VERONA: FLAVIO TOSI, DA SINDACO A SINDACO, ECCO LA QUARTA GAMBA DEL CENTRODESTRA

VIA COL VENETO – di Romina CiuffaCapuleti e Montecchi, il clima a Verona è simile. L’amore non c’entra. Un nuovo sindaco da giugno, Federico Sboarina, e qui con me l’uscito, Flavio Tosi, che è stato primo cittadino per 10 anni rendendo la città una capitale d’Europa. I temi che affrontiamo con chi ha governato la città degli innamorati, della lirica, del marmo, dello Spritz, sono quelli dell’agognata (ma quanto?) autonomia del Veneto, degli scontri politici in seno alle divisioni del centrodestra, delle opere da realizzare o realizzate a Verona, della crisi dell’Arena (è del 16 ottobre l’incontro tra il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e Sboarina che ha sancito la fine del commissariamento. Tosi riassume l’accaduto degli ultimi anni: «Una pessima figura internazionale), della revoca del project financing per risollevare l’ex Arsenale austriaco «Franz Josef I» che da tempo attende una riqualificazione, del tema del degrado e dell’insicurezza balzato di recente alle cronache.

Espulso dalla Lega di Matteo Salvini nel 2015 durante il suo secondo mandato scaligero, Tosi – capogruppo per la lista Tosi all’opposizione, presidente dell’Autostrada A4 Brescia-Padova, segretario di Fare!, ed anche presidente di Federcaccia Veneto – è definito, insieme al suo movimento, la «quarta gamba del centrodestra»: l’alternativa a Salvini in un progetto che vuole raggruppare tutte le forze di centrodestra che attualmente non si riconoscono nei partiti tradizionali quali Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega Nord, caratterizzata da un pragmatismo «che va oltre i classici schemi ideologici».

Ecco come Tosi aborre il «periodo ipotetico dell’impossibile».

Domanda. Il Veneto è risultato in prima linea nella richiesta di autonomia dallo Stato centrale, grazie agli sforzi condotti dal suo leader Luca Zaia. A cosa porterà questo percorso, dal suo punto di vista di politico e di cittadino?
Risposta. Porterà a quello che è previsto dalla Costituzione, né più né meno di quello che immagino otterranno le altre Regioni che hanno avviato lo stesso percorso. È una trattativa tutto sommato neanche tanto complessa, aldilà dei proclami, che ha il seguente contenuto: lo Stato passa delle competenze e gira le risorse che spende per esse alla Regione di riferimento perché ne disponga autonomamente. Su questa base credo che il Veneto, la Lombardia, l’Emilia Romagna e chi altri decidesse di procedere in tal senso possano avere un gioco semplice, non ostacolato dal Governo, purché si resti in questo binario. È chiaro che se per fare campagna elettorale si immettono contenuti non praticabili, come la richiesta di trattenere il 90 per cento delle tasse nella Regione e diventare speciali come il Trentino Alto Adige, si rende tale percorso inutile e, a quel punto, non c’è via d’uscita perché la trattativa è impostata male a monte, non essendo in linea con la Costituzione.

D. A chi si riferisce in particolare?
R. Al Veneto. Mentre la Lombardia e l’Emilia Romagna hanno chiesto alcune deleghe, il Veneto oltre ad esse ha chiesto il 90 per cento delle tasse così come avviene in Trentino Alto Adige. Se segue questa impostazione, la nostra Regione non approderà da nessuna parte: lo Stato, su queste basi, neanche comincerà a trattare.

D. Perché è accaduto questo?
R. Il tema è elettorale: pur essendo Roberto Maroni dello stesso partito di Luca Zaia, mentre gli altri governatori mirano a portare a casa il risutato a Zaia interessa fare campagna elettorale. È un dato di fatto oggettivo: la prima uscita che ha fatto dopo l’esito referendario – poi rimangiata in un solo giorno in quanto bocciata da Forza Italia – è stata la richiesta di Statuto speciale. Così il governatore ha abbassato il tiro chiedendo comunque il 90 per cento delle tasse, anche questo impossibile per buon senso: lo Stato non può dare più risorse di quelle che spende, è una partita di giro e non può andare in difficoltà con i suoi conti. Glielo ha detto anche il deputato e vicesegretario della Lega Nord Giancarlo Giorgetti.

D. Ragionando sui temi specifici del Veneto, sarebbe giusto in effetti che si prendesse la specialità dello Statuto?
R. Se la ottenesse il Veneto, la pretenderebbero anche la Lombardia, il Piemonte, l’Emilia Romagna e quelle altre Regioni che avrebbero da guadagnarci, ma lo Stato fallirebbe poiché si regge sul residuo fiscale attivo di alcune Regioni – in particolare la Lombardia con circa 54 miliardi, il Veneto e l’Emilia Romagna con circa 15 – mentre altre come Sicilia, Calabria, Lazio, Campania, Trentino, drenano i soldi dallo Stato centrale. Porre una simile ipotesi equivale a formulare un periodo ipotetico dell’impossibile.

D. Lei a cosa punterebbe?
R. A portare a casa quello che è possibile portare. Al referendum ho votato sì. Lo Statuto speciale magari averlo, ma sono realista e so che è impossibile ottenerlo, inutile chiederlo.

D. Un commento veloce sulla situazione catalana?
R. L’autonomia di cui gode la Catalogna è già straordinaria, un grado altissimo, tranquillamente paragonabile a quella del Trentino Alto Adige, e non capisco per cosa protestino. Sono un federalista, non un secessionista. È chiaro che il Governo spagnolo gli abbia impedito di secedere.

D. A Verona in particolare, quali sono stati gli esiti referendari?
R. C’è stata un’affluenza non alta – il 46 per cento per la città in sé – rispetto alla media regionale che ha sfiorato il 60 per cento, per vari motivi. Come anche in altre votazioni, ad esempio la Brexit che ha avuto connotazioni diverse nelle grandi città e nei piccoli Comuni, l’affluenza è stata mediamente inferiore rispetto alla provincia. Siamo sempre stati considerati, e un po’ ci riteniamo, una «periferia dell’Impero»: Verona ha un rapporto di minore «affetto» rispetto al resto del Veneto, siamo «un po’ lombardi», ossia diversi come tutte le realtà di confine, e abbiamo anche una storia che è diversa: la Repubblica Serenissima è passata anche da Verona, ma per un periodo più breve e meno intenso.

D. Come si è verificato il passaggio dal suo mandato (doppio) al nuovo sindaco scaligero?
R. Il centrodestra si è presentato diviso. Sommando i voti che ha preso la mia coalizione – al primo turno il 24 per cento – a quelli del nuovo sindaco Sboarina – al primo turno il 29 per cento – e a quelli delle altre liste civiche, si arriva ai voti che normalmente prende il centrodestra a Verona, ossia circa il 60 per cento. Al ballottaggio sono andate le due coalizioni del centrodestra, rimanendo escluso il centrosinistra, e quelli che sono rimasti fuori dal ballottaggio hanno votato prevalentemente per il centrodestra tradizionale.

D. Oltre alla vittoria del nuovo sindaco, ci sono stati altri motivi che hanno portato «l’altro centrodestra» a vincere queste elezioni?
R. Sicuramente hanno inciso i miei rapporti con la Lega, da cui nel 2015 sono stato espulso da Salvini. Questo ha cambiato le prospettive sulla città. Già nel mio ultimo mandato avevo all’opposizione Forza Italia, il PDL, più in generale il centrodestra tradizionale, così come il centrosinistra e il M5S. L’unica forza in maggioranza con me negli ultimi 5 anni è stata la Lega. Ciò che è cambiato questa volta è che anche la Lega è passata dall’altra parte.

D. Perché è stato espulso da Salvini?
R. Un modo di vedere profondamente diverso, gli atteggiamenti rispetto all’uscita dall’euro, alla flat tax, alla secessione ed altro. Ci sono stati periodi in cui per Salvini chi stava nella Lega obbligatoriamente doveva sostenere l’uscita dall’euro o essere secessionista, cosa che non sono mai stato. Affrontiamo i temi politici con differenti approcci: io sono pragmatico, lui cavalca anche l’impraticabile. È la differenza che passa tra Salvini e Zaia da una parte, più populisti, e Maroni dall’altra, più pragmatico. Il populismo elettoralmente paga: Maroni ha fatto una campagna referendaria molto istituzionale, sui contenuti, non caricandola con tematiche indipendentiste, e in Lombardia è andato a votare il 40 per cento degli aventi diritto; da noi la campagna di Zaia ha portato a votare quasi il 60 per cento dei veneti.


Flavio Tosi e Matteo Salvini

D. In cosa si distingue principalmente la sua decennale gestione scaligera da quella che Verona si aspetta ora da Sboarina?
R. Verona, nei 10 anni della mia gestione, è passata dall’essere una città provinciale semisconosciuta all’essere una città europea, con un flusso turistico che è aumentato in maniera straordinaria e con grandi investimenti, rendendosi quello che oggi è il motore economico del Veneto rispetto a città, come Padova o Venezia, con le quali Verona si è sempre confrontata. Oggi è lei quella più dinamica, più attrattiva di investimenti, più ricca di potenzialità. Abbiamo fatto un salto di qualità. Sboarina nelle sue prime mosse ha cercato di bloccare alcune iniziative imprenditoriali già avviate, rischiando di portarle indietro. Dal mio punto di vista un sindaco deve favorire gli investimenti, non bloccarli.

D. Può essere più specifico?
R. Per esempio, per l’ex Arsenale austriaco, complesso in centro, avevamo completato la procedura per un project financing pubblico e privato di recupero, e il nuovo sindaco l’ha affossata a settembre con una delibera del Consiglio comunale. Avevo chiuso la gara, avevo assegnato il progetto; alla fine del mandato la nuova amministrazione starà ancora parlando di come risolvere la questione. La grande contraddizione è che il mio operato è stato votato a suo tempo dallo stesso Sboarina, che componeva la mia coalizione. Un altro esempio: avevamo previsto la trasformazione commerciale di una serie di immobili, la nuova Giunta ha dichiarato che la impedirà.


Federico Sboarina e Flavio Tosi

D. Questo avviene per dinamiche politiche, ossia di passaggio da un sindaco all’altro , o perché effettivamente ci sono divergenze nella visione della città che lui ha reso note in campagna elettorale, e per questo è stato scelto rispetto alla coalizione che lei rappresenta?
R. La cosa paradossale è che gran parte di coloro che sono ora nell’amministrazione attuale mi appoggiavano in uno dei miei due mandati, appartenevano alla mia maggioranza, erano d’accordo con il mio operato. Hanno fatto una campagna elettorale di contrapposizione: essendo loro la naturale omogeneità della mia squadra, in quanto la componevano – il sindaco è stato mio assessore nel primo mandato così come parte della sua Giunta, e alcuni attuali consiglieri comunali sono stati miei consiglieri comunali -, si sono dovuti differenziare in tutto e per tutto nonostante avessero votato in precedenza quanto ora stanno bloccando. Aspettiamo però la parte propositiva, è ancora troppo presto per parlare a quattro mesi dall’insediamento. Come avvenuto per l’ex Arsenale, pur proveniendo dalla stessa parte politica e avendo condiviso una serie di provvedimenti, i nuovi insediati hanno dovuto smentirli per non diventare solo una brutta copia della mia amministrazione. Il loro maggior sostenitore, oggi, è l’estrema sinistra, che ne elogia le scelte. È una cosa singolare, ma per me è normale rispetto a ciò che è stata la campagna elettorale, tanto è che l’estrema sinistra al ballottaggio li ha votati.

D. Rispetto all’Arena di Verona, lei l’ha seguita negli ultimi dieci anni fino al recente commissariamento. Come è possibile che un così importante e riconosciuto bene pubblico entri in crisi?
R. Il sold out dell’Arena è dovuto alle attività dell’extra-lirica, ossia a quelle che fanno i privati noleggiando di fatto il monumento; con la lirica viene venduta la metà dei biglietti. È un problema italiano, non veronese: il pubblico della lirica è generalmente in calo mentre il pubblico dell’extra-lirica è generalmente in crescita. Quando mi sono insediato, si facevano non oltre tre eventi l’anno di extra-lirica, oggi siamo a quasi 50. Ho differenziato il prodotto, portando l’extra-lirica in Arena. Ma oggi tutte le fondazioni liriche in Italia, a parte Milano e Venezia, sono in difficoltà: questo perché il modello di gestione è sbagliato, bisogna puntare su un modello più privatistico. Dopo aver fatto un lungo braccio di ferro con i sindacati, avevamo chiesto di mettere in liquidazione l’ente pubblico per trasformarlo in privato; con il commissariamento, invece, c’è da aspettarsi che nel giro di qualche anno le difficoltà finanziarie torneranno tante quante prima. Questo è il destino dell’Arena di Verona e di tutte le fondazioni liriche in Italia, che oggi hanno complessivamente 400 milioni di euro di debito, di cui 25 milioni sono veronesi. Alla fine dei conti, siamo tra quelli che stanno «meno peggio». Infatti le entrate, che prima erano migliori anche per la contribuzione pubblica, sono costantemente in calo.

D. Si attende un «Central Park» veronese, grande, immensa area che Rfi, Rete ferroviaria italiana, dovrebbe auspicabilmente passare al Comune. L’AD Maurizio Gentile ha rassicurato Verona. Cosa accadrà?
R. Questa amministrazione non rientra coi tempi nel compimento del programma perché le Ferrovie, proprietarie dell’area, hanno già dichiarato che non potranno liberarla prima del 2024, ossia oltre il mandato dell’attuale sindaco. Inoltre, sperare che le Ferrovie – le quali hanno valorizzato molte aree simili in altre città, come ad esempio Bologna – regalino al Comune mezzo milione di metri quadri, che frutta loro una voce in bilancio di circa 90 milioni, mi sembra sia una pia illusione. Anche da un punto di vista contabile il progetto è di difficile realizzazione, in quanto l’area è in parte di proprietà di Mercitalia Logistics, controllata delle Ferrovie dello Stato Italiane. Il mio predecessore Paolo Zanotto aveva proposto che metà dell’area – edificabile – restasse alle Ferrovie, e metà – il parco – venisse ceduta al Comune di Verona: questo, probabilmente, era un progetto più realistico.

D. La polemica sui tema sicurezza e degrado in città a Verona, esplosa poco dopo il nuovo insediamento, da cosa è stata generata?
R. Lo ha detto lo stesso segretario provinciale della Lega Paolo Paternoster in una conferenza stampa alla stazione: a Verona è peggio di prima. La sicurezza dipende da come si gestiscono le Forze dell’Ordine, in particolare la Polizia municipale. Vediamo cosa succederà. Stiamo documentando il problema sicurezza monitorando la presenza di senza fissa dimora e quant’altro, e lo facciamo andando in giro per le piazze, ai semafori, nei parchi, a filmare la situazione. Il coordinamento con le Forze dell’Ordine c’era già durante il mio mandato. Ma saranno i veronesi a valutare se le cose andranno meglio in questi anni. (ROMINA CIUFFA)




SEBASTIANO ZANOLLI: ECCO COME FARE, CON (MOTIV)AZIONE, LA GRANDE DIFFERENZA

«Io sono un manager, uno di quegli odiati o invidiati personaggi che passano la vita tra meeting e target, tra down-sizing e market share, tra presentazioni in power point e key account arrabbiati». Si presenta così, nel suo primo libro del 2003 («La grande differenza», Franco Angeli), Sebastiano Zanolli. Da allora sono cambiate molte cose. E infatti già scriveva: «La capacità di prevedere è senza dubbio una caratteristica dei grandi realizzatori», e specificava: «Non sto parlando di indovini o di lettura delle carte. Sto parlando dell’attitudine ad agire nel presente, avendo in mente il futuro». Citando Charles F. Kettering: «Tutti dovremmo preoccuparci del futuro, perché là dobbiamo passare il resto della nostra vita», personalmente scriverei: «Tutti dovremmo preoccuparci del futuro, perché là dobbiamo passare il resto del nostro presente».

Questo ha fatto Zanolli: si è talmente impegnato a comprendere come da un’azione oggi derivino le azioni di domani, come dall’autodisciplina scaturiscano risultati significativi, come dal benessere di un solo individuo derivi il benessere dell’azienda che lo impiega prima, dell’intera società dopo, che è divenuto uno «speaker motivazionale». Ante litteram: quando cominciò ad occuparsi di «motivare» (lui ci dirà, in questa intervista, che il suo obiettivo è «ispirare»), non esisteva la figura del «coach» o «counsellor», che tanto va di moda oggi. Ha precorso i tempi ed ora ispira gli ispiratori, motiva anche i motivatori. Lo paragonerei al suggeritore che è nascosto nel «gobbo» del palco, durante uno spettacolo in teatro. Colui che dice le battute giuste a chi le pronuncia dinnanzi alla platea.

Zanolli è colui che spiega alle aziende – non alla persona giuridica ma alle persone fisiche che la compongono – «perché» e non «come» raggiungere gli obiettivi. E nella crisi che il mondo sta vivendo, la depressione economica affianca quella patologica a tal punto da non distinguersi più quale, tra le due, sia la causa e quale sia l’effetto. Così l’azienda chiama Zanolli, che da Bassano del Grappa arriva, intriso di energia veneta, e spiega come sviluppare il sistema reticolare attivante, meccanismo che scatta quando si decida a darsi un ordine attraverso la sua continua ripetizione nella nostra testa, in modo che il subconscio si programmi per realizzarlo, attivandosi ed accrescendo la sensibilità e la consapevolezza verso le idee e le persone.

Convinzione e connessioni, ecco la chiave, l’effetto leva della nostra motivazione. Zanolli lo sa.

LA VIDEOINTERVISTA

L’INTERVISTA

Domanda. Manager, scrittore e speaker motivazionale. Qual è stato il suo percorso di vita?
Risposta. Dopo aver preso la laurea in Economia e commercio ho cominciato a lavorare da subito come venditore, avendo per caso incontrato il titolare di un’azienda di tessuti che cercava un assistente che lo seguisse in giro per il mondo. Mi piaceva viaggiare, e dovevo imparare a proporre merce, cosa che io, essendo figlio di un artigiano, non avevo imparato. Avevo imparato però che funzione del benessere nella vita è il lavoro, e più si vuole più si deve lavorare. Entrato nel mondo delle vendite, mi resi conto che non era così, che il venditore non ha diritti, li ha il cliente, e a quel punto viene a mancare la connessione logica tra lavoro e risultati che è invece presente nel lavoro di un operaio. Cominciai così a confrontarmi con gli addetti ai lavori, rendendomi conto che la maggior parte di essi non sapeva darmi risposte, così decisi di scriverle io: nel 2003 uscì «La grande differenza», che ebbi la fortuna di pubblicare con la Franco Angeli attraverso un amico che mandò il mio manoscritto alla redazione. Il libro ha cominciato a vendere, quindi vendere bene, ed è ora un «long seller» da 24 ristampe. Ne sono nati argomenti di approfondimento.

D. Dove nasce l’azione?
R. C’è chi attende di far qualcosa che dia significato e che renda significativa la propria esistenza, ma non si mette in moto. Si deve muovere se stessi e muovere gli altri in relazione a risultati economici. Non a tutti interessa la connessione tra le azioni ed il risultato che devono ottenere. Ho riflettutto sulle galassie degli obiettivi personali: la paura, la presenza di altri che possono essere di supporto, la possibilità di essere a sua volta di aiuto, le reti di direzione, tutti temi relativi al «marchio personale», non alla persona ma al personaggio. Avevo notato che, mentre nell’aspetto esistenziale si è persone ed è importante essere significativi per se stessi, nel gioco sociale di mercato e liberista vale il personaggio, la sovrastruttura che si crea attorno alla propria persona. Mi sono accorto che ci sono personaggi che possono portare a casa risultati senza essere persone, e persone che non essendo personaggi non riescono a portare a casa risultati. Vincent Van Gogh e Pablo Picasso sono due esempi speculari: uno muore povero, l’altro riesce a sfondare in vita. Non voglio soffermarmi troppo sul tema della ricchezza, ma come manager l’aspetto del risultato economico resta importante: negare che il benessere materiale sia una cosa cui ambiamo, non fosse altro che per mantenere i genitori anziani, è impossibile. Ho scritto molti altri libri, ed hanno ampliato la mia superficie di contatto con il pubblico non aziendale mentre continuavo a fare il manager in azienda. I miei libri mi hanno fatto promozione e le aziende hanno cominciato a chiamarmi per fare delle consulenze. Così è nato questo lavoro. Ed ho la fortuna di avere grande passione per una materia per cui il mercato è disponibile a pagare.

D. Chi la cerca?
R. Mi chiamano per la formazione in aula o all’interno di kermesse. In quest’ultimo caso, è richiesto un intervento più mirato che è racchiuso in un tempo breve, teso a motivare istantaneamente.

D. In cosa consiste il suo lavoro da manager, e come si affianca alla strada parallela dello «speech» aziendale?
R. Il mio lavoro consiste nel fare «employer branding», quelle attività utili a tenere lucido il marchio dell’azienda non tanto nei confronti dei consumatori, cui pensa il reparto del marketing, bensì nei confronti degli attori che hanno a che fare con il marchio da fuori, quindi università, organizzazioni, enti politici, Comuni, ossia coloro che devono avere una buona idea del marchio, inclusi i dipendenti, i talenti e le persone che escono dalle università ed aspirano ad un luogo di lavoro come quello che l’azienda offre. Mi occupo dell’aspetto qualitativo dell’organizzazione, non tanto per i consumatori quando dal punto di vista del benessere dei lavoratori, coinvolgendo il tema dell’attrattività dell’azienda per uno studente che vuole crescere. Al di là del fattore economico, lo studente che si affaccia sul mercato si pone questa domanda: qual’è l’azienda in cui si sta meglio, che mi farà crescere di più, che mi arricchirà? Tale lavoro si sposa molto bene con i temi del facilitatore, anche se spesso mi definiscono un «motivatore» o un «coach»; non che io mi ribelli a queste definizioni, sono solo più semplici.

D. È davvero possibile «motivare» con un discorso o con un libro?
R. Il motivatore presume di entrare in un posto ed uscirne dopo aver motivato le persone che lo hanno ascoltato. Nella mia esperienza non ho mai visto nessuno motivare qualcun altro: ho visto qualcuno «ispirare» qualcun altro. La motivazione è sempre frutto di ragionamento, di un sentimento interno. Si può preparare la tavola, sistemare il fiore, poi è il meccanismo che si sviluppa all’interno della persona che deve mangiarvi a farle apprezzare il contesto e scegliere tra un ristorante e l’altro. Una motivazione sorta per il solo fatto di aver ascoltato uno «speech» è una motivazione di breve durata, come camminare sui carboni ardenti. Possiamo lasciarci ispirare, ma la motivazione è più sofisticata.

D. La sua storia da «ispiratore» è iniziata in un momento in cui non era troppo in uso del resto, e figure simili non esistevano. Ora può essere l’ispiratore degli ispiratori, mentre prima non aveva qualcuno cui ispirarsi e da cui, in seconda facie, essere motivato.
R. Vero. Questo è importante. Mi citano nelle tesi, mi cercano. Il fatto di essere partito in un momento in cui il mercato non presentava tale offerta mi ha consentito di fare quello che faccio e di dedicarmi ad entità plurime, creando relazioni costruttive: infatti, lavorando con le persone sulla loro motivazione e in modo accorto ed onesto, è difficile che non si sviluppino buoni rapporti. Questo fattore apre un altro ventaglio di possibilità. Anche l’online si avvale delle raccomandazioni degli altri; il «feedback», che è frutto di un’esperienza e di una relazione, è sempre più importante. Credo molto nello strumento delle relazioni, e va trattato con cura perché la linea che c’è tra il raccomandare chi è meritevole e la malversazione è sottile, e la fa da padrona la morale che ciascuno di noi sposa.

D. La democrazia di internet dà più manforte alla lealtà di queste relazioni, contrastando una forma di favoritismo verso amici attraverso il «feedback»?
R. C’è assolutamente più trasparenza.

D. In un momento di economia stagnante e di «low profile», come «ispirerebbe» un’azienda depressa, in senso economico ed in senso psicologico, che deve trovare delle basi in un mondo di altre aziende che si trovano nella medesima condizione?
R. Per me non esiste l’azienda, mi riferisco sempre alle persone all’interno della stessa. Quando mi chiamiamo a fare interventi di tipo motivazionale, ossia che serva a cambiare stato alle persone, suggerisco di valutare l’obiettivo: crearne uno interessante fa nascere spontaneamente una motivazione. Il problema sorge quando l’azienda ha un obiettivo che il lavoratore non avverte come proprio, o non capisce. La prima dice al secondo come deve cambiare per spostarsi da un punto A ad un punto B; cambiare, per la base aziendale coincide con un maggior carico di lavoro, una maggiore flessibilità, velocità aumentata, non sempre un aumento di stipendio. Il «motivatore» deve dimostrare come l’obiettivo che l’azienda si pone in un dato momento costituisca una tappa fondamentale per arrivare all’obiettivo specifico dei singoli individui. Ossia: perché il lavoratore sia soddisfatto, si deve per forza passare per la soddisfazione aziendale. In questo modo e con tale consapevolezza si crea motivazione nel singolo.

D. Nella maggior parte dei casi, però, l’obiettivo che motiva il lavoratore si semplifica in un solo elemento: la retribuzione.
R. Questo, in un’economia stagnante, è molto limitante. Per qualche motivo l’azienda potrebbe non avere la capacità di pagare di più, ma a conti fatti quello che diciamo è una mezza verità: la gente non è motivata dallo stipendio. O meglio, il congruo stipendio è senza dubbio un fattore igienico, ma dopo alcuni mesi dall’aumento della remunerazione, questo non fornisce già più la motivazione che ne era alla base. Ciò non vuol dire che non si debba pagare i dipendenti, tutt’altro; ma se si pensa di poter motivare i singoli solamente con i soldi si sbaglia. Senza considerare che a volte l’azienda non può nemmeno farlo, e spesso deve addirittura tagliare in quanto carente di risorse adeguate. Il lavoro da fare in questo caso verte sempre sul significato: domandare il senso di ciò che il lavoratore sta facendo. In che modo sarà differente? Come sarà migliore una volta entrato nel percorso di cambiamento proposto dall’azienda? Questo passaggio, che non è affatto semplice, avviene attraverso un ragionamento che va fatto con i singoli, riflettendo sui loro obiettivi, mettendo poi sullo stesso tavolo la direzione dell’azienda e la direzione individuale. Quando, attraverso ragionamenti che in parte sono di pancia e in parte di testa, si riesce ad allineare i due cerchi azienda-individuo e a creare un’intersezione sempre maggiore, è lì che scatta la motivazione: esattamente là dove il cerchio della testa (fare qualcosa perché conviene) e il cerchio della pancia (fare qualcosa perché piace) sono il più sovapposti possibile. Grazie a questa congruenza, il sacrificio non è più tale e vissuto negativamente. Questo capita a pochi, fortunati personaggi. Possiamo sperare che una piccola intersezione tra i due cerchi ci sia. Il mio lavoro è quello di cercare di allargarla il più possibile soprattutto dove emozione e pensiero non coincidono: per uno stilista è più probabile che ciò che piace coincida con ciò che conviene, per chi produce bulloni tale congruenza non è tanto immediata, se tutta la giornata lavora sulla pressa. Ci sono impieghi in cui tutto ciò che vale è: «Dammi i miei mille, prendi le mie 8 ore», ma non sono quelli che auspichiamo per i nostri figli, auguriandoci per loro un lavoro che riempia anche il cuore oltre alla tasca e alla testa. Vengo di solito chiamato, in realtà, a parlare in ambiti nei quali le mansioni non sono così acri: per pulire degli uffici non si chiede motivazione di solito.

D. Per chi zappa la terra, paradossalmente, potrebbe esserci molto più cuore. Più è grande la struttura, meno è motivante la mansione – mi viene in mente la rivoluzione industriale, ancor di più il film di Charlie Chaplin «Tempi moderni».
R. La sfida che hanno strutture aziendali è proprio quella di tenere motivate le persone, e sono imprescindibili alcuni meccanismi fondamentali, primo tra tutti l’ascolto delle persone, che sempre dicono cosa vorrebbero essere o vorrebbero avere. È evidente che una economicità è richiesta e non dico che bisogna ascoltare tutti, ma non dico nemmeno che non bisogna ascoltare nessuno. Questo dipende dalla volontà di chi ha in mano le leve organizzative: se è in grado di allineare gli interessi aziendali con quelli individuali, l’azienda ha vinto.

D. Diverso è il caso delle strutture pubbliche?
R. Sì. Quando lo statale ha una totale assenza di motivazione, come è noto, è perché è troppo grande la distanza tra il senso del lavoro ed il suo svolgimento: nessuno capisce più perché sta apponendo un timbro su un foglio, e nessuno chiede più nemmeno se sia stato fatto, con conseguente deresponsabilizzazione e demotivazione. Quando non c’è un perché, nessuna cosa è motivante, ma questo è un problema del sistema. Nel pubblico, essendo storicamente mancati i controlli necessari, tale problematica si è diffusa di più.

D. Com’è cambiato, negli anni, il senso di apartenenza ad un’azienda?
R. Il più grande cambiamento è stato quello provocato da internet, con l’accesso alla conoscenza generale in qualunque momento. Ciò vuol dire anche che qualunque cosa si conosca in un dato momento è irrilevante, motivo per cui i giovani non danno più peso alle competenze del professore e, di riflesso, al professore stesso. Cosa resta? Bisogna investire nella capacità di fare connessioni, che è ancora appannaggio degli umani e non delle macchine. Se si ha un lavoro che non ha bisogno di connessioni, il livello minimo di salario è in effetti determinato dalla disperazione degli operatori; in un lavoro di tipo euristico-creativo, la capacità fondamentale è quella di inventare cose e connessioni per creare, attraverso una sintesi, qualcosa di importante.

D. In realtà la motivazione serve non solo per fare il lavoro del «bullone», ma anche per il creativo che, a maggior ragione, ha bisogno di ispirazione e non di meccanicità.
R. Dipende sempre dall’intelligenza con cui si affronta la vita. Non è strano che si sia demotivati se si adotta un approccio statico, ossia si rinuncia alla curiosità.

D. Il punto è che la curiosità, a volte, è come la bellezza: o si è belli o si è brutti. È nel Dna. Poi, e solo in seguito, diviene una questione soggettiva, per cui ad alcuni sembra bello qualcosa che per altri non lo è. Ma alla base si hanno categorie che possono applicarsi sin dalla genesi. La curiosità non fa parte di queste?
R. È vero che la bellezza va comunque aiutata e mantenuta, ed è così anche per la curiosità.

D. Ma in questo caso, quello della curiosità, c’è anche una sorta di «metapensiero»: bisognerebbe avere la curiosità di essere curiosi per divenirlo.
R. C’è un motivo fondamentale per cui dovremmo comunque dare significato: il mondo funziona a partire dai nostri bisogni base, che crediamo di aver colmato, e in quanto già soddisfatti in via generale pensiamo di dover partire da questo livello superiore senza far più riferimento ai bisogni base. Tanti si sono dati da fare, ma se domattina il mondo smettesse di produrre energia elettrica, saremmo da capo.

D. Ossia, bisognerebbe far capire che se siamo demotivati tutti, ci fermiamo tutti. E che non possiamo demotivarci a turno, per far proseguire il mondo.
R. Esattamente. Alla fine, il punto chiave è quello degli esistenzialisti: che senso ha la vita? Da un punto di vista tecnico nessuno: si viene al mondo, poi si muore.

D. Il motivatore non è il primo esistenzialista, che si è dovuto motivare?
R. Lo è per forza di cose. Si deve piantare un chiodo e dire: questo è. Chi è interessato alla motivazione dice: io sono contento per il fatto che sono. Non c’è niente da spiegare. Sono, e quindi sono contento. E da lì si parte a dare un continuo significato in una storia che è la nostra e che noi stessi ci raccontiamo. Ma essa è vera? Non ha rilevanza che lo sia: gli avvenimenti di una storia sono oggettivi, il significato lo assumono nel momento in cui vengono messi all’interno di una relazione da parte del narratore. È proprio lì il lavoro: dare senso a qualcosa che senso non ha. (ROMINA CIUFFA)

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ROBERTO RAZZINI (WARNER CHAPPELL): IL DIRITTO D’AUTORE NON È L’EQUITALIA DELLA MUSICA, TUTTO IL CONTRARIO

di ROMINA CIUFFA. «Mi ricordo che anni fa, di sfuggita dentro a un bar, ho sentito un jukebox che suonava», cantava Edoardo Bennato. La canzone era «Sono solo canzonette». Non sono solo canzonette: è la creatività, il valore, l’arte dell’essere umano. Un’intera filiera produttiva che parte da un incipit creativo insostituibile, la quintessenza della nostra umanità, direttamente dal cervello musicale, primo motore immobile dell’industria: l’anima. Come per Bennato, il jukebox è ricordo, quando non substrato culturale, di ciascuno di noi, ed è stato in grado – oltre che di animare – di ispirare e definire intere epoche. Il jukebox moderno è digitale ma, mutatis mutandis, funziona come il primo: con le monetine ed un click. Si tratta di contenitori virtuali, piattaforme attraverso cui ascoltare musica, scaricarla, caricarla, ed anche renderla libera. Ma quanto costa questa libertà?

La storia insegna: in nessun caso la libertà è stata gratuita. Essa costa tanto a chi è libero quanto a chi lo ha reso libero. Così nell’industria musicale: poter caricare una propria opera sulla rete e renderla pubblica non consente, intrinsecamente, di ottenere una remunerazione sic et simpliciter, tutt’altro, comporta dei costi. Dipingere un quadro non solo non è produttivo di ricavi, ma presuppone delle spese. Ed il quadro, esposto in una galleria come YouTube, se non viene acquistato può essere solo ammirato. O copiato. Così è per la musica: la creatività non è produttiva senza un piano, senza un forte. Condicio sine qua non, qui, è la tutela del creativo, di colui per cui «nei sogni di bambino la chitarra era una spada, e chi non ci credeva era un pirata». Pirateria, per l’appunto, e diritto d’autore.

Se l’artista puro non potrà «mai diventare direttore generale delle Poste o delle Ferrovie», tali abilità sono messe dall’industria, in questo caso da Roberto Razzini, che guida la Warner Chappell Music italiana, anche presidente della FEM, Federazione Editori Musicali, che supporta e incoraggia talenti e professionalità, e membro del Consiglio di sorveglianza della Siae. Warner Chappell Music, la società globale di edizioni musicali di Warner Music Group, presente con uffici in più di 40 Paesi, offre attività di ricerca e formazione di autori e compositori per la creazione di nuove composizioni musicali, servizi di gestione e tutela di repertori musicali esistenti, collaborazioni con artisti, gruppi musicali e produttori per nuovi progetti, cooperazione con case di produzioni cinematografiche e televisive, rapporti con agenzie di pubblicità e comunicazione aziendale. Sono oltre un milione i titoli di repertorio, con artisti e gruppi musicali di tutte le nazionalità e composizioni che abbracciano epoche e generi tra i più diversi.

Domanda. Ma cosa fa l’editore musicale?
Risposta. L’editore fa oggi quello che faceva il mecenate nel 700: all’autore sconosciuto mette a disposizione le risorse perché possa mantenersi, in attesa che arrivino i successi attesi. Ma è come occulto: il pubblico percepisce l’esistenza di una generica comunità di professionisti che si occupano di musica, o appartenenti alle case discografiche, mentre la realtà è che le professionalità sono diverse. Tra di esse è presente l’editore musicale, figura che ha una storicità molto profonda, forse costituisce la prima forma di professionista a servizio della musica sin dai tempi del mecenatismo. È colui che sta accanto all’autore di un brano, poi interpretato, in una fase successiva, da se stesso, quando si parla di cantautori, o da interpreti puri, ossia i cantanti. L’editore ha un ruolo importante in quanto, assieme all’autore, è a monte di questo sistema produttivo, e ha lo scopo primario di trovare nuove professionalità, come incipit di tutto il sistema artistico. È una figura complementare al discografico: l’editore musicale sta all’autore come il discografico sta all’artista. Si tende comunemente ad accreditare la composizione di un’opera al solo interprete. Un esempio: «Azzurro» è stata portata al grande successo da Adriano Celentano ma gli autori dell’opera sono Paolo Conte, Vito Pallavicini e Michele Virano. Nell’immaginario collettivo però quest’opera viene comunemente abbinata a Adriano Celentano, che ne è «solo» l’interprete. Anche rispetto ai ricavi ci sono enormi differenze tra il discografico e l’editore musicale. Una terza figura è quella dell’agenzia e management, attività che porta gli artisti in tour e organizza concerti.

D. Con cosa si rapporta un editore nell’epoca del digitale?
R. Noi editori trattiamo diritti, non supporti o vendite di prodotti fisici ma licenze per l’utilizzo della nostra musica, e l’avvento delle nuove tecnologie ha portato un proliferare ed un aprirsi a ventaglio di opportunità. La musica è un prodotto molto versatile, esaurisce la propria funzione di «entertainment» in pochi minuti; le tecnologie hanno fatto sì che questa funzione possa essere possibile mantenendo la qualità dell’ascolto ed hanno ampliato a dismisura le possibilità di fruizione. Ciò da una parte ha aperto il mercato, dall’altra l’ha polverizzato: se prima si vendevano milioni di copie di un disco di successo, oggi si hanno, accanto alla vendita del disco, i click e le visualizzazioni su YouTube, il download su iTunes, gli ascolti su Spotify, in uno sviluppo orizzontale e non più verticale, come in precedenza quando la vendita del disco centralizzava tutte le economie della filiera.

D. Anni fa la vendita del disco arrivava prima del concerto, ora innanzitutto si ascolta la musica online, si va al concerto, e solo dopo, eventualmente, si compra un disco.
R. Oggi il disco è in certi casi solo uno strumento promozionale.

D. E un optional, quasi.
R. Non per tutti gli artisti fortunatamente, ma per alcuni è solo uno strumento che permette al fan di avvicinare l’artista, dando avvio a un processo promozionale che poi necessariamente passa dal tour, ed è una testimonianza che permette di lasciare un segno. Non è più un prodotto primario attorno al quale gira tutto. Siamo tornati alle origini. Nella prima metà del secolo scorso la musica veniva venduta attraverso gli spartiti musicali e veniva eseguita in concerto, con orchestre ed ensemble, ma finiva lì; negli anni 50 e 60 è quindi scoppiata la vendita del prodotto fonografico, ossia 78 giri, 45 giri, quindi album. Noi siamo ora abituati alla centralità della casa discografica, del supporto, dell’artista, ma nelle classifiche degli anni 40 e 50 non si trovava mai il nome dell’interprete accanto al brano, perché all’epoca non contava. Contava il genere di canzone: se era un tango, un foxtrot, un jazz ed altro. L’interprete si è consolidato con una propria dignità pari a quella dell’autore, poi molto superiore, dagli anni 60 in poi. Prima non c’era questa necessità, e una canzone di successo si trovava in molteplici versioni: il pubblico voleva la canzone, non l’artista. Negli anni si è affinato il meccanismo industriale della discografia, e si è creato l’artista.

D. In questa evoluzione, il paradosso è che se prima l’artista non era in primo piano, ora invece è solo lui che fa il caso di successo. In altri termini, a chi ha grande popolarità possono mettersi in bocca anche canzoni di basso livello perché è lui a renderle famose e, per ciò solo, produttive. Spesso ci sono accordi tra questi artisti e gli autori, che voi tutelate, in cui i primi patteggiano una percentuale maggiore sui diritti dei secondi, facendo leva sul fattore economico e sul valore aggiunto della rilevanza dell’artista.
R. Non è più così. Negli anni 60 gli autori avevano poca consapevolezza dei meccanismi e a volte vendevano i propri brani agli artisti famosi, che li firmavano interamente. Attualmente, nel mercato che io frequento e che tutela tanto autori importanti quanto gli autori emergenti, non c’è più l’interprete come erano Mina, Ornella Vanoni, o i grandi interpreti di quegli anni, e bisogna fare un gioco di squadra. Noi della Warner Chappell ascoltiamo un brano inedito e lo immaginiamo adatto a un determinato interprete, a cui lo proponiamo; se a questo piace, può decidere di modificare delle frasi e intervenire sull’originale, che subisce così una trasformazione con un apporto creativo nuovo, e questo passa per il riconoscimento di quote editoriali all’artista che non sono mai prevaricanti sull’autore. Si parla di ventiquattresimi: 12 vanno sempre agli autori e 12 agli editori. Se l’artista non apporta modifiche, gli autori originali si dividono i 12/24 spettanti; il manager dell’artista può però richiedere all’editore una cointeressenza sulla quota editoriale ma questa non è prevaricazione bensì un negozio assolutamente plausibile dove l’interesse dell’artista per il tramite della sua società editoriale va a coincidere con l’interesse della Warner Chappell, e ciò garantisce profitti per tutta la filiera, evitando altresì che un brano resti nel cassetto del suo autore.

D. Il digitale ha portato alla ribalta nuovi addetti alla filiera, ossia quei canali che consentono l’ascolto. In che modo si ripartiscono i ricavi?
R. Il mercato attuale, molto florido a livello di potenzialità anche per la sua orizzontalità nel senso che ho specificato, purtroppo deve recuperare gran parte delle marginalità attraverso le tecnologie, lo streaming audio e video e il downloading, e questa è una battaglia molto importante che tutti gli aventi diritto, non solo gli editori musicali, stanno cercando di condurre a buona sorte non solo in Italia. A livello internazionale si parla di «value gap» per indicare la mancanza di coincidenza tra quello che gli aventi diritto marginalizzano attraverso l’immissione dei propri repertori sulle nuove tecnologie e quello che invece i titolari delle nuove tecnologie – Google, Spotify, iTunes e tutti gli altri – guadagnano sui contenuti. Tale sperequazione è sui tavoli internazionali del mercato ed è anche stata oggetto di due studi gestiti dalla Siae per il tramite di Ernst&Young, vertenti sull’analisi dei valori primari delle forme di creatività in Italia, che hanno anche stigmatizzato il problema nascosto dietro la definizione del «value gap». Potenzialmente il nostro è un mercato molto profittevole, ma molto complesso nella contezza delle utilizzazioni e delle relative corrispondenze economiche.

D. Le nuove opportunità della digitalizzazione non vanno di pari passo con la qualità: nel pot-pourri prolifera un’offerta musicale che, a partire da talent e reality fino ad internet, rende il digitale una democrazia spaventosa che non seleziona. Come si può tutelare, nella fotografia di oggi, la qualità?
R. Ciò è vero. Chiunque abbia un minimo di preparazione informatica è in grado di arrivare ad un prodotto finito: scrivere una canzone, arrangiarla, pubblicarla su YouTube e farsi promozione. La stanza si è ampliata e se si ha qualcosa da dire si deve aumentare la propria voce, perché il vociare che c’è sotto è talmente rumoroso e fastidioso che difficilmente si riesce a farsi sentire. Ma si entra in un meccanismo diverso: la musica ha un aspetto culturale che va di pari passo con quello sociale, dunque rispecchia, nel bene e nel male, ciò che viviamo quotidianamente. I progetti pubblicati negli anni 60-70-80 erano ampi e variegati sebbene il mercato assorbisse meno. Ma noi ci ricordiamo solo di alcuni di loro, perché quelli che non esprimevano un livello qualitativo decente si sono persi per strada per lo scorrere del tempo e delle memorie. Oggi succede la stessa cosa: tutti hanno pubblicazioni e visualizzazioni su YouTube, ma molti hanno una rilevanza assolutamente insignificante. Purtroppo la qualità di un progetto è una cosa, il suo successo è altra, e alla fine vince il secondo sulla prima.

Piero e Andrea Pelù, Roberto Razzini e lo staff Warner Chappell

D. I talent hanno distrutto la qualità e la serietà?
R. Personalmente sono favorevolissimo ai talent. Chi non ha avuto la loro benedizione, è comunque favorito dall’allargamento del mercato che si presta ad una ricerca attiva di nuovi talenti. Ma ricordiamo che i talent hanno prodotto moltissimi interpreti, che hanno bisogno di canzoni e così si rivolgono agli autori, i quali ne sono altrettanto avvantaggiati. Chi ama l’orecchiabilità di un prodotto più commerciale convive con chi preferisce un altro tipo di musica: questo significa avere un mercato vivo. Il talent è un acceleratore offerto dalla televisione, ed ha reso famosi alcuni mentre ha costituito una fionda per altri che sono stati lanciati, ma poi sono precipitati. Dobbiamo avere piena coscienza del fatto che la sua ragione d’essere è subordinata a meccanismi televisivi, che propongono un certo tipo di prodotto. Non è il punto di arrivo, è solo l’inizio di un percorso, poi bisogna comunque avere qualcosa da raccontare, altrimenti il talent è solo una «foto col cagnolino». La bellezza di una canzone non è la sua oggettività, bensì la sua credibilità, la sua interpretazione e il raggiungimento di un livello emozionale dato dal cantante. Il cantautore è credibile perché canta cose proprie, il suo problema è trovare un linguaggio originale che lo tiri fuori dalla mischia; l’interprete non deve essere solo bravo ma avere la capacità peculiare di far proprie le parole e le storie di altri.

D. Facciamo una giornata in cui impediamo a chiunque di trasmettere musica e…
R. …e avremo un picco in alto di suicidi.

D. E di omicidi. Il diritto d’autore (tanto sobillato) avrebbe così più senso per la platea, perché paghi la musica?
R. Per sensibilizzare il pubblico il diritto d’autore è fondamentale e va identificato per la sua natura primaria ed unica: compensare, retribuire, marginalizzare il lavoro degli autori e degli editori. L’autore non viene remunerato da una «ospitata» tv od un concerto, ma esclusivamente dal diritto in questione. Quando una composizione è diffusa da un megafono, dalle casse, da un microfono, o riprodotta col flauto dolce o la chitarra acustica, va commisurato il diritto ad una remunerazione, che non è una tassa bensì il giusto ed equo compenso da ripartire tra i titolari dell’opera.

D. In Italia però la Siae è «sofferta».
R. Su questo concetto purtroppo l’Italia ha sempre sofferto di un’evasione rilevante, perché non si ha consapevolezza di ciò che effettivamente il diritto d’autore rappresenta e lo si considera alla stregua di una «Equitalia della musica»; da cui l’opposizione alla Siae. In una festa di matrimonio si paga il pasticciere che fa la torta, il fiorista, il fotografo, persino il prete: perché non si vuole pagare la musica? In discoteca si pagano l’entrata e i cocktail, ma in effetti ci si va per la musica. Se c’è un sottofondo musicale in qualunque luogo, anche dal dentista, è giusto che venga retribuito. L’offerta di «entertainment» ha una sua giustificazione; il diritto d’autore è sacro non solo perché retributivo per gli autori ma perché dà risorse al sistema affinché possa mantenersi vivo e generare altri investimenti sulla creatività e la valorizzazione dell’arte. Chi scrive musica deve poter fare solo quello, per vari motivi, non da ultimo la tutela della sua emozionalità che va di pari passo con la capacità creativa: non si può comporre se si ha un secondo lavoro che prende molte delle energie e del tempo dell’artista. Se questi non ha alcun tipo di premialità ma comporre gli comporta solo sforzi e sacrificio mentre il prodotto è estorto da un mercato che non gli riconosce il diritto d’autore, è più sensato fare altro.

D. Liberalizzazione del mercato: Soundreef prende piede contro la Siae ed è appoggiata da artisti molto grandi. Che succede?
R. Questo è un argomento importantissimo gravato da tantissima superficialità, demagogia e mancanza di attenzione. In tutti i mercati in cui il diritto d’autore è rispettato esiste un monopolio di fatto, ciò vuol dire che non c’è una pluralità di soggetti con mandato ad intermediare; nonostante il mercato lo permetta ciò non si è mai verificato. Infatti, la gestione del diritto d’autore deve essere monopolista, anche se di fatto e non di legge; nei Paesi europei tutti hanno interessi a convergere su un unico punto di raccolta che dia forza agli autori e agli editori. Il concetto solidaristico della società di collecting, non a scopo di lucro ma di tutela, porta ad avere una capacità che soddisfa i soggetti tuelati attraverso la premialità del mercato, in un meccanismo di equiparazione tra «piccoli» e «grandi» in cui è più remunerato chi è più apprezzato. I diritti d’autore di un’opera vengono corrisposti con parità di trattamento per tutti gli associati, su un tavolo da gioco in cui le regole sono uguali per tutti. Si è più ricchi perché più bravi, non perché si nasce con un peso specifico diverso.

D. Il decreto legislativo n. 35 del 15 marzo 2017, di attuazione della direttiva 2014/26/UE sulla gestione collettiva dei diritti d’autore e dei diritti connessi e sulla concessione di licenze multiterritoriali per i diritti su opere musicali per l’uso online nel mercato interno, è entrato in vigore l’11 aprile 2017. Cosa cambia?
R. Il decreto 35 fa emergere il problema della tutela e apre il mercato ad altri organismi di gestione collettiva, semplicemente normando la materia. Chiunque può esercitare attività di intermediazione sul diritto d’autore, purché l’ente sia senza scopo di lucro oppure sia gestito dagli associati. La Siae rispetta questi criteri. Soundreef, per quanto a noi noto, è a scopo di lucro ed è detenuta da fondi di investimento, dunque è fuori mercato; inoltre, non rispetta tutti i dettami della direttiva Barnier, tra cui meccanismi di trasparenza, efficacia e parità di trattamento.

D. Quali sono i limiti di Soundreef?
R. Soundreef fa contratti a cinque anni, mentre la direttiva dà un limite massimo di un anno. Oltre a ciò, ha pagato un anticipo molto consistente a Fedez e Gigi D’Alessio per la gestione del loro diritto d’autore; la discriminante difficile da far passare nel rispetto della direttiva è questa. Gli altri che si associano a Soundreef non ricevono lo stesso trattamento, venendo meno la parità richiesta tra famosi e non. Diversamente, la Siae non dà un «premio di ingaggio» per associarsi. O Soundreef si pone sul mercato pagando a tutti il medesimo anticipo, oppure è fuori dai parametri. Poi, la gestione del diritto d’autore deve essere centralizzata in un unico soggetto perché ciò è richiesto dalle regole del mercato nel concetto di «one-stop-shop» Questo principio va anche a vantaggio degli utilizzatori stessi, che con un’unica licenza possono ottenere l’utilizzo di tutti i brani musicali di cui necessitano. L’intermediario più forte è quello che fa pagare di meno, come in ogni settore del mercato concorrenziale; la liberalizzazione del diritto d’autore comporterebbe un abbassamento delle tariffe. Ciò andrebbe a penalizzare gli aventi diritto, perché ciò che verrebbe incassato da diverse società di percezione sarebbe inferiore, per effetto della liberalizzazione del mercato e della concorrenza. Quindi il mercato libero non favorirebbe gli autori e gli editori ma li penalizzerebbe nei loro interessi economici.

D. Invece la Siae?
R. La Siae ha una particolarità unica: la capillarità sul territorio che è seconda solo ai Carabinieri, e ciò garantisce la sua piena capacità ad incassare a nome dei suoi associati ovunque. Se non si è radicalizzati nel territorio, quei proventi non è possibile intercettarli. Per avere un’organizzazione efficace, bisogna avere massa critica ed essere l’unico interlocutore.

D. E quali sarebbero, allora, gli argomenti a favore del mercato libero?
R. A mio giudizio e come abbiamo visto, non ce ne sono né per gli aventi diritto né per gli utilizzatori. L’unico mercato realmente libero è quello americano, dove non si incassa il diritto d’autore dalle radio, dai cinema, dalle tv, dai concerti, ma solo dai grandi eventi; in quel mercato bisogna vendersi a un editore prima di aver dimostrato qualcosa a qualcuno e fare già alti proventi con i grandi eventi. In Italia e negli altri Paesi si incassa ovunque e sempre e ciò non è necessario: si può cominciare a percepire proventi anche da emergenti. se avessimo quel tipo di mercato, troveremmo quelli che oggi definiamo bravi e/o grandi autori a suonare nelle metropolitane. La musica è cultura, non sono canzonette: abbiamo un patrimonio che ha radici profondissime e una capacità di espressione ben al di sopra della media internazionale, ma com’è tipico del nostro Paese ci perdiamo nell’applicazione delle regole. (ROMINA CIUFFA)




CASO WEINSTEIN: DALLA CONSIDERAZIONE DELLA DONNA ALLA «consiDESIDERIzzazione»

Parlo da uomo a uomo e non mi nascondo: sono più maschilista che femminista. Oltre a ciò, sono sempre stata dichiaratamente darwiniana, e con ciò intendo sollecitare riflessioni sulla natura umana: animale. Dotato di maggiore intelletto l’essere umano (forse), pur sempre un predatore il maschio. Ma, poiché tutta la vicenda Harvey Weinstein (rinvio ai giornali in cerca di click per comprendere la polemica scatenata dall’attrice Asia Argento) ha sollevato un polverone contro il sesso maschile, mi permetto di concentrarmi sull’altro punto di vista non molto considerato, quello dell’uomo, a partire da un tweet dell’attore Alec Baldwin in risposta alla stessa Argento (dopo, si sono reciprocamente bloccati su Twitter, rendon noto i media più educativi): «I casi sono due: se dipingi tutti gli uomini con lo stesso colore, o finisci il colore o finisci gli uomini».

Anzi, parto da un attimo prima, il momento in cui io stessa dico: quanto piace alle donne essere oggetto di considerazione? La definirei, coniando, una «considesiderizzazione», invero. Da che mondo è mondo, la donna fino ad una certa età ha un fare scocciato in reazione alle «molestie» subite da passanti che le sussurrano (o gridano) commenti eleganti o impropri sulle sue bellezze; dopo quella certa età, i commenti tendono a diminuire (in proporzione seni e labbra tendono ad aumentare a suon di chirurgia, per ristabilire l’equilibrio dalla natura violato). Non mi sono mai sentita infastidita da tali complimenti, in qualunque modo mi fossero espressi, tutt’altro: li ho sempre ritenuti – commenti e tentativi più sfrontati – sintomo di un’umanità che, fortunatamente, resta stabile nel suo divenire riproduttivo, istintivo. La considero non una questione «maschile», bensì educativa, scolastica, didattica, formativa, culturale. Avrei dovuto, dovrei, denunciarli tutti?

Parrebbe di sì, ora che so che la modella italo-filippina Ambra Battilana Gutierrez (anche testimone antiberlusconiana nel Ruby bis) ha guadagnato un milione di dollari a seguito di un accordo firmato con Weinstein, sebbene con esitazione e la motivazione che «con quei soldi avrei potuto aiutare mia madre e dare un futuro a mio fratello». Dichiarare questo le fa onore? «Armiamoci e partite». Resto cieca senza capire perché, se tanto molestata ed affranta, non abbia sporto denuncia, piuttosto abbia compensato l’amor proprio con una somma di denaro, quantificandosi. E cieca sono nei confronti di Asia Argento, che parla di maiali nonostante il padre abbia firmato il film «Phenomena» (non dovrebbe impressionarsi più di tanto) ma oggi si sveglia patrocinante di una class action con un mandato tacito firmato da tutte le donne del mondo che «hanno subito molestie» senza dichiararle nella sede ad uopo adibita.

Quando è accaduto a me, un no secco, anche educato, ai «big», ha fermato il mio conto in banca a un livello meritocratico. Avevo già la garanzia di un bestseller, cui mi opposi declinando l’offerta sinallagmatica del mio proponente di turno. Il quale non mi offese, né mi offende, tutt’altro: mi spinse a dimostrare quanto valessi a prescindere da quanto piacessi, e sulla mia autostima ciò ha avuto un effetto dirompente, quello di sentirmi più bella, in quanto desiderata, ma principalmente quello di scrivere meglio oggettivamente. Migliorarmi per migliorare l’intero sistema. Fare.

Per me una ballerina usa la testa prima dei piedi, un’attrice la capacità prima della recitazione. La verità è che le donne vogliono essere corteggiate, provocare, avere posizioni di prestigio «a costo di» sedurre. Per chiunque mastichi il Codice penale, la locuzione «a costo di» è sinonimo di una declinazione dell’elemento soggettivo del reato: il dolo eventuale. Meglio detto: l’agente (in questo caso la seduttrice) non vorrebbe commettere l’azione, ma al fine di ottenere lo scopo primario accetta anche le conseguenze eventuali di una condotta (in questo caso, la seduzione). L’esempio da manuale è la corsa in automobile su una strada trafficata: non c’è dolo diretto di uccidere ma è molto probabile che, in certe circostanze, possa provocarsi un incidente. È escluso qui il dolo volontario, in quanto l’agente non «vuole» in cuor suo che esso accada, ma non si è nemmeno nell’ambito della colpa; tanto che il penalista parla di «colpa cosciente» per indicare il caso sottostante in cui colui che agisce si rappresenta e prevede il risultato offensivo e, tuttavia, erroneamente ritiene con certezza che detto risultato non si verificherà nonostante la condotta. Siamo ad un passo dalla responsabilità oggettiva che la nostra Costituzione nel suo art. 27 esclude, affermando senza giri di parole che la responsabilità penale è personale; e che il delitto preterintenzionale (oltre l’intenzione) fa rientrare dalla finestra del Codice penale.

Ritengo che, in molti degli improvvisi casi segnalati dalle «attricette» e dalle altre professioniste (alcune delle quali presenti ad Arcore o in altri luoghi simili in cui si pratica bunga-bunga), la vittima possa assumere un ruolo attivo, e oscilli tra colpa cosciente e dolo eventuale. Gli artt. 609bis e seguenti del nostro Codice penale proteggono la libertà sessuale e il diritto di esplicare liberamente le proprie inclinazioni personali, impedendo altresì che il corpo possa essere senza consenso utilizzato da altri ai fini di soddisfacimento erotico. Le violenze vanno distinte dalle molestie dell’art. 660, che richiedono una petulanza (ed escludono il reato continuato per definizione) od altro biasimevole motivo negli atti di disturbo (spesso integrati nel mobbing). È qui impossibile non chiamare in causa la famosa «sentenza dei jeans», la quale però ha tutt’altro «sex-appeal». Infatti, in essa si parlava di stupro decontestualizzato, disfunzionale.

Asia Argento e Harvey Weinstein al Festival di Cannes (2004)

Ciò di cui parla Asia Argento (con le dichiarazioni sulle molestie subite dal produttore 20 anni fa) è (nel codice italiano almeno, e cercando di valutare la situazione in termini generali dal punto di vista del nostro ordinamento) l’abuso di autorità, che la legge n. 66 del 15 febbraio 1996 inserisce accanto alla violenza e alla minaccia a scopo sessuale. Fossi il giudice, chiederei all’accusa di definire il concetto di autorità: è tale quella di colui che sceglie chi parteciperà o meno alla produzione di un film multimilionario? Non entro nel merito del caso Weinstein, non ero presente quelle centinaia di volte che il grande seduttore ha violentato le sue inconsapevoli e sorprese vittime durante un provino, un colloquio, una cena; né lo ero negli altri innumerevoli casi di star oggi accusate dello stesso crimine (e non faccio a meno di tener presente il film «Rivelazioni», in cui le molestie sono commesse, in mobbing, da una donna – l’attrice Demi Moore – ai danni di un suo dipendente di sesso maschile – l’attore Michael Douglas -).

“Rivelazioni”, con Demi Moore e Michael Douglas

Distinguo tra stupri, molestie, violenze e abusi generici, da una parte, e sistemi che si sono sempre nutriti di tale consuetudine, dall’altra. I primi sono coperti a tutti gli effetti dalla fattispecie penale; i secondi entro certi limiti. E invito a esporre denuncia, strumento funzionale al perseguimento del criminale, non dei propri scopi, il quale va utilizzato in giudizio, non a mezzo stampa. In quest’ultimo caso, come dalla fattispecie di abuso sono stati tratti vantaggi dalla vittima, così similmente dall’impiego dei media: l’ottenimento di una copertina, di un titolo, di una presenza nel talk show, magari una parte in un film. Sicuramente un posto di rilievo dal parrucchiere.

L’uomo è predatore, ma – se è l’uguaglianza di genere che sosteniamo – la donna non è preda. Usa le armi della seduzione e, ove non lo faccia, non è vittima inerme di un sistema patriarcale. Non più. Ha posti di rilievo in politica, in azienda, nel cinema, ovunque voglia; sa tenere testa a un uomo. Quando, per forza fisica, non vi riesca, è stupro. Quando, per forza intellettuale, non vi riesca, è stupida. O fin troppo intelligente. Ed ora basta chiacchierare: tutte a lavorare. (ROMINA CIUFFA)

 




ARMANDO DONAZZAN: LA PANTERA VENETA DI ORANGE1

di ROMINA CIUFFA. Orange1 nasce da un baratto. Leone Donazzan, perito elettronico, nel 1971 fonda la prima società del gruppo dando inizio all’avventura «arancione» con un puro e semplice baratto: un cliente non può pagarlo per un impianto elettrico e gli chiede di potergli dare in cambio dei motori. Così, a Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, nasce la ditta «Elettromeccanica Leone Donazzan» per la riparazione e l’avvolgimento di motori elettrici, attività che si estende in breve al campo dell’impiantistica industriale. Nel 1983 la società viene trasformata in Eld spa e inizia con successo a rivolgersi ai mercati esteri e in modo particolare a Francia, Germania e Paesi nordici. Il business si apre anche verso i mercati dell’est, in particolare verso l’ex Unione Sovietica, il cui crollo, con la caduta del muro di Berlino alla fine degli anni 80, induce Donazzan a rivedere gli obiettivi. Nel 1998, con un fatturato di 5 milioni di euro attuali, il figlio Armando subentra nella direzione aziendale ed intraprende una serie di politiche finanziarie e commerciali che innalzano il livello di competitività e visibilità dell’azienda. Oggi a capo della sempre più grande Holding, è definito la «pantera».

Domanda. Dalla sua entrata come guida dell’azienda cosa è accaduto? 
Risposta. Nel 1999 nasce in Ungheria l’azienda Eme kft, specializzata nella produzione di statori avvolti per motori elettrici. Dalla necessità di migliorare l’efficienza e dalla crescente domanda, viene alla luce un progetto per la costruzione di un capannone adeguatamente dimensionato dove il concetto del «lean manufactoring», ossia la produzione snella che mira a minimizzare gli sprechi fino ad annullarli, costituisce la base di ogni nostra azione nell’area industriale di Arsiè, in provincia di Belluno, e in un tempo record di 8 mesi ultimiamo un capannone di 11.800 metri quadri coperti. Nel 2006 nuovo cambio di nome in Eme, quindi acquistiamo la Ceg, la Unielectric e la Elpromtech, e ricambiamo nome in Orange1 ponendoci sul mercato come specialisti nel settore, poco prima di acquisire anche l’Elettromeccanica Valceno e la Metalpres Cenzato al fine di creare una filiera di verticalizzazione dei componenti per produrre anche i motori elettrici. Poi Orange1 entra nel gruppo Emotion in Motion, con l’obiettivo di migliorare le prestazioni di efficienza energetica, un tema attuale e con un futuro volto allo sviluppo. Di recente, abbiamo acquisito la Magnetic di Montebello Vicentino e la Mado di Chignolo D’Isola. Lo scorso maggio arriva la tredicesima acquisizione, quella della Sicme Motori di Torino, che ha ricavi per 18 milioni di euro e 90 dipendenti.

D. Quali sono i recenti dati che descrivono l’attuale situazione di Orange1?
R. Siamo presenti in 70 Paesi nel mondo, con un fatturato di circa 200 milioni, 11 stabilimenti produttivi, 14 aziende acquisite, 1.200 dipendenti. Produciamo annualmente oltre 1 milione di motori elettrici asincroni monofase e trifase, 5 milioni di avvolgimenti per motori elettrici asincroni, 60 mila drive per motori elettrici, 20 mila tonnellate di alluminio pressofuso e 12 milioni di pezzi di torneria di alta precisione per il settore auto motive. Ora puntiamo alla leadership anche nella pressofusione in alluminio con la divisione «Foundry».

D. Come siete entrati nel mondo delle corse?
R. Internation Gt Open, Lamborghini Blancpain Super Trofeo e Campionato Italiano Rally sono le nostre nuove sfide. Lo sport è il completamento della realtà dinamica del mondo Orange1, anche con le divisioni Oxygen Orange1 Basket e Orange1 Racing, nata nel 2016, dove il motto aziendale #wearepassion dimostra che con vera passione si può raggiungere ogni traguardo.

D. Funziona il team competitivo di Orange1 Racing?
R. Dodici mesi fa, in Friuli, il nostro principale concorrente dichiarava che non aveva bisogno di un «aiutino» per vincere. Quest’anno, invece, si è fatto cedere la posizione dal giovane compagno di squadra in più di un’occasione, e si è presentato a Verona forte della presenza di un ex-campione italiano ed europeo, schierato con il dichiarato intento di dargli manforte nella lotta per il titolo. Questo è il complimento più bello per noi di Orange1 Racing, perché vuol dire che abbiamo saputo farci temere e rispettare, noi team privato in lotta contro squadre ufficiali. E tutto questo alla nostra prima stagione vera e con una vettura vincente. Evidentemente il leader provvisorio, il suo team ed il suo fornitore di pneumatici hanno paura di noi e questo ci riempie di orgoglio e fa salire l’adrenalina.

D. Chi è il vostro rappresentante tra le «Pantere alate»?
R. Simone Campedelli, con il navigatore di riserva Pietro Ometto, presentatisi a Verona carichi dopo aver dominato anche il Rally di Roma Capitale, confermando di essere qualcosa di più di una semplice minaccia per i rivali. Abbiamo scelto di contare esclusivamente sulle nostre forze e su quelle del team Brc e della Michelin, che hanno garantito il massimo supporto durante tutto il campionato.

D. Nel Rally di Roma Capitale come si sono qualificate le «Pantere alate»?
R. Vittoria in entrambe le tappe e massimo dei punti in palio per Campedelli e Ometto: le «Pantere alate» hanno dominato l’intero week-end con la Ford Fiesta Brc e sono andate via dal Lazio con una doppietta che consolida la loro seconda posizione in campionato, a pochi punti dal leader provvisorio.

D. Avete appena svolto un grande evento a Verona, «Ruggiti di passione». Di che si è trattato?
R. Con «Ruggiti di passione» abbiamo voluto lanciare dei progetti di promozione del lavoro, della cultura e del territorio. Cogliendo l’occasione della finale del Campionato Italiano di Rally in cui abbiamo partecipato con la nostra scuderia Orange1 Racing, abbiamo coinvolto il pubblico in una serie di iniziative, conferenze, laboratori dedicati ai giovani, alla cultura, alla passione e al sociale, come il «Rally Therapy» del 14 ottobre che ha dato la possibilità a 20 giovani disabili di partecipare ad un emozionante test drive di rally, e il «Recruiting Day» del 15 ottobre durante il quale ai giovani è stata data l’opportunità di presentare la loro candidatura al management della Holding Orange1.

D. In che modo sostiene lo sport?
R. Oltre che con Orange1 Racing, sostengo i ragazzi della squadra di Basket Bassano, e non solo. Un’iniziativa particolare è stata quella in Brasile, dove una squadra locale di giovani pallavolisti di Campinas, che ha visto sui social quanto siamo attivi, ci ha chiesto un contributo, e abbiamo voluti aiutarli.

D. La vostra comunicazione è molto attenta: come la affrontate?
R. Abbiamo acquisito l’Italian Graphic Design di Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso, con 30 anni di esperienza, per integrare il mondo dei nostri servizi al fine di supportare le politiche di marketing sempre più strategiche per la crescita del gruppo. Comunicare chi siamo e cosa facciamo a dipendenti, clienti e fornitori è diventato imprescindibile e questo deve essere fatto con velocità, professionalità e passione.

D. Dove vuole andare attraverso tutte queste acquisizioni?
R. Perseguo per la mia società l’obiettivo di divenire l’interlocutore unico per prodotti diversificati. Tutto fa capo a una holding di partecipazione industriale. Dal 1998 abbiamo avuto acquisizioni per 50 milioni di euro, investimenti in immobili per 20 milioni e per oltre 50 milioni in tecnologia, miglioramento dell’efficienza e nuovi prodotti.

D. Una realtà molto incentrata nel Veneto. C’è qualche influenza straniera?
R. Il nostro prodotto è completamente Made in Italy, e nel settore dell’elettromeccanica in Italia costituisce un’eccellenza, riconosciuta a livello mondiale sia per la componentistica che per il prodotto finito. Il Veneto mi ha aiutato non tanto come regione in sé, ma nel suo spirito, nell’energia che si respira.

D. I motori, appannaggio degli uomini si dice. Ma Orange1 impiega molte donne. In che modo?
R. Orange1 Holding si è sempre distinta nell’ambito della parità di genere, garantendo alle donne le stesse opportunità degli uomini in termini di affermazione professionale. Ad oggi il gruppo internazionale specializzato nel settore metalmeccanico di Arsiè conta 408 donne su un totale di circa 1.200 dipendenti, ovvero il 34 per cento della forza lavoro e i 3/10 delle posizioni lavorative ritenute strategiche sono ricoperte da donne. La sensibilità verso le tematiche della parità di genere si concretizza nell’attuazione di strumenti come il «work-life balance», ossia un bilanciamento tra vita privata e lavorativa con orari di lavoro atti a soddisfare le esigenze dei dipendenti, l’orario flessibile, nato nel settore tessile proprio per la forte maggioranza femminile, e le pari opportunità in termini di carriera e apprendimento. Queste politiche gestionali ci hanno permesso di ottenere «quote rosa» in costante crescita in tutte le aziende e un clima aziendale favorevole alla creazione di un circolo virtuoso, in cui i dipendenti crescono insieme all’azienda.

D. In che modo avete affrontato la crisi italiana, europea ed internazionale?
R. In quanto legati al settore dell’automotive abbiamo anche noi avvertito la crisi, ma grazie alla capacità di rivedere il business aziendale e modificare le dinamiche dei costi siamo riusciti a trovare soluzioni vincenti per rimanere sul mercato con determinazione, subendo solo in minima parte le problematiche economiche e finanziarie e superandole in modo positivo.

D. Recruiting, lo state facendo anche ora. Il settore, dal punto di vista del lavoro, incontra la domanda?
R. Abbiamo difficoltà a reperire personale specializzato e flessibile negli spostamenti rispetto al luogo di dimora, per questo siamo molto attivi nelle collaborazioni con scuole ed enti di formazione. Inoltre, puntiamo principalmente sulla competenza, e abbiamo un’apertura internazionale: non importa che lingua parli la nostra risorsa, purché sia una risorsa.

D. Investite in ricerca e sviluppo?
R. La funzione R&S rappresenta un settore strategico per il mio gruppo. La progettazione e lo sviluppo di nuovi prodotti è un fattore cruciale per una realtà industriale in costante mutamento a causa delle continue innovazioni tecnologiche e della concorrenza. Sono l’assidua ricerca, la voglia di emergere e la sete di novità a muovere tutte le scelte e le strategie aziendali. Orange1 Holding sviluppa prodotti in grado di adattarsi ad eventuali modifiche e richieste. Prima del lancio di un nuovo prodotto sul mercato promuoviamo una lunga analisi di ricerca e sviluppo finalizzata a un compromesso tecnico ed economico che consenta di raggiungere un alto livello qualitativo. Flessibilità ed efficienza ci hanno inoltre consentito di orientarci sempre di più verso le richieste specifiche del cliente, realizzando versioni personalizzate per applicazioni speciali. Questo costante impegno nella «customizzazione» dei prodotti ha permesso lo sviluppo tecnologico e di processo.

D. Perché lei è definito la «Pantera»?
R. Questo nome mi è stato dato prima di tutto all’interno dai più stretti collaboratori, sembra infatti che questo animale abbia caratteristiche che mi rappresentano: la velocità di esecuzione dei lavori ma anche la velocità dei motori, la velocità di pensare e agire. La pantera è capace di grande accelerazione, il nostro gruppo ne esemplifica la corsa. E punta l’obiettivo senza esitazione. Poi la definizione è stata ripresa all’esterno, e la pantera è divenuta il nostro simbolo. (ROMINA CIUFFA)

Romina Ciuffa e Armando Donazzan (foto EROS MAGGI)

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SOLETERRE (DAMIANO RIZZI): PSICO-ONCOLOGIA, IL CANCRO NON DEVE ESSERE UNA «TERRA SOLA»

Il cancro è una malattia a base somatica, che colpisce il corpo. Ma non risparmia la mente: l’abbattimento psicologico che si verifica a causa delle difficili cure e dell’aspettativa di vita, spesso declinata in negativo, ha una componente molto forte sulle possibilità di guarigione, a partire dall’influenza sullo stile di vita cui il paziente oncologico aderisce. La famiglia è coinvolta integralmente nel processo psicologico. La Sipo, Società italiana di psico-oncologia, ne prende atto sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1985: sorta come associazione integrante le figure professionali (psicologi, oncologi, psichiatri e altri operatori sanitari) che lavorano nell’ambito dell’oncologia e dell’assistenza alle persone malate di cancro e alle loro famiglie, promuove la conoscenza, il progresso e la diffusione della psico-oncologia in campo clinico, formativo, sociale e di ricerca.

Iniziativa di rilievo l’indizione di una giornata nazionale di psico-oncologia, quest’anno (22 settembre) alla sua seconda edizione. Vi ha partecipato la Fondazione Soleterre-Strategie di pace onlus, organizzazione umanitaria che opera per garantire i diritti inviolabili degli individui nelle «terre sole», con progetti e attività a favore di soggetti vulnerabili in ambito sanitario, psico-sociale, educativo e del lavoro, per l’affermazione di una cultura di solidarietà. Oltre che in Italia (a Pavia), è attiva in Ucraina, Costa d’Avorio, Marocco, El Salvador, Congo e Uganda, dove adotta metodologie di partenariato e di co-sviluppo per promuovere la partecipazione dei beneficiari degli interventi nei Paesi di origine e in terra di migrazione, e garantire la loro efficacia e sostenibilità nel tempo.

È presieduta da Damiano Rizzi che, dopo aver collaborato con organizzazioni umanitarie internazionali, nel 2001 ha, con altre 5 persone, creato Soleterre. Ha così lavorato e coordinato progetti di sviluppo umano in Bosnia Erzegovina, Kosovo, Costa d’Avorio, Albania, Romania, Marocco, Moldavia, Ucraina e Italia. Per le iniziative a favore di bambini poveri e malati di cancro in Ucraina ha ottenuto la targa d’argento della Presidenza della Repubblica italiana.

Domanda. La seconda giornata nazionale della psico-oncologia: chi coinvolge?
Risposta. Coinvolge a livello nazionale, regionale e provinciale diversi professionisti e associazioni che garantiscono ai pazienti malati di tumore e ai loro familiari sostegno e supporto psicologico e sociale, con una visione che considera le dimensioni complesse della malattia oncologica.

D. Quali sono i suoi obiettivi?
R. L’intenzione è quella di offrire un’assistenza attenta a una migliore qualità di vita durante tutto il percorso di malattia. Una caratteristica fondamentale del modello dell’oncologia pediatrica, sviluppato in Italia all’interno dei centri Aieop, Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica, è proprio quella della gestione multidisciplinare della cura. In particolare, l’avere indetto una giornata su questo tema significa impegnarsi a diffondere e sostenere ruolo e funzioni nella psico-oncologia fra i cittadini, per diffondere un approccio integrato alla conoscenza e alla cura delle malattie neoplastiche.

D. In che modo Soleterre ha partecipato al progetto?
R. Soleterre è impegnata fin dalla sua nascita, nel 2002, in progetti e interventi in difesa del diritto alla salute intesa, come indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità fin dal 1948, come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattia o infermità». Dal 2010 ha attivato il Piop, Programma internazionale per l’oncologia pediatrica, per garantire accesso alle cure in Paesi a basso e medio reddito e cure di qualità in Italia. La Fondazione aderisce alle principali società scientifiche internazionali che si occupano di oncologia, quali la Uicc, Union for international cancer control, o la Cci, Childhood cancer international. In occasione della seconda giornata nazionale della psico-oncologia, Soleterre è intervenuta a Brescia al convegno «I bisogni psico-sociali del malato e del caregiver. Esperienze sul campo in Lombardia», presentando i dati di una ricerca realizzata sui principali bisogni dei bambini malati e dei loro genitori, condotta in Costa d’Avorio, India, Marocco e Ucraina comparandoli con i dati italiani. Abbiamo anche presentato la Carta dei servizi di psico-oncologia realizzata presso l’oncologia pediatrica dell’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico San Matteo di Pavia.

D. Quali sono i bisogni psicosociali del malato e del caregiver?
R. I dati sono stati raccolti nel corso del 2013 da una ricerca finalizzata alla creazione di un confronto internazionale di bisogni e necessità dichiarate da medici, psicologi e familiari di pazienti affetti da tumore infantile. In linea con gli studi in letteratura focalizzati sulla costruzione di rappresentazioni mentali di malattia (RM) e con la teoria dell’autoregolazione di Leventhal, il principale bisogno psicologico espresso attiene alla sfera delle conoscenze e delle aspettative circa la malattia. Dalla nostra indagine risulta che per definire il percorso di senso occorre avere maggiori informazioni utili alla possibilità di rielaborazione personale, oltre ad un atteggiamento empatico dei medici e del personale. Tale tipo di bisogno espresso, in termini più generali, atterrebbe alla sfera della psico-educazione nella sua componente cognitiva, e dell’educazione socio-affettiva nella sua componente emotiva, che se considerate correttamente possono migliorare la capacità di contenimento emotivo dei genitori e dei bambini migliorando anche la compliance terapeutica, ossia la componente comportamentale. Per quanto attiene alla sfera sociale, dalla ricerca emerge che i principali bisogni espressi riguardano le complesse condizioni del contesto socio-economico e della difficoltà di accesso ai sistemi sanitari e alle cure, «difficoltà finanziarie e costi troppo elevati» in Costa d’Avorio, «un luogo migliore in cui ricevere cure» in India, «costo degli esami e delle medicine troppo elevato» in Marocco e «cure troppo care e trasfusioni a pagamento» in Ucraina.

D. Come nasce e in cosa consiste, esattamente, la Carta dei servizi di psico-oncologia della Provincia di Pavia?
R. Nasce dal bisogno di pubblicizzare i tanti servizi attivi nel territorio pavese, dentro e fuori gli ospedali, allo scopo di far sapere all’utente che esistono e che sono a sua disposizione. Lo scopo è diffondere tali materiali in collaborazione con ospedali e università al fine di fare incontrare la domanda di servizi e la sua offerta.

D. Siete operativi, come Soleterre e Sipo, solo in Lombardia, o anche nel resto del territorio?
R. Soleterre è attiva in campo oncologico pediatrico in Italia a Pavia e nel mondo in Costa d’Avorio, Marocco, Ucraina e Uganda. La Sipo è attiva in tutta Italia e a livello internazionale attraverso l’Ipos, ossia International psycho-oncology society.

D. Quali sono le vostre iniziative specifiche? Che impatto hanno?
R. Le nostre iniziative specifiche di supporto psicologico riguardano 10 ospedali, 29 associazioni e 18 enti pubblici in 5 Paesi di 2 continenti. Aiutiamo 1395 nuclei familiari che oltre al sostegno psicologico ricevono anche aiuti in termini economici per accedere a diagnosi, medicinali, materiale sanitario ecc. attraverso un fondo d’emergenza creato per fornire aiuto economico diretto alle famiglie meno abbienti. Il sostegno psicologico riguarda anche 347 tra medici e medici specialistici, infermieri e altre figure socio-sanitarie per cui è a disposizione il servizio e che ricevono formazione continua sul tema dell’oncologia pediatrica. Inoltre, la Fondazione Soleterre in ogni casa-famiglia ha attivato un servizio di psico-oncologia. Le case-famiglia in Ucraina, Costa d’Avorio e Uganda hanno accolto 293 famiglie garantendo vitto e alloggio, supporto psicologico e attività ricreative.

D. Qual è l’attuale stato delle ricerca oncologica prima, e psico-oncologica poi, in Italia e nel mondo? E quale lo stato delle strutture ospedaliere e cliniche private nel nostro Paese, anche in confronto con la situazione globale?
R. In Italia e nel mondo occidentale la ricerca oncologica è sempre in evoluzione. Grazie all’immunoterapia, alle terapie target, a chemioterapia, chirurgia e radioterapia, i pazienti oncologici vivono più a lungo. In Italia il vero problema resta quello del finanziamento pubblico alla ricerca, che è presente in una logica «emergenziale». Per fortuna esistono tante organizzazioni private che la finanziano. Le condizioni degli ospedali sono molto eterogenee tra loro con una difficoltà evidente in alcune aree del sud del Paese. Nei Paesi a basso e medio reddito, oltre a non fare ricerca, spesso non si ha accesso nemmeno a quella del mondo occidentale. Le condizioni degli ospedali pubblici sono troppo spesso insufficienti nei servizi di base, dalla diagnostica ai protocolli di cura.

D. In che modo la psicologia può aiutare il paziente oncologico e le sue famiglie?
R. Le evidenze scientifiche indicano che gli interventi psico-oncologici comportano una significativa riduzione del dolore, dell’ansia e della depressione, un miglioramento della qualità di vita e un’azione positiva su diversi parametri biologici indicatori di stress, quali il cortisolo. Il supporto psico-oncologico è considerato «l’altra metà della cura» e influisce positivamente sui risultati delle terapie.

D. Siete attivi anche nella psico-oncologia pediatrica: come?
R. Lo siamo quasi esclusivamente in ambito di oncologia pediatrica attraverso attività di educazione alla salute, diagnosi precoce, accoglienza, cure mediche, sostegno psico-socio-educativo, networking, sensibilizzazione e advocacy.

D. Il cancro è una «terra sola»?
R. Il cancro è una malattia che va curata e per fortuna i bambini, se ben curati, possono avere alti tassi di sopravvivenza. Purtroppo in molte aree della terra i bambini malati di tumore non vengono curati, e allora il cancro diviene una «terra sola».

D. Fondazione Soleterre: come nasce, cos’è, di cosa si occupa, com’è strutturata, come si regge, in che modo è supportata: una descrizione generale della Fondazione.
R. Soleterre è una fondazione partecipata nata circa 15 anni fa con l’intenzione di affermare per tutti gli individui il diritto ad essere curati. Lo abbiamo sempre fatto con tutte le nostre forze grazie all’aiuto di tanti donatori italiani e non solo. Soleterre è anche una concreta possibilità di cambiare davvero con tenacia e pazienza le cose che non vanno, poco a poco ma con tanta speranza e fiducia. Siamo circa 100 professionisti con competenze in diversi ambiti – medicina, psicologia, gestione e sviluppo dei progetti umanitari, comunicazione, raccolta fondi – che credono nel dovere di applicare veramente i diritti umani scritti nelle diverse costituzioni e leggi.

D. Lei di cosa si occupa?
R. Mi occupo, come psicologo, della supervisione nell’ambito del supporto psicologico e sociale del Programma internazionale per l’oncologia pediatrica. Ho personalmente contribuito ad avviare i progetti nelle aree di intervento e, come presidente della Fondazione Soleterre, curo i rapporti istituzionali e una parte della raccolta fondi. Cerco ogni giorno di dare speranza e futuro per poterne regalare una parte consistente alle altre persone. Sono sposato e ho due figli a cui vorrei dire un giorno di avere fatto al meglio la mia parte per migliorare le cose che non vanno. (ROMINA CIUFFA)

 

 




RICCARDO VITANZA (PAROLE & DINTORNI): COMUNICARE NON SOLO MUSICA, NON SOLO PAROLE, MA ANCHE I LORO DINTORNI

Dintorni. Ossia tutto ciò che c’è intorno alle parole, e non solo. Questo è Riccardo Vitanza, numero uno della comunicazione musicale in Italia che rappresenta, quale ufficio stampa, artisti del calibro di Francesco De Gregori, Zucchero, Claudio Baglioni, Francesco Guccini, Luciano Ligabue, Elisa, Renato Zero, Charles Aznavour, Vinicio Capossela, Umberto Tozzi, Piero Pelù, e infiniti altri simboli musicali, come anche artisti emergenti. Lui li individua, li scopre, li sceglie, li produce attraverso la sua società, Bollettino Edizioni Musicali, e ne fa, attraverso Parole & Dintorni, oggetto dell’interesse della stampa italiana.

Con lui un team di giovani, sul suo imprinting formati ed educati alla cultura giornalistica e alla deontologia dal 1990 ad oggi, così immessi nel mercato anche a partire dalle sue lezioni all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove è docente nel corso di «Ufficio stampa e comunicazione» del master in Comunicazione musicale. Con Parole & Dintorni è anche consulente per la comunicazione di associazioni, società, locali, manifestazioni, progetti, nonché di attori e personaggi dello spettacolo.

Vitanza nasce a Massaua, in Eritrea, l’8 ottobre 1965, con la passione per il mondo dei giornali, che si manifesta sin dalla tenera età. Di umile famiglia, trasferitosi in Italia, dopo aver interrotto gli studi di Giurisprudenza con cinque esami sul libretto nel 1987 comincia a lavorare nel campo della comunicazione come copywriter, e nel 1988 entra nel mondo dello spettacolo come autore di testi, curatore di un periodico e addetto stampa per conto del primo locale afro-latino in Italia, lo Zimba. Nel 1990 inizia l’attività di freelance e si specializza come ufficio stampa nell’ambito musicale, costituendo la ditta individuale Parole & Dintorni. I suoi primi clienti sono Jovanotti, Pino Daniele e Giorgia. Nel 1997, Parole & Dintorni diventa una srl.

Per conoscere il mercato musicale in Italia, bisogna parlare con Vitanza.

Domanda. Riccardo Vitanza e dintorni: qual’è la sua storia?
Risposta. Nel 1987 ho iniziato, a Milano, come copywriter in un’agenzia di pubblicità, quindi ho lavorato per un locale di musica afro-latina e, dopo aver digerito tutti i libri di pubblicità e di giornalismo, mi sono occupato di ufficio stampa esordendo con il tour di Ziggy Marley, su proposta del proprietario del locale con cui collaboravo. È nel 1989 che nasce «Riccardo Vitanza» come ditta individuale, per divenire successivamente «Parole e Dintorni di Riccardo Vitanza». Ero solo e lavoravo in una casa-ufficio di 20 metri quadrati fino al 1994, quando presi il primo collaboratore. Nel 2000 mi trasferii nell’attuale sede di Via Stradivari, con circa 15 persone tra esterni ed interni. Con Trident, che organizzava la gran parte dei tour italiani, cominciai subito ad occuparmi in maniera concreta di artisti importanti, in un rapporto mediato dal capo della società con cui dialogavo. Lavoravo molto con gli stranieri, per conto di varie società, come per l’ultima tournée italiana dei Ramones nonché per i primi rapper d’oltreoceano: Public Enemy, Beastie Boys, Ice Cube, Ice-T, tanto rock e britpop prima ancora che arrivassero Oasis e Blur. Ho lavorato anche con questi ultimi, in particolare il leader Damon Albarn, all’inizio della loro carriera: facemmo 98 paganti in un locale a San Colombano al Lambro, vicino a Lodi. Ho curato l’ufficio stampa del primo concerto dei Cranberries, con 400 persone, e il primo concerto in Italia di Jamiroquai. Ho dunque seguito la comunicazione per i primi esponenti dell’easy jazz. Intorno al 1997 Pino Daniele, Jovanotti e Giorgia mi chiesero di occuparmi di loro come ufficio stampa personale. Nel 2005 mi sono ricongiunto con Ferdinando Salzano, che aveva lasciato Trident per guidare F&P Group e che ora gestisce l’80 per cento della musica italiana per la produzione e l’organizzazione di concerti, e dal 2005 sono il suo comunicatore di fiducia.

D. Come sceglie i componenti del suo team di Parole & Dintorni?
R. Quando appenderò il comunicato al chiodo, ricorderò di aver formato e valorizzato tante persone: è questo il principio da cui parto. Nell’ambiente discografico ne ho cresciute moltissime: di alcune ho trovato un curriculum in cassetta postale, altre le ho conosciute in situazioni differenti, spesso sono miei allievi provenienti dai corsi che tengo all’Università Cattolica di Milano. C’è chi rimane, c’è chi va via. Sono un sostenitore della «quota rosa» in quanto considero la donna lavoratrice superiore all’uomo: attualmente, un ragazzo e 12 donne lavorano per me. Alcuni di loro volano via dopo la formazione, assumo tutti e, rispetto al modus operandi dilagante, dopo che mi è stato dimostrato il valore, dallo stage ai piccoli contributi passo all’assunzione a tempo indeterminato. Mio padre, umile benzinaio, mi ha sempre detto: dai valore al lavoro. Ho un team favoloso che lavora oltre gli orari d’ufficio, e se loro mi danno io do anche di più. Molti datori pagano in nero, a partita Iva, con rimborso: io preferisco assumere. Sebbene ciò mi dia più oneri, ho la sensazione che la persona lavori solo per me e la considero un socio di fatto. La precarietà è un aspetto che non condivido, è deleteria. Più si rende precario il lavoro per un giovane, più lo si destabilizza, in quanto perde fiducia in se stesso e nelle istituzioni, nel Paese e nella vita.

D. Lei ha i più grandi musicisti affiliati al suo ufficio stampa: come avviene la procedura di scelta?
R. Non scelgo, sono sempre scelto. Sono molto bravo a fare il PR per gli altri, ma non lo sono per me stesso anche perché, essendo un capo operativo in ufficio, controllo i miei delegati e sono a stretto contatto con tutti, così è difficile trovare il tempo per fare promozione al mio business. Sono più sulla riva del fiume e attendo che il cliente passi. C’è posto per tutti gli artisti, importanti ed emergenti, è chiaro che l’aspetto economico è modulato.

D. Non solo Parole & Dintorni: lei ha anche la Bollettino Edizioni Musicali. Di cosa si occupa?
R. Di produzioni ed edizioni musicali. Con essa ho lanciato Giovanni Allevi e due cantautori che si sono rivelati anche due grandi autori, Pacifico e Niccolò Agliardi. Due esempi su tutti: «Sei nell’anima» di Gianna Nannini, che ha scritto Pacifico, e l’ultimo album di Laura Pausini, che in parte ha scritto Agliardi. Lavorando su di loro anche come ufficio stampa, li ho aiutati a farsi conoscere, sono stato il volano della loro carriera. Ora sto lanciando Ylenia Lucisano, cantautrice pop folk, al cui nuovo album, in uscita in primavera, sta lavorando il produttore Taketo Gohara. Altri artisti che seguo sono la cantautrice Roberta Giallo; Giulia Mazzoni, pianista molto brava con base a Firenze che ho ceduto alla Sony pur rimanendone editore e comunicatore; due chitarristi classici, solo strumentisti, Roberto Fabbri di Roma e Renato Caruso di Milano. Sto seguendo anche un rapper, Peligro, che adesso sta lavorando al suo nuovo album prodotto da Marco Zangirolami, in uscita il prossimo anno. Ho coperto tutti i vari ambiti con i miei emergenti. Sono io poi che per loro tengo i rapporti e cerco di trovare il partner discografico adatto per la distribuzione. La cosa migliore a quel punto è non pretendere soldi dalla casa discografica ma darle la possibilità di investirli sull’artista. Io mantengo le edizioni e le royalties, ma dopo di me entra in campo una struttura che lavora molto anche sul marketing, attraverso iniezioni di denaro. Cerco sempre di mantenere un low profile, anche personalmente.

D. Su quale base sceglie gli emergenti da seguire?
R. Gli emergenti bussano alla porta, vado loro incontro, vedo se c’è una fattibilità. Li scelgo per la qualità. Il comunicatore è comunque un valore aggiunto, la conditio sine qua non è il prodotto: se è buono, è esaltato e messo in evidenza. A volte prendo anche prodotti non eccelsi ma interessanti dal punto di vista del progetto o del personaggio che lo propone. È anche il carattere dell’artista a fare la sua parte: non deve essere necessariamente il disco a funzionare, conta anche il personaggio. Progetti di questo tipo non ne seguo molti, ovviamente il criterio di scelta è quello della qualità. Ma l’attenzione deve essere rivolta a chiunque, altrimenti non esisterebbero un’etica e una deontologia.

D. L’ufficio stampa è un’obbligazione di mezzi, non di risultato, ma ciò spesso non è chiaro. Non si può garantire la prima pagina del quotidiano ma molti la pretendono: come reagisce?
R. Rispondo: noi operiamo nell’ambi- to dell’informazione, non nella pubblicità. Per quest’ultima, che spesso coincide con la pretesa degli artisti, possono acquistarsi spazi pubblicitari. C’è un rapporto fra ufficio stampa e giornalista fatto di complicità, malizia, alleanze, ma sempre nell’ambito di un’etica e deontologia professionale. L’ufficio stampa fa il proprio lavoro e lo fa bene, tanto che sottolineo sempre ai miei collaboratori di non impiegare superlativi assoluti, perché non siamo noi a dover dire che il disco è bellissimo: noi avvisiamo che il disco esce. L’informazione deve essere presente nel comunicato stampa, e questo è ciò che è richiesto a noi. Non possiamo etichettare il nostro artista, è un errore gravissimo.

D. I tempi sono cambiati. Ora artisti che hanno milioni di visualizzazioni su YouTube sono spesso stonati, mentre la musica di qualità è quasi bistrattata. Dove stiamo andando?
R. Sono cambiati gli scenari. Innazitutto negli strumenti mediatici, dal fax ad internet, fino alle foto, che prima erano diapositive. Prima si collezionavano vinili, ora si è passati allo streaming e al downloading. Nel mondo digitale lo streaming sta mandando in pensione il downloading, che a sua volta ha mandato in pensione il cd. In questo regime di «pensioni anticipate», per i corsi e ricorsi vichiani sta tornando in auge il vinile, che sta ridando vitalità all’industria che da Napster e pirateria ha ricevuto solo grandi danni. Il problema è che con lo streaming, attraverso Spotify ed altri aggregatori, non ci si accorge più che dietro tutto questo c’è un processo duro ed articolato, c’è un’industria che lavora. L’acquirente non lo capisce e non lo riconosce, così pretende musica gratis. Il successo di un artista ormai viene certificato sulla base dei like, delle visualizzazioni, dei followers. Parliamo di «plastica»: quello che conta in realtà è l’acquisto del disco o del biglietto di un concerto, non il like. Gli utenti scorrono e cliccano «mi piace» senza dare peso e importanza, su internet vale tutto e si vuole perpetuare ad ogni costo il quarto d’ora di celebrità. È così che si sono creati anche gli haters, coloro che seminano odio in quanto hanno la possibilità, attraverso i post sui vari social, di interagire con i loro artisti che, sebbene «amici», poiché collegati su un determinato network, non possono rispondere personalmente a tutti quei messaggi, avere un rapporto vero con i fan. Anche la mania del selfie è imbarazzante. Nel villaggio globale, quello che aveva ipotizzato Marshall McLuhan, il veleno è iniettato semplicemente con un tweet, gli insulti arrivano con semplicità. Un tempo c’erano i fan club, che facevano da tramite per inviare la lettera al proprio idolo; oggi tutti, dietro ad un computer, sono in grado di parlare e scrivono direttamente a chi vogliono senza mediazione. Ma ognuno è coevo del proprio tempo, è più facile che un giovane non conosca Bob Dylan non avendo la cultura adeguata, storica o musicale, quindi le storture diventano evidenti. È l’esercito dei selfie, come raccontato dalla famosa canzone di Takagi & Ketra di cui abbiamo curato proprio noi l’ufficio stampa. Il fisico ha lasciato il posto al digitale, e ora c’è lo streaming: il lettore cd in effetti non c’è più nemmeno nelle macchine e nei computer. Ma prediligo la cultura del possesso alla cultura dell’accesso. Siamo figli dei mutamenti tecnologici, dove ci portano non lo sappiamo.

D. Il parallelo è con la psicoterapia: se non la paghi, non funziona. Così la musica. Come tornare ad una musica di qualità e ad un’industria musicale che giri nuovamente?
R. Ascoltare un brano è un’educazione, e la parte educativa deve arrivare dalle istituzioni. L’ascolto «virtuale» non è un ascolto consapevole. Il suono è compresso, perciò diverso, e questo deve essere oggetto di una formazione musicale che dobbiamo fornire, combattendo il disinteresse verso la ricerca di una sonorità pulita. Vivendo con e nella cultura del consumo e dell’usa e getta, ai giovani d’oggi non interessa più la qualità musicale. Noi amavamo la puntina sul vinile, ma nell’attuale cultura dell’accesso, dove ciò che conta è il presente, non c’è pianificazione, e così non c’è ottica di conservazione. Tolte alcune eccezioni, nessuno programma più il futuro: perché comprare un cd?

D. La Siae è molto criticata, e sorgono nuovi mercati «free», della musica libera. Anche i musicisti odiano la Siae. Ha ancora ragione d’essere un ente come questo, in un mondo «mordi e fuggi»? Qual’è la sua opinione?
R. La Siae ha sempre ragione d’essere perché tutela e protegge il diritto d’autore, e questo è fondamentale. Chi ascolta la musica tanto maldestramente deve sapere che essa ha un lavoro dietro, che una canzone non cade dal cielo e la filiera ha dei costi. La musica va pagata perché non si crea gratis. C’è una proprietà intellettuale da preservare, c’è una creatività da tutelare, ci sono dei costi da sostenere in un lungo processo. Una volta che è stato inventato il masterizzatore, la gente ha cominciato a copiare dischi e rivenderli; così in seguito con lo streaming e tutto il resto. Questo è frutto della cultura musicale di oggi, ma la musica deve essere, comunque, pagata.

D. In questo «villaggio globale», come fidarsi dei nuovi artisti che, in realtà, sono per la gran parte esponenti di una musica scadente, anche grazie alle dinamiche dei realities? Perché acquistare un album «fisico» se la qualità non è più garantita?
R. Di questo la colpa è proprio delle case discografiche, che hanno aumentato indiscriminatamente il prezzo dei cd, uniformando tutti, sbagliando. Imperver- savano e imperavano in un momento, disinteressandosi del mercato e di altri rivoli di guadagno, per loro era importante solo vendere il disco a prescindere da come esso fosse e da chi fosse l’artista, purché produttivo in termini di guadagni. In realtà sugli artisti giovani incentivare l’acquisto con prezzi più popolari sarebbe stato ideale, mentre paradossalmente oggi sono i grandi artisti storici ad essere economicamente svalutati, in quanto i loro album sono ormai di catalogo. Ora che le case discografiche da «record company» si sono trasformate in «entertainment company», la sola vendita del disco non produce più il fatturato di una volta, ed esse cercano di guadagnare anche su altri comparti dell’artista: live, sponsorizzazioni, merchandising e simili. Ancora: ci vuole cultura.  (ROMINA CIUFFA)




MA COS’ELO STO TALIAN? I VENETI, E NON SOLO, HANNO ESPORTATO UNA LINGUA UFFICIALE: IL TALIAN

«El talian ze la seconda lengoa più parlada del Brasil. Ricognossesto par el governo brasilian come na lengoa de imigirassion, referensa cultural del Brasil». Talian non è un italiano senza la i ma è una lingua a sé stante, che probabilmente nessuno ha mai sentito nominare. Ma parlare, sì. In Veneto. Non solo: essa è impiegata come lingua madre da circa 500 mila persone in 133 città, complessivamente da 4 milioni di persone nel mondo. E ne siamo noi gli autori, o meglio (a Cesare quel che è di Cesare), i veneti. Noi, che ci lamentiamo (o vantiamo) che l’italiano si parli solo in Italia, non sappiamo che abbiamo una lingua tutta nostra che, andatasi ad integrare ed arricchire con il portoghese delle terre d’emigrazione, ha acquisito la propria autonomia. Paradossalmente: a) di questa lingua i parlanti si vergognano; b) essi credono che si tratti di italiano puro e semplice; c) molti di loro non sono mai entrati a contatto con un italiano «vero».

Dal 2009 il talian è persino patrimonio linguistico negli Stati brasiliani del Rio Grande do Sul e di Santa Catarina e lingua co-ufficiale, con il portoghese, nel comune di Serafina Corrêa, la cui popolazione è al 90 per cento di origine italiana; nel 2014 è stato dichiarato parte del patrimonio culturale del Brasile ed è impiegato come lingua madre in 133 città. Una lingua viva, usata quotidianamente sul lavoro, all’università, nelle canzoni e nelle poesie, in teatro, alla radio o in tv: nella piccola città di Sananduva si può, ad esempio, ascoltare nei programmi settimanali «Radio Sananduva» e «Taliani bonna gente», oltre 20 anni di programmazione ininterrotta.

Durante la seconda guerra mondiale il talian fu proibito dal dittatore Getúlio Vargas: entrando in guerra a fianco degli alleati fu proibito insieme al tedesco; la sfida degli emigranti, molti dei quali carcerati, era incentrata sull’impossibilità di parlare un’altra lingua che non fosse il talian; fortunatamente, la lingua dei veneti del Brasile non solo si è mantenuta dopo allora, ma fortificata.

Darcy Loss Luzzatto è autore di un vocabolario «brasiliano-talian» di oltre 800 pagine: «I nostri vecii, co i ze rivadi, oriundi de i pi difarenti posti del Nord d’Italia, i se ga portadi adrio no solche la fameia e i pochi trapei che i gaveva de suo, ma anca la soa parlada, le soe abitudini, la soa fede, la so maniera de essar. Qua, metesti tuti insieme, par farse capir un co l’altro, par forsa ghe ga tocà mescolar su i soi dialeti d’origine e, cossita, pianpian ghe ze nassesto sta nova lengua, pi veneta che altro, parchè i veneti i zera la magioranza, el talian o Veneto brasilian». Di lui è riportata una pagina su Wikipedia, ma in dialetto veneto, che lo descrive come «uno dei esponenti pi conossui de leteratura taliana o vèneto-brasiliana». Perché, per chi non lo sapesse, esiste un «Wikipedia in lengua vèneta» con 10.975 voci (10.975 voxe).

Il talian, parlato dai discendenti di quei veneti che partirono nel 1875 in seguito alle disastrose condizioni nelle quali la loro regione si era venuta a trovare per l’annessione all’Italia, si illumina anche di illustri: da Anna Pauletti Rech cui la città di Caxias do Sul ha nominato un intero quartiere, a Raul Randon, classe 1929 (nipote dell’emigrante Cristoforo), titolare di un gruppo industriale con 9 mila addetti a Caxias do Sul e di un’impresa agricola con ettari di vigneti e meli, che di recente ha ottenuto dall’università di Padova la laurea in ingegneria gestionale ad honorem. E molti altri.

Ma cos’elo sto talian? Lo chiediamo a un’esperta, la padovana Giorgia Miazzo; interessata alla cultura dell’America Latina, vi ha vissuto molto tempo. Origini, passione e sensibilità, unite alla padronanza di alcune lingue, l’hanno portata a confrontarsi con le comunità italiane all’estero e a plasmare un enorme bagaglio culturale, umano e professionale raccolto nelle sue ricerche antropologiche e linguistiche. Ha così realizzato un progetto, anche editoriale e didattico, inerente alla ricostruzione della memoria storica e linguistico-culturale dell’emigrazione veneta nelle Americhe, in cui espone il fenomeno del talian.

Domanda. Come mai si è avvicinata, quasi immedesimata, al talian?
Risposta. Sono un’interprete e traduttrice, ho trascorso anni all’estero, anche in Brasile, e lì, da linguista, mi sono appassionata alla realtà dell’emigrazione. Così ho avviato il progetto «Cantando in talian» che cerco di portare avanti parallelamente in Italia e in Brasile, perché da entrambe le parti c’è una grandissima ignoranza, intesa come carenza di conoscenza di questo fenomeno, sia dal punto di vista sociologico-storico che dal punto di vista linguistico.

D. Cos’è il talian?
R. Un miscuglio fra i dialetti del Nord Italia – li chiamo dialetti solo perché non sono stati riconosciuti in Italia, ma sono lingue a tutti gli effetti – con un peso sicuramente molto più forte in Veneto, terra di grandissima emigrazione. Il portoghese risulta nelle parole mancanti, e l’attaccamento alla propria terra fa sì che questa lingua si «lusitanizzi». Il talian è un fenomeno meraviglioso e unico in quanto costituisce un’isola linguistica importante soprattutto per il numero di persone che ancora la usano, che sono milioni non solo in Brasile. Nel mondo intero riflette alti numeri: in Messico la comunità di Chipilo ha accolto 5 mila persone dal Trevigiano, che ancora parlano il veneto; altre significative realtà sono in Venezuela e in Sudafrica, sebbene il numero brasiliano non abbia eguali. Questa lingua diventa anche prestito: all’interno delle comunità venete in Brasile, ad esempio, invece di dire «zoccolo» si impiega il termine «tamanco», in origine lo zoccolo portoghese.

D. In cosa è consistita l’emigrazione veneta in Brasile?
R. Gli emigrati veneti arrivarono in Brasile quando – fattore importantissimo – a soli 10 chilometri di distanza si parlavano due veneti diversi e ci si guardava male tra Marostica e Bassano del Grappa. È allora che questa lingua giunge in Brasile e in qualche modo si mescola: il talian è a tutti gli effetti un miscuglio di veneto soprattutto con base vicentina-bellunese-trevigiana e con parole portoghesi. L’uso dello stesso e la convivenza fra quelle genti fa sì che l’italiano diventi più portoghese-brasiliano. Con questa caratteristica: se in Veneto manteniamo ancora i confini tra un dialetto e l’altro, tra una provincia e l’altra, in Brasile la lingua si è integrata e, oltre al veneto, ha preso anche qualche calco del lombardo, del piemontese, del friulano, del trentino. E si possono ascoltare comunità che usano la lingua portoghese ma che usano espressioni tipiche venete. Sicuramente è una lingua differente perché ha preso un’altra strada, e se vogliamo possiamo passarla come una nuova lingua neolatina perché in realtà non coincide con i nostri dialetti veneti; ma sicuramente garantisce una grande comunicazione con noi, perché è una lingua che capiamo.

D. Brasile dove?
R. Parliamo del Rio Grande do Sul, che è una realtà più mescolata tra vicentini-trevigiani-bellunesi, a differenza di altre comunità in Brasile. A me piace sempre ricordare quella della città di Colombo, nello Stato del Paraná, vicino a Curitiba: gli emigrati sono partiti tutti dalla Val Brenta ed hanno formato un talian che è praticamente identico alla lingua che ancora parliamo in Italia, con alcune parole che per noi sono ormai in disuso; per esempio per dire «suocero» o «suocera» dicono «il mi missiè e la mi madonna», parole che usavano i miei nonni. Questa è un’altra realtà stupenda, quella di una lingua più arcaica, di 100 anni fa, che non si è mescolata con il portoghese né con altre realtà del Veneto o del Nord Italia. In sintesi: ci sono tanti talian come ci sono tanti dialetti veneti. Quando opero in queste comunità avverto la loro vergogna di parlare talian: non conoscono la differenza tra veneto, talian e italiano, pensano che il loro talian si parli in Italia e lo parlano senza sapere nulla della propria lingua, perché quando emigrarono erano quasi tutti analfabeti.

D. Come reagirono il Governo italiano e quello brasiliano a quell’ondata migratoria?
R. Mentre il Governo italiano aveva tutto l’interesse a mandare via gente, perché eravamo in troppi, il Governo brasiliano e le compagnie di navigazione si facevano forza della grande ignoranza di coloro che arrivavano; all’epoca il Brasile intendeva fortemente popolare la terra meridionale. che rischiava di essere dominata o presa da altri Stati, e dare in mano ai bianchi il potere evitando che passasse ai neri, sebbene la schiavitù fosse stata abolita. Si aggiunge a ciò il fatto che il governatore Don Pedro II aveva compiuto dei viaggi in Veneto e nel Trentino, rimanendo ammaliato dalla bellezza e dal nostro modo di lavorare la terra, e conosceva i veneti come gente calma, morigerata, grandi lavoratori, ma soprattutto ignoranti, devotissimi alla famiglia e alla religione, in breve gente che avrebbe obbedito. Questa migrazione del 1875 la si può definire eroica perché è stata la più antica e la più difficile; dal 1900 parte poi l’Italia meridionale, circa 3 milioni di persone. Il Nord continua a partire, ma in una emigrazione diversa: quelli del Sud, infatti, vanno verso San Paolo. Nei recenti Mondiali di calcio tenutisi in Brasile si è fatto cenno all’emigrazione siriana, libanese e africana, mentre dell’europea, di quella tedesca, della nostra non si è parlato: una vergogna, anche perché i tedeschi partirono 50 anni prima di noi. Il 1875 fu una data importante perché partì la prima nave, «Sofia», con 380 famiglie, alla volta del Brasile, per sopravvivere e trovare fortuna.

 

D. Perché si chiama «talian» e come è percepito?
R. Perché qualcuno in Brasile, intorno a un tavolino, ha deciso che si dovesse chiamare così. Per essere più corretti, si sarebbe dovuto chiamare «italo-veneto-brasiliano». Inoltre non bisogna dimenticare le piccole comunità, che hanno bisogno di più ascolto, quali quelle insediate a Rio de Janeiro o a Minas Gerais; all’interno di quest’ultimo sono tre quelle di origine veneta, che nel 2007 siamo andati a trovare. Era questa la prima volta che loro vedevano un italiano. Le piccole comunità sono le meno contaminate dalla politica, la quale fa grandi danni sulla cultura. Lo stesso errore lo compiono le scuole di italiano quando in Brasile dicono che il talian non esiste più, che è la lingua degli ignoranti: chi parla veneto è visto in termini non buoni, perché sono i veneti i primi a nutrire una grande vergogna per la propria lingua, si sono sempre visti così, hanno sempre lavorato nei campi, sentendosi inferiori. Il popolo veneto non ha una grande autostima, eppure ha fatto grandi cose, e con umiltà. Con il mio progetto contrasto la tendenza a spostare coloro che parlano talian sull’italiano, facendo piuttosto conoscere la lingua dell’emigrazione che ha attraversato l’Oceano, una lingua sacra perché ce l’ha fatta dando la forza al popolo che la parlava tramite le messe, i canti, i ritornelli, i proverbi. Questa gente ce l’ha fatta con la cultura, con il folclore, con la lingua rimasta viva, che ricorda la propria famiglia e la propria terra. Tutto ciò non è stato fatto in italiano, ma in talian; il nostro lavoro cerca di dare dignità al dolore di coloro che hanno sofferto in modo estremo, senza che mai nessuno dicesse «grazie».

D. Il tema della migrazione è particolarmente acceso. Ma la nostra?
R. È delicato: se parlo nel mio lavoro di emigrazione la gente borbotta. L’anno scorso sono morte 6 mila persone nel Mediterraneo, emigrazione vuol dire vergogna, umiliazione, orfani. Ricordare la nostra emigrazione rende attiva la nostra memoria storica: ci definiamo un Paese antico ma non ricordiamo cos’è successo 100 anni fa. Anche nelle scuole andrebbero cambiati i programmi, si parla di Medioevo per tre anni e non si tocca la storia recente.

D. In che modo ha sviluppato il suo progetto e quali sono gli enti culturali e accademici che lo hanno sostenuto?
R. Ho aperto due sezioni dello stesso progetto, «Cantando in talian» e «Scoprendo il talian», e ne ho fatto due libri, in seguito tradotti in portoghese. «Scoprendo il talian. Viaggio di sola andata per la Merica» racconta la parte storica del Veneto non solo attraverso i miei racconti ma anche attraverso le lettere degli emigrati e un’analisi dei numeri e delle partenze, sulla base di una ricerca che ho compiuto in 12 anni tra il Rio Grande do Sul, il Paranà, Santa Caterina, Minas Gerais, e attraverso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, la UFSC di Santa Catarina, l’UFPR del Paraná e l’UFRJ di Rio de Janeiro. È stato un lavoro di valorizzazione del patrimonio culturale e immateriale linguistico dell’emigrazione veneta in Brasile attraverso la musica e la glottodidattica ludica. Nell’altro libro, «Cantando in talian», per il tramite di 10 canti degli emigranti sono sviluppate delle attività didattiche funzionali all’uso della grammatica, della morfologia e del lessico con proverbi, espressioni tipiche, focus culturali che parlano di città, culinaria, architettura, e tutto questo è un ponte tra Italia e Brasile. In queste comunità ogni anno tengo corsi settimanali di 20 ore per bambini, adulti e anziani, cantiamo e parliamo di lingua e cultura.

 

D. Esistono dizionari di talian?
R. Il primo dizionario è stato scritto da un polacco, che viveva così a stretto contatto con le comunità venete cha l’ha imparato. Ci sono lavori anche più recenti, libri di teatro o libri che parlano delle storie di emigrazione. Forse il mio ha qualcosa in più, nel senso che è stato visto dal di fuori, non dall’interno di una comunità, e perciò non riferisce di un solo talian poiché con le canzoni ho accorpato le varianti: non c’è un solo talian.

D. E quanti?
R. In un altro libro, uscito nel 2016, «Le grandi migrazioni», parlo anche della Lombardia, del Friuli, del Trentino Alto Adige, del Piemonte. Ne ho scritto un altro, per ora solo e-book ma che uscirà in formato cartaceo: «I miei occhi hanno visto. Storia di sguardi e di emozioni di viaggiatori migranti» è una raccolta di articoli e foto che ho fatto durante i miei viaggi, non solo in Brasile ma anche in Perù, Africa, Canada, dove ho incontrato comunità italiane, e affronto il tema degli stereotipi che noi italiani applichiamo.

D. Tutto questo come è pagato?
R. Da me. Nella vita insegno lingue, sono traduttrice, interprete, giornalista. Mantengo me e il progetto vendendo i miei libri, organizzando serate, ho vinto dei premi, alcuni in denaro. Non so se continuerò, la mia goccia nell’oceano l’ho messa, lavoro nei fine settimana, ma il tutto viene ripagato perché è una grandezza ricchissima quella di vedere gli occhi lucidi di questa gente.

D. Chi parla talian è di origine umile: esistono eccellenze talian?
R. Ci sono eccellenze e persone che ce l’hanno fatta. Nel 2011 ho conosciuto Maria Della Costa, scomparsa nel 2016, una delle più grandi artiste che abbiamo avuto in Brasile a livello teatrale tanto da nominarle un teatro a San Paolo. Mi ha regalato un libro sulla sua carriera artistica. Nella letteratura c’è Dalton Trevisan, autore del libro «O vampiro de Curitiba»; poi c’è Adoniran Barbosa, il cui vero nome è Giovanni Rubinato, di origine padovana, il maggiore esponente di samba a San Paolo; Anna Rech, originaria di Seren del Grappa, in provincia di Belluno, che partì nel 1876 vedova con sette figli, e dovette affrontare l’ostilità delle autorità all’imbarco al porto di Genova dovuta alla presenza di figli disabili. Lei disse: «O mi lasciate partire o mi butto in mare», e partì, quindi costruì una piccola locanda a Caxias do Sul che divenne un punto di arrivo per i viandanti. Oggi un intero quartiere lì porta il suo nome. Il trevisano (Mansuè) Geremia Lunardelli divenne il maggior produttore di caffè al mondo tanto da ricevere l’appellativo di «rei do café». Un altro esempio quello dei fratelli Randon, partiti da Cornedo, nel Vicentino, nel 1888 e che giunsero nel Rio Grande do Sul costruendovi un’industria meccanica di autobus.

D. Il talian è tutelato?
R. Il talian è una delle 30 lingue dell’emigrazione in Brasile e la lingua più parlata di tutte le 30. Ma ci sono note dolenti: da una parte mi fa piacere che in Brasile siano state promulgate delle belle leggi a favore di questa lingua, perché diventi patrimonio storico immateriale, e gli studiosi ne portano avanti il progetto di valorizzazione. Ma sono contraria alle modalità in cui ciò viene effettuato: vedo che si formano «gruppetti», e quando diventano gruppetti non è più un «patrimonio». Ciò che faciliterebbe il salvataggio di questa lingua è l’unione, non la divisione.   (ROMINA CIUFFA)




TRAUMA SENTIMENTALE: GIORGIO NARDONE LO SPIEGA BREVEMENTE E STRATEGICAMENTE

Trauma sentimentale: oggetto dei nostri giorni, del nostro divenire. Sempre più incerto, traghettato da uno spazio temporale in cui l’uomo era al centro della relazione ad uno in cui è la relazione ad essere al centro dell’uomo. Anche oggetto di un workshop tenuto dal fondatore del CTS, Centro di terapia strategica di Arezzo, Giorgio Nardone che, legatosi come psicologo e ricercatore alla Scuola americana di Palo Alto, è divenuto l’erede di un grande Paul Watzlawick, filosofo e psicologo, unico autore tradotto in ottanta edizioni differenti, avente la capacità di sintetizzare il lavoro di eminenti studiosi – da Gregory Bateson a Donald deAvila Jackson e Milton Erickson – in un unico e rigoroso modello teorico e applicativo. Finanche il padre del costruttivismo Heinz Von Förster amava dichiarare di essere lui stesso una invenzione di Watzlawick. È con quest’ultimo che nel 1987 Nardone fonda il suo centro aretino, dove applica il modello della terapia breve-strategica, particolarmente adatto alla risoluzione dei traumi, incluso quello sentimentale, per il suo approccio netto e veloce.

Nell’ambito del IV Congresso di psicologia della Società italiana di psicologia e psicoterapia relazionale (SIPPR) presieduta dal professor Camillo Loriedo, dal titolo «Psicologia in evoluzione. Progetti e soluzioni della psicoterapia per il futuro», tenutosi a Roma negli ultimi quattro giorni di settembre, anche d’amore s’è trattato. Con Nardone, sono intervenuti sul tema gli psicologi Piero Petrini, Luisa Martini e Giovanna De Maio. «Un ruolo ingrato, in quanto esponente maschile–afferma Nardone–quello di aprire il dibattito: e non è un caso, perché quando si parla di traumi sentimentali chiedono aiuto al 90 per cento le donne». Nel mondo egizio, tra i modelli più avanzati di società, spiega il fondatore del CTS, un editto prescriveva: se cogli una donna in flagranza di adulterio punisci il marito. «Erano già molto saggi. Possiamo anche rovesciare le cose. Smettiamola con la prosopopea del vittimismo. Il tradimento, da un punto di vista interazionale, non è mai un atto singolo, individuale, ma sempre di interazione».

Specifica che negli ultimi anni alcuni Paesi si stanno orientando verso una legislazione nuova: i matrimoni a termine, una profezia triennale che si autoavvera solo in quanto formulata. Il disturbo da iperattività sessuale, ora bandito dal DSM (il Manuale diagnostico dei disturbi elaborato dalla Società di psichiatria americana) definiva malato l’uomo che avesse più di due rapporti sessuali a settimana. Negli ultimi due decenni, per Nardone la ricerca scientifica ha subito la corruzione della misura quantitativa: calcoli da laboratori, non sul campo, e statistiche portano a deformazioni. Come dire che tutti al mondo mangiamo un pollo a testa a giorno, ma c’è chi ne mangia dieci e chi nessuno, e il problema dell’hypersex era emerso da una valutazione a livello mondiale della quantità media dei rapporti sessuali di una coppia dai 25 ai 50 anni, che dava un risultato di un rapporto e mezzo al mese. È la statistica.

«Grazie a questo–analizza Nardone–si era arrivati a ritenere rigorosamente scientifico, perché quantitativamente misurato, un disturbo completamente inventato da una deformazione di scientismo, di riduzionismo, non di scienza. Purtroppo di esempi come questo possono farsene anche riguardo psicopatologie molto più importanti e anche su ricerche che si danno il tono di scientificità, in questo ed altri campi». Cominciamo ad utilizzare il dialogo strategico con noi stessi, suggerisce il padre della breve-strategica. «Portiamo le persone di fronte alla condizione estrema del trauma sentimentale vissuto dal vivo, ossia la flagranza del tradimento, un’immagine che rimane con la densità di un disturbo post traumatico».

A proposito di tradimento Luisa Martini, psicoterapeuta e didatta dell’IIPR, l’Istituto italiano di psicoterapia relazionale, fa riferimento al romanzo «I giorni dell’abbandono» di Elena Ferrante, dove, tra i due partner sottoposti ad uno stress da tradimento, a morire è il cane Argo: la fedeltà. È il fedele che soccombe. In ogni fedeltà che non conosce il tradimento, e neppure ne ipotizza l’esistenza, c’è troppa infanzia, troppa ingenuità, per riprendere Umberto Galimberti. «Nelle relazioni con un altro significativo–spiega la Martini– è necessario mettere in conto il tradimento delle aspettative fantasmatiche di entrambi i partner, di ciò che ciascuno di essi si attende dall’altro ma, non di inferiore rilevanza, da se stesso in relazione con l’altro: ciò fa parte delle nostre possibilità di crescere nella conoscenza di noi stessi e di chi è con noi. La fiducia infantile rischia di divenire una prigione. Accade che il mondo del tradito perde tutti i suoi significati e che entrambi i partner devono riorientarsi. Il tradito vuole sapere tutto, il traditore si sottopone all’interrogatorio».

James Hillman arriva a postulare una verità fondamentale relativa al tradimento: non si danno amore e fiducia senza possibilità di tradimento. Hillmann parla, nei suoi lavori, delle reazioni disfunzionali al tradimento: vendetta, negazione dell’altro, cinismo («tutti gli uomini sono inaffidabili»), negazione di sé («non mi esporrò mai più»), scelte paranoiche (la persecuzione, ad esempio, valida soprattutto ai tempi del web e dei social network).

Nardone, in modo «breve-strategico», pone una domanda chiave: dopo un trauma sentimentale, non solo tradimento, cosa fare? Lasciare il partner o rimanere? Come si arriva a capire quale sarà la scelta migliore? «Ho affrontato questo argomento in un mio libro sul trauma nelle decisioni. Si arriva alla soluzione solo dialogando con se stessi, ma non con la parte razionale: con quella viscerale. Bisogna mettersi sul ciglio del precipizio e verificare quali sono i brividi, per citare la ballerina Sylvie Guillem». Essa sostiene che mantenersi sul precipizio sia l’unico modo per un artista di restare vivo.

La domanda fondamentale da farsi, per Nardone, non è «mi ama ancora?», perché questo è delegare mentre bisogna, invece, fare i conti solo con se stessi. Nemmeno domandandosi «amo ancora?», bensì «posso farne a meno?». L’interrogativo corretto apre scenari il più delle volte non contemplati, perché «quando si comincia ad immaginare in se stessi la vita senza quel partner, quindi a sperimentarla, ci si accorge di qualcosa che prima non si riusciva a vedere. Trovata la risposta, si ha già la strada da percorrere. Nel dialogo strategico–spiega–sono le domande che fanno le risposte. Il problema si pone se la risposta è: non si può fare a meno di quella persona. Ma in tal caso, è necessario evitare di fare la figura della vittima o del vendicatore: se non si può farne a meno, la risposta è chiara e si agisce di conseguenza, senza tornare indietro».

Parlare di traumi sentimentali è qualcosa di viscerale, è parlare del poter fare a meno di qualcuno o no. Da cui il percorso successivo. «Abbiamo bisogno di riduttori di complessità, ossia di stratagemmi che ci consentano di risolvere la complessità attraverso soluzioni semplici. È l’uovo di Colombo, sia pure sofferto: una sofferenza che non è attraversata si trasforma in una lenta agonia, la quale è ben peggiore. Il mio amico Emil Cioran diceva: il coraggio che manca ai più è il coraggio di soffrire per cessare di soffrire».

Se per Pietro Petrini il trauma sentimentale porta ad una dissociazione in grado di primitivizzare l’uomo, Giovanna De Maio spiega cosa evitare e come riprendersi da un trauma sentimentale: «Un abbandono è così devastante da essere paragonato a un vero e proprio lutto: si è sconfortati, inermi, si tratta di una perdita. Per Cesare Pavese un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra miseria, nullità, inermia, e così sintetizza la condizione di fine avvertita quando si entra in contatto con la parte più vulnerabile di se stessi».

Il terapeuta potrà accompagnare la persona che ha subito la perdita attraverso le cinque fasi di elaborazione del lutto descritte da Elisabeth Kübler-Ross: rifiuto («non può essere successo»), patteggiamento («torniamo insieme», «faccio tutto quello che non ho mai fatto prima», «prometto»), rabbia («mi ha ingannato»), depressione («ho sbagliato tutto», «non c’è futuro»), infine accettazione. Cercare di non pensare è già pensare, il tentativo vano di distrarsi non fa altro che allungare il tunnel dei sintomi; l’abbandonarsi è sicuramente la cosa più importante da fare, non come consigliano i familiari, gli amici, il cui dire non fa altro che intensificare il senso di inadeguatezza. Il terapeuta deve sintonizzarsi con il dolore e la sofferenza dell’altro, evidenziando come non ci sia nulla di patologico o sbagliato nel continuare a soffrire. Il dolore delle perdite sentimentali non sparisce: esso decanta. Per agevolare il processo bisogna immergersi come una bustina di tè nell’acqua bollente.

Per questi psicologi dunque, del trauma sentimentale non bisogna vergognarsi. Tutt’altro: esso va ascoltato, e attentamente. (ROMINA CIUFFA)

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CATALUNYA VS SPAGNA: NE FACCIO UNA QUESTIONE EDIPICA E NEUROLINGUISTICA

Trovo che la Catalunya sia come un adolescente che, in piena febbre di crescenza, è in freudiana lotta con il padre. E che Madrid sia un classico padre, protettivo ed egoista, nel contempo amorevole, che non vuole dare al proprio figlio l’indipendenza di cui questi ha bisogno per crescere. Come in ogni conflitto intrafamiliare, entrambi hanno ragione: il primo, perché anela a un’indipendenza che gli spetta, voglioso che gli vengano ricosciuti l’individuale esistenza nel mondo, i talenti e le capacità; il secondo, perché come i padri è geloso della dipartita e interessato alla permanenza.

E uno schiaffo dal padre, uno schiaffo da Madrid a Barcellona, è ammesso dall’art. 154 del codice civile spagnolo che, modificato e «intenerito» dalla legge n. 54 del 2007, conferisce ai genitori la facoltà di esercitare la patria potestà impiegando un tratto autoritario in combinato disposto con il successivo art. 155, il cui oggetto è un dovere di obbedienza del minore «a sus padres». Purché non si sconfini nel reato di lesioni dell’art. 147 del codice penale, non giustificate dallo ius corrigendi attribuito al genitore a soli fini educativi, né nel secondo comma dell’art. 173, che fa riferimento all’abitualità di un condotta domestica degradante, fisica o psichica. Per la dottrina, la sberla è ok. Reiterata o violenta, o senza fini di educazione, no.

La Spagna ha il «diritto di correggere», a suon di sberle, la Catalunya?
La domanda pregiudiziale è: che tipo di relazione c’è tra Madrid e Barcellona? La Catalunya è figlia della Spagna?

È una questione storica: l’attuale Catalogna, nel Paleolitico medio pertinenza di greci e cartaginesi, poi parte dell’Impero Romano, quindi insediata dai Visigoti, è conquistata dai Mori e chiamata al-Andalus, organizzata in regni e contee che parlano catalano, aragonese, basco, castigliano-leonese e galiziano, infine inglobata nell’Impero carolingio con buona pace dell’indipendenza. I limiti territoriali del Principato dei «cathalani» vengono definiti solo con il passaggio, sotto la casata di Barcellona, alla Corona d’Aragona. La conquista delle Baleari e di Valenzia, quindi di Sicilia, Sardegna (ad Alghero tuttora si parla catalano) e Napoli, e il passaggio alla Corona di Spagna per unione dinastica, danno respiro ai catalani fino all’avvento della dinastia dei Borboni. È del 1640 la ribellione popolare contro i soldati mercenari nelle case dei contadini catalani prossime alla frontiera. La Repubblica catalana, autodichiarata sotto protezione francese, con la conquista di Barcellona del 1652 perde Stato, istituzioni, leggi e capacità di decisione politica. Nel 1716 il quartiere barcellonese del Born è distrutto e vi viene costruita una fortezza militare.

Con la dittatura del generale Franco – aiutato da Hitler e Mussolini – e la guerra civile, è il tempo di una brutale repressione politica (i bombardamenti aerei su Barcellona sono effettuati dall’Aviazione legionaria italiana con il supporto della Legione Condor tedesca dal 16 al 18 marzo 1938, un bilancio di oltre mille morti e 2 mila feriti). La lingua catalana viene vietata. Il presidente Lluís Companys nel 1940 è fucilato nel castello di Montjuïch. Dopo Franco, nel 1977 è ristabilita la Generalitat con Josep Tarradellas. Il catalano in questi anni è introdotto nelle scuole. Nel 2006 è approvato uno Statuto per via referendaria, ma la Corte Costituzionale ne dichiara l’inefficacia giuridica e nega la definizione della Catalogna come nazione.

Dal 2011 il Partido Popular di Mariano Rajoy governa la Spagna. Il primo ottobre 2017 la Catalunya va al voto referendario senza il consenso del padre, che considera il referendum anticostituzionale e sequestra le urne, taglia i collegamenti ad internet, invia polizia non pacifica, fa «prigionieri» politici. Ma i catalani, quasi tutti, dicono «ens n’anem», andiamo via dalla Spagna. Il «president» Carles Puigdemont chiede un margine di dialogo e negoziazione; Rajoy vuole chiarezza: avete o no dichiarato l’indipendenza?

Ora risponderei alla mia domanda: i catalani sono figli di Madrid, ma d’adozione, e riconosciuti. In quanto tali a loro si applica la norma che non consente al padre di schiaffeggiare oltre una certa misura (educativa) il figlio. Guerre civili e metodi impositivi non sono schiaffi di ius corrigendi ma uso abnorme.

I catalani parlano una lingua propria, che non è un dialetto. Che differenza c’è? Presto detto: la lingua è un dialetto con un Esercito ed una Marina (Max Weinreich). Ossia, il dialetto è la variante di una lingua, una specificità; come tale, si riconosce all’interno di essa. La lingua riflette, invece, l’anima del parlante, distinta dalle anime altrui intese come confluenza di elementi storici, culturali, caratteriali, territoriali, archivio dell’esperienza di un popolo. Il «català», nelle sue varianti locali, distingue il proprio parlante dagli altri anche in funzione dell’influenza psicologica che la costruzione, il modello motorio collegato alla riproduzione vocale e alla scrittura, i cambiamenti strutturali nelle regioni del cervello, la mappatura cognitiva, sviluppano nell’essere umano. La differente reazione neuronale dipende dal fatto che l’apprendimento di una lingua come nativa avviene contemporaneamente all’acquisizione delle conoscenze concettuali e delle esperienze corporee e sensoriali. Un esempio su tutti: per lo psicologo David Meyers i tedeschi, ritenuti privi di humour, sarebbero tali in quanto, nel pronunciare le vocali con la dieresi, inclinano verso il basso le labbra assumendo un’espressione triste, e l’uso che il cervello associa alla tristezza influenza negativamente l’umore.

Caratterizzata da una forma interna che esprime la concezione del mondo della nazione che la parla (Wilhelm von Humboldt), la lingua è «manifestazione fenomenica dello spirito dei popoli: la loro lingua è il loro spirito e il loro spirito è la loro lingua». I catalani non solo si sentono diversi, essi sono diversi. È nella forza spirituale delle nazioni l’effettivo principio esplicativo e la vera causa che determina la diversità delle lingue. Una base, questa, per il principio di autodeterminazione dei popoli interna ed esterna: il diritto di scegliere il proprio sistema di governo e di essere liberi da ogni dominazione esterna. Per il diritto costituzionale canadese (nel caso della secessione del Quebec) ed il diritto internazionale, il principio si applica solo in tre situazioni: ai popoli soggetti a dominio coloniale, ai popoli il cui territorio è occupato da uno Stato straniero, ai gruppi minoritari che all’interno di uno Stato sovrano si vedano rifiutare un accesso effettivo all’esercizio del potere di governo. È questo il caso della Catalunya?

Ho vissuto molti anni a Barcellona. Ho parlato fluentemente il catalano, più del castigliano che conosco come un madrelingua. La madre edipica. Ciò mi ha permesso di avere una visione completa della Spagna, in quanto ho utilizzato le strutture neurolinguistiche del primo e del secondo sistema. Sono sì consapevole che gli interessi politici ed economici entrano in gioco nelle richieste del presidente catalano Carles Puigdemont alla Spagna di Rajoy; sono sì consapevole del fatto che l’Europa tende, pericolosamente, verso una disgregazione. Ma ciò avviene non solo o non tanto per questioni di moneta, prosperità e comando, bensì spirituali: l’adolescente, se non muore, prima o poi compirà 18 anni. A quel punto, il padre non sarà più soggetto alla paghetta e all’educazione, nel contempo non riceverà una percentuale sui guadagni del figlio.

A meno che non vadano d’amore e d’accordo. E così, il primo potrà essere accudito in futuro da un discendente capace e affettuoso, il secondo riceverà un’eredità che lo riporterà nella casa paterna. E il Natale si farà insieme. La Pasqua, però, con chi vuoi. (Romina Ciuffa)

Romina Ciuffa, Formentera (giugno 2017)

BARCELLONA. LA MIA GALLERIA

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