QUARTETTO D’ELICOTTERI

di ROMINA CIUFFA (pilota di elicottero ed aereo). Pubblicato su AVIAZIONE SPORTIVA, aprile 2009. Questo è un volo e noi stiamo tutti volando. Ed è un sogno e noi stiamo tutti dormendo: lo ha fatto un visionario, il tedesco Karlheinz Stockhausen, eccentrico, narcisista, pur sempre Stockhausen, padre dell’elettronica moderna, uno dei più grandi compositori del XX secolo. «Questo brano è dedicato a tutti gli astronauti del mondo», asserì messianico quando lo consegnò al violinista Irvine Arditti, che gli aveva chiesto un quartetto d’archi, un genere che lui non avrebbe mai scritto. Poi sognò violini e rotori, un ritmo serrato, le pale di un elicottero al pari di violini. E sia: un quartetto d’elicotteri.

Scrive Stockhausen: «Ebbi un sogno: ascoltavo e vedevo l’immagine di quattro esecutori che suonavano in quattro elicotteri in volo. Nello stesso tempo vedevo un pubblico numeroso in una sala di proiezione e altre persone in piedi, fuori dalla sala, in una grande piazza all’aperto. (…) Per gran parte del tempo i quartettisti suonavano tremolii che si mescolavano benissimo con i timbri e i ritmi delle eliche e dei motori degli elicotteri, utilizzati come strumenti musicali. (…) Quando mi risvegliai ebbi viva la sensazione che mi fosse stato comunicato qualcosa dal cosmo di cui non dovevo svelare nulla». Nasce così uno dei maggiori e più complessi lavori musicali mai realizzati, l’Helicopter String Quartet, e diviene la terza scena del Mercoledì, parte della monumentale opera lirica Licht, esagerata, tra le più voluminose mai scritte nella storia della musica e anche esemplare interesse di Stockhausen per la cosmologia, le formule matematiche, le proporzioni geometriche e le allegorie. Nelle sue intenzioni, Mittwoch rappresenta il rapporto tra conflitto e riconciliazione, nel Quartet è il percorso dalla terra al cielo, un viaggio dal terrestre verso l’utopia. I tre caratteri principali del ciclo (Nascita, Conoscenza e Morte) scelgono il teatro del cielo per mettere in scena la metamorfosi che dallo stadio terrestre della Guerra porta all’utopia celeste della Solidarietà.

«I musicisti all’interno dei quattro elicotteri – precisa Stockhausen – devono seguire il ritmo dei motori e delle pale: sono dunque i piloti ad influenzare il tempo dell’esecuzione. Di tanto in tanto i quattro solisti si ritrovano ad eseguire lo stesso ritmo anche se sono isolati e si trovano a qualche chilometro di distanza l’uno dall’altro». In questo modo gli elicotteri divengono strumenti musicali e le pale corde accordate. Il cielo, uno studio di registrazione. In prima mondiale il 26 giugno 1995 quando, nel corso dell’Holland Festival, volarono sulla città di Amsterdam i quattro elicotteri stockhauseniani, arancioni; oggi, per la terza esecuzione mondiale, sorvolano Roma e decollano dall’Auditorium nell’ambito del Festival delle Scienze i violinisti del Quartetto Arditti (due violini, una viola e un violoncello), audaci interpreti di un sogno. Visionari quanto il loro creatore. Il cielo è piovoso al pari dell’inconscio stockhauseniano.

Lui aveva previsto tre microfoni: uno per lo strumento, uno per la voce, il terzo all’esterno, accanto alle pale, ad afferrare il suono del motore, dell’aria, del volo. Gli altoparlanti della Sala Sinopoli restituiscono un rombo, mentre sullo schermo all’interno dell’Auditorium si disegna l’immagine dell’elicottero che si stacca da terra. Quindi, altri tre elicotteri si uniscono e il quartetto degli angeli meccanici traccia un grande cerchio nei cieli di Roma per far “diventare musica un battito d’ali”. Lo schermo si divide in quattro, uno per elicottero, uno per musicista. L’evento è presentato a terra dallo scienziato Piergiorgio Odifreddi che parla di sogni, cieli, angeli e dei calcoli matematici usati per far scorrere il suono nello spazio. Uno dei quattro elicotteristi impegnati è Gianni Bugno, due volte campione mondiale di ciclismo, oggi appassionato di volo: è pilota di elisoccorso ed è stato pilota dell’elicottero di ripresa del Giro d’Italia 2008. L’esibizione è di 18 minuti e 36 secondi. Le voci sono indicate negli spartiti in quattro diversi colori, come le camicie dei quattro artisti; la partitura è complessa, affatto orecchiabile – stride – e gli strumenti non hanno un procedimento melodico definito. Un delirio.

Si diventa Stockhausen tutte le volte che si realizza l’irrealizzabile, che si dà spago a un sogno. Quando si hanno deliri di onnipotenza («Sono stato istruito su Sirio e ci ritornerò anche se vivo ancora a Kürten»). Quando ci si stacca dalla pista e si decolla, fino a quando non si tocca terra ancora. Questo quartetto d’elicotteri dà atto dell’inafferrabilità di un suono sordo, di una sviolinata senza armonia, dell’assordante pesantezza dell’essere, passeggeri a bordo dell’elicottero di un genio; imita con il suono degli archi e delle pale il linguaggio del cosmo; si addentra nell’immaginifico. Sognare di volare si lega al simbolismo della salita, della discesa e della caduta; Freud vedeva nel volo onirico l’espressione di un desiderio fisico non soddisfatto nella realtà. Stockhausen lo ha avverato, in qualche modo. Che ciò sia di spunto anche per il più grande dei sonnambuli.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su AVIAZIONE SPORTIVA (diretto da Rodolfo Biancorosso) – aprile 2009

 




NEW YORK: ARRIVANO I FREAKS!

New York, febbraio 2006. Signori e signore, direttamente da Coney Island, New York, i Freaks! I mostri, quelli strani! Insectivora. Lei mangia insetti. Prende una manciata di vermi, li mette in una bustina di plastica, poi li divora. Ancora, scarafaggi. Ottimi. Completamente tatuata dalla testa ai piedi, sul polso spicca un ragno rosso. Quindi prende da una piccola gabbia un topolino, piccolo, bianco, uno di quelli che un bambino a volte fa ruotare ininterrottamente sulla sua ruota per un’intera vita (del topo). Il topetto le corre sul braccio, è bianchissimo, la coda rosa come la pancia di un bimbo. Lei per la coda lo prende e, come una Visitor della serie americana più famosa degli anni 80, piega il collo all’indietro, le si può vedere solo il mento ora, infila il topo dentro la bocca, riabbassa la testa e la coda è ancora lì fuori, che scodinzola un po’ mentre un po’ rallenta. Riapre la bocca, lo prende in mano, lo bacia, lo accarezza. Lei, che è una femmina, si chiama Matilde e si fa un altro giro sul braccio destro di Insectivora. Poi rientra nella gabbietta.  In un attimo Miss Hollyday si contorce all’indietro, con il busto arriva fino a terra e scruta, poi facendo un giro su se stessa lo porta sino ai reni e la testa ora è proprio a quell’altezza, prosegue e la pone in mezzo alle gambe.

Una passeggiata così e si sdraia dentro una scatola, i coltelli vengono piantati dappertutto, poi si rialza et voilà. Passeggia Snake Woman, e come Insectivora con la sua Matilde, ecco arrivare uno splendido boa bianco con striature arancioni e la lingua biforcuta. Qualche metro di serpente che la avvolge interamente, la contempla, la bacia tirando fuori la linguetta velocemente che con altrettanta velocità ripone in bocca, delicatamente la massaggia con il suo lungo e largo corpo. Un esemplare incantevole di animale domestico. La padroncina poi si siede su una sedia elettrica, che l’Uomo Tatuato le accende. Ora è in grado di accendere una lampadina con la lingua, che tira fuori come il suo serpente, velocemente, e fa una fiamma.  L’Uomo Tatuato dice che era talmente povero che ha cominciato a eseguire i lavori più strani, quindi si è fatto tatuare giorno per giorno tutto il corpo e sul viso e sulla testa rasata ha raffigurato tutto il sistema stellare. Nel bel mezzo della fronte ha un pianeta. Poi stelle, costellazioni. Chiede se qualcuno conosce un uomo che ha una maglietta come la sua, con la propria faccia disegnata sopra, e sostiene che i tatuaggi li ha proprio, ma proprio dappertutto. E che ha imparato talmente bene a sopportare il dolore, che si sdraia su un tappeto di aghi arrugginiti e un altro lo mette sul pancione, quindi un uomo di 100 chili e una ragazza di 70 gli montano sopra. Lui lo chiama il «panino umano».

L’altro amico mangia bicchieri di vetro, lamette, tovaglioli, accende sigarette e le ingoia. Un altro ancora si infila un cacciavite e un coltello nel naso mentre Miss Hollyday, la contorsionista, ne ingoia uno da selvaggina e a momenti se lo litigano, poi lo tira fuori dal manico. Insectivora, intanto, sale delle scale fatte di spade affilate che in un attimo tagliano carote. Lei, invece, dice che si è allenata sulla sabbia di Coney Island. Famosa per la sua sporcizia e per essere il ricettacolo di tutte le bottiglie di birra e i vetri delle spiagge newyorkesi.  La ruota delle giostre gira ancora a Coney Island, anche in inverno, mentre a Manhattan, Times Square, si apre il sipario. Il Miliardario! Un applauso. Limousine. Cipriani. Champagne. Première. Frack. Bruscolini. Gli ruba la scena il paralegale: occhiaie, nevrosi, non sa ancora se iscriversi a legge. Sta compilando la scheda del «billable», di ciò che va messo in conto al cliente, includendovi la macchina usata per portare a spasso la nuova ragazza. Sfruttato, non è nessuno. Gli tolgono giorni di ferie – e di vita – come fossero bruscolini, lo fanno lavorare 20 ore al giorno.  Siori e siore, ecco a voi la Personal Trainer! Quella che non deve chiedere, mai. Quella che guarda il cliente correre per un ora al prezzo di 120 dollari più la mancia. Quella che insegna un’ora di qualunque cosa in ogni palestra della City solo per avere tutte le membership (membership uguale potere) e incontrare l’Avvocato che l’inviterà a cena stasera e ai Caraibi il fine settimana. E crede di potere. Tutto. Che si sveglia alla cinque perché è alle sei che l’Avvocato va ad allenarsi, prima del meeting delle sette.

Ma la vera attrazione della serata, ecco qui, immancabile, imperdibile, unico, il broker! No, no, non quello di Wall Street, non titoli mobiliari ma immobili. Lui, l’agente, il padrone della città. Colui che può tutto. Che riesce a negare la tangibilità della cosiddetta «bolla» dell’inflazione. Tutto il mondo ne parla, lui no. Lui, invece, sostiene che «è il momento giusto per comprare a Manhattan». Perché? «Perché te lo dico io». Più preciso? Al dettaglio, testuale: «Perché comprare a New York è sempre un affare». Con enfasi sul «sempre» e sulla «e» lunga, che poi è la «a» di «always». Muove i fili e decide chi deve vivere dove.  Quindi, ladies and gentlemen, l’attrazione, quella che tutti stavano aspettando: l’attrice. Lei sì che ci sa fare. Ha un sito, mica bruscolini. Nel quale spiega cos’ha fatto (ma cos’ha fatto?), dove ha studiato (sì, ma cosa?), e una carreggiata di foto. La sera s’infila nei jet-set. È brava, altro che coltelli, altro che serpenti. Lei s’infila sul serio. E s’iscrive a un corso di regia. Coerente, no? Un attimo di suspence, perché ora sta per arrivare niente poco di meno che l’Amministratore del palazzo. Che con il broker se la intende. Che cambia appartamento nel palazzo a proprio piacimento, che riscuote i soldi e prende la «stecca», che fa rispettare il regolamento. Che si apre il ristorante al piano terra dello stabile.

Senza parlare di quando si mette pure a fare il PR e l’intero palazzo lo usa per fare feste a pagamento di migliaia di persone. Applausi, prego. «Give him love», ancora applausi. Sta per arrivare (applausi) la coppia più bella del mondo (e ci dispiace per gli altri): direttamente dal palcoscenico di Milano, con scalo a Parigi, ecco a voi il Fashion Designer e la Fashion PR, o meglio i «Sono nella moda». Cosa, precisamente? «Nella moda. Organizzo». Cioè, disegni? Come Ridge Forrester? Ma no, solo Forrest Gump. Lui non ha mai preso una matita in mano. E lei conosce tutti e vive nell’Upper East Side di Manhattan, proprio come quelle di Sex and the City, la serie più acclamata degli ultimi quattro anni. Samantha, però, vive nel Meatpacking District, Downtown, e anche quello fa molto tendenza: è infatti lì che si ritrovano l’Avvocato, la Personal Trainer, il Broker.  Non perché ci sia Samantha: Samantha, personaggio della serie, non c’entra, è solo lo specchio di quello che accade a New York. Ma è vero che nella prima pagina dei giornali c’è la foto di Angelina Jolie e di Brad Pitt, la nuova coppia hollywoodiana conosciutasi sul set di «Mr and Mrs Smith», e tutti sono preoccupatissimi per lo stato d’animo di Jennifer Aniston, poverina, lasciata così da Mr Smith e non solo: costretta anche a leggere, tutti i giorni, insieme al caffè, la crasi «Brangelina», grande creazione del Giornalista americano del Gossip (rullo di tamburi: il Giornalista! Quello che scrive in prima persona e nella recensione espressamente dichiara che quel film non è il suo genere), mentre prima Braniston o Jenniferad non l’aveva mai detto nessuno (probabilmente perché non suonava bene, non di certo per le labbra della Jolie).

Poi, nelle pagine successive, sfogliando per caso, en passant, l’omicidio intenzionale (ma, come per magia, è già diventato di secondo grado) della piccola sudamericana Nixmary Brown, 7 anni, trapiantata a Brooklyn, gonfiata di botte dalla madre e poi stuprata, torturata su una sedia di legno e uccisa dal patrigno. Ma via, di corsa ad altro. Signori e signore, ecco a voi il sindaco Michael Bloomberg! Con lo sketch più provato, quello che riesce sempre: «Bisogna fare qualcosa». Il bisogna-fare-qualcosa gli sorge spontaneo in seguito alle accuse rivolte agli ufficiali di zona che hanno ben più volte ascoltato le denuncie dei vicini di casa della famiglia senza fare nulla. Omissione. Bisogna fare qualcosa. Azione. Scavare la fossa alla bambina, questo sì. Dopo una camera ardente aperta due giorni che ha visto file di chilometri e nonne che pregavano e uomini in completo che gettavano fiori e signore che lanciavano baci al piccolo cadavere, e dopo una messa gremita di gente che ha preso il giorno di ferie per salutare la salma, bisogna-fare-qualcosa.

Ma questo è tra la seconda e la decima pagina, dipende. Prima Brangelina e le strazianti parole dell’agente della Aniston in risposta a una stampa troppo attiva che ha pubblicato la notizia della nuova fiamma di Brad Pitt senza che la consorte Jennifer (assicura la portavoce) ancora ne fosse a conoscenza e dopo che il furbetto aveva negato alcun approccio sul set con la Tomb Raider. Commovente, davvero. E, a proposito d’attori, stasera ce n’è uno vero con noi: ho l’onore di presentarvi il Governatore della California, Arnold Schwarzenneger! Proprio lui, siori, quello che ha negato la quarta clemenza per condanne a morte, e l’assassino Clarence Ray Allen, vecchio, cieco, è stato ucciso il 17 gennaio. L’Orso che corre, così era stato chiamato, l’ha scontata, il giorno dopo il suo settantacinquesimo compleanno. Terminator fa un inchino.  Bisogna-fare-qualcosa, bisogna-fare-qualcosa, suona il ritonello da un’armonica scordata. Jennifer Aniston va aiutata, e (spettatori, lorsignori, «the last but not the least», il Presidente degli Stati Uniti d’America!) New Orleans ha già abbastanza soldi dai fondi europei. Il palco ora è sporco, lo spettacolo sta per finire e come scenografia resta la sola sedia di Nixmary. Si chiude il sipario. Insectivora, insieme al topo Matilde, non ha più voglia di mangiare; Miss Hollyday, l’Uomo Tatuato, il Mangiatore di Vetro e quello di Coltelli si alzano. Nessun applauso questa volta.  Lo spettacolo dei Freaks non è piaciuto. Snake Woman si arresta, stenta, tentenna, non si alza ancora dalla sua sedia elettrica e il suo serpente arancione, che la guarda e aspetta un suo cenno per muoversi, capisce immediatamente che la sua padrona quella sedia non la vuole lasciare perché è più sicura della sedia di Nixmary. Arriva il Panino Umano, la solleva e la porta via ancora seduta. Tornano a Coney Island. Non valeva la pena arrivare fino alla città per vedere i Freaks, i mostri.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Febbraio 2006




JEAN-MARC MORMECK VS O’NEILL “SUPERNOVA” BELL (MADISON SQUARE GARDEN, NYC Jan 07/2006)

Romina Ciuffa, corrispondente da New York per Pound4Pound, Los Angeles
on
http://www.pound4pound.com/FightReport/2006/FrenchR.htm
JEAN-MARC MORMECK VS O’NEILL “SUPERNOVA” BELL (Madison Square Garden, New York, January 7th, 2006)

Charming Victory With A French R: Jean-Marc Gilbert Mormeck
Story & Photos By Romina Ciuffa

People are still confused: is he French or Caribbean? Guadalupe, 1,845 miles from New York, 4,360 miles from Paris, 2,138 miles from Montreal and 310 miles from San Juan. It is an archipelago in the Caribbean Sea comprising several distinct islands. Guadeloupe proper is made up of two islands, Basse-Terre and Grande-Terre, separated by a seawater channel, the Riviere Salee. The island was first inhabited by the Arawak Indians who called it Karukera, which means Island of Beautiful Waters. Columbus discovered the island in 1493 during his second voyage and Christened it for Santa Maria de Guadalupe de Extremadura in the name of the King of Spain. A permanent European settlement was not established until 1635 when the French laid claim to the island. Guadeloupe was officially annexed by the King of France in 1674. The British, however, fought the French and occupied Guadeloupe from 1759-1763. After centuries of fighting between these two nations, Guadeloupe was restored to France in 1815 by the Treaty of Paris which designated the island French territory, in exchange for all French rights to Canada. Slavery was permanently abolished from the island in 1848.

On June 3rd, 1972, in Point-a-Pitre the Caribbean Jean-Marc Gilbert Mormeck was born the only child to Fulbert Mormeck and Sonia Harris. When he was 6 years old, the family moved to Bobigny, an European town and commune of France in the suburbs of Paris, chief town of an arrondissement of the Seine-Saint-Denis département.
With a not common charm, Jean-Marc holds the World Boxing Association and World Boxing Council belts. This cruiserweight champion (31-2, 21 KO) is the first of 745 boxers in his division’s records of the world rank. He looks deeply and smiles with no arrogance. He is ready to conquer the International Boxing Federation’s belt held by the Jamaican O’Neill “Supernova” Bell.

“I think that O’Neil Bell is a great champion because he has his IBF title: this will be a tough match because he is not going to want to let his belt go away, but he has to get ready for this because I am going to take it”, he says, knowing that the real fight of the night could be the one between him and the Jamaican: people bet that the other main fight of the night, welterweight WBC-WBA-IBF champion Zab “Super” Judah vs. the mandatory opponent Carlos “Tata” Baldomir, is a mere formality, not more than a step for Judah to get to Floyd “Pretty Boy” Mayweather.

Charming Jean-Marc doesn’t have much trouble maintaining his championship weight of just under the cruiserweight limit on 200 pounds. “I enjoy eating”, he says, “but I also enjoy training and being the unified WBA and WBC cruiserweight champion, so I don’t see weight as any problem. They always said that titles are harder to keep than to get, so I keep that in mind”. The cruiserweight forgetten division is a stepping stone for big guys moving up to heavyweight, isn’t it? “It is kind of a dream to go up to heavyweight”, answers the champion. “I will be moving up to heavyweight, but I have no schedule. If I would have to choose someone to fight, it would be WBO heavyweight champion Lamon Brewster because he is really strong”.

In a brief 17-bout amateur career, Jean-Marc won all but two of his matches, eight by knockout; then, he moved to the professional ranks in 1995. By 1997, he had four wins and two losses that came in back-to-back appearances in May and June of that year. He hasn’t lost a match since. “I knew at that time of those losses that I had to work harder to achieve my dreams”, he recalls. “If I got discouraged, I would never be anything in boxing and I always wanted to be a world champion. That was the time for me to re-dedicate myself to the sport”.

Mormeck is currently riding a 28-fight winning streak with 19 of those victories coming by way of knockout. Among those victories was the French light heavyweight championship, which he won on November 10th, 1998, winning a decision over Alain Simon. He made one defense of that crown before winning the WBA International light heavyweight championship in Venezuela by stopping Livin Castillo in the 3rd round on December 16th, 2000.

The 33-year-old platinum blonde bearded won the WBA belt in February 23rd, 2002 in the Palais des Sports of Marseille, fighting in front of the referee Stanley Christodoulou against the American Virgil Hill (49-5-0, 54 KOs) and TKOing him when Hill failed to answer the bell for Round 9. He comments: “I was most impressed with my fight with Virgil Hill because he had great experience. Regarding the two losses, I learned a lot of lessons. When I get in the ring now, I want to win, win fast, and win with a lot of points. I do not want to take any risks”.

On August 10th, 2002, he took the title home to France and successfully defended against Dale Brown and, on March 1st, 2003 in Las Vegas, Mormeck stopped Alexandre Gurov (TKO) to successfully defend his title for the second time.

There he got his WBC crown in April 22nd, 2005, from Wayne “Big Truck” Braithwaite (21-2-0, 17 KOs) in front of the Centrum Center crowd of Worcester, MA, referee Dick Flaherty, with a unanimous decision (judge Peter Trematerra 116-110; judge Chuck Hassett 114-112; judge Glenn Feldman 115-111). Jean-Marc’s fists flew and he dominated and dismanted the undefeated record of the WBC champion in a twelve round all out brawl. With the two finally meeting after the fight moved back just about six months because of the foot injury Mormeck sustained and with the two hard-hitting hungry fighters in the ring, in the championship rounds the French charmed guy established his jabs beating Wayne to the punch and even with the fight out of reach in Round 12 the opponent crowned around his losing effort for the win.

“I always dreamed of being a world champion”, he said after the fight, “but I never even fathomed that I could win multiple world titles. I am achieving more in boxing than I had been able to dream of, which is a delight for me”.

He is the first unified cruiserweight champion since Evander Holyfield, the Alabama guy who dominated the division for years, winning his first world title in 1986 against the WBA’s world cruiserweight champion Dwight Qwai and, on October 25, 1990, becoming the heavyweight champion of the world when he dropped IBF, WBC and WBA champion James “Buster” Douglas in three rounds. Holyfield was the first cruiserweight champion to win the heavyweight title, retaining his first title defense against George Foreman (65 KOs in 69 victories). A first fight with Mike Tyson was scheduled for November 8, 1991, but on October 18, the bout was cancelled when Tyson injured his ribs. Holyfield reclaimed the title from Bowe even after a parachuter – now known as “The Fan Man” – landed in the ring behind Bowe in the seventh round, causing a 21-minute delay in the bout. This victory enabled Holyfield to become the fourth fighter in history to regain the heavyweight title of the world. He became the third fighter – joining the ranks of Muhammad Ali and Floyd Patterson – to regain the title in a rematch, lost  in 1994, against Michael Moorer in a narrow 3-2 decision. Directly after the fight, Holyfield was rushed to a hospital where it was determined that he was going into heart failure.

Holyfield suffered the first knockout of his career in a non-title bout against Riddick Bowe. In November 1996, he finally met Mike Tyson in the ring, knocking him out in the eleventh round. In a 1997 rematch, Tyson bit him on one of his ears and lost a point and, after biting Holyfield on the other ear, he was disqualified. By 1999, WBC World Champion Lennox Lewis was ready to take on Holyfield. The match was declared a draw after twelve rounds. A rematch eight months later went to Lewis, with Holyfield losing by a unanimous decision. When Lewis was stripped of the WBA belt in 2000 for failing to defend his WBA title against top-rated contender John Ruiz, the WBA declared the title vacant and ordered Ruiz and Holyfield to meet for the world title belt. In August of the same year, Holyfield won on a 12 round unanimous decision and became the first boxer in history to be the world heavyweight champion four times. Holyfield gave him two rematches, won by Ruiz who retained the title.

“I have great respect for Holyfield’s career, for the warrior, the man, for everything he has done. It would be a great honor and something magic to do what Holyfield did”, states Jean-Marc.

O’Neill Bell comments: “My pro debut was against Holyfield’s nephew, so I have always been the underdog. It is just like another day to me. It really doesn’t discourage me. It actually gives me something to fight for even more to disprove my critics”.

The French Charm, now, is the one. He has strong arguments against Supernova: first of all, a common opponent, the Canadian banger Robert Dale “Cowboy” Brown (35-4-01, 22 KOs). August 10th, 2002, Palace des Sports, Marseille: Mormeck TKO’d Brown in Round 8. Aug. 10, 2002. May 20th, 2005, Seminole Hard Rock Casino, Hollywood, FL: Bell won a controversial 12-round decision.

A common opponent doesn’t necessarily hold a prediction, although it reveals important facets of both men’s game.

With Bell, Brown failed in his third attempt to win a cruiserweight world title. Hard punching “Give’em Hell” Bell captured the vacant IBF cruiserweight belt by scoring a 12-round unanimous decision over the durable but outgunned Mr. Brown. Brown came up short in his previous tries to win cruiser crown against Vassiliy Jirov and Jean-Marc Mormeck. Bell landed the harder and cleaner shots while Brown struggled to sustain his attack although he periodically jolted the Jamaican with several stunning left hooks to the jaw. Judge Richard Green tallied 117-111, while Robert Hoyle scored it 116-112 and Michael Pernick had it 115-113, all for the new champion Bell.

Mormeck entered the Cowboy’s ring wearing the Indian headdress given to him by Hill after their second fight. Brown boxed effectively in the early rounds, Mormeck pressed forward and steadily wore down his opponent with body punches. He staggered Brown and cut him under the left eye in the seventh round, then rocked him with a series of punches in the eighth and the referee stopped the fight at 2:00. After seven rounds, the French boxer led 69-64 and 69-65 twice.

There have been some changes in Mormeck’s corner and camp since the Braithwaite fight. Lucien Dauphin, who trained him for that fight, and advisor Natalie Christol no longer work with him.

“I have a new trainer, Nicolas Riffard. I think he is more appropriate for the fight with Bell. I have known him for a long time, and trained with him a few years ago”, says the boxer, been training at the Maurice Baquet Gym in Pantin, France. He was scheduled to come to the United States at the end of November 2005 and train in Ohio at Don King’s camp. “My trainer has watched tapes of Bell. I saw three rounds. Bell is good, but I am better. I am very confident of victory”. Jean-Marc was always a good athlete and played futbol (soccer) as every European guy (so, by this, can anybody believe that in Europe soccer is not a “pussy-sport”?). He participated in Thai-style boxing and he first became interested in boxing by watching the fights on television. “I love watching boxing, especially Muhammad Ali, Marvin Hagler, Mike Tyson and tapes of Joe Louis. I always dreamed of fighting in America and Don King being my promoter as I had watched him and his fights on television since I was a youngster. This has been a dream come true for me: it made me more famous by simply signing with Don King than winning fights. That says a lot about what Don King means not just in America but in France and around the world”.

It is been said by The Boxing Times: “Mormeck is one of those guys who will take two and three shots to land one hard blow. What he lacks in boxing technique, the Frenchman makes up for with overall strength and durability. Mormeck likes to put his head on your chest and blast away with both hands. He is a fighter who gets stronger and tougher the longer the bout goes, and he is a hard charging finisher. He is a crowd pleaser who likes to cut off the ring and force his opponent to trade leather. What he lacks in lateral movement he makes up with power in both hands but unfortunately often those punches come at just one shot at a time. Look for hard right hand uppercuts in close quarters to do damage. The only two losses on Mormeck’s record came very early in his career in 4 and 6-rounders. He is on a 26-fight win streak and very confident when he squares off against Bell”. But he is also “a one-dimensional fighter that struggles against athletes that box, jab and move. He needs to cut off the ring and get inside to be effective, if that doesn’t happened he is at a real disadvantage. With the exception of his title fights, a number of his opponents were rather lackluster and sported less than impressive records”.

How does he comment about his style? “I do not like blood. I just love to win. As far as my advantages, it is not a question of size or speed; it is just a question of will. Bell did not want this fight. I have always wanted this fight and now I have got it and this is my advantage”.

His models: “I liked Muhammad Ali with George Foreman because although Foreman had all his natural strength, Ali used his experience and his head to overcome the strength. I also liked Hagler and Hearns because even when Hagler was having difficulty, he was determined to win. Then there was Felix Trinidad with Vargas, because Tito had such a tremendous punch and desire. Then there was Mike Tyson with Bruno because he was ferocious. Then Roy Jones, who beat James Toney by being so smart”.

The French champion does not have a nickname. Bell said: “I heard one of the selections that stuck out the most was Mighty. But in turn, I remember the cartoon Mighty Mouse: I would think Mighty Mouse would be a better title for him after this fight”.

Well”, states the Charming Boxer, “I really do not care about those his nicknames. I am just waiting for the fight. That is all. Americans have always asked me why I don’t have a fighter nickname, so I have decided they will choose for me”. With several submissions from his American fans, Jean-Marc has chosen “The Marksman”, “Mighty”, The Wrecker”, “Black Thunder” and “Hit the Deck” as his favorites and he will find out his nickname when Jimmy Lennon Jr., Showtime’s in-ring announcer, will introduce him in the fight.

Wouldn’t it be better a French or a Caribbean nickname for this French charming guy? Actually, he is mighty, he is a marksman, a wrecker, a black thunder and, surely, he hits the deck. He’s all of these nicknames. But he’s a charming wrecker. And he really does not care. Besides, the most charming man of boxing has two businesses: one is JMM Management, which manages his and few other artists’ careers; the other is a sportswear company, Mormeck Sport, which manufactures and sells clothes. This platinum blonde bearded, born in the country with the hottest and clearest see in the world and moved to the sexy France, is more than a champion, when he lucidly looks at you, wrecking and compound eyes, and says “victory” with his French R. (ROMINA CIUFFA)




NEW YORK. WELCOME BACK HOME, CARO DISADATTATO DI MAMMA TUA

New York, novembre 2005. Cosa succede a chi, dopo un periodo vissuto negli Stati Uniti, si ritrova per caso a passare per l’Italia? Numero uno: il primo impatto è meramente visivo, dove la storia e la bellezza si lanciano senza paracadute sugli occhi ormai disabituati dell’italiano e gli dedicano un suggestivo bentornato a casa con un odore di pini, foglie e griglia. In quel momento l’italiano sente di voler tornare il prima possibile e restare, perché l’America tutto ha fuorché questo, e non ha nemmeno l’autista del taxi accanto che ti strepita nelle orecchie e l’odore del cappuccino la mattina presto. Sente di voler tornare perché gli manca tutto, ora che ci pensa.

Ora che ci pensa gli manca la sua lurida palestra (niente a che vedere con quell’incredibile edificio aperto 24 ore su 24 che ospita campi da tennis, da golf, piscina, beach volley e ogni tipo di sport e di personal training); gli manca la sua vecchia macchina (niente a che vedere con i trasporti ineccepibili che permettono di trovarsi in un attimo nella zona opposta della città senza ricevere improperi, clacsonate o multe); gli manca anche la sua mamma (niente a che vedere con le madri americane che, sull’onda del vivi e lascia vivere, si occupano dei propri figli solo per organizzare il tacchino del ringraziamento). Ci pensa e ci ripensa, e intanto si ritrova a casa. Questo piccolo edificio (nulla a che vedere con il grande grattacielo che sovrasta la propria americana abitazione); un ascensore lento (nulla a che vedere con il rapporto un minuto-cinquanta piani); e un bagno con bidet (quello proprio mancava). Si sdraia un momento per riposare, ma è impossibile dormire.

Allora esce. Una passeggiata in centro, un aperitivo, qualche amico e conoscente, troppa vodka. Improvvisamente, numero due: non sa di cosa parlare. Si accorge, in un attimo, che gli argomenti di conversazione sono totalmente diversi. Era abituato a dire che gli americani sono insensibili e superficiali. È ancora vero (e lo sarà sempre): ma di cosa parlare, ora, con gli amici di sempre? Che sono sensibili, sì, e per niente superficiali, ma troppe cose sono cambiate dalla sua partenza, e ora si è abituato alla solitudine, all’isolamento, a pensare per sé con mille Dii diversi, a pensare per tutti, compreso quello Denaro. Non c’è nulla da dire. Incalliti, tutti gli italiani fumano le loro sigarette e lui, di passaggio, ha smesso. Gli andrebbe di fumarne una, insieme a quel whisky invecchiato, ma non ci dice proprio niente. E così la sua nevrosi la deve affondare con qualcos’altro che ancora gli sfugge. Per ora nulla, un po’ di pazienza e la cena è finita. Niente tassazione in più sul prezzo di base, né soprattutto alcuna mancia dovuta. Il prezzo è davvero quello scritto sul menù: stenta a crederci l’italiano ormai abituato a spendere, e con una sottile soddisfazione si alza e va via.

Il numero due non è stato piacevole, come impatto. Non sapere cosa dire a casa propria e trovare un mondo immutato non è il massimo per chi è abituato a vedere il mondo girare in miglia anziché in chilometri. Numero tre: dopo i due sorrisi e abbracci ricevuti, un po’ come fusa da gatti che devono ancora mangiare, è già normale riaverlo attorno e, in fondo, la vita deve continuare. Così le feste iniziali e le code scodinzolanti si trasformano nella pretesa di poterlo infilare in ogni ritaglio di tempo libero come se si trattasse di un dovere. Ma l’impatto numero quattro è ancora peggiore: qualcuno comincia ad avercela con lui, chi per un motivo, chi per un altro. Non è cambiato davvero nulla, ma in America lui ha appreso a badare a sé e a non dover dare spiegazioni relative alla propria vita. L’America l’ha cambiato cosí come ha cambiato milioni di immigrati. Non può piú stare a sentire altri consigliare e giudicare la sua vita, soprattutto quando sono spariti da tempo o non sanno nulla di come l’America funziona e influenza il carattere. Non ha più voglia di provincialismi, di visioni limitate, non ha più voglia di ripicche o sensi di colpa. Quel continente, a sole otto ore di distanza, insegna a vivere ognuno la propria vita senza voltarsi mai indietro, insegna l’individualismo e il valore delle responsabilità. L’Italia insegna solamente a coltivare patate, a vivere in casa dei genitori e mangiare pizza. L’America forse non insegna a suonare il mandolino, ma di certo a crescere.

Un italiano non avrà mai la stessa età di un americano che porta la macchina a sedici anni, cede la propria verginità al ballo di fine anno e può entrare nei locali e comprare sigarette a 21. Non l’avrà mai perché ha già avuto il motorino, sa di essere il più grande amatore del mondo e nessuno gli domanderà mai un documento di fronte a una birra. Non l’avrà mai, perché pranzerà sempre con gli spaghetti fatti da nonna, non metterà una lira che sia sudata nella propria macchina e nel proprio affitto, e non troverà mai lavoro perché il sistema non lo vorrà, o il pessimismo che gli sarà stato inculcato non glielo permetterà. L’americano è insensibile, gli rimbalzano come squash le emozioni e durano pochi secondi, ha imparato a non soffrire e non soffre perché è nato solo pochi anni fa, ma non si lamenta, non si piange addosso, non fa il vittimista e lavora senza interruzione per costruire il proprio futuro ma, soprattutto, il presente. Il quarto impatto, allora, è la pressione.

Il quinto è il crollo della comunicazione che, ormai, è divenuta fittizia, mendace. Litri di inchiostro buttati sui giornali per parlare di nulla, tutto è politica, tutto è Berlusconi ed elezioni, tutto sfida e potere ai danni del cittadino, con pochi canali e un abbonamento inutile da pagare. Spegne la tv, l’italiano, in questo momento, e comincia a rimirare il proprio biglietto di ritorno per accertarsi a che ora parte il suo volo, e mancano ancora alcuni giorni, troppe ore ancora senza dormire, in balia del provincialismo e degli scaricabarile. Tanto aveva atteso questa partenza perché sua nonna, i suoi genitori, la sua fidanzata gli mancavano, e il Colosseo, e fontane che danno vino, e il bel tempo del Bel Paese, e la pasta al dente e le trattorie e il ballo del mattone. Poi, in valigia qualche buon vino, arrivato all’aeroporto dove non c’è wireless per il suo computer, attende la chiamata dell’aereo. Sa che tornerà presto in Italia perché la sua palestra, comunque, gli manca ancora. Ma non appena monta sul suo volo, dorme fino a che non si ritrova di nuovo, finalmente, completamente, e felicemente solo. (ROMINA CIUFFA)

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L’URAGANO JAZZ SPOSA L’URAGANO KATRINA: DALLA SOFFERENZA SI DIVENTA EROI

New York, ottobre 2005. Undici settembre trascorso più velocemente di quello del 2001, vigili del fuoco per le strade a celebrare con birre e barbeque, un’atmosfera calda e una bella giornata. Anziché stare a New Orleans, ora al suolo, stremata. New Orleans, anche detta The Big Easy, la facile, la rilassata, l’opposto delle frenetiche città americane del Nord. Si dice che il Mississipi, in indiano «grande padre delle acque», vi arrivi stanco e riposi formando un lago – magari ascoltando un po’ di jazz -, per poi infine gettarsi nel Golfo del Messico e culminare il proprio viaggio in mare.  Il prossimo 28 febbraio il più famoso Martedì Grasso del mondo – quello di New Orleans -, sarà, sicuramente, diverso. Indubbiamente i volti ricorderanno le maschere delle antiche tragedie greche in quello che ora è un teatro di morte. Il presidente George W. Bush ha dichiarato di assumersi ogni responsabilità per il «caos» verificatosi nei soccorsi: troppo tardi. Rapine, stupri e violenze sono il plusvalore aggiunto dell’opera umana all’opera naturale. Il sindaco Ray Nagin azzarda un’ipotesi di vittime in numero superiore a quelle dell’11 settembre.

La città del Carnevale, ora, è una città fantasma, per giorni capeggiata da boss che hanno dato vita alle più tremende torture: i sopravvissuti hanno dovuto procurarsi pistole, darsi i turni anche per dormire, comprare a peso d’oro medicine, cibo, armi e droga in cambio di gioielli e merci in aste di vendita notturne, i bagni divenuti l’incubo più grande, luogo di violenze e stupri; gli stessi poliziotti della città hanno rinunciato. Stanchi di aspettare i rinforzi, stanchi di aspettare «i nostri eroi», i cittadini si sono fatti giustizia da soli. Poi, i primi soldati e volontari giunti hanno fatto uso della legge marziale con licenza di uccidere.  Moltissimi sono morti per volontà umana, non per volontà di Katrina. Katrina non è colpa di nessuno, Katrina è solo un uragano accorso nella città del jazz ad ascoltare della buona musica. È a New Orleans, infatti, che il jazz ha trovato il suo primo baricentro alla fine dell’800, quando la città era un miscuglio di popoli, razze e colori originati dalle varie dominazioni. Jazz che nasce anche «grazie» alla restrizione: i diritti dei neri ebbero una buona estensione sotto gli spagnoli, vennero ristretti da Napoleone e aboliti dagli americani. Da quel momento in poi i neri cominciano a cantare le loro melodie in silenzio.  In onore del re Luigi XIV, il 9 aprile 1682 l’esploratore francese Robert Cavelier La Salle, giunto nel Golfo del Messico navigando lungo il Mississipi, dai territori del Nord (l’odierno Canadà), rivendica tutta la valle del Mississipi per la Francia e la chiama Louisiana. Poco prima, nel 1570, vi era morto l’esploratore spagnolo Hernando de Soto, in cerca d’oro.

Il finanziere scozzese John Law, delegato dal re francese, comincia a vendere azioni di enormi paludi infestate dalla malaria spacciandole per paradisi terrestri e porta alla rovina molti francesi nel 1720. Tra il 1762 e il 1763 la Francia, esausta per le guerre con gli indiani locali, cede alla Spagna il territorio ad ovest del Mississipi (Louisiana), e all’Inghilterra quello ad est (Mississipi). Segue la guerra d’indipendenza, quindi il territorio della Lousiana viene barattato con un trono in Etruria per gli spagnoli da Napoleone il quale, nel 1803, ne autorizza la vendita agli Stati Uniti. In quel mentre il Governo americano ha invero già stanziato 10 milioni di dollari per il solo acquisto di New Orleans e della Florida: la Louisiana viene così, quasi in segreto e in oltraggio ad alcuni trattati, venduta dalla Francia per 15 milioni di dollari, diviene uno Stato nel 1812 e New Orleans comincia ad ospitare uno dei porti più importanti del mondo e supera anche le successive guerre di secessione.

Esplode l’uragano Jazz: se durante la schiavitù – dal 1619 al 1865 – ai neri è proibito esibire la propria musica e molti sono costretti a imparare la musica bianca per continuare a suonare, in campagna le tradizioni africane sopravvivono trasformate in canti popolari in inglese. Nel 1830, il «minstrel show» diviene una moda: bianchi truccati da neri che mettono in scena grotteschi balli e canzoni. Su questa scia il bianco Stephen Collins Foster diviene famoso per le sue canzoni «negre» e le pagine di Luis M. Gottschalk contengono i prodromi del jazz. Dopo l’emancipazione del 1865, soffia forte il tifone che si trasforma in uragano: spirituals, corali, concertisti neri, blues, sia pure ancora al servizio dei bianchi, come giullari, nei bordelli, nelle bettole. L’indolenza climatica di New Orleans – un caldo umido intollerabile -, feconda un ragtime per banda con improvvisazioni e ne fa jazz, nei primi del ‘900 ne consacra i re, indiscussi, Louis Armstrong e Sidney Bechet, quindi ne sviluppa i ritmi.

Mentre le «jazz-belles», prostitute di New Orleans, permettono il mescolamento di culture, con la parola «jass» si incitano i clienti delle case di tolleranza a ballare sotto la musica dei «jasbo». È dunque nello Storyville, quartiere dei bordelli e della «Big Easy» della città, che s’incontrano le due comunità nere di New Orleans: i creoli, piccolo borghesi e integrati nella società, e i neri americani, che costituiscono la parte più povera del proletariato americano. Il blues accompagna il lavoro degli schiavi, lo spiritual e il gospel ne accompagnano le preghiere, le «bands» accompagnano i cortei funebri verso il cimitero e, tornando in città, suonano melodie vivaci e improvvisano su progressioni armoniche.  A seguito della chiusura dello Storyville, voluta dalle autorità militari statunitensi per non turbare i militari di leva nella città all’entrata in guerra degli Usa, i musicisti si rifugiano nel Southside di Chicago, quartiere nero, dove quello che è iniziato a New Orleans trova storica consacrazione in album e capolavori di intramontabili artisti. Lì si crea il Chicago Style, nel quale la cultura occidentale e bianca si mischia con il jazz nero e lo contamina, valorizzando l’elemento solistico, l’improvvisazione del singolo e la dominazione del sassofono. Di lì a poco, lo swing. Dalla schiavitù, dal dolore, dalla restrizione, i più estasianti ritmi del mondo.

Il jazzista Dizzy Gillespie ricordava che «jesi», in un dialetto africano, significa «vivere a un ritmo accelerato». Forse è per questo che Katrina ha scelto New Orleans per valorizzare tutta la propria espressività. Simile al jazz, simile al blues, un ciclone è un violento movimento rotatorio di masse d’aria, combinato con un moto di traslazione intorno a un centro di bassa pressione. Esso è provocato da un complesso di fenomeni atmosferici determinati dalle alte temperature equatoriali che, in certe zone, creano centri di minima pressione e di aspirazione verso cui convergono i venti, seguendo un moto a spirale che determina un vortice. I meteorologi chiamano uragano un vento di eccezionale intensità, di forza 12, la massima, nella scala di Beaufort, corrispondente a una velocità al suolo di oltre 120 chilometri orari.  Nell’articolo del mese scorso ho scritto che gli americani non temono la natura né gli uragani. L’ho scritto prima che Katrina venisse a cercare un albergo a New Orleans.

Ora che l’ha trovato e che si sta godendo la vista del Golfo e delle immoralità umane, è un Deus Ex Machina e un po’ Dioniso, dio dell’orgia e delle nefandezze e dio anche, paradossalmente, dell’ordine naturale, un dio che punisce per redimere e condanna a morte l’intera città di Tebe per non averlo ossequiato, dando a Cadmo un’unica motivazione: perché è giusto così. Perché dalla sofferenza si diventa eroi. L’impressione sull’attitudine americana è confermata: si è bloccata l’entrata negli States, sono stati posti infiniti controlli, le metropolitane e gli edifici sono letteralmente setacciati e all’ordine del giorno c’è ancora, per l’Amministrazione Bush, il proseguimento di una lotta contro il terrorista. Gli avversari di Bush fanno rilevare che l’ordine del giorno non è cambiato dall’arrivo di Katrina, che subito dopo la quale il presidente statunitense è volato a San Diego per «business», che l’Air Force One è poi passato da New Orleans, riportandolo a Washington, scendendo appena un po’ sotto le nuvole per dare una rapida occhiata dall’alto alla situazione. Qualche altra visita presidenziale, ma la presenza di questo come di qualunque altro presidente non serve quanto il suo intervento dall’alto e non di un elicottero.

I fondi sono richiesti alla popolazione in ogni forma, con una multimedialità da spavento, mentre quelli governativi sono stanziati per costruire una democrazia in Irak; e che i meteorologi avevano annunciato l’arrivo di questa grande ascoltatrice del jazz di scala 5 sin dalla settimana precedente, quando l’acqua del Golfo diveniva più calda, e più calda, e più calda ancora, proprio come musica. È facile dire tutto ciò, più difficile dire cosa avrebbe potuto fare perfino un presidente degli Usa per dirottare un uragano.

Purtroppo non suona più jazz la calda New Orleans, i suoi neri restano sempre neri e c’è chi è pronto a giurare che se la popolazione fosse stata bianca o l’uragano si fosse abbattuto su Kennebunkport sarebbe stato diverso; chi suggerisce a Bush di immaginare «cittadini bianchi lasciati sui tetti delle proprie case per oltre cinque giorni»; chi lo invita a «trovare pochi elicotteri da mandare lì facendo finta che la gente di New Orleans e il Golfo siano vicino Tikrit»; chi scopre la mancanza, a Washington, di una Casa Nera, e pensa al prossimo Mardi Gras a New Orleans senza sfilate. Ma Katrina ha permesso anche all’America di ricordare che gli tsunami stanno dappertutto e che, contro l’Irak forse sì, ma contro la natura non ci sono padri eterni.   (ROMINA CIUFFA)

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NEW YORK, UNA MATRIOSKA E TANTE BAMBOLE

New York, settembre 2005. Nonostante l’incredibile umidità che si è schiantata sulla City durante l’estate e gli uragani che hanno devastato il sud dell’America, si ricomincia daccapo. È strano dire «ricominciare» nella città che non si è mai fermata. Si usa parlare di «stile italiano» quando si fa riferimento a un agosto di vacanza. In America agosto è un mese come un altro. Ci sono ferie, non vacanze. Sono dovute, così come il barbecue. Intoccabile. I giorni di vacanza si «scontano» o si perdono – prendere o lasciare -, e si sommano ai giorni di malattia.  Quindi nessuno corre via dagli uffici durante l’estate, quando comunque il tempo permette di trascorrere incantevoli fine settimana fuori città (con poche ore, dalla Costa ovest si arriva ai Caraibi) e settimane caldo-umide dentro i refrigerati uffici cittadini. Viene da chiedersi perché sia nato l’italian style: perché gli italiani, ad agosto, non lavorano?Perché i Tribunali chiudono le porte, gli avvocati fanno baldoria, i negozi abbassano la serranda e non si trova un locale aperto nemmeno a pagarlo oro? Forse perché nessuno li paga, perché le ferie non saranno mai corrisposte, perché non ci sono mezzi pubblici né aria condizionata.

In America, invece, sembra andar tutto a gonfie vele. Belle vele gonfiate dai venti di uragani passeggeri in grado di muoverle senza, però, farle rovesciare. La natura non mette paura: neve, calura, tempeste, uragani o diversità, niente. Quello di cui gli americani hanno paura è solo il terrorismo. Non la natura. E così, subito dopo i secondi attacchi nelle metropolitane di Londra della scorsa estate, il sindaco Michael Bloomberg ha sguinzagliato poliziotti a controllare borse a campione nelle subways di New York.  A tempesta le polemiche: questo darà modo di compiere discriminazioni fondate sulla religione, sulle mode, sul Paese di appartenenza. Come dire: non si sorvegliano ragazze bianche con borse Louis Vuitton, ma uomini con barba lunga e turbante di diversa razza. Sbagliato? Discriminatorio? Non che una Louis Vuitton non possa contenere una bomba a orologeria messa a punto dai più grandi esperti – tanto più che ce ne sono di varia misura e colore -, ma sembra più facile, a prima vista, ritrovarla in un turbante.  La verità, pura e semplice, è che New York accoglie qualunque tipo di razza, colore, religione e orientamento sessuale. A New York non importa chi c’è a New York, sono tutti suoi figli, e fa bene farsi delle corse in metropolitana e guardare quanta integrazione ha raccolto la città più importante del mondo.

La City non discrimina, allatta tutti e trova lavoro e opportunità di ogni genere a chi ha la pazienza di stare ad ascoltarne le vibrazioni. Perché di vibrazioni si tratta: buttarsi per terra come un indiano ad ascoltare i binari, le ruote del prossimo treno stridere sui ferri, e prenderlo in corsa, ancora fumante, senza lasciarlo passare. Montarci sopra. Correre. Guardare tutte le nuove facce, le varie culture, apprezzare ogni tipo di colore, lingua, mondo, sessualità, razza, sedersi in mezzo a nuove e vecchie idee, mischiare, confondere, ubriacarsi di diversità. Non c’è più una verità perché ve ne sono tante, e nessuno si prende la bega di contraddirne altre: ve ne sarebbero troppe da contestare. Vederne tante fa rivalutare l’assolutezza della propria. Come indicare una sola strada quando ve ne sono così numerose? Quale sarà quella vera? Nessuna, proprio come nessuna è quella sbagliata. Guai ad arrivare da ingenui italiani e credere di poter interferire con l’intero mondo e con la sua splendida natura. 

Perdersi nel Queens è come ritrovarsi improvvisamente nella casbah, con segnali e scritte in arabo, un’indecisa parlata americana, molte signore con buste della spesa sul treno che porta da Jackson Heights a Manhattan – come dire, vivo nella City ma la spesa la faccio a casa mia -, un piccolo sobborgo oltre il quale c’è «l’America». Chinatown, la via brasiliana, Little Italy (solo due strade ormai e caffè pseudo-italiano), Harlem, Greenwich Village: quartieri che racchiudono comunità peculiari che vanno poi a vivere la City e a farne respirare il polmone.Una matrioska piena di bambolette, ognuna delle quali ha il proprio spillo, amuleto, idioma e peculiarità, e tutte insieme solo – nessuna esclusa – possono dar vita alla più grande matrioska, New York, la madre. Pare strano, forse, che proprio New York sia stata colpita in questa nuova lotta di religioni e culture, proprio la città che ospita tutto il mondo e offre opportunità non importa a che colore. New York odia il presidente Bush e non l’ha votato.  Più volte sono stata apostrofata, in rappresentanza di tutta l’Italia, con un «You italians, voi italiani, siete violenti e state appresso a Bush e a Blair», da newyorkesi di Manhattan e da «bridges and tunnels», come sono chiamati coloro che vivono nei quattro boroughs-quartieri – Brooklyn, Queens, Bronx e Long Island -, di New York perché devono attraversare ponti e tunnel per raggiungere il quinto quartiere, centrale, Manhattan. Una portoricana mi stava difendendo proprio pochi giorni fa dall’attacco di un inferocito bridge-and-tunnel di Brooklyn. In questo modo – considerazioni da fare a parte sulla fama degli italiani a New York, che è tutt’altro che buona se si escludono spaghetti e monumenti -, una portoricana ha salvato un’italiana da un americano. Tre realtà completamente diverse che si mischiano e si parlano addosso su un marciapiede qualunque davanti a un locale di Greenwich Village, dove il jazz cresce e impasta le culture.

Abbiamo fatto tanto per crescere, abbiamo anche buttato via la lira, ma ancora ci manca la mamma e mangiamo spaghetti, e non riusciremo mai a costruire una matrioska con capitale Bruxelles, perché la vera, unica, grande e ottava meraviglia del mondo è già qui, a New York, e ha una fiaccola che si riflette sull’Hudson River.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Settembre 2005