HIKIKOMORI: DA PARETE A RETE

HIKIKOMORI: DA PARETE A RETE.
Studio e ipnosi di ROMINA CIUFFA
(www.psichelogia.com)

INTRODUZIONE ERICKSONIANA
“DA UNA STANZA ALL’ALTRA”

Chiesi a uno studente: “Come fai ad andare da questa stanza a quella stanza?”
“Prima di tutto mi alzo”, rispose. “Poi faccio un passo”.
Lo interruppi e dissi: “Dimmi tutti i modi possibili di andare da questa stanza a quella stanze”.
“Ci si può andare correndo”, rispose, “camminando, ci si può andare saltando, ci si può andare saltellando, facendo capriole. Si può andare a quella porta, uscire dall’edificio, entrare per l’altra porta dentro la stanza. Oppure se uno vuole può scalare la finestra…”.
“Hai detto che li avresti detti tutti, ma hai tralasciato un modo, che è il più importante”, dissi io. “Io di solito comincio col dire così: ‘Se voglio andare in quella stanza da questa stanza, io uscirei da quella porta lì, prenderei un taxi fino all’aeroporto, comprerei un biglietto per Chicago, New York, Londra, Roma, Atene, Hong Kong, Honolulu, San Francisco, Chicago, Dallas, Phoenix, tornerei indietro in macchina e entrerei nel giardino posteriore attraverso il passaggio di dietro, entrerei per la porta di dietro ed entrerei in quella stanza’. E abbiamo pensato solo ai movimenti in avanti! Non hai pensato di andare all’indietro, vero? Non hai pensato all’andare carponi”.
“E neanche a strisciare sulla pancia”, aggiunse lo studente.
È proprio vero che ci limitiamo così terribilmente in tutte le nostre forme di pensiero!

Milton Erickson [1]

L’HIKIKOMORI

Mi reco in Giappone nell’aprile 2019. Esco la mattina all’ora di punta, circa le 8 del mattino. La città di Tokyo è silenziosa come una faggeta. Non c’è traffico, pochissime automobili, molte biciclette e pedoni, comunque non sufficienti a dare il senso occidentale dell’ora di punta. Salgo sulla metropolitana, in particolare prendo la linea verde “Yamanote”: con quasi 4 milioni di utenti al giorno (poco meno dell’intero sistema di trasporti di New York), essa costituisce una delle linee metropolitane più grandi del mondo. Il suo percorso funge da circolare per la città di Tokyo e disegna un anello intorno al centro della città, incrociando gran parte delle altre linee dei trasporti di essa, più di 50. La folla è massiva, il silenzio tombale. All’interno dei convogli, sui quali si sale con grandi difficoltà ma altrettanto silenzio, si sta strettissimi. Eppure non si sente rumore, se non quello degli annunci riguardo la fermata successiva. Tutti i passeggeri sono fissi sul proprio tablet o telefonino, non si ha alcun contatto, la solitudine riempie la metro. Non si dovrebbe: guardo sui loro schermi, tutti in giapponese, voglio entrare in contatto con questo silenzio: sono videogiochi, non i social che l’occidentale si aspetterebbe. Dall’altra parte, non c’è nessuno. O meglio, ci sono dromedari e robot che altri utenti nel mondo stanno personificando. Molti portano la mascherina tipica, per una questione di igiene o di rispetto verso gli altri nonché di riservatezza: non si mostra, così, il rossore sul volto, se compare. Per indicare che la prossima è la nostra fermata, faccio “psiu” alla persona che mi accompagna in questo viaggio, lontana da me e, gesticolando e sussurrando, comunico timidamente: “Dobbiamo scendere”. Il mio sussurrio rimbomba nel vagone sovraffollato. Mi guardano tutti.


Romina Ciuffa, Kyoto

Hikikomori (引きこもり o 引き籠もりsignifica letteralmente, in giapponese, “stare in disparte, isolarsi” [2], dalle parole hiku “tirare” e komoru “ritirarsi” [3]). Il termine si riferisce a coloro che hanno scelto di appartarsi dalla vita sociale, cercando anche livelli estremi di isolamento e confinamento, per fattori personali e sociali di varia natura. In Giappone – dove per primo il fenomeno è stato definito – vi è, nondimeno, tra tali fattori, la particolarità del contesto familiare, che si dice caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da una eccessiva protettività materna; ciò si aggiunge alla grande pressione della società verso l’autorealizzazione ed il successo personale cui l’individuo viene sottoposto fin da sempre.

Per scegliere una definizione che più si avvicina a quest’ultimo fattore, quella di Marco Crepaldi: “L’hikikomori è una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle forti pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate” [4].

Si tratta, infine, della difficoltà adattiva di trarre sensazioni positive e stimoli dalle relazioni interpersonali e, più in generale, dalle dinamiche sociali moderne.

Fino a “ieri”, in Italia si parlava di hikikomori come di un fenomeno “strambo”, “antropologizzato” dall’effetto distanza, che porta a ritenere – secondo la scrivente – che, più chilometri intercorreranno tra una cultura e l’altra, minore sarà il “contagio”. Se, infatti, la trasmissione – base della culturalizzazione e, di seguito nel tempo, dell’antropologizzazione – è un processo tramite il quale l’informazione passa da un individuo all’altro attraverso meccanismi quali l’apprendimento sociale, l’imitazione, l’insegnamento o il linguaggio, fino al momento dell’avvento di una rete capillare come quella web si poteva ritenere che tali elementi mancassero tra due Paesi che distano quasi 10 mila chilometri l’uno dall’altro. Come pensare di contrarre una malattia da una tribù africana o la tubercolosi da una favela brasiliana.

Aguglio scrive [5]: La cultura non va considerata come qualcosa di esterno all’individuo, ma come una struttura specifica di origine sociale che contiene e rende possibile il funzionamento dell’apparato psichico; Beguin già nel 1952 affermava che “si è folli in rapporto a una data società”. Non può esistere alcun processo psichico senza l’esistenza di un filtro culturale che ordini e fornisca gli strumenti necessari per l’interazione della persona con il mondo. Le sindromi culturali comprendono un insieme eterogeneo di malattie, l’importanza e l’attualità delle quali è stata riconosciuta anche nel DSM-IV TR 3; nell’appendice è infatti presente una classificazione delle “cultural bound syndrome” che ha lo scopo di integrare l’inquadramento diagnostico multiassiale e di delineare le difficoltà che si possono incontrare applicando i criteri del DSM-IV in un contesto multiculturale. Il DSM-IV TR le definisce come: “Modalità ricorrenti, caratteristiche di certe regioni, di comportamento aberrante e di esperienza disturbante che possono essere o meno collegabili a qualche particolare categoria diagnostica del DSM-IV”. Si potrebbe dire che queste sindromi siano un modo specifico di una determinata cultura per esprimere una condizione di disagio psichico. Mentre le basi scientifiche della cultura occidentale permettono di classificare i sintomi psichiatrici in quadri ben precisi, nei luoghi in cui le sindromi culturali si verificano vengono spesso accettate come eventi non patologici. Inoltre, il sistema medico occidentale opera una netta distinzione fra mali di ordine fisico e mali d’ordine psichico; nelle culture tradizionali invece questa distinzione si perde, sia per quanto riguarda le procedure terapeutiche, che spesso non si differenziano, sia per quanto attiene alla ricerca delle cause della patologia. (grassetto mio)

Se poi ci si concentra sull’elemento “linguaggio” – intrinsecamente culturale – è evidente che nella trasmissione del disturbo essa è basicamente assente, trattandosi di due ceppi linguistici e antropologici completamente differenti. Il giorno e la notte, anche in termini di fuso orario. Lo stesso valga per l’imitazione, praticamente impossibile in due Paesi tanto distanti con popolazioni tanto distinte.

Se la trasmissione culturale è una componente fondamentale dell’evoluzione, essa non è l’unica. L’hikikomori più avanzato infatti, oltre che da un parallelismo culturale (due rette che prima dell’era web non si incontravano mai, non sottoposte a contagio ma a sviluppo evoluzionistico), deriva da un disagio sociale che riguarda tutti i Paesi economicamente sviluppati, nei quali si delinea un atteggiamento competitivo e perfezionista in vari ambiti di vita. Proprio nel senso di fallimento sociale sono da rintracciarne le cause profonde: lì dove si crea un gap tra il proprio sé ideale e la realtà nascono le paure di fallire, di deludere, di perdere tempo e, come conseguenza, un senso di vergogna di sé. Al disagio e alla sofferenza sperimentata si sommano pensieri valutativi più complessi quali repulsione, sfiducia e delusione verso un luogo e verso le persone che ne fanno parte, i cui valori appaiono a un hikikomori troppo distanti dai propri [6]. Questo luogo, oggi, è infinito: questo luogo, oggi, è online ed è wireless, senza fili.

Il contagio dunque non è causa, bensì concausa accelerata dall’effetto-web. L’hikikomori non è “malattia” in sé, bensì e prima di tutto disturbo cui può essere associata una malattia strictu sensu, ossia un’entità clinica sostenuta da alterazioni lesionali fisiche (in questo caso corticale); ma in esso prevale l’interiorizzazione di esperienze e, delle stesse, l’esteriorizzazione successiva a seguito di rielaborazione. Con una puntualizzazione: l’hikikomori in quanto tale non è stato riconosciuto ufficialmente – né in Giappone né dalla comunità scientifica internazionale – come una psicopatologia. Il che, sia pur escludendo il fenomeno dalla categorizzazione nosologica, lo rende flessibile. Questo glielo si deve: di esso, l’unica variabile strettamente caratterizzante e generalizzabile è l’impulso all’isolamento sociale. Le altre dimensioni variano da soggetto a soggetto: da chi presenti un forte quadro depressivo non legato a fobia sociale, a chi soffra di una profonda crisi esistenziale, a chi sia colpito da apatia; da chi soffra maggiormente le pressioni di origine sessuale a chi sia esposto a quelle legate al confronto con i pari. In altre parole, l’isolato sociale volontario non apparenecessariamente depresso, fobico sociale, dipendente da internet o psicotico, e a volte, addirittura, esce. Fisicamente.

In sintesi, pur non essendo stato categorizzato, l’hikikomori ha uno sviluppo dimensionale. Il modo di agire della stessa imperatrice giapponese Masako è stato accostato a quello degli hikikomori ma, secondo le fonti ufficiali, avrebbe invece sofferto di depressione [7], tanto da meritare la nomea mediatica di “principessa triste”. Per la sua grande, tentacolare dimensionalità il fenomeno sembra essere di scarsa diffusione come tutti quei fenomeni dei quali è difficile la vista (lo stesso motivo per cui il transessualismo MTF – male to female – è conosciuto da tutti mentre, diversamente, quello FTM – female to male – da pochi: la variante, tra le altre, è la visibilità concreta e percepibile del fenomeno dall’esterno dello stesso [8]); esso è, così, poco considerato a livello di problema sociale e viene chiuso negli stretti margini del problema individuale.


L’imperatrice giapponese Masako, anche detta “la principessa triste”

Reclusi sociali, eremiti, ragazzi spariti non fanno notizia perché non esistono a tutti gli effetti. La famiglia è reticente, tende a non enfatizzare il problema o, a maggior ragione ed effetto, a non vederlo, riconoscerlo, considerarlo tale: a ben vedere, da sempre si è preferito avere figli che escono poco a figli che escono molto. Da sempre la discoteca è stata il catalizzatore di ogni difficoltà. Eppure, in questi casi lo è la stanza da letto. Quella arredata dai genitori, quella che garantisce protezione. Qui tale protezione diviene maleficio e gli effetti della chiusura possono condurre e, di fatto conducono, a depressione, suicidio, dissociazione, alienazione, insicurezza, “haterizzazione” (odio in rete), distorsione della propria immagine, comportamenti ossessivo-compulsivi, automisofobia e manie di persecuzione, “autismo selettivo” od “a contesto specifico”, mutismo selettivo, disturbo d’ansia generalizzata e molto altro.

La comfort zone si trasforma nella discoteca più pericolosa che esista, in cui è presente uno spacciatore di droghe dai cui effetti difficilmente si uscirà. Si tratterà, nello sviluppo della patologia, di una “adolescenza senza fine” [9]. I ragazzi, in alcuni casi, non riescono a immaginare se stessi adulti o hanno l’impressione di non stare crescendo. La mancanza di contatto sociale e la prolungata solitudine hanno effetti profondi sullo hikikomori, che gradualmente perde le competenze sociali, i riferimenti comportamentali e le abilità comunicative necessarie per interagire con il mondo esterno [10].

Ne sono colpiti anche gli adulti. In Giappone, dove sono presenti le stime più concrete, nel 2016 il Governo parlava di 541mila soggetti coinvolti con un’età compresa tra i 15 e i 39 anni, e di 613mila appartenenti alla fascia di età tra i 40 e i 64 anni, generalmente indicati come la prima generazione hikikomori, di difficile reinserimento in società da quando, superata la soglia dei 60 anni e rimasti orfani, perdano l’unica fonte di sostentamento a disposizione [11]. Un elemento culturale strettamente collegato al fenomeno è la categoria dei parasite single (パラサイトシングル parasaito shinguru), ragazzi che continuano a vivere coi genitori ben oltre la maggiore età, i quali sembrano possedere, in una certa percentuale di casi, stili comportamentali simili e sovrapponibili a quelli di uno hikikomori.

Il termine hikikomori fu coniato dallo psichiatra Tamaki Saitō, riflettendo sulla similarità sintomatologica di un numero sempre crescente di adolescenti che mostravano letargia, incomunicabilità e isolamento totale [13], ed uno stile di vita caratterizzato da un ritmo circadiano sonno-veglia completamente invertito [14], “con ore notturne spesso dedicate a componenti tipiche della cultura popolare giapponese, come la passione per il mondo manga e, soprattutto, la sostituzione dei rapporti sociali diretti con quelli mediati via Internet” [15].


Tamaki Saitō

È lo stesso Saitō a fare una analogia tra parasite single e “mammoni” italiani: “Oggi i Paesi colpiti da questo fenomeno sono il Giappone e la Corea, aree di cultura confuciana, le cui società hanno assimilato il concetto di pietà filiale, enfatizzandone molto il valore. I genitori accudiscono i figli per essere da questi accuditi in vecchiaia, nel rispetto dell’alternanza dei ruoli. In America e in Inghilterra, una volta diventati adulti, i figli lasciano la casa paterna; in Giappone invece rimanere in casa è normale. Qui li chiamiamo ‘parasite singles’, mentre in Italia si chiamano’ mammoni’”.

Questo a significare quanto non siano poi così lontane le culture. Aggiunge: “Nei Paesi in cui la famiglia ha una grande importanza ci sono più hikikomori. In Giappone è così, e lo stesso in Corea. La pietà filiale. Forse anche in Sicilia, nella parte meridionale dell’Italia, ce ne sono. No? Nei Paesi in cui i rapporti familiari sono importanti, anche se il figlio si emargina guarderà sempre i genitori con rispetto e dipenderà da loro. Poiché c’è il problema dell’amae (dipendenza parentale). In Giappone senz’altro è importante il giudizio degli altri. Un ragazzo hikikomori è motivo di vergogna per il genitore; per questo viene rimproverato. Anche il ragazzo si preoccupa molto di cosa possono pensare gli altri e si tormenta. Così facendo però si convince di essere sbagliato e si isola sempre di più. In Giappone non c’è un dogma religioso, la gente non ha un credo, crediamo agli occhi degli altri, ci preoccupiamo di come ci vedono. Siamo molto sensibili al giudizio altrui e ci fa male essere disprezzati. In questa condizione diventa difficile superare lo hikikomori” [12].

L’hihikomori, o come in Italia lo si voglia chiamare dopo quanto detto, incarna lo spirito di una società giovane che soffre a causa dei cambiamenti sociali e i cui membri non sono in grado di affrontare il duro sistema educativo, la crescente instabilità del lavoro e la grande pressione sociale a partire da quella stessa famigliare.

Da parete a rete. Molti di loro, di qualunque età, sia pure confinati nella loro camera, ne oltrepassano le pareti: si collegano alla rete, sul web, ed entrano in mondi lontani. Nell’impossibilità (psicologica) di far uso del loro corpo costruiscono un avatar con il quale intraprendono battaglie epocali e interagiscono virtualmente con milioni di utenti, di cui antesignano fu il Pacman.

Va però sottolineato come la dipendenza da internet, spesso indicata come una delle principali responsabili dell’esplosione del fenomeno, rappresenti invero una conseguenza dell’isolamento, non la causa: il fenomeno ha origine ben prima della diffusione del personal computer.Prima che esistesse internet, l’isolamento degli hikikomori era, però, totale.Ad oggi, solamente il 10 per cento degli hikikomori naviga su Internet, mentre il resto impiega il tempo leggendo libri, “girovagando” all’interno della propria stanza o semplicemente oziando, incapace di cercare lavoro o frequentare la scuola.

I primi casi in Italia sono stati “diagnosticati” nel 2007, per poi diffondersi ed essere sempre più individuati come tali [16]. Nel 2013 la Società Italiana di Psichiatria ne individua circa 3 milioni tra i 15 e i 40 anni [17]. Il disturbo può essere anche associato alle culture nerd e geek, o ad una semplice dipendenza da Internet, limitando il fenomeno a una conseguenza del progresso della società e non a una chiara scelta volontaria del soggetto[18]. Una stima riferita al 2018 parla di 100 mila casi di hikikomori in Italia.

Ne ho conosciuta una.
O meglio: ho ritenuto che la stessa definizione, per lei, di hikikomori FOSSE già la terapia. Ossia la diagnosi è, in realtà, la tecnica: definire qui è curare.
Il caso è coperto da segreto professionale. Seguono solo le mie riflessioni.

RIFLESSIONI POST TRANCE IPNOTICA SU UNA PAZIENTE “HIKIKOMORI”

Il percorso terapeutico, in questo caso, non si fonda sul considerare l’isolamento come un problema di socializzazione. In particolare, a mia paziente non presenta problemi nella capacità di interagire all’esterno, bensì nel movimento e nella motivazione al movimento. Lo stesso Saitō ha specificato che, prima che l’hikikomori fosse definito in questo modo, si soleva parlare di Sindrome di Apatia. E in effetti l’apatia (dal greco a-pathos, “senza emozione”) consta di una riduzione dei comportamenti finalizzati dovuto a un problema di espressione della motivazione.

Ciò che vale la pena sottolineare, nel caso della mia paziente, è la distinzione tra apatia e depressione: il paziente apatico non prova disagio per la propria condizione, mentre la depressione si correla spesso con stati ansiosi, un tono negativo dell’umore e assenza di piacere (anedonia) che può arrivare fino al desiderio di morire. Nell’oscillazione tra depressione ed apatia si trova la mia paziente.In particolare, il riferimento all’hikikomori mi è servito per parlare con il suo stesso linguaggio, un linguaggio di terre lontane quando non fantastiche, nel particolare caso il Giappone, da dove nasce una delle più floride letterature immaginifiche.

L’hikikomori, dunque, qui è una tecnica mascherata da diagnosi: usare questo esempio, infatti, trasporta già la paziente fuori dal proprio contesto e la sblocca nei movimenti mentali, proprio come in una ipnosi non formale, indiretta, che è quella su cui maggiormente ho condensato i miei interventi su di lei.

In questo tipo di ipnosi, la paziente si è trovata completamente a suo agio, e si è completamente lasciata andare, piangendo e ridendo e muovendosi fra mondi.

Nella ipnosi formale, ho voluto concretare il suo pensiero magico: l’ipnosi in questo caso, sia pure tecnica dello psicoterapeuta che può giungere in luoghi ritirati nel paziente, diviene vero e proprio oggetto, ossia qualcosa che lei è in grado di osservare in quanto appassionata di tematiche quasi fantasmiche, mondi da raggiungere “stando qui”, una sorta di Netflix incarnato nel proprio inconscio.In questo modo, ho smosso la motivazione alla sua stessa radice, e nonostante l’abbia collocata in un luogo più semplice per lei da raggiungere, lei si è recata in un ambiente desertico. La sua motivazione a muoversi è stata così messa in risalto dalla sua stessa volontà, più che dal mio concreto condurla e “accompagnarla”.

Descrivendomi i luoghi durante la trance ipnotica, piangendo, ha voluto rendermi partecipe di questo suo viaggio “oltre”. La ridefinizione, ad opera sua, della scala che le ho chiesto di visualizzare (da grande scalinata a scaletta da pozzo) mostra il suo desiderio di non tornare, e la sua difficoltà a gestire la risalita, che ha definito “faticosa”, ha rinforzato comunque il suo spostamento che, sebbene fosse un ritorno a casa, ha motivato un allontanamento eventuale, futuro, futuribile. Ha dato delle possibilità. Ha lasciato intravedere la forza di un’arrampicata complessa, che però compie. O compirà.

Romina Ciuffa

 

BIBLIOGRAFIA

[1] ERICKSON M., “La mia voce ti accompagnerà”, Astrolabio, 79.
[2] MARIANI A.,Hikikomori, nulla oltre il pc, Avvenire.it, 1 novembre 2012.
[3] ZIELENZIGER M., Non voglio più vivere alla luce del sole. Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta, Elliot Edizioni, 2008, 30.
[4] CREPALDI M.,Hikikomori. I giovani che non escono di casa, 2019.
[5] AGUGLIA E. et al., Il fenomeno dell’hikikomori: “Cultural Bound” o quadro psicopatologico emergente?, in Giornale Italiano di Psicopatologia, vol. 16, 2010, pp. 157-158.
[6] CREPALDI M., cit.
[7] La “principessa triste” torna a viaggiare, in TG1 Online, 28 aprile 2013:TOKYO – Sarà il primo viaggio all’estero, quello di Masako di Giappone: da sette anni, la principessa “triste” soffre di depressione, malattia che l’ha tenuta lontana dagli eventi sia nipponici, sia esteri. DESTINAZIONE OLANDA. La principessa, 49 anni, ex diplomatica, accompagna il marito per assistere alla intronizzazione del nuovo re olandese Willem-Alexander, il 30 aprile ad Amsterdam. L’agenzia imperiale ha precisato che, durante la visita di sei giorni, la principessa assisterà all’incoronazione, ma potrebbe non prendere parte ad altri eventi ‘‘a causa del suo stato’’. UN VIAGGIO FUORI DALLA NORMA. Per Masako, 49 anni, si tratta del primo viaggio all’estero dopo il 2006 quando trascorse due settimane proprio in Olanda su invito della regina Beatrice, ma per una vacanza familiare. Da circa 11 anni invece – dopo avere visitato l’Australia e la Nuova Zelanda nel 2002 – la principessa, che ufficialmente soffre di depressione dal 2004, non ha più partecipato a viaggi ufficiali. Secondo la stampa nipponica, la sua condizione è causata anche dalla forte pressione della corte imperiale, incluse quelle sulla nascita di un erede per assicurare la successione. La donna ha invece avuto solo una figlia, Akiko, di 12 anni”.
[8] CIUFFA R., Tra uomini e donne non ci sono confini, in Panorama, www.archivio.panorama.it/archivio/Tra-uomini-e-donne-non-ci-sono-confini e in Mutatis Mutandis, www.rominaciuffa.com/transessuali-izzo-tolu/, 2006.
[9] SAITŌ T., Hikikomori: Adolescence Without End, University of Minnesota Press, 2013.
[10] MANGIAROTTI A., Chiusi in una stanza: gli hikikomori d’Italia, in Corriere della Sera, 11 febbraio 2009.
[11] HOFFMAN M., Nonprofits in Japan help ‘shut-ins’ get out into the open, in The Japan Times, 9 ottobre 2011; Aging hikikomori children’s lifelong dependency on parents, in Japan Today, 14 agosto 2013 (senza firma).
[12]PIERDOMINICI C., Intervista a Tamaki Saitō sul fenomeno “Hikikomori”, su Psychomedia.it.
[13] PIERDOMINICI C., cit.
[14] AGUGLIA E. et al., cit., pp. 157-164.
[15] OHASHI N., Exploring the Psychic Roots of Hikikomori in Japan, ProQuest, 2008.
[16] SPINIELLO R., PIOTTI A., COMAZZI D.,Il corpo in una stanza. Adolescenti ritirati che vivono di computer, p. 304, 2015.
[17] NICOLETTI G., L’Hikikomori entra nel vocabolario e nella realtà italiana, in La Stampa, 17 ottobre 2012.
[18] GIAMMETTA R., Hikikomori: isolarsi per troppa vergogna e dire no al conformismo, su quipsicologia.it, 25 febbraio 2013.




RESUSCITARE?

RESUSCITARE?

Il mio tasso di mortalità 
è elevato.
Muoio in stragi di me causate
dall’incuria
dall’erronea interpretazione del mio ridere
e frignare
dal fallimento dell’effetto Rosenthal
dall’inconcludenza dell’effetto Hawthorne
dalla realizzazione dell’effetto nocebo
dall’inconsistenza dell’effetto sorpresa
dall’inglesizzazione dell’effetto wow.
Mi estinguo nella mia dissociazione ove i me oggettivizzano gli io
e di stenti d’affetto ancor muoio 
per la presenza di favole a lieto fine a irradiare
la mia infanzia pre-mortem 
condendola di illusioni
metaforiche
mentre in giovane età io insieme a me in due morivo
come avviene alla rinuncia 
di senso (non metaforico/esistenzialista/trascendentale ma)
solo semplicemente sensato, normale 
lancinante di affilate teorie
sul perché Romina deve vivere
e invece Misery non deve morire.
Sono quel tricheco
che infine congela dal caldo 
la Terra surriscaldata con freddezza 
il ghiaccio che si ritira
mille leghe sotto i mari
un romanzo la cui fine è lasciata ad un ghost writer quando il suo scrittore è morto 
d’aneurisma cerebrale.
Sono il duello tra me e me in un Far West ricreato nei laboratori del Dams.
Nota solo per alcune delle mie morti
– alcune essendo insabbiate 
altre rinnegate
nessuna rivendicata –
salto quando penso
che reincarnadomi (Dio non voglia) in una rana, un canguro, un saltimbanco, un saltimbocca
potrei farmi trovar pronta
nel saltar tutte le tappe, quindi volare.
Salto per non stare ed insieme non andare, 
salto perché è l’unica 
che in effetti non so fare.
Fosse stato Cristo crocefisso a 43 anni, non avrebbe avuto le forze
cognitive 
psicologiche 
fisiche 
spirituali 
per resuscitare,
nemmeno per suo padre
– soprattutto per suo padre –
a quarantatré malanni.
A 33 la Pasqua si può anche organizzare,
poi arriva la stanchezza,
il ma che lo faccio a fare:
mettermi a
resuscitare?

Romina Ciuffa, 5 gennaio 2020




M’ARTE

Siamo il tempo in cui l’inchiostro che utilizzi 
a ogni mia morte
per rifarmi su una tela di cotone
poi si asciuga come a dire: c’è di nuovo odor di pioggia,
alzatevi e fuggite, amatevi e dormite,
non restate lì a sfangare. La Terra è un dissuadere
per noi che siamo M’arte, aliene che si dicono 
«si p’arte». Così,
quelle volte che prendiamo l’astronave,
c’è un bottone che si spinge e che ci spinge
a ritrarci come ossesse
l’una l’altra:
tu col rosso autoespulsione,
io con tutto ciò che trovo nel pannello di comando
da cui puntualmente odo: 
«1 secondo all’implosione».
E di nuovo, morte inchiostro Terra arte. 
M’arte.

(Romina Ciuffa, 25 dicembre 2019)
(ritratto: opera di Iulia Georgiana Murgoci)




ADDIO ANTONIO MARINI, MORTO SUPERSTITE DEI TERRORISTI

di ROMINA CIUFFA (22 agosto 2019). Fino alla fine un superstite, un sopravvissuto alla giustizia-come-si-deve, quella del tempo che fu, che fino all’ultimo non è stato ucciso da chi lo voleva morto. Lo si conosce come l’uomo dell’antiterrorismo, il Pubblico Ministero con PM maiuscole come in un bravo codice di procedura penale; io lo conosco come colui che, pur vedendomi crescere, mi chiamava “direttore”. Non una figura a caso nel patrimonio meteoritico italiano e mondiale della Giustizia, anche l’uomo che ha regalato a Papa Wojtyla il proiettile che non lo uccise, sottraendolo ai reperti giudiziari perché, a fini processuali, non serviva più. Se lo diceva lui, era così. E in questo modo fece sì che quel frammento di piombo fosse incastonato, come voleva Giovanni Paolo II, nella corona della Madonna di Fatima. A tutt’oggi.

Oggi che Antonio Marini non c’è più da ieri, 21 agosto. I giornali si sono precipitati a pubblicare i loro coccodrilli, tutti uguali, nessuno distinto, e probabilmente già pronti essendo lui portatore di un male inesorabile che, per il principio di non contraddizione, non lo ha scalfito minimamente nell’essere, lasciandolo – come sempre – nel suo umore e nella sua forza.

Ne sono testimone: mi chiamava carico di intenzioni, di costanza, mandava messaggi e foto, e parlava di futuro. Suo e del suo libro, la raccolta degli articoli sul terrorismo che lo hanno reso da sempre un grande collaboratore del nostro Specchio Economico, progetto che aveva quasi terminato con il direttore Victor Ciuffa ma che la scomparsa di quest’ultimo fermò. O meglio, rallentò. Ogni mese, per decine di anni, Marini scriveva per noi due rubriche: Giustizia e Terrorismo. Con costanza e attualità, con il senso del tempo e l’importanza di fissarlo.

Umilmente consapevole di non essere uno qualunque, non un “comune mortale”, nel combattere – prima come Procuratore generale facente funzioni, poi avvocato generale della Corte d’appello capitolina – delicate lotte in delicati processi come quelli sull’attentato al Papa, sulla strage della scorta di Aldo Moro in via Fani e il di lui omicidio, sulla morte della studentessa della Sapienza Marta Russo, sull’agguato, firmato dalle nuove Brigate Rosse, costato la vita al giuslavorista Massimo D’Antona.

Alcuni suoi processi sono raccolti nel suo sito in un’apposita sezione: http://www.antoniomarini.com/processi-2/. Il libro voluto da lui e da Victor Ciuffa sul terrorismo uscirà entro l’anno.

Marini muore “in sordina” perché è il giorno in cui, caduto il Governo, se ne attende uno nuovo (i veri eroi non amano essere notati). E così è per me più opportuno dar conto, con le sue stesse parole negli anni, di come si sia sviluppata quella politica (nello specifico antiterroristica) che è anche alla base del cambiamento di oggi in tema di “straniero”.

Ricordando che mi chiamava ogni volta e mi diceva: “Direttore, ti ho mandato l’articolo. Leggilo e dimmi cosa ne pensi”.

  • “Ci si chiede: quanta libertà siamo ancora disposti a sacrificare in nome della sicurezza?”, (ottobre 2006);
  • “Uno dei nodi ancora da sciogliere nella lotta al terrorismo internazionale è la definizione stessa di terrorismo (…)”, (novembre 2006);
  • “Ora, non v’è dubbio che la costituzione delle unità investigative interforze costituisca un importante passo in avanti nell’azione di contrasto del terrorismo internazionale e che, ferma restando l’assoluta libertà del pubblico ministero di avvalersi di altre strutture di polizia giudiziaria nello svolgimento delle indagini, tali unità sapranno fornire un contributo particolare all’accertamento dei delitti più gravi di terrorismo. (…) Le unità antiterrorismo non hanno ancora visto la luce, mentre la pianta malefica del terrorismo internazionale cresce invece a vista d’occhio giorno dopo giorno. A quanto pare, si teme di provocare un accavallamento di competenze e una dispersione del patrimonio investigativo o, peggio ancora, una trasfusione sul piano giudiziario di attività che sono principalmente mirate alla polizia di sicurezza. Ma forse la ragione del ritardo è un’altra. Mancano le risorse finanziarie necessarie a rendere operativo il progetto, risorse che dovrebbero essere individuate e reperite da ministri degli Interni in quelle già disponibili, senza generare nuovi capitoli di spesa. Come al solito la coperta è troppo corta: in mancanza di nuovi fondi, se si copre una parte si rischia di scoprire l’altra (…)”, (gennaio 2007);
  • “L’esperienza accumulata in questi ultimi anni nella lotta al terrorismo dimostra che la comunicazione via internet costituisce uno dei mezzi più efficaci e meno controllabili per organizzare cellule terroristiche e fare proselitismo (…)”, (gennaio 2006);
  • “Mentre le esigenze di prevenzione e di repressione del terrorismo anche internazionale non possono assumere alcun rilievo relativamente al rispetto di alcuni diritti intangibili e assoluti, esse possono però giustificare l’adozione di misure restrittive incidenti sull’esercizio di altri diritti, purché siano soddisfatte le condizioni all’uopo previste dalle singole disposizioni che li tutelano (…)”, (luglio 2007);
  • “Insomma, è tempo di gettarsi dietro le spalle le due tragiche ideologie che hanno dominato il secolo scorso con il loro delirio totalitario. Quanto agli ex terroristi, è tempo che smettano di cercare tribune da cui esibirsi, fornire la loro versione dei fatti, tentare ancora subdole giustificazioni. Lo Stato democratico che intendevano abbattere si è mostrato fin troppo generoso nei loro confronti. Pur avendo il diritto di reinserirsi nella società dopo aver pagato i conti con la giustizia, devono farlo con discrezione e misura, senza mai dimenticare le proprie responsabilità morali che non sono meno importanti di quelle penali (…)”, (giugno 2008);
  • “Così come non dovrebbero dimenticare le proprie responsabilità morali anche coloro che hanno contribuito a teorizzazioni aberranti e a campagne di odio e di violenza da cui sono scaturite le peggiori azioni terroristiche, ovvero hanno offerto al terrorismo motivazioni, attenuanti, coperture e indulgenze fatali. Il riferimento ai «cattivi maestri» e ai tanti fiancheggiatori rimasti impuniti appare evidente (…)”, (giugno 2008);
  • “L’esigenza di combattere il terrorismo non fa venire meno il divieto di estradare o; di espellere lo straniero dal territorio dello Stato quando esistono seri e concreti motivi per ritenere che esso corra il rischio reale di essere sottoposto, nel Paese di destinazione, a tortura o a trattamenti inumani e degradanti (…)”, (settembre 2008);
  • “Configura il delitto di «atto di terrorismo», previsto e punito dall’articolo 280 bis del Codice penale, aggravato dalla finalità di eversione dell’ordine costituzionale, la collocazione di un ordigno micidiale sul davanzale di una finestra dell’ufficio elettorale del candidato alle elezioni per il rinnovo del Parlamento della Repubblica (…)”, (settembre 2010);
  • “Si va consolidando la tendenza a considerare il territorio europeo non più solo un riparo e una retrovia logistica, ma anche un teatro operativo e una base per pianificare iniziative da consumare altrove (…)”, (dicembre 2010);
  • “È, però, principio centrale del diritto internazionale dei diritti umani che esso debba tenere il passo con il mondo che cambia. Alcune delle più gravi violazioni dei diritti umani sono oggi commesse da o per conto di attori non statali che operano in situazioni di conflitto di un tipo o dell’altro, anche mediante reti terroristiche nazionali o internazionali. Di qui l’esigenza di adeguare la normativa alla realtà, riconoscendo le vittime degli atti di terrorismo come vittime di gravi violazioni di tale diritto (…)”, (ottobre 2012);
  • “Il prolungarsi della crisi economica aumenta i fattori di rischio sul fronte dell’eversione e del terrorismo (…)”, (maggio 2013);
  • “Non v’è dubbio che l’Isis, a differenza di altri gruppi terroristici che combattono in Iraq e in Siria, abbia un grande «appeal» tra i giovani stranieri, spesso occidentali (…)”, ottobre 2014.

Non solo il grande PM Marini. Anche un uomo di mondo, che amava l’Opera e le prime, le cene tra amici, perché no la mondanità sic et simplicter ma sempre e comunque colta, le presentazioni dei libri, gli incontri ad altro livello, i salotti di un certo tipo (frequentatore assiduo di quelli di Anna Maria Ciuffa, sempre in prima linea nel giro dei grandi invitati), le alleanze mentali, le rivelatrici disquisizioni su Italia ed internazionale con tutti, ma anche chiacchierate alla mano, contraddistinte da serietà, giocosità, buon umore, dolcezza, energia (insignito anche del Premio Simpatia 2015 nella Sala del Campidoglio). Sempre con la moglie Elisabetta, una coppia nota nel mondo romano ed italiano per intelligenza ed  affettuosità, classe, presenza (spesso ritratta sul Dagospia di Roberto D’Agostino).

Per me il Palazzaccio, la Corte dove mi riceveva e restavamo a parlare per lungo tempo al fluire del Tevere. Per me la promessa di portarmi al Carcere di Regina Coeli, che non conoscevo, sapendo che avevo esercitavo da psicologa in quello di Rebibbia. Per me, giurista e penalista, ma soprattutto grande costituzionalista, un esempio da seguire.

Andato in pensione solo nel 2015, ricevendo subito il Premio alla Carriera Giudiziaria e il Premio Colosseo D’oro. La nuova, più definitiva assenza di Antonio Marini lascia un vuoto invalicabile nel panorama intellettuale e culturale italiano e nella lista di coloro che possano essere consultati per “capire cosa fare”, soprattutto in un momento – quello odierno – in cui mancano combattenti tanto da non esserci nemmeno un voto, e così, con essi, le idee e l’onestà intellettuale, l’esperienza, il coraggio, l’animo. Viene meno un giudice, un uomo di legge, un lottatore, un sentimentale, un romantico, un cervello, un amico.

Solo un terrorista non è riuscito a sconfiggere, ma lo si ricorderà per quelli che ha fermato. In tutti i casi incluso l’ultimo, risolutivo, con una costante: senza paura. (Romina Ciuffa, il tuo direttore e la tua amica)

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HO INTERVISTATO UNA GATTA PIANISTA: NORA, THE PIANO CAT

Ho intervistato un gatto. Ma, cosa ancora più importante, ho intervistato l’unico musicista, in tutta la mia vita, che ho stimato anche come persona.

Gioacchino Rossini aveva scritto un Duetto buffo di due gatti, brano per piano e due voci femminili che interpretano il miagolio suadente e lamentoso di due mici. Il testo faceva proprio «miao». Un pezzo ironico composto per ricordare quei due gatti che lo svegliavano tutte le mattine nella sua residenza di Padua e che appartenevano alla padrona di casa, alla quale lo dedicava. Oggi in Pennsylvania c’è Nora, una gatta che sa suonare il piano da quando aveva un anno: sa scegliersi le note, cerca quelle nere, conosce il ritmo e lo segue, sa cambiare il volume. Appoggia anche la testolina sulla tastiera mentre suona, come faceva Beethoven da che divenne sordo. Non sarà un caso, allora, che ha ottenuto milioni di visite su Youtube questa micia. Vive con altri cinque gatti e due umani, Betsy Alexander e Burnell Yow, che la presero per caso in un negozio di animali del New Jersey, il Cherry Hill.

Nora the Piano Cat

Betsy, diplomata in Composizione, suona e canta dal 1978, a 15 anni scrisse il suo primo musical, su Caino e Abele, si trasferì a New York, scrisse i musical Stakin’ My Claim, Another Kind Of Hero, poi un musical su Anna Frank, un altro basato sulla commedia I Never Saw Another Butterfly e molti altri per bambini. Per la sua gatta ha scritto duetti, che ha pubblicato perché i suoi allievi potessero studiarli: Nora the Piano Cat’s Easy Piano Duets (because not everything in life should be hard) e Nora The Piano Cat’s Impressive Sounding Duets (because sometimes you just want to impress other people). Burnell è un pittore e un musicista autodidatta. Insieme a Betsy ha creato il Raven Wings Studio (www.ravenswingstudio.com).

Domanda. Nora, come hai imparato a suonare il pianoforte?
Risposta.
Ho vissuto con Betsy e Burnell per circa un anno prima di cominciare a suonare. Mentre i miei fratelli sonnecchiavano al piano di sopra, io trascorrevo tutto il mio tempo sotto, nello studio con Betsy e i suoi allievi. Ballavo – specchiandomi nel riflesso delle mie zampe – sopra la coda del pianoforte formando circoli mentre loro suonavano, e dalla coda del piano osservavo dall’alto i libri di musica sul leggio e le loro dita; altre volte mi sedevo accanto agli allievi sulla panca o sulla poltrona e guardavo Betsy fare lezione. Mi piaceva soprattutto infilarmi nel fodero della chitarra. Vedevo l’attenzione che Betsy dava ai suoi allievi mentre suonavano ed io adoro essere al centro dell’ attenzione.

Di solito non faccio follie per essere coccolata o tenuta in braccio, ma mi piacciono gli applausi e i complimenti: un giorno semplicemente sono saltata sulla panca e mi sono seduta proprio come gli altri allievi, ho usato i cuscinetti delle zampe per premere sulle note e mi sono compiaciuta di ascoltare i suoni che ne uscivano. Betsy e Burnell mi hanno sentito e sono corsi giù per le scale esultanti: è lì che ho deciso di continuare a studiare pianoforte. È stato come un viaggio premio: ricevo mail da tutto il mondo e i fans mi vengono a trovare per sentirmi suonare. Sono felice di ispirare gli altri a raggiungere il proprio potenziale e scoprire la gioia di suonare uno strumento.

D. Ti viene mai da cacciare una mosca che ti ronza intorno mentre suoni? O meglio: i tuoi istinti animali prevalgono mai sui tuoi talenti umani privandoli di razionalità?
R. Come ho scritto sul mio libro, Nora The Piano Cat’s Guide to Becoming a Good Musician (or How To Get Good At Anything Hard), Betsy è umana e ha l’attenzione di un umano; io sono un gatto e, per natura ho l’attenzione di un felino. Il rumore più sottile, il movimento più fine mi distraggono, ahimé, così procedo a intervalli, ma riesco molto perché sono molto concentrata durante le lezioni di pratica e lavoro duramente sulle parti più difficili. Tuttavia, se un insetto mi vola davanti, devo smettere di fare ciò che sto facendo e vado a cacciarlo. Sono un predatore, dopo tutto. E se uno dei miei fratelli si avvicina al piano mentre sto suonando, devo interrompermi e dirgli di andar via: è il mio pianoforte e non mi piace dividerlo con nessuno, nemmeno con Betsy. È importante non doversi comparare agli altri mentre s’impara a suonare uno strumento. Naturalmente traggo ispirazione dai musicisti talentuosi, ma accetto chi sono e faccio il meglio con ciò che ho. Betsy ha dieci dita ma io ho solo due zampe e la mia testa da usare, e suono con passione ed entusiasmo a prescindere da questi limiti. Credo di essere come il primo astronauta che ha camminato sulla luna: sono un pioniere, un esempio per tutti gli altri gatti del pianeta, e ispiro tutti a esaudire i proprio sogni.

D. Chi è il tuo musicista preferito? Chi ti fa fare più fusa, chi ti esalta, chi ti fa venir voglia di suonare di più?
R.
Facile: Betsy è la mia musicita preferita! L’ascolto ogni giorno. Faccio rumorose fusa anche mentre sono io a suonare il piano (le faccio a volte anche quando dormo e mi accarezzano la pancia). Il solo fare musica è in grado di eccitare ogni parte di me, come accade ad ogni altro musicista professionista.

Ho anche degli artisti preferiti: innanzitutto Johann Sebastian Bach, un genio. Tutte le volte che ascolto suonare il suo Minuetto in Sol, dal libro di Anna Magdalina, o il dolcissimo, delirante Preludio in Do, o qualunque altra sua brillante composizione, devo correre al piano e suonare, anche se stavo riposando. Sono anche una grande fan di Beethoven, in particolare di Per Elisa. E sono stranamente colpita da Mary Had A Little Lamb.

D. Qual è il tuo genere preferito?
R. Sono una musicista classica. Essendo un’intellettuale, non posso che immergermi nella perfezione matematica ed emotiva di questo genere, ma sono aperta a tutti i tipi di musica e di strumenti. Se solo potessi tenere un flauto, proverei a suonarlo: grazie al cielo sono stata adottata in una casa con un pianoforte!

Mi dicono sempre che sembra che suoni del jazz, e sono d’accordo: è facile per me suonare il tritono perché tra il si e il do o tra il mi e il fa non ci sono tasti neri. Per questo mi ascolterete spesso suonare un si e un fa insieme: è un intervallo buonissimo per la mia zampetta. Ma posso anche raggiungere i tasti neri, che aggiungono molto sapore al suono. Preferisco le note sopra il do: sono sempre stata attratta dalle note alte poiché posso ascoltarle molto meglio di quanto non facciate voi umani. Eh già, tutti abbiamo dei limiti da superare nella vita.

D. Sai davvero cosa stai facendo mentre suoni il pianoforte, o suoni a caso?
R. Mi prendi in giro? Certo che so quello che faccio. Se guardi i miei video, noterai che spesso nei duetti suono nella medesima chiave in cui suonano gli allievi. Non è un caso: decido davanti a quali note sedermi prima di suonare. Suono anche ritmi diversi e ripeto note da pianissimo a forte e al contrario. Quando l’allievo smette di suonare, anche io termino nel duetto. Ogni volta. Sempre. Quando lui smette, io smetto. Come potrebbe essere un caso?

Una volta, sotto Natale, Betsy insegnava usando il mio piano, così mi sono seduta all’altro e ho suonato: la la la, la la la, la do fa sol la in ritmo perfetto, l’esatta introduzione di Jingle Bells. Quando sono da sola, improvviso. Se Betsy e Burnell entrano per riprendermi, io mi interrompo e salto giù – non mi piace essere interrotta durante momenti di intensa creatività -. A volte utilizzo una zampa per tenere una nota e uso l’ altra per suonarne un’altra, così posso produrre un suono uniforme.

D. Cantare è un’ipotesi?
R.
Una volta Betsy e Burnell stavano rilasciando un’intervista al piano di sopra, ed io ho cominciato a suonare furiosamente e a cantare (mi piace essere sempre nello «spotlight») miagolando più forte che potevo: nel futuro proverò anche a cantare mentre suono.

D. Ti senti un gatto differente, o un umano differente?
R. Mi sento un gatto. Ultimamente mi hanno detto che sono ingrassata: perché la gente comune ha queste aspettative rispetto a una celebrità? Perché bada solo alle apparenze? Noi siamo come tutti. Come Oprah, mi piace mangiare e ho un metabolismo lento. Mi piace stare da sola, o con Betsy. Il mio unico amico è mio fratello Ronnie, i miei fan mi adorano e per me è un piacere essere intervistata da te. Saluto tutti i miei ammiratori italiani e auguro che i loro sogni di tonno divengano realtà. (a cura di Romina Ciuffa)

GALLERY

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SETTIMANA DEL CERVELLO 2019: CHE GENERE E CHE GENDER DI CERVELLO?

In collaborazione con PSICHELOGIANon dovrebbe essere solo una l’anno, la settimana del cervello. Dovrebbero essere 366 giorni, almeno. Ma intanto un passo. Al via dall’11 marzo la Settimana Mondiale del Cervello alla sua quarta edizione, appoggiata dall’Enpap, l’Ente di previdenza e assistenza degli psicologi: 834 eventi in 800 città e oltre mille professionisti psicologi, psicoterapeuti, neuropsicologi, biologi, neuroscienziati, medici, logopedisti, insegnanti, tutti con l’obiettivo di diffondere i benefici e i progressi delle scoperte neuroscientifiche e di “animare il cervello”. La “Brain Awareness Week” nella versione italiana è coordinata dalle psicologhe Donatella Ruggeried Elisabetta Grippa.

GUARDA TUTTI GLI INTERVENTI

Per il presidente dell’Enpap Felice Torricelli, un dato vale la pena sottolineare: “Abbiamo sempre più strumenti che ci consentono di intervenire in maniera efficace per aiutare le persone a vivere una vita di migliore qualità: collaborare in maniera costruttiva e creativa tra professioni diverse mettendo insieme punti di vista diversi sul cervello, che non è soltanto il substrato fisiologico su cui costruiamo la nostra attività fisica, ma è anche un elemento di studio su cui convergono attenzioni da parte di discipline professioni molto varie, a disposizione di tutti per dare più possibilità a una vita piena e più dignitosa”.

Felice Torricelli, presidente dell’ENPAP

Federico Zanon, vicepresidente ENPAP

Molta attenzione è data al genere, nelle sue varie declinazioni: orientamento sessuale, coppie di fatto, discriminazioni, rapporti donna-ricerca. Federico Zanon, vicepresidente dell’ente di previdenza, spiega:

“La ricerca scientifica sulla psicologia delle differenze di genere sta aiutando a fare luce sulle reali caratteristiche che differenziano uomini e donne, differenze che sono molto lontane dagli stereotipi popolari su cui si fondano le gravi discriminazioni di cui la nostra società purtroppo è ancora intrisa. Queste discriminazioni, purtroppo, hanno effetti tangibili e molto concreti: dal gender pay gap alle difficoltà che le donne incontrano nel mondo del lavoro. Contiamo che la psicologia e i suoi risultati scientifici possono giocare un ruolo determinante nei prossimi anni per un’evoluzione sul piano dell’eguaglianza e dei diritti civili, e contro ogni forma di discriminazione basata sul genere e sull’orientamento sessuale”.

Istituita nel 1996 dalla Dana Alliance for Brain Initiatives, in corso ogni anno a marzo, la campagna italiana “La Settimana del Cervello” è organizzata e coordinata da Hafricah.net, portale di divulgazione neuroscientifica partner della Dana Foundation e creato da Donatella Ruggeri, psicologa e coordinatrice dell’evento.

Le psicologhe Elisabetta Grippa e Donatella Ruggeri

Dal 2007 Hafricah.net funge da anello di congiunzione tra il mondo accademico e il pubblico interessato all’argomento. Di anno in anno, sono cresciuti i consensi e le iniziative offerte ai cultori della materia e ai cittadini. Rispetto all’edizione precedente, quella del 2019 interessa tutte le Regioni (erano 19 nel 2018), gli eventi e i momenti di incontro sono 234 in più, e i professionisti impegnati sono passati da 600 a 1.139.

In questa edizione, come sottolinea la psicoterapeuta Elisabetta Grippa, è stato introdotto anche il Progetto Scuola, curato da Giorgia Marziani e Nicoletta Agostinelli e dall’Associazione Calliope. Il progetto ha vinto un prestigioso premio di riconoscimento da parte della Federation of European Neuroscience Societies (FENS), volto a dare a bambini ed adolescenti, attraverso un opportuno linguaggio, nuove conoscenze scientifiche, e inserendole in un apposito eBook di teorie e attività da svolgere in classe. Oltre ad offrire momenti dedicati alla conoscenza, nelle scuole potranno essere effettuati screening sulle abilità dell’apprendimento, per l’identificazione precoce dei DSA (disturbi specifici dell’apprendimento).

Da destra a sinistra: Federico Zanon, vicepresidente ENPAP, psicologo; Felice Damiano Torricelli, presidente ENPAP, psicologo; Antonella De Minico, moderatrice; Donatella Ruggeri, psicologa e UX designer, coordinatrice nazionale Settimana del Cervello; Elisabetta Grippa, psicologa, coordinatrice nazionale della Settimana del Cervello

“La figura dello psicologo è vicina ai bisogni delle persone, diffonde conoscenza–specifica Grippa–. Cominciare a compiere quest’opera già a partire dalla giovane età aiuta ad avere consapevolezza nelle scelte quotidiane, ad attuare decision making, a riconoscere le notizie vere da quelle false mettendole in discussione aldilà di pregiudizi e stereotipi. Perché la conoscenza rende liberi, più riflessivi e più inclini al pensiero critico”. Aumentano anche le possibilità di effettuare screening cognitivi per gli adulti, promossi con un protocollo uguale in tutta Italia e coordinati dalla Scuola di specializzazione in Neuropsicologia del Dipartimento di Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma, che ha dato all’evento il patrocinio istituzionale.

Michela Balconi, coordinatrice del progetto dell’Unità di ricerca in Neuroscienze sociali e delle emozioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

È inoltre introdotto il paradigma dell’hyperscanning: cosa accade nel nostro cervello e in quello dell’interlocutore quando iniziamo a interagire durante una conversazione e in che modo ci si sintonizza? Non più l’attenzione ad un cervello, bensì a due, in interazione, in una neuroscienza “a due persone”. Tema che trova applicazione utile in diversi settori, sociale, aziendale, clinico e riabilitativo, a cui risponde la professoressa Michela Balconi, coordinatrice del progetto dell’Unità di ricerca in Neuroscienze sociali e delle emozioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

“Divulgare, diffondere, oggi, vuole anche dire utilizzare i social network“, sottolinea la RuggeriL’edizione 2019 della Settimana del Cervello è anche online e sui social. In rete sono state lanciate due campagne: #chegeneredicervello e #ricerchepazze. La prima indaga sulle innegabili differenze tra cervello femminile e maschile, sottolineando come queste differenze siano un punto di forza e non un motivo per continuare ad alimentare gli stereotipi di genere; la seconda si propone di intrattenere il pubblico raccontando alcuni tra gli studi neuroscientifici più stravaganti.

Iscrivendosi alla newsletter del sito www.settimanadelcervello.it si può ricevere l’eBook “Share some Lobe”, ricco di informazioni scientifiche sul personaggio Mr. Brain (link diretto per iscrizione alla newsletter: http://bit.ly/2GYMOtf).

La settimana terminerà, ma l’auspicio è che il cervello non faccia la stessa fine. (ROMINA CIUFFA)

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JURACY: EPOCA “JURASSICA” DEL BRASILE A ROMA

Fino a poco tempo fa Roma era un altro Brasile. Solo chi c’era, chi lo ha vissuto, sa cos’era; chi è arrivato dopo, è arrivato dopo la partenza di troppi brasiliani che hanno fatto la storia della brasilianità romana, fuggiti, nella gran parte dei casi, perché l’Italia non aveva, né ha, più alcunché da offrire. Uno di costoro è Luis Juracy Rangel Lemos: astrofisico, malandro, sambista. 5 anni a Roma per un dottorato in Astrofisica relativistica, nel 2012 torna in Brasile e con lui va via un pezzo di «riomanità» pura, pirandelliana, nella quale ogni samba costituisce un pezzo di poesia d’autore. L’epoca “jurassica” è terminata. Oggi è di passaggio a Roma per le sue ricerche “interplanetarie”. Pubblicammo, alla sua partenza, un cartaceo interamente dedicato a lui (oggi al link http://www.scribd.com/doc/86905581/RIOMA-1-Juracy-lampo-di-raggi-gamma) per spiegare, a tutti coloro che lo avevano conosciuto o ne avevano sentito parlare, chi è Juracy: lo riproponiamo, per aggiornarlo nel futuro prossimo con il prosieguo sella sua storia e la descrizione di molti altri dei brasiliani che hanno collaborato a rendere Roma… Rioma.

JURA

RODA PLANETARIA

La gente dice: È matto. Oppure: Vive in un mondo di fantasia. O ancora: Come può confidare in cose prive di logica? – ma il guerriero continua ad ascoltare il vento e a parlare con le stelle. Paolo Coelho (da Manuale del guerriero della luce) qui sembra descrivere  Juracy. Di lui si dice «è matto»: vederlo per anni nel suo completo bianco da malandro non può che condurre un osservatore superficiale a tale conclusione. Vive in un mondo di fantasia ogni qualvolta, mentre suona un samba, Juracy si ferma, mi prende l’orecchio e comincia a descrivere tutta la storia della singola composizione: l’autore, il racconto, il momento storico, e vi aggiunge finanche considerazioni personali. Fantasia perché, ad un tratto, nei suoi insight proietta fuori di sé tutte le stelle che ha dentro e invita a guardarle. Juracy è quello che, durante un samba, mi ha spiegato tutta la sua tesi di laurea in Astrofisica partendo da un discorso sulla linguistica e, con estremo rigor di logica, giungendo alle statistiche del cosmo. Poi torna a sambare nella sua Malandragem personale, totale: l’essere Juracy significa un cosmo nel quale i pianeti si riuniscono attorno a un cerchio, il Sole, per danzare un samba luminoso, vera e propria roda interplanetaria.

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JURACY, LAMPO DI RAGGI GAMMA
«Il segreto non è prendersi cura delle farfalle, ma prendersi cura del giardino, affinché le farfalle vengano da te. Alla fine troverai non chi stavi cercando, ma chi stava cercando te» (Farfalle, Màrio Miranda Quintana, poeta delle piccole cose). È questa la chiosa iniziale che scelgo per parlare di Luis Juracy Rangel Lemos. C’è un motivo. Non è trascorso giorno in cui Juracy non abbia ricordato a tutti l’importanza della poesia e della cultura brasiliana, dell’approfondimento, dell’analisi. Guardare al cielo – un astrofisico lo fa – rende  ciò che è lontano vicino, esperibile.

La cultura è una stella. Lo si capisce anche solo dalla risposta ad una domanda semplice: come ti chiami? «Luis era il nome del mio nonno materno, Juracy il nome di mio padre; Rangel il cognome di mia madre, venezuelana, Lemos di mio padre, paulista. Il nome Juracy deriva dalle lingue indigene Tupi-Guarani e significa persona che fa del bene». Non solo. Specifica: «Sono nato negli Llanos venezuelani il 27 marzo 1980. Mio nonno materno è originario della Cordigliera delle Ande, vicino a San Cristobal, alla frontiera con la Colombia; mia nonna materna nacque su un’isola caraibica, Margarita. Mia nonna paterna è originaria del sertão pernambucano, discendente da un olandese e un’indigena. Mio nonno paterno era un alagoano mulatto dell’Agreste. Fu un importante leader nella regione del Pontal do Paranapanema contro lo sfruttamento dei contadini; venne ucciso dalla polizia del dittatore Getulio Vargas nel 1953. Mio padre aveva solo 4 anni».

Astrofisico, in Italia dal 2006 con una borsa di studio, Juracy ha discusso la propria tesi di dottorato il 15 dicembre 2011 ed è tornato in Brasile, dopo essersi reso noto nel panorama romano. Approfondire le origini di un «cittadino del mondo», come si definisce, è essenziale per capirne l’essenza, quella che lo ha portato a guardare il cosmo da Roma. Il padre di Juracy studiò Fisica a Mosca tra il 1970 e il 1976. Per la presenza su territorio brasiliano della dittatura militare, proveniendo da una famiglia di sinistra, ritenne più sicuro il Venezuela, dove nel 1976 vi si recò ad insegnare Fisica. «Fu lì che conobbe mia madre, dando lezioni di fisica, e lì che si sposarono ed ebbero tre figli (le mie due sorelle, una del 1977, l’altra del 1981). Nel 1986 mio padre trovò lavoro a Boa Vista, capitale dello Stato di Roraima, vicino alla Foresta Amazzonica». Questo Stato ha circa 200 mila abitanti su una dimensione poco inferiore all’Italia.

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Juracy nuota negli igarapés, i corsi d’acqua amazzonici. La regione è abitata da un insieme di etnie differenti: «Ho imparato il portoghese con i figli degli immigranti». Dopo 6 anni e mezzo, suo padre ottiene un lavoro al Cefet (Centro Federal de Educação Tecnológica) di Paraná, a sud, più precisamente a Medianeira, al confine con l’Argentina e il Paraguai, freddo d’inverno sotto zero, abitato da discendenti europei, fondamentalmente tedeschi ed italiani del nord. Una delle terre più fertili del mondo, oggi ancora di stampo prevalentemente agricolo, prima dominata da una foresta molto fitta, la Mata Atlântica. «Il Paraná è uno Stato molto ricco. Presi parte al movimento studentesco della scuola superiore finché, nel febbraio del 1999, non mi recai a studiare Fisica nella UFSCar, l’Università federale di São Carlos, all’interno dello Stato di São Paulo», secondo l’Enade (Exame Nacional de Desempenho dos Estudantes) la migliore università del Paese. L’esperienza è molto positiva, il modello prende spunto da quello nord-americano: «Una interazione incredibile, campionati sportivi oltre le aspettative, finanche un campionato di Fisica».

Nel febbraio del 2004 Juracy inizia un dottorato in Cosmologia presso l’Osservatorio di Valogno, all’interno del Dipartimento di Astronomia dell’Università federale di Rio de Janeiro. «I due anni e mezzo trascorsi a Rio hanno costituito i momenti più intensi della mia vita. Una città estremamente violenta, nel contempo meravigliosa: la natura, le spiagge, la gente, le rode de samba, il teatro e milioni di altre qualità. Fu a Rio che iniziò la mia passione per il samba, nei locali senza amplificazione, nelle rode attorno ai tavoli, nelle strade, mai dimenticando di cantare i samba più antichi come si chiedessero benedizioni per i loro stessi compositori; i duelos versados, duelli di improvvisazione; i testi profondi, le tematiche forti – amore, politica, storia, valori, satira -. Tutto questo catturò la mia attenzione. Allora capii l’importanza della cultura popolare e come la sua conservazione sia necessaria al benessere di un popolo».

Il 17 ottobre del 2006 Juracy parte per l’Italia con una borsa di dottorato in Astrofisica relativistica nell’Università La Sapienza. A Roma arriva solo il 17 dicembre: prima trascorre un mese a Pescara ed uno a Parigi. Studia il fenomeno del Gamma Ray Burst, l’esplosione di raggi gamma, intensi lampi che possono durare da pochi millisecondi a diverse decine di minuti. Queste potenti esplosioni di GRB costituiscono il fenomeno più energetico finora osservato nell’universo. «Ancora non siamo riusciti a spiegarci come sono prodotti».

 

Il primo anno a Roma è anche l’anno della scoperta della musica italiana, principalmente Fabrizio De Andrè e il genere della pizzica. «Eppure con il tempo, il samba è tornato ad essere la mia valvola di fuga per uccidere la saudade della mia terra. In Europa ho appreso almeno l’80 per cento di tutto ciò che so del samba stesso. Ma in Italia ho studiato anche la storia europea, quindi quella cinese, ed ho conosciuto più di 10 Paesi europei e, tra le altre, le città Dublino, Istanbul, Barcellona e Stoccolma. Credo che il livello dell’università italiana sia molto elevato, sebbene abbia io stesso assistito al crollo della sua qualità, dovuto probabilmente ai Governi che si sono susseguiti e alle continue crisi che non fanno che portare con sé verso il basso tutto il sistema didattico».

Ma la chiosa finale è sempre di Quintana: «Non so cosa vogliono da me questi alberi, questi vecchi angoli di strada, da essere così miei solo guardandoli un istante.»

 

MALANDRO

Il sambista è un personaggio classico  brasiliano, caratterizzato da un’attitudine furba; negli anni 30 e 40 ad esso ci si riferiva con il termine di malandro, figura somigliante al Casanova italiano, uomo non sposato che possiede molte donne, non lavora eppure ha sempre denaro, spesso vinto al gioco; lo mantengono le donne e la musica. Ha sempre la meglio. Indossa un completo bianco e un cappello Panama e cammina dondolando con una navalha de barbear in mano (il rasoio di barbiere). Oggi «malandro» costituisce quasi un titolo nobile. Esempio della Malandragem carioca è il cantautore Bezerra da Silva.

Malandragem: Define-se como um conjunto de artimanhas utilizadas para se obter vantagem em determinada situação (vantagens estas muitas vezes ilícitas). Caracteriza-se pela engenhosidade e sutileza. Sua execução exige destreza, carisma, lábia e quaisquer características que permitam a manipulação de pessoas ou resultados, de forma a obter o melhor destes, e da maneira mais fácil possível. Contradiz a argumentação lógica, o labor e a honestidade, pois a malandragem pressupõe que tais métodos são incapazes de gerar bons resultados. 

 

 

Qui sotto la pagina del cartaceo di RIOMA BRASIL (per leggerlo bene: http://www.scribd.com/doc/86905581/RIOMA-1-Juracy-lampo-di-raggi-gamma) che uscì in tutta Roma, con il servizio su Juracy. Chi ne possiede l’originale… ha un pezzo da collezione. Romina Ciuffa




NASCE WEDŌ LABEL, L’ETICHETTA DI MUSICA COPERNICANA

Presentazione: Cortile Cafè (Via Nazario Sauro 24/A), Bologna – lunedì 26 novembre 2018 h 21.30 

Sarà presentata, lunedì 26 novembre alle ore 22 negli spazi dello storico Cortile Cafè di Bologna, la nuova etichetta indipendente WEDŌ ma anche “social”, nata dall’ingegno di Francesco Maria Gallo, comunicatore cresciuto negli ambienti del DAMS di Bologna, allievo di Umberto Eco e seguace di Luciano Nanni, nonché cantautore e musicista. Con lui nel team la giornalista, editrice e scrittrice Romina Ciuffa, tra le prime cantautrici ad essere prodotta dalla label (qui di seguito il link ai tre estratti dell’album in uscita, “Sandra e Raimondo”, “Pellicine” e “Su un filo di imene: PLAYLIST @ https://www.youtube.com/watch?v=cwP1fJZqbd8&list=PLP32VaNlelOr0D1ezijG2hXtqjMGw98al).

Il nome WEDŌ significa tante cose e, tutte, con o senza trattino, spiegano il significato del progetto. “We do” in inglese significa “facciamo”, perché questo è un fare: fare musica. “Do” in italiano indica il dare: dare musica. Il trattino di WEDŌ è inserito di proposito per distinguerlo dalla connotazione inglese, perché si legga come il “do”, la nota musicale. Ma non solo: dō, nel linguaggio kanji giapponese, significa “ciò che conduce”, nel senso di disciplina vista come via, percorso, cammino, in senso fisico e spirituale. In latino, l’interiezione “ō!” esprime altresì un’ampia gamma di emozioni: gioia, dolore, desiderio, ammirazione, stupore. Un’invocazione, un’esclamazione, l’unione degli opposti, il disco del sole e della luna.

Dischi: sono quelli che, insieme a Mauro Alberghini, conduttore radiofonico di Radio Città del Capo, saranno presentati in prima nazionale durante l’evento, trasmesso in diretta nazionale radio e video. Si esibiranno dal vivo i primi prodotti selezionati fra moltissimi dai talent scouter di WEDŌ: oltre agli stessi Francesco Maria Gallo e Romina Ciuffa in veste di produttori ed artisti, lo spagnolo Jay The Truth, con un brano che scivola dialetticamente tra spagnolo, inglese e spagnolo senza soluzione di continuità, il quale non rivela il proprio volto per scelta personale e, pertanto, il suo brano sarà presentato dalla performance di danza contemporanea di Laura Ulisse. Quindi i volti scoperti della neonata label: Nicoletta Noè, Andrea Mazzacavallo, Honey & Red Wine (Lisa Maria Gelhaus e Max Marchetti feat. Claudio Vignali), Tiziana Scimone, Le anime leggere (Nicola Bagnoli e Tiziano Tarli) e il già noto Legality Band Project (Francesco Maria Gallo, Filippo Lambertucci, Manuel Goretti, Daniele Raffaelli e Agostino Raimo).

Mauro Alberghini, Radio Città del Capo

WEDŌ non è solo un’etichetta discografica o un produttore. Canale digitale della nuova frontiera della musica emergente e indipendente, sviluppa offerte modellate sulle esigenze specifiche del pubblico e coglie le opportunità di ampliare il pubblico potenzialmente raggiungibile. Rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana, perché equivale all’individuazione di tutta quella nuova generazione di compositori, autori, cantautori ed interpreti, che in tutto il mondo, attraverso il social WEDŌ, interagiranno con i loro follower condividendo le proprie produzioni: l’un con l’altro incrementeranno la conoscenza, la diffusione, la vendita e lo streaming di un prodotto di qualità, altamente selezionato dal principio. Non è un mescolone, è una selezione. La selezione di quelli bravi, o di quelli che a WEDŌ piacciono. Questo sistema di sharing people tra artisti indipendenti stima una community in un anno di oltre 4 milioni di utenti in Italia e 15 milioni di utenti in Europa.

Francesco Maria Gallo

WEDŌ è anche una piattaforma che, attraverso una serie di servizi trasversali (videointerviste, live streaming di house concert, videoclip, raccolta di partiture e booklet, mappatura di autori indipendenti nel mondo, geolocalizzazione dei concerti indie, geolocalizzazione dei compositori) offre opportunità di migliorare l’engagement digitale degli appassionati della musica emergente e indipendente. Il team WEDŌ sfrutterà la molteplicità relazionale della piattaforma digitale per promuovere le produzioni in-store, allestendo, di volta in volta, specifiche campagne marketing interattive attraverso cui aumentare e implementare nel mondo social il coinvolgimento diretto degli appassionati prima durante e dopo della pubblicazione del prodotto digitale.

La distribuzione coinvolge: AppleMusic, YouTube Music, Spotify, Amazon Music, Google Play, Pandora, Deezer, iHeartRadio, Napster, MediaNet, TouchTunes / PlayNetwork, VerveLife, Tidal, Gracenote, Shazam, 7Digital, Juke, Slacker, KKBox, Akazoo, Anghami, Spinlet, Media neurotico, Yandex, Target Music, ClaroMusica, Zvooq, Saavn, 8tracks, Q.Sic, Kuack, Boomplay Music, SimfyAfrica.




BRADICARDIA

BRADICARDIA

E poi me saltate addosso,
ed il coup de foudre provate,
e poi confessate “giuro,
ch’a livelli de ‘sti qua
a me nun m’era successo”,
e poi “sesso?”.

E “de soldi te ricopro” ieri m’ha detto,
aggiungendo pe’ da’ effetto:
“te regalo la barca, te regalo” (quanto affetto),
ed ancora domandate “ce sta tu marito in sala?”
quando non
“un figlio io, co’ te, lo farei mo’:
verrebbe un genio pensa ‘n po’,
pensace n’attimo (intanto abbraccico)”.

Io ‘n ‘ce penso, ma ce sudo e ce risudo,
poi ce tremo:
DNA ridotto a stremo.

Puntualmente
ve rispondo a tutti quanti,
cortese, con l’occhi mia ingranati,
appesantiti dall’insonnia
della rogna:
ve prego, ve supplico, nun je la faccio più,
lo sento dire almeno ducento volte ar giorno
– “t’amo e t’orno” –
e voi me dite seri: “ammazza, umile”,
ma continuate a far fraseggio stabile
e filosofico buttato là,
che a me me suona come “blablabla”
privo di ogni fondamento.

Così me chiudo in casa,
ASAP sola me potenzio
e penso:
daje, quanto è bello sto momento,
qui che al massimo c’è ‘r vento.

Ma chi esce, ma chi trama,
perché ‘nse sta zitto e m’ama? In silenzio,
pe’ poi fassela passa’
perché io del còre altrui nun vojo traccia
né minaccia:
voi gestiteve l’infarto,
e io so’ bona con la testa non col còre,
ché pe’ córe
come ‘na maratoneta
c’ho ‘no squarto.
Voi teneteve l’infarto,
che io amo solo lei, solo lei,
che so’ anni che è la mia
e non è l’anomalia
che me ripetete invano.
Voi teneteve l’infarto,
che io amo solo lei, solo lei
che da sempre è stata mia:
amo la bradicardia.

Romina Ciuffa tratto da una storia vera
in prelusione alla mia prossima pubblicazione
Per acquisto della raccolta “RASSOGNAZIONE”: www.mementoromi.com/product-page/rassognazione-ebook




SCOMPAIO

SCOMPAIO

Scompaio, con un paio
di ali blu marino.
Scompaio e ti rovino.

IL VIDEO

Romina Ciuffa
in prelusione alla mia prossima pubblicazione