell’Ottocento, per lavorare nelle miniere, nei cantieri delle ferrovie, nell’edilizia. Migrazione: gliela dobbiamo.

Ma noi ricordiamo solo il pareggio Italia-Romania nei mondiali di calcio del 2006. Ricordiamo «Frankenstein junior», capolavoro in bianco e nero del regista Mel Brooks, che narra le vicende di Frederick Frankenstein, nipote del famoso dottor Victor von Frankenstein, recatosi in Transilvania a riscuotere l’eredità di un castello, parodia del «Frankenstein» di Mary Shelley. Ricordiamo la leggenda di Dracula, sulla quale Bran e i villaggi limitrofi hanno lucrato dopo che lo scrittore Bram Stoker (1897) ha ivi ambientato la storia del voivoda Vlad III di Valacchia (1431-1476), pur essendo altro il maniero del principe noto come l’Impalatore (figlio di Vlad II, investito dell’Ordine del Dragone, da ciò gli derivò il nome Draculea, figlio del Dragone o – «drac» – del demonio).

Il Bâlea Lac, la finestra della suite del Cabana Bâlea Lac

E ricordiamo, più di ogni altra cosa, Giovanna Reggiani, 47 anni, uccisa il 30 ottobre del 2007 dopo essere stata violentata e massacrata a Roma, nei pressi della stazione ferroviaria di Tor di Quinto, da Romulus Nicolae Mailat, muratore romeno di 24 anni alloggiato nel limitrofo campo rom, che sta scontando la pena dell’ergastolo in un carcere di Bucarest. Ellekappa (Laura Pellegrini) pubblicava una vignetta significativa, che si riassume nella questione: romeno, razza o aggravante? Se quello che abbiamo in Italia è un martello, tutto ci sembrerà un chiodo; così la Romania. Quello che vediamo, grazie agli onnipotenti media e alla questione migratoria, è una nazione criminale, di cui oltre un milione di cittadini risiedono in Italia (nel 2001 era solo 75 mila). Una Romania martello.

Ma che è, invece, un pesce: la sua conformazione, infatti, non dà scanso a equivoci interpretativi da macchie di Rorschach. E Costin Dumitru, che conosco nel mio viaggio in Romania e lavora come guida turistica a Sinaia, nel Museo nazionale del Castelul Peles, specifica: se giri la cartina, vedrai anche un mazzo di fiori. Considerando il Mar Nero, il mazzo di fiori è posto in un vaso d’acqua (me lo sottolinea Francu Virgil, di Turda). Nessun martello. E non lo vedo neanche io. Il mio viaggio in Romania è meglio di qualunque viaggio a Parigi, l’ospitalità perfetta, l’appagamento totale. Mi domando: come è possibile che un Paese tanto vicino e strabiliante non riceva le nostre attenzioni? Perché ci si riversa in Grecia, Spagna, Croazia, quando esiste un mazzo di fiori intero pronto ad essere colto ed offerto ad un’amante?

Sic: lo stesso Matteo Salvini, maggior esponente della Leg Nord, postando una foto su un social network, rilevava la crescita dell’economia romena a seguito del taglio delle aliquote Iva e l’aumento dei consumi, avendo a riferimento uno studio Ernst&Young del 2015 nel quale si sottolineava l’elevata crescita della Romania. Sì, è in Europa, per chi se lo stesse domandando o lo domandasse agli operatori di telefonia mobile ai fini di conoscere le tariffe del roaming applicabile. Il trucco c’è, ed è quello della moneta: il Paese romeno non avrebbe potuto reggere il confronto con i grandi pesci europei e si è tenuto il leu prima, il ron oggi, in uso dalla fondazione della sua Banca nazionale nel 1880; il 1º luglio del 2005 il leu veniva rivalutato al tasso di 10 mila dei vecchi lei per ron, portando il potere d’acquisto psicologico in linea con quello delle principali valute occidentali; al 2019 è fissato il passaggio all’euro e questo settembre il ministro degli Esteri Teodor Melescanu ha ribadito l’impegno nazionale in vista dell’ingresso nell’Ocse.

Sotto il post di Salvini, i commenti degli utenti (italiani) sulla Romania sono più che espliciti: si comincia da «È cresciuta grazie ai soldi che hanno guadagnato in Italia» a «Il marcio della Romania ce l’abbiamo in Italia», «Hai dimenticato le prostitute che non vedono mai crisi in Italia», «Perché, risulta che le badanti rumeni spendano soldi che prendono in Italia? Mandano tutto in Romania, tanto qui hanno tutto spesato!», e via dicendo. Il martello è pneumatico.

Così ho interrogato tutti i romeni che ho incontrato per il mio reportage in Transilvania, che hanno riferito, in sintesi, quanto segue. Vox populi. Dalla Romania scappano tutti perché il costo della vita è basso, sì, ma gli stipendi si aggirano intorno ai 200 euro. I criminali che noi conosciamo fuggono, è vero, dal Paese d’origine, perché lì le pene sono applicate, in Italia no. La gente di strada non si identifica con il romeno «italianizzato», piuttosto lo disconosce e se ne vergogna lampantemente; dispiaciuta, si sente vilipendiata da una fama che la precede e che non corrisponde alla verità come, per l’italiano, fa la mafia dei «Sopranos». Un luogo comune è sì rispettato: in Italia i romeni svolgono mansioni che gli italiani non accettano; la loro architettura come le loro doti artigiane sono superiori a quelle degli altri; il Paese è pulito, non ridotto a una discarica a cielo aperto come il nostro. Le qualità di un romeno non sono conteggiabili: non da un italiano. Il martello, in altre parole, è uno strumento di lavoro e non un affronto alla dignità. Per il romeno.

O rumeno? La questione semantica – se è corretto parlare di «romeni» o di «rumeni» – chiarirà molto. Luisa Valmarin, in un saggio del 1989 dal titolo «La guerra del ru- e del ro-», spiega che la differenza tra «român» e «rumân» è legata a specifici aspetti della storia sociale e politica del Paese, che vuole l’etnonimo «rumân» negli antichi documenti di Valacchia indicare non solo l’appartenenza ad un popolo, ma anche, nell’ambito della stessa unità etnica, quella alla condizione sociale di servo della gleba, invertendo quanto accaduto in Francia per il nome dei Franchi. Nonostante la servitù della gleba venne abolita nel 1746, la connotazione negativa assunta dal termine «è tanto forte e radicata che oltre un secolo più tardi essa designa ancora chi appartiene alle categorie più umili».

E i rom? Sottolinea l’Accademia della Crusca: il termine «rom» identifica una minoranza etnico-linguistica, cioè un insieme di gruppi che parlano, o parlavano, il romanés (o romaní). Originari dell’India del nord i rom, caratterizzati da nomadismo e arti, si sono diffusi in tutta l’Europa acquisendo le varie nazionalità (esistono anche i rom abruzzesi). In Romania la minoranza rom è numerosa, ma se è vero che tutti i rom romeni sono cittadini della Romania, non è vero che tutti i romeni sono rom. Non è poi avallabile l’ipotesi segregazionista che stigmatizza i rom sulla base di un generalizzante stereotipo. Zingari, non stupratori.

Questo è l’inizio del mio viaggio in Romania. Sempre tenendo a mente che, per la mia propensione a viaggiare e a conoscere gli altri, a casa mi hanno sempre chiamato «rom». Nomen homen?    (ROMINA CIUFFA)

Romina Ciuffa con Calin Stamatoiu, del Dominique Boutique a Cloasterf, e con il conduttore TV (anche di “Temptations Island”) ed attore nazionale Radu Valcan


 

Romina Ciuffa con Rozalia, residente nel villaggio di Viscri, di soli 7 km

 




ALIMENTAZIONE 2.0: GALLINA CHE NON BECCA HA GIÀ BECCATO

All’inizio era il darwinianesimo. Processi di selezione naturale basati sulla meritocrazia non solo di un vivente, ma delle sue stesse parti corporali: la coda serviva – restava. Non serviva, via. Così le abilità. Si può dire che Darwin fosse un meritocratico, sebbene avesse ricevuto una raccomandazione, quella del naturalista John Stevens Henslow, per salire a bordo del Beagle, brigantino britannico in partenza per una spedizione di ricognizione scientifica intorno al mondo, in qualità di naturalista non stipendiato, e sebbene la sua ipotesi, esposta per la prima volta nel 1858, fu presentata contemporaneamente da Alfred Russel Wallace, che era giunto indipendentemente alle medesime conclusioni.

Corrette o meno, o correggibili, le teorie della selezione naturale sono utili a rispondere a chi vuole convincere il mondo – a prescindere da qualsivoglia cultura, antropologia, credo, dunque bandendo il relativismo in favore di un’assolutismo ideologico – a non mangiare carne. Esse sono basate, infatti, sull’assunto di una specie più forte all’interno di un ecosistema perfettamente autonomo. Homo homini lupus, d’altronde. Oggi la carne fa male, le tossine che sprigiona l’animale, mentre muore soffrendo, sono quanto di peggio si possa ingerire. Non è sbagliato ma, per quanto ciò sia vero, si scontra con l’eccesso. Le nonne dicevano: «Allora non è vera fame», quando si chiedeva da mangiare insistentemente e poi non si gradiva il brodino, la carne. Non è vera fame, no. Si voleva il gelato, diciamolo.

Ed eccoli qui, i nuovi affamati: onnivori (i polifagi), locavori (mangiano cibi prodotti nel raggio di un centinaio di chilometri dal luogo del pasto), ecotariani (scelgono cibo la cui sparizione causi un impatto minore sull’ecosistema), macrobiotici (no carne), vegetariani (no carne, no pesce), flexitariani (vegetariani che mangiano solo a volte carne e pesce), vegani (no ai cibi di origine animale, come latticini, miele e uova), freegan (che rifiutano in blocco la società consumistica, non comprano nulla, recuperano gli scarti anche dai bidoni, si nutrono pure di carcasse di animali morti trovate per strada), crudisti (amano cibi crudi di cui non sia superata una certa temperatura per mantenerne le proprietà di attivazione enzimatiche), fruttaliani (solo frutta e verdura), fruttaliani crudisti (escludono frutta e verdura cotte), fruttariani (solo frutta cruda, meglio se dolce), fruttariani simbiotici (solo frutta cruda e mangiata dagli alberi curati in proprio), via via verso il trionfo della concezione biocentrico-igienista.

Nonne, non abbiamo finito. È un melodramma quello dei melariani, per i quali le piante soffrono, tutte tranne i meli: le mele si donano all’uomo con piacere, i melariani lo sanno. Una mela al giorno leva il medico di torno (se il medico mangia solo mela, un peccato originale). Più avanti ci sono i respiriani: loro respirano. Vivono di sola luce. Assorbono prana (energia vitale, spirito) dal naso. Possono concedersi di ingoiare qualcosa solo se ciò non li fa sentire in colpa, «perché stiamo mangiando per gusto, perché ci piace e non per necessità», spiega una di loro in un’intervista. Aggiungendo: «I cambiamenti fisici più rilevanti sono stati la crescita costante di energia e luminosità e la scomparsa del bisogno di defecare. A un livello di pulizia totale si smette anche di urinare, rimettendo i liquidi in circolo e attivando un processo autotrofo». Alcuni riescono a non dormire, a diventare immortali, assicura la respiriana. Oltre, ci sono i raeliani, che meriteranno la reincarnazione scientifica e vivranno per sempre sul pianeta degli Elohim, dove il cibo sarà portato loro senza dover fare il minimo sforzo.

Dopo, ci sono solo i morti.

L’estremizzazione è una componente essenziale della media. Bukowski scriveva: «Non mi fido delle statistiche: un uomo con la testa nel forno e i piedi nel congelatore ha una temperatura media». Così è garantito un livello di maturità e intelligenza al centro, che solleva dall’idea di dover scegliere per forza tra il congelatore ed il forno. Ma si stava meglio quando si stava peggio. Prima non era un problema mangiare; oggi l’attenzione cade sul cibo al punto tale da essersi sviluppati in senso più ampio disturbi alimentari di forte gravità. L’aver posato lo sguardo su di essi li ha fatti emergere, e così avanti l’anoressia, avanti la bulimia, il «binge eating», la pica etc. Che, infine, sono ricollegati all’accudimento materno. E si torna alla madre, comunque: l’alimentazione inizia con la suzione, non con il respiro. Il latte materno proviene da un animale, facente parte della catena alimentare, ma oggi si dice: il latte è la cosa più pericolosa che c’è. Seno buono e seno cattivo, li chiamava Melanie Klein, l’assenza di integrazione dei quali condurrebbe, nello sviluppo evolutivo umano, alla formazione della posizione schizo-paranoide, utilizzata come difesa. Per l’appunto.

Cosa è accaduto, cosa ha portato a vivere di sola aria? A far credere che l’astensione dal cibo sia l’alimentazione corretta? A nutrirsi con il naso, non con la bocca? Nell’epoca degli «apericena» poi. La disperazione individuale, la distruzione planetaria, due facce della stessa medaglia; la psicosi come malessere. L’oncologo Umberto Veronesi, scomparso di recente, direttore dell’Istituto europeo di Oncologia, ha studiato la relazione tra cibo e cancro elaborando una dieta per la prevenzione dei tumori, incentrata su un consumo più coscienzioso dei diversi alimenti; una dieta non lontana da quella mediterranea, vicina a quella vegetariana ma con correttivi. Ma la dieta migliore è la coerenza.

Esagerare nella scelta di un regime alimentare e renderlo ideologia conduce a disturbi mentali, ossessioni, fissazioni, carenze. Una convinzione – di qualunque tipo essa sia – può modificare gli schemi neuronali del cervello, a livello individuale e collettivo, al punto da generare un effetto Pigmalione, la «profezia autoavverantesi» di Robert K. Merton, il quale con William Thomas sosteneva che «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Anche definito effetto Rosenthal, il postulato sottolinea come una previsione possa realizzarsi per il solo fatto di essere stata espressa. Così una corretta disciplina nell’alimentazione supporta fisico e mente; un’eccessiva disciplina li distrugge, e pone in circolo premesse che condurranno all’adempimento della predizione che le ha generate. Accenderemmo un fuoco sapendo che il tronco dell’albero ne soffre? Come potremmo riscaldarci? Oggi, con l’energia solare. Ma poi, dove sedersi, su quali sedie? Per terra. «Per terra» acquisisce un significato talmente pregnante, a questo punto del ragionamento, da poter citare un altro gruppo, quello degli scalzisti o «barefooters», che vanno sempre in giro scalzi. E siamo noi a doverci fare il callo.

Si dice anche: “Gallina che non becca ha già beccato”. Si fa riferimento al fatto che si ha già la pancia piena. Ed, in un certo senso, è così: la reificazione della metafora conduce a dire che sì, si ha la pancia piena, di troppe cose. Abbiamo tutto. Non c’è più pane e patate, altro che guerra. Non c’è più l’istinto di sopravvivenza, è tutto a portata di mano, il grano è nel pollaio e non lo becchiamo. Galline restiamo.

Quella di oggi è vera fame? Nell’epoca del consumismo più sfrenato, dei click, dell’abuso, si può rispondere: no, non è vera fame. Tale nonna, ancora viva, non può più fare il ragù ai nipoti, non può sbattere un uovo per lo zabaione o la sua crema, le è inibito spadellare. Oltre a doversi abituare, con rassegnazione anziana, ad un mondo che svanisce, che lei non aveva distrutto ma che i suoi figli hanno massacrato senza esitare, ora non può che preparare, per il pranzo di Natale, un buon prana, e sapere che, nell’esalare l’ultimo respiro, almeno per quella volta ancora potrà tornare a dare da mangiare ai nipoti. Basterà per tutta la famiglia?   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – luglio/agosto 2017




SOLO CON LE PARRUCCHIERE

SOLO CON LE PARRUCCHIERE 

Taglio netto a te e ai capelli.
Come loro dalla mia testa
cadrai per terra,
e qualche parrucchiera ti scoperà.

3 luglio 2017, Romina Ciuffa




LA LINGUA STA CAMBIANDO E IL DINOSAURO È PRONTO

In un episodio della lungimirante serie televisiva americana «Ai confini della realtà» degli anni 60 (“Wordplay”, in italiano tradotto “Parole in libertà”), scritto da Rockne S. O’Bannon, si racconta la storia di Bill Lowery, oppresso dal proprio lavoro di venditore che lo obbliga ad apprendere in brevissimo tempo un intero catalogo di materiale medico e relativi termini e nomi difficilissimi. La pressione è così elevata che d’un tratto si trova circondato da un mondo che parla un linguaggio fatto di termini sconnessi tra loro che solo lui sembra non capire. Isolato cercherà il coraggio per continuare a vivere e rientrare in sintonia con il mondo che lo ha isolato. A lui, che non riconosce più i significati delle parole – le stesse ma con altro senso (dinosauro è divenuto pranzo, enciclopedia al posto di cane, patrigno invece di cintura di sicurezza, mentre cena diventa un colore) – non resta altro che adeguarsi. Così, dopo essersi opposto arduamente al cambiamento assurdo e insensato del sistema linguistico, deve cedere: prende l’abbecedario del figlio e, sfogliandolo, si mette a studiare i termini nuovi, aderendo alla schizofrenia collettiva pur di poter comunicare.

La lingua sta cambiando e il dinosauro è pronto. È colpa nostra. Anche i giornalisti hanno perso bravura e cultura. Fanno errori grossolani, refusi. Sbagliano gli accenti, confondendoli tra gravi e acuti o passandoli per apostrofi. Non conoscono l’italiano, non lo rispettano, non lo amano, lo ripudiano, scrivono sempre più in inglese mutuando termini al punto da creare una nuova lingua: sbagliata. Non sanno come si dice una certa parola in italiano per averla dimenticata o non averla mai saputa, né creata (tanto che un bambino ha scritto «petaloso» e, piuttosto che correggerlo, ne è partita una operazione di marketing). Provo una forte empatia – prima che odio – verso costoro, che sono obbligati a scrivere nelle pagine web dei loro giornali articoletti per ottenere visualizzazioni, non letture, «mi piace», non apprezzamenti: click rubati all’agricoltura. Che non hanno mai tenuto in mano una penna e sono scettici sull’esistenza del callo.

Non sanno nemmeno chi fosse il piccolo scrivano fiorentino, una educazione che partiva da casa, intenzionale, forte, severa; assai lontana da quella attuale, che vede il genitore come alleato del figlio in una guerra contro gli insegnanti o, aut aut, come il suo aguzzino.
«Suo padre lo amava ed era assai, ed era buono e indulgente con lui: indulgente in tutto fuorché in quello che toccava la scuola: in questo pretendeva molto e si mostrava severo perché il figliuolo doveva mettersi in grado di ottener presto un impiego per aiutar la famiglia; e per valer presto qualche cosa li bisognava faticar molto in poco tempo. E benché il ragazzo studiasse, il padre lo esortava sempre a studiare». Sistema valoriale inesorabile, integro, nessun riferimento a sfruttamento minorile, abusi domestici, violenza privata, vacanze senza compiti et altera, quel bla bla bla che riflette un nuovo mondo, arrogante, atto a definire lo spazio di potere di un soggetto ancora educando, vergine, giovane, immaturo, irresponsabile. Là dove «immaturità» e «irresponsabilità» sono termini positivi che caratterizzano e descrivono un’età, e costituiscono il substrato affinché trovino giustificazione i comportamenti, anche punitivi, degli adulti. Lo schiaffo della nonna non è mai stato oggetto di denuncia in sede penale, lo schiaffo della nonna è educazione intrinseca, senza se e senza ma.

Quel padre aveva preso da una casa editrice un incarico che lo stancava, e se ne lagnava spesso. «Babbo, fammi lavorare in vece tua; tu sai che scrivo come te, tale e quale», disse Giulio. Ma il padre gli rispose: «No figliuolo; tu devi studiare; la tua scuola è una cosa molto più importante delle mie fasce; avrei rimorsi di rubarti un’ora; ti ringrazio, ma non voglio, e non parlarmene più». Studiare: ecco la parola chiave. La radice dell’albero che darà frutti, il senso dell’apprendimento, la tensione verso il sapere. Nessuna lite con gli insegnanti, coalizzati con i genitori in un progetto di crescita della società civile. Oggi disimpariamo le lezioni, aggrediamo, ci poniamo contro il sistema tout court e dimentichiamo il buon senso: se non insegniamo ai figli a vivere (il che non significa essere vegani, combattere le multinazionali, pretendere azioni positive, bensì mangiare ciò che c’è, cambiare le multinazionali, compiere azioni positive), come possiamo aspettarci che essi avranno un mondo migliore?

Ecco cosa fece Giulio. Una notte si sedette alla scrivania del padre a lavorare di nascosto al posto suo, rifacendo appuntino la scrittura del padre, per moltissime notti. L’insegnamento parte dall’osservazione nel sistema di attaccamento: il bambino osserva, copia, quindi emula, infine agisce dal profondo con indipendenza e lucidità. Il giorno seguente il padre sedette a tavola di buon umore, non s’era accorto di nulla. Giulio, contento, muto, diceva tra sé: «Povero babbo, oltre al guadagno, io gli dò ancora questa soddisfazione, di credersi ringiovanito. Ebbene, coraggio».

Ma intanto si ammalò, le sue prestazioni a scuola peggioravano, e il padre gli disse: «Giulio, tu mi ciurli nel manico, tu non sei più quel d’una volta. Non mi va questo. Bada, tutte le speranze della famiglia riposano su di te. Io son malcontento, capisci!», e in seguito andò a chiedere informazioni al maestro. «Sì, fa, fa, perché ha intelligenza. Ma non ha più la voglia di prima. Sonnecchia, sbadiglia, è distratto. Fa delle composizioni corte, buttate giù in fretta, in cattivo carattere. Oh! potrebbe far molto, ma molto di più». Il sistema famiglia si affianca al sistema scuola senza sovvertirlo: il padre prese il ragazzo in disparte «e gli disse parole più gravi di quante ei ne avesse mai intese. – Giulio, tu vedi ch’io lavoro, ch’io mi logoro la vita per la famiglia. Tu non mi assecondi. Tu non hai cuore per me, né per i tuoi fratelli, né per tua madre!». Ma costei, vedendolo più malandato e più smorto del solito, si allarmò: «Giulio è malato. Guarda com’è pallido! Giulio mio, cosa ti senti?». «È la cattiva coscienza che fa la cattiva salute», conclamava il padre. «Non me ne importa più!», aggiunse. Fu una coltellata al cuore per il povero ragazzo. Suo padre che tremava, una volta, solamente a sentirlo tossire! E il piccolo scrivano fiorentino si ammalò ancora di più. Ma scriveva, scriveva.

Finché una notte suo padre era dietro di lui, «e in un momento aveva tutto indovinato, tutto ricordato, tutto compreso, e un pentimento disperato, una tenerezza immensa, gli aveva invaso l’anima, e lo teneva inchiodato, soffocato là, dietro al suo bimbo». Che gridò: «O babbo! babbo, perdonami! perdonami!». Rispose il padre: «Tu, perdonami! Ho capito tutto, so tutto, son io, son io che ti domando perdono, santa creatura mia, vieni, vieni con me!». E Giulio disse: «Grazie, babbo, grazie; ma va a letto tu ora; io sono contento; va a letto, babbo».

Edmondo De Amicis, prima soldato, poi giornalista e scrittore. Pagine intense, corrette, fluide, commoventi. Testi e insegnamenti senza arroganza quelli presentati nel libro «Cuore», più che un romanzo un Trattato di didattica della didattica, un Manuale dell’educazione senza tempo. Dell’ignoranza attuale hanno colpa la deresponsabilizzazione, internet, i genitori, il populismo, la globalizzazione, il veganesimo, i nuovi hippies, il T9, la nuova democrazia, click, post, tweet: niente di ciò è presente in De Amicis.

Il mondo è cambiato e c’è chi vi si adegua consolidandone il peggioramento. Io no. E dal canto mio sottolineo: c’è un doppio spazio anche nei sottotitoli di chiusura del telegiornale Rai, e se lo guardo, poi non riesco a chiuder occhio.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – giugno 2017




BEMYEYE: OCCHI ED UNO SMARTPHONE PER GUADAGNARE COME IN UN GIOCO

Siamo in un videogioco e giochiamo. Ma la cosa interessante non è «partecipare» né, tantomeno «vincere», bensì «guadagnare». Abbiamo delle missioni da compiere e dei livelli da superare, per guadagnare di più; possiamo anche regredire (ma perdere le vite, mai). Non dobbiamo scalare montagne o uccidere i nemici: dobbiamo solo usare lo smartphone per inviare posizione e foto di ciò che vediamo. Siamo gli occhi. Noi, siamo «Eyes».

È questo BeMyEye, sii il mio occhio. L’occhio delle aziende che hanno necessità di controllare l’adempimento di certi contratti, di verificare che il loro cartellone sia affisso correttamente e, a maggior ragione, sia presente su un pannello della pensilina vicino casa di chi lo fotograferà, in conformità dei piani concordati con i distributori; o di accertarsi che una farmacia non abbia relegato il proprio prodotto in un cassetto; o che l’autoconcessionaria presenti la vettura in modo consono alla vendita. E così via.

«La tua missione consisterà nel raccogliere informazioni e immagini circa promozioni, prezzi ed esposizione dei prodotti. Alcuni dei nostri clienti richiedono anche attività di mystery shopping e pareri sulla tua esperienza d’acquisto. La maggior parte dei job richiede non più di 10 minuti del tuo tempo!», ed è fatta: ad ogni missione corrisponde un compenso, previa approvazione, ed è possibile guadagnare discrete somme impegnandosi da qualche minuto a qualche ora al giorno, o quando si vuole, in ogni città, in ogni luogo, in Italia e all’estero. Praticamente, oggi che si discute di Job’s Act e di disoccupazione, è una rivoluzione, o meglio: un faro.

Nel 2011, da Milano, Gian Luca Petrelli aveva bisogno di informazioni per se stesso, e immaginò BeMyEye, soluzione DaaS (Data as a Service) di «mobile crowdsourcing» per ottenere informazioni sulla vendita al dettaglio. Quindi, si rese conto che ciò potesse essere utile anche alle altre aziende, ed ecco altri manager – David Miller, Imran Khan, due anni fa anche Luca Pagano, attuale amministratore delegato -. Ecco i finanziamenti. Ed ecco le foto: più di 2 milioni raccolte da circa 400 mila «Eyes» che hanno scaricato l’App. Ed ecco i clienti: Mattel, Coca Cola, P&G, Nestlè, Samsung, Lavazza, Universal, Barilla, Nespresso, Tim, Heineken, Twentieth Century Fox, e moltissimi altri che hanno scelto BeMyEye per ottenere informazioni affidabili e processabili, potendo così osservare migliaia di location in pochi giorni, offrendo «insight» per identificare nuove fonti di business, per rafforzare l’identità del marchio, per monitorare gli accordi commerciali. Voilà.

BeMyEye ha la sede centrale in Gran Bretagna e uffici in Italia, Francia e Spagna, è una compagnia partecipata da grandi venture capital europei. Nauta Capital, p101 e 360 Capital Partners nel 2016 hanno conferito un finanziamento di 6,5 milioni di euro con cui la compagnia ha accelerato lo sviluppo del prodotto ingrandendo il team. Il finanziamento è stato utile anche a rafforzare la divisione vendite e marketing e supportare l’espansione internazionale dell’azienda. Così, sia la sede sociale che il quartier generale sono stati spostati a Londra, ed ora la società è a tutti gli effetti una società di diritto inglese. Ed ha anche acquisito LocalEyes, una delle maggiori compagnie di «crowdsourcing» in Francia, per superare i 400 mila collaboratori on-demand e posizionarsi come la più importante realtà europea nel crescente mercato della raccolta dati e immagini dal mondo reale tramite l’impiego di cellulari da parte degli utenti sottoscrittori.

BeMyEye si fonda, infatti, sull’impiego di un’App gratuita che utilizza tecniche di «gamification», ossia «come in un gioco», e consente di accumulare in maniera anche divertente piccole somme di denaro in cambio di micro-lavori da svolgere su base volontaria nei luoghi scelti attraverso la localizzazione. In tal modo sta costruendo un grande network europeo di rilevatori on-demand, occhi delle imprese che si rivolgono all’azienda di Petrelli necessitando di informazioni dai punti vendita o dal livello strada. Con questo metodo, le aziende richiedenti possono vedere, con gli occhi degli Eyes, migliaia di luoghi diversi in pochi giorni. Pagano (nella foto qui sotto) precisa come.

Domanda. Una delle principali e più innovative «start up» italiane, ma già è «adulta», sebbene guidata da giovani. Come definisce, allora, BeMyEye?
Risposta. Tengo a definirla non più come una start up, poiché la nostra ormai è un’azienda che ha 6 anni di vita, copre 10 Paesi, ha uffici a Milano, Parigi, Londra, Madrid, ha raccolto 10 milioni di capitali. Siamo 50 persone con un’infrastruttura dei processi e un’organizzazione che ci fa somigliare più a una giovane azienda in crescita che non ad una start up.

D. Come è sorta l’idea di canalizzare i singoli intorno a missioni a pagamento per soddisfare le esigenze di grandi compagnie?
R. BeMyEye nasce da un’idea geniale del fondatore, Gian Luca Petrelli, che ha creato il business da una sua esigenza personale: quella di controllare se l’olio prodotto dalla sua azienda di famiglia veniva correttamente promosso nei negozi di Whole Food negli Stati Uniti, cosa che lui non riusciva a fare attraverso le agenzie tradizionali a prezzi ragionevoli. Così si rivolse al fondo più importante d’Italia, il 360 Capital Partners, ed ottenne il finanziamento per concretizzare il prodotto. Successivamente, nel 2013, BeMyEye ha cominciato a commercializzarlo e si è visto che effettivamente funzionava.

D. Perché funziona?
R. Perché è un modo totalmente innovativo che «bypassa» completamente il modello tradizionale di rilevamento dei dati sul territorio o in un punto di vendita, mettendo direttamente in connessione i «brand» e i «retailer», che hanno bisogno di ottenere dati relativi ad una specifica location, con persone che si trovano in prossimità di quella location e hanno uno smartphone in tasca, dando loro un compenso: noi li abbiamo chiamati «Eyes», occhi. A loro diamo missioni da svolgere come se fossero in un gioco.

D. Le chiamate «missioni»: cosa sono?
R. Un esempio: l’Eye, che prenota dal cellulare una missione a sua scelta, deve entrare nel negozio e trovare un prodotto o una certa promozione, verificarne la presenza e il corretto posizionamento, fare delle fotografie o scansionare il codice a barre. Se l’Eye ha successo viene ricompensato con denaro. Ci sono missioni più veloci, compibili in meno di un minuto, come quella riguardante l’adempimento degli accordi relativi alle affissioni pubblicitarie: queste sono le missioni più semplici e più amate dal nostro «crowd». Poi ci sono missioni molto più complicate. Quest’anno abbiamo lavorato molto in giro per l’Europa con un grande gruppo automobilistico per seguire il lancio di un nuovo modello di macchina: si doveva andare nella concessionaria e avere un’interazione abbastanza prolungata e intensa con il venditore, domandandogli prezzi e disponibilità per quel modello specifico o aggiungendo una serie di optional, per vedere se l’auto era venduta bene. La stessa cosa è stata fatta anche su auto di marchi diversi.

D. Le missioni sono in incognito?
R. Per la verità la maggior parte sono in incognito, perché comunque si tratta sempre di verificare la corretta implementazione di un accordo che è stato preso dall’azienda committente della missione e quella che invece è in qualche modo oggetto della missione. Però a volte c’è anche piena apertura e trasparenza, anche perché sostanzialmente si può trattare di dati utilizzati nell’interesse del brand in questione senza che vi siano conflitti tra chi monitora e chi viene monitorato.

D. A quanto possono ammontare i guadagni che un Eye può fare attraverso l’App?
R. Per prima cosa tendiamo sempre a spiegare perché BeMyEye esiste: per noi è importante avere un impatto a livello globale su tutto quel segmento di persone che non ha necessariamente delle qualifiche, il cosiddetto «unskilled labour». Poi ci sono diversi livelli ed elementi di complessità nelle varie missioni, quindi bisogna impegnarsi e saperci fare, e ci teniamo in contatto attraverso un cammino che si svolge in progressione come all’interno di un videogioco – per questo lo chiamiamo «gamification» – il quale consente di salire a livelli più avanzati secondo il livello di impegno, l’ammontare delle missioni e la qualità con cui sono svolte. Le missioni possono progredire oppure ad un Eye possono essere riservate delle possibilità, come ad esempio le missioni multiple. Abbiamo notato che ci sono persone, in Francia e in Inghilterra, che si organizzano la giornata guardando quello che è possibile fare, creando un giro che permette in circa tre ore di compiere 15-20 missioni e di portarsi a casa anche 150 euro. Il nostro obiettivo principale è massimizzare le capacità di guadagno di queste persone e minimizzare l’ammontare delle ore che devono lavorare perché secondo noi, vedendo quello che è la capacità di guadagno dei nostri Eyes, è possibile essere maggiormente gratificati con un lavoro di 2-3 ore che non con un lavoro malpagato di una giornata intera.

D. Si può parlare di «lavoro»? In che modo sono collocati gli Eyes sul piano fiscale?
R. Chi fa queste missioni non «lavora» per noi, non è un nostro dipendente, l’attività è basata sulla volontarietà ed il nostro è un «marketplace» a tutti gli effetti dove noi postiamo missioni specifiche e chi vuole le riserva senza nessun obbligo di svolgerle, pur se, per il concetto della «gamification», è previsto l’abbassamento di punti e la regressione ad un livello inferiore nel caso di missioni prenotate e non svolte. Non c’è una relazione di dipendenza dal punto di vista giuslavoristico, c’è invece un’elevata possibilità di guadagnare molto di più di quello che è il minimo salariale. Si tratta, a livello fiscale, di una prestazione occasionale, con la ritenuta d’acconto che tratteniamo alla fonte, pagando al netto.

D. Quindi voi pagate le tasse.
R. Assolutamente sì.

D. Gli «Eyes» devono dichiarare le entrate?
R. Possono, ma sostanzialmente sono già stati pagati al netto della ritenuta d’acconto. Il mio obiettivo è di essere assolutamente in linea con quelle che sono le legislazioni giuslavoristiche a livello nazionale. Quello che ci preme sottolineare è come questa forma di guadagno possa essere significativa, e questa per noi è una motivazione molto forte perché effettivamente possiamo incrementare l’introito di molte persone.

D. Cosa accade se, nel corso della missione, l’applicazione non funziona o ha dei problemi, come già è capitato e stato segnalato da alcuni utenti?
R. La policy è di pagare la missione svolta se anche ne caso in cui vi sia stato un problema tecnico di cui noi siamo a conoscenza o che possiamo tracciare in qualche modo dai nostri logs. Cerchiamo il più possibile di andare incontro ai nostri Eyes, soprattutto perché sappiamo che hanno impiegato del tempo; è chiaro che ciò, nella pratica, non è semplice, se non riusciamo ad avere una tracciatura di quello che realmente è successo, sapere se poi la missione può essere effettivamente pagata o meno. Quindi ciò alla fine dipende da quello che riusciamo a vedere attraverso i nostri sistemi. A fronte di una missione compiuta c’è un processo di approvazione dopo il quale è possibile effettuare il pagamento, e ci sono situazioni in cui non possiamo corrispondere la quota della missione se essa non è documentata.

D. Una contestazione di un utente su un forum online riguardava l’abbassamento del compenso nel caso di una missione in cui a lui spettava di cercare surgelati in un supermercato ed essi non fossero presenti sul banco. Se, in effetti, lo scopo ultimo della missione è quello di verificarne la presenza, e dunque l’eventuale assenza, non è una contraddizione penalizzare l’Eye?
R. Questo, in realtà, è un modo che noi usiamo per incentivare lo stesso Eye a trovare il prodotto e quindi a fare uno sforzo. A lui è concesso di inviare foto multiple di un’intera area del supermercato che ne dimostrino l’assenza, e più recentemente abbiamo sviluppato la possibilità di farlo fotografando lo scaffale su cui il prodotto dovrebbe essere presente. Se esso, invece, non è presente sullo scaffale giusto, è come se non esistesse, e costituisce un mancato adempimento del supermercato.

D. Una potenziale missione potrebbe essere quella di mettere il prodotto giusto nello scaffale giusto.
R. In verità questa potrebbe essere l’evoluzione di una missione: ad oggi ancora non lo facciamo, però sempre di più ci viene richiesto dai nostri clienti.

D. Chi sono i vostri clienti e come le trovate?
R. Sono aziende di ogni tipo, soprattutto «retail», del «consumer electronics», del settore farmaceutico, del «fast moving consumer goods» e del «personal care». Si sta intensificando la competizione delle farmacie soprattutto nei Paesi dove sono state liberalizzate e sono state acquisite le logiche del merchandising tipiche di un supermercato. Essendo lo spazio nelle farmacie limitato, è ancora più importante la corretta ubicazione dei prodotti e questo sta diventando un mercato importante per noi.

D. Dove funziona l’applicazione?
R. Sostanzialmente copre tutta l’Europa, ma recentemente abbiamo aperto in Polonia e Svezia e ci stiamo espandendo nel mercato del nord e dell’est. Essa non si limita soltanto alle grandi metropoli, ma copre ogni luogo di un Paese.

D. È possibile che in un determinato territorio non vi siano Eyes disponibili?
R. Abbiamo un modello abbastanza efficace di reclutamento di Eyes, che avviene in maniera ipergeolocalizzata sfruttando i canali di acquisizione online. Nei Paesi più avanzati dove siamo presenti da più di due anni, come l’Italia e la Francia, ormai spendiamo poco o niente in «recruiting» anche perché abbiamo un passaparola molto attivo. Oltre a ciò impieghiamo tecniche di «members-get-members», chi porta un conoscente guadagna lo stesso importo della prima missione svolta dall’amico coinvolto per suo tramite. Nei Paesi dove abbiamo appena aperto, per esempio la Polonia, facciamo un po’ di fatica ma attivando delle campagne di acquisizione e reclutamento il problema si risolve. Uno dei canali più importanti per le acquisizioni è sia il passaparola, sia Facebook.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Giugno 2017




HA LA MENTE DI DONALD MA TUTTO IL RESTO FA DA SÉ

Chi ha paura di Donald Trump? Da italiana, mi dà un non so che di certezze, come guidasse un robot di quei manga giapponesi, che a noi bambini dava sicurezze a prescindere da chi fosse l’umano che lo pilotasse: Mazinga, ad esempio, condotto da Tetsuya, ragazzo insicuro, dal carattere inquieto e solitario, una personalità difficile minata da un complesso di inferiorità derivantegli dall’essere orfano e dall’esigere dagli altri la stessa preparazione maniacale a cui lo aveva abituato il dottor Kabuto, costruttore del robot. Ma Mazinga era un porto franco di certezze e di vittorie, le paure erano solo umane, dunque giuste.

Un robot è necessario per ripristinare l’ordine. Ma che ci sia un uomo, dentro. Non temo Trump, temo la guerra. E temo per la salute degli americani, non solo quella psicologica. La cura Obama è stata un’esperienza di democrazia e respiro, soprattutto per i più ceti più bassi, ma non poteva durare a lungo, subito spazzata via da una «Trumpcare» che non piace nemmeno ai rappresentanti (la Camera statunitense ha approvato la riforma con 217 voti a favore e 213 contrari dopo averla sospesa per mancanza di voti, prima sconfitta del nuovo presidente, ed ora il Senato si prepara per una strada in salita di emendamenti ed accordi «aum-aum»). Sarà costosa principalmente per i contraenti che presentano già una malattia e per coloro che, in nome del diritto di scegliere se assicurarsi, andranno impavidi verso l’alea della libertà sanitaria. Fondi federali, gli «high-risk pools», per i malati gravi, manterranno bassi i costi delle assicurazioni della fascia media della popolazione (che Obama aveva contribuito ad alzare a favore della classi più povere) prestandosi al rischio di lunghi periodi di attesa per i pazienti prima che le spese sanitarie siano pagate dallo Stato.

Intanto, procedono i lavori di costruzione del muro di Trump, 3.220 chilometri di confinamento e 9 metri di altezza, dove gli operai lavorano con giubbotti antiproiettile e solo una piccola parte di circa mezzo milione di imprese edili di proprietà ispanica ha preso in considerazione l’appalto; se lo ha fatto, è stato (si giustificano) perché il lavoro è lavoro. Secondo la National Autonomous University of Mexico, inoltre, la costruzione del muro metterebbe a repentaglio la vita di 800 specie animali autoctone, 180 delle quali già a serio rischio di estinzione. L’Italia sta a guardare indignata, ma la situazione, mutatis mutandis, non è migliore. Il muro è un muro psicologico, fondamentalmente. Lampedusa, porto di scarico degli scafisti mediterranei et altera. Al sindaco del piccolo comune siculo, Giusy Nicolini, è stato conferito il Premio Unesco Houphouet-Boigny sulla ricerca della pace «per aver salvato la vita a numerosi rifugiati e migranti e averli accolti con dignità».

L’accoglienza, come quella in un villaggio turistico, è una cosa; la vacanza un’altra. Gli immigrati giungono in Italia e sono raccolti con quello che in un villaggio vacanze è un calice di prosecco. Poi resta solo il secco: è l’inizio di una vacanza tormentata, in un Paese ostile, perso, disorganizzato. Si configurano tutti gli estremi per un danno da vacanza rovinata. L’italiano li detesta perché vendono rose e cartine la sera, spacciano, lavano forzatamente i vetri al semaforo, chiedono soldi sotto forma di ricatto nei parcheggi e, quando va bene, dietro le quinte muovono le fila delle cucine di ristoranti italiani, giapponesi, francesi, pur non sapendo dove siano il Giappone dei manga e la Francia della nouvelle cuisine. Il «bangla» va anche di moda quando può, e nei quartieri è spesso accettato, considerato come un vecchio conoscente, per due chiacchiere e una liquidazione veloce; pezzo di arredamento del rione, conduce una vita oscura di cui nessuno sa nulla. Risuona il sempreverde luogo comune: «Se ancora vendono rose dei cimiteri, qualcuno che le compra ci sarà», e non sono i morti. Io, quella degli italiani, la chiamo ipocrisia.

Il procuratore della repubblica Carmelo Zuccaro dà intanto indicazioni per consentire un miglior controllo dell’attività della navi Ong, mosso anche dall’evidenza che alcune di esse spengono il transponder per non farsi localizzare, e propone la presenza di ufficiali di polizia giudiziaria su tali navi (non per controllarle, bensì per fare quei rilievi che il personale delle Ong non è autorizzato a compiere), aggiungendo: le navi Ong non dovrebbero battere la bandiera dello Stato in cui sono varate e acquistate, ma quella dello Stato in cui la Ong ha sede. Si muovono gli attivisti a difesa dei rifugiati; spesso sono gli stessi che pretendono il crocefisso appeso con il Cristo morto nelle aule di scuola dei propri figli. Ma Dio è morto, per l’appunto.

Non è più una questione di destra o di sinistra, di cattolicesimo o burka, ammettiamolo: siamo terrorizzati dagli extracomunitari. Dio è morto, Mazinga è morto. Ed è morto l’ambulante senegalese Maguette Niang, causa un infarto durante una corsa con la busta piena di borse per sfuggire al blitz anti-abusivi dei vigili romani, indagati poi per omicidio colposo in un contesto politico che non tutela le zone di pregio. E mentre il Governo parla di una legittima difesa notturna, secondo cui è possibile utilizzare un’arma da fuoco «di notte» e non di giorno; mentre Renzi, appena rinominato segretario del suo partito, fa un passo indietro viste le reazioni scaturite dall’approvazione alla Camera di una norma illogica; mentre Matteo Salvini grida «vergogna!» e Silvio Berlusconi si oppone all’emendamento; mentre il capoverdiano Edson Tavares, già denunciato per maltrattamenti, a Rimini sfregia per sempre con l’acido la fidanzata ventottenne Gessica Notaro, ex Miss Romagna; mentre in centro a Roma si consuma un amplesso in pieno giorno davanti la sede del celebre palazzo occupato dell’ex Federconsorzi, che attende lo sgombero da oltre tre anni e il cui proprietario continua, suo malgrado, a pagare le tasse; mentre accade questo ed altro, si guarda al presidente Usa come a un detestevole marziano, perché ha elevato due muri, uno fisico, l’altro sanitario. Ed altri ne eleverà.

Continuo a credere ai cartoni animati anni 80. L’ordine può essere ripristinato solo dai vecchi robot. I nuovi sono fallaci: i social network non contengono un pilota, ma milioni di parole al vento. Papa Bergoglio sprona all’accoglienza, e riceverà Trump in Vaticano il 24 maggio, poco prima del G7 di Taormina; sarà quindi atteso da Sergio Mattarella. Dichiara il tycoon: «La tolleranza è la pietra miliare della pace. Per questo sono orgoglioso di fare uno storico annuncio questa mattina, e condividere con voi che il mio primo viaggio all’estero come presidente sarà in Arabia Saudita, poi in Israele e poi in Vaticano a Roma». Le origini tedesche possono metter paura, come anche la sua ricchezza (autoprodotta attraverso i suoi stessi sforzi, quelli del padre Fred, quelli del nonno Friedrich, semplice barbiere immigrato negli States).

Sarà l’età, ma a me piace immaginare Donald guidare Mazinga come faceva Tetsuya, rinchiuso in un robot di artiglieria pesante, pericolosa, ma che spesso salva la vita di un pilota insicuro. Il punto è: vogliamo essere un cavallo di Troia o un robot? Vogliamo aiutare o essere aiutati? Perché non si può avere tutto: Mazinga ha la mente di Tetsuya ma tutto il resto fa da sé.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – maggio 2017




IL TUO CORPO MI CHIAMA A TRASGRESSIONI VOLGARI

IL TUO CORPO MI CHIAMA A TRASGRESSIONI VOLGARI

Il tuo corpo mi chiama a trasgressioni volgari
ma la tua mente mi riporta
alla consapevolezza
che ogni liquido scambiato
consti di uno schema
che non cambia fra di noi,
dimostrazione
che l’integrità salubre della nostra
affettività,
anche volendo,
non lascia modo alla volgarità di intaccare
la pulizia.

Romina Ciuffa, in “Rassognazione”, edito da Booksprint, aprile 2017
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(foto di Roberto Franciotti)