SETTIMANA DEL CERVELLO 2019: CHE GENERE E CHE GENDER DI CERVELLO?

In collaborazione con PSICHELOGIANon dovrebbe essere solo una l’anno, la settimana del cervello. Dovrebbero essere 366 giorni, almeno. Ma intanto un passo. Al via dall’11 marzo la Settimana Mondiale del Cervello alla sua quarta edizione, appoggiata dall’Enpap, l’Ente di previdenza e assistenza degli psicologi: 834 eventi in 800 città e oltre mille professionisti psicologi, psicoterapeuti, neuropsicologi, biologi, neuroscienziati, medici, logopedisti, insegnanti, tutti con l’obiettivo di diffondere i benefici e i progressi delle scoperte neuroscientifiche e di “animare il cervello”. La “Brain Awareness Week” nella versione italiana è coordinata dalle psicologhe Donatella Ruggeried Elisabetta Grippa.

GUARDA TUTTI GLI INTERVENTI

Per il presidente dell’Enpap Felice Torricelli, un dato vale la pena sottolineare: “Abbiamo sempre più strumenti che ci consentono di intervenire in maniera efficace per aiutare le persone a vivere una vita di migliore qualità: collaborare in maniera costruttiva e creativa tra professioni diverse mettendo insieme punti di vista diversi sul cervello, che non è soltanto il substrato fisiologico su cui costruiamo la nostra attività fisica, ma è anche un elemento di studio su cui convergono attenzioni da parte di discipline professioni molto varie, a disposizione di tutti per dare più possibilità a una vita piena e più dignitosa”.

Felice Torricelli, presidente dell’ENPAP

Federico Zanon, vicepresidente ENPAP

Molta attenzione è data al genere, nelle sue varie declinazioni: orientamento sessuale, coppie di fatto, discriminazioni, rapporti donna-ricerca. Federico Zanon, vicepresidente dell’ente di previdenza, spiega:

“La ricerca scientifica sulla psicologia delle differenze di genere sta aiutando a fare luce sulle reali caratteristiche che differenziano uomini e donne, differenze che sono molto lontane dagli stereotipi popolari su cui si fondano le gravi discriminazioni di cui la nostra società purtroppo è ancora intrisa. Queste discriminazioni, purtroppo, hanno effetti tangibili e molto concreti: dal gender pay gap alle difficoltà che le donne incontrano nel mondo del lavoro. Contiamo che la psicologia e i suoi risultati scientifici possono giocare un ruolo determinante nei prossimi anni per un’evoluzione sul piano dell’eguaglianza e dei diritti civili, e contro ogni forma di discriminazione basata sul genere e sull’orientamento sessuale”.

Istituita nel 1996 dalla Dana Alliance for Brain Initiatives, in corso ogni anno a marzo, la campagna italiana “La Settimana del Cervello” è organizzata e coordinata da Hafricah.net, portale di divulgazione neuroscientifica partner della Dana Foundation e creato da Donatella Ruggeri, psicologa e coordinatrice dell’evento.

Le psicologhe Elisabetta Grippa e Donatella Ruggeri

Dal 2007 Hafricah.net funge da anello di congiunzione tra il mondo accademico e il pubblico interessato all’argomento. Di anno in anno, sono cresciuti i consensi e le iniziative offerte ai cultori della materia e ai cittadini. Rispetto all’edizione precedente, quella del 2019 interessa tutte le Regioni (erano 19 nel 2018), gli eventi e i momenti di incontro sono 234 in più, e i professionisti impegnati sono passati da 600 a 1.139.

In questa edizione, come sottolinea la psicoterapeuta Elisabetta Grippa, è stato introdotto anche il Progetto Scuola, curato da Giorgia Marziani e Nicoletta Agostinelli e dall’Associazione Calliope. Il progetto ha vinto un prestigioso premio di riconoscimento da parte della Federation of European Neuroscience Societies (FENS), volto a dare a bambini ed adolescenti, attraverso un opportuno linguaggio, nuove conoscenze scientifiche, e inserendole in un apposito eBook di teorie e attività da svolgere in classe. Oltre ad offrire momenti dedicati alla conoscenza, nelle scuole potranno essere effettuati screening sulle abilità dell’apprendimento, per l’identificazione precoce dei DSA (disturbi specifici dell’apprendimento).

Da destra a sinistra: Federico Zanon, vicepresidente ENPAP, psicologo; Felice Damiano Torricelli, presidente ENPAP, psicologo; Antonella De Minico, moderatrice; Donatella Ruggeri, psicologa e UX designer, coordinatrice nazionale Settimana del Cervello; Elisabetta Grippa, psicologa, coordinatrice nazionale della Settimana del Cervello

“La figura dello psicologo è vicina ai bisogni delle persone, diffonde conoscenza–specifica Grippa–. Cominciare a compiere quest’opera già a partire dalla giovane età aiuta ad avere consapevolezza nelle scelte quotidiane, ad attuare decision making, a riconoscere le notizie vere da quelle false mettendole in discussione aldilà di pregiudizi e stereotipi. Perché la conoscenza rende liberi, più riflessivi e più inclini al pensiero critico”. Aumentano anche le possibilità di effettuare screening cognitivi per gli adulti, promossi con un protocollo uguale in tutta Italia e coordinati dalla Scuola di specializzazione in Neuropsicologia del Dipartimento di Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma, che ha dato all’evento il patrocinio istituzionale.

Michela Balconi, coordinatrice del progetto dell’Unità di ricerca in Neuroscienze sociali e delle emozioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

È inoltre introdotto il paradigma dell’hyperscanning: cosa accade nel nostro cervello e in quello dell’interlocutore quando iniziamo a interagire durante una conversazione e in che modo ci si sintonizza? Non più l’attenzione ad un cervello, bensì a due, in interazione, in una neuroscienza “a due persone”. Tema che trova applicazione utile in diversi settori, sociale, aziendale, clinico e riabilitativo, a cui risponde la professoressa Michela Balconi, coordinatrice del progetto dell’Unità di ricerca in Neuroscienze sociali e delle emozioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

“Divulgare, diffondere, oggi, vuole anche dire utilizzare i social network“, sottolinea la RuggeriL’edizione 2019 della Settimana del Cervello è anche online e sui social. In rete sono state lanciate due campagne: #chegeneredicervello e #ricerchepazze. La prima indaga sulle innegabili differenze tra cervello femminile e maschile, sottolineando come queste differenze siano un punto di forza e non un motivo per continuare ad alimentare gli stereotipi di genere; la seconda si propone di intrattenere il pubblico raccontando alcuni tra gli studi neuroscientifici più stravaganti.

Iscrivendosi alla newsletter del sito www.settimanadelcervello.it si può ricevere l’eBook “Share some Lobe”, ricco di informazioni scientifiche sul personaggio Mr. Brain (link diretto per iscrizione alla newsletter: http://bit.ly/2GYMOtf).

La settimana terminerà, ma l’auspicio è che il cervello non faccia la stessa fine. (ROMINA CIUFFA)

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APRE IL MIO STUDIO DI PSICOLOGIA ED IPNOSI

ROMINA CIUFFA
psicologa (Iscrizione Ordine degli Psicologi del Lazio n. 22761)
ipnoterapeuta (Scuola di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana diretta da Camillo Loriedo)

mail: info@rominaciuffa.com

MODULO DI CONTATTO RAPIDO
al link: https://www.psichelogia.com/consulto

Riceve negli studi di:
ROMA
(Centro Storico, Metro Barberini o Spagna)
CASTELLI ROMANI
(Monte Compatri)
MILANO
(Centro-Zona Navigli, Metro Sant’Agostino o Porta Genova) previo accordo ONLINE sulle consuete piattaforme
e in viaggio (METODO DROMO)

LINGUE > italiano, inglese, spagnolo, portoghese

PRINCIPALI AMBITI DI INTERVENTO

  • ansia, attacchi di panico, disturbi psicosomatici
  • ossessioni, dipendenze
  • LGBTIA, con particolare riguardo alla tematica omosessuale e di orientamento sessuale
  • dipendenza da farmaci e psicofarmaci
  • supporto all’età evolutiva (bambini ed adolescenti) in ambito scolastico, ripetizioni, aiuto nei compiti, socialità
  • disturbi da stress post-traumatico
  • terapia di coppia
  • insicurezze
  • ”mal d’amore”
  • ipnoterapia se necessario

Le sessioni di terapia psicologica seguono principalmente il modello di Milton Erickson. Sedute “classiche”, ma anche movimento, gite, passeggiate, compiti, e ciò che possa essere d’aiuto all’inconscio nello specifico, nella sua unicità: la classe dei cani non è essa stessa un cane. Si abbandona il letto di Procuste, ossia non si effettua alcuna forzatura (nella mitologia greca il brigante Procuste, anche conosciuto come “stiratore”, costringeva gli ignari viandanti in un letto scavato nella roccia, misurandoli: se troppo corti li stirava con l’incudine, se troppo lunghi e sporgenti li amputava fino a farli rientrare; le vittime, nei due sensi, morivano tra atroci torture). Il processo è naturale, si incoraggiano anche le resistenze, si promuove il cambiamento in un approccio naturalistico, si dorme sia corti che sporgenti senza stirare né amputare, grazie al dialogo con l’inconscio. Junghianamente riassumendo: alla parola viene affidato tutto ciò che non si è potuto ottenere con mezzi onesti.

MODELLO ERICKSONIANO. Il modello di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana si fonda sull’esperienza dello psichiatra, psicoterapeuta ed ipnoterapeuta statunitense (daltonico, dislessico, tonalmente sordo, poliomielitico, paralizzato) Milton Erickson (1901-1980) che, imparando a guarire se stesso, seppe guarire gli altri. Scoprì sin da giovane la focalizzazione ideodinamica indiretta (ogni idea tende a tradursi in atto): seduto su una sedia a dondolo, completamente paralizzato, si esercitava a pensare di guardare la finestra e immaginava che la sedia dondolasse; facendo questo esercizio, via via riprese piena padronanza dei movimenti. Era autoipnosi. Il suo lavoro nel tempo rivoluzionò le stesse fragili fondamenta dell’ipnosi e si pose come base dei nuovi approcci della psicoterapia strategica (di cui è considerato il padre, e nell’ambito della quale collaborò con George Bateson, che gli inviava pazienti), della psicoterapia breve-strategica (Paul Watzlawick a Palo Alto, Giorgio Nardone in Italia), della programmazione neurolinguistica (PNL), del costruttivismo, del coaching/counseling.

L’inconscio è di per sé strumento di guarigione, già detentore delle risorse utili al percorso evolutivo dell’individuo. Il quale non sa accedervi. Lo psicologo è colui che – attraverso il dialogo diretto con l’inconscio stesso per via di storie suggestive e metafore più o meno percettibili come tali dall’ascoltatore, nonché di un linguaggio “vago” (Milton Model), ma sempre nell’ambito di un rapport unico con il paziente – pone questi in grado di utilizzare “se stesso” per trovare la sua via d’uscita. La trance è “solo” un ambiente dove imparare, dove modificare il proprio stato. E non è, come si crede, il “dormire”: si può essere in trance anche nel pieno esercizio delle proprie funzioni cognitive, senza rendersene conto. Ogni giorno si cade in trance spontaneamente quando, leggendo un libro, guardando un film, assorti nei propri pensieri, scarabocchiando su un foglio mentre si è al telefono (scrittura automatica), non si sentono i rumori, non si vedono i dettagli, si dimentica un’intera stanza, un’intera spiaggia, un’intera isola, un intero mondo. Si cade in trance quando si sta ricordando, quando si ascolta un interlocutore, quando si fa la doccia, in un déjà-vu.

L’ipnoterapeuta induce la trance e, nel modello ericksoniano, assume un ruolo di guida, riassunto nell’asserzione ipnotica di Erickson: la mia voce ti accompagnerà (“My voice will go with you”). In questo spazio suggestivo, gestisce le risorse in senso favorevole alla persona che già le detiene, focalizzandosi sul suo benessere psicologico e, ove necessario, fisico (è il caso dell’analgesia e dell’anestesia). L’ipnoterapeuta protegge il paziente, e ciò può fare possedendo gli strumenti della psicoterapia: chiunque svolga pratiche di ipnosi senza una istruzione adeguata ed un titolo che la certifichi, non è qualificato. Lo psicoterapeuta ha compiuto studi che attengono direttamente alla diagnosi e alla terapia dei disturbi psicopatologici; e poiché la clinica e la sperimentazione sono strettamente legate, lo psicologo ipnotista rigorosamente diretto alla sperimentalità deve avere pratica dell’ipnoterapia. Chi è abilitato all’ipnosi? La mia risposta è qui: www.rominaciuffa.com/ipnosi-soggetti-abilitati/.

Risulta fondamentale la qualità della “coppia” terapeuta-paziente, di tipo relazionale e speculare. Il terapeuta andrà plausibilmente in trance prima del suo paziente in un rapporto di complementare fiducia: l’ipnotista non farà ipnosi alla persona ma con la persona. Il rapport sarà basato sul tailoring, poiché esattamente come in sartoria sarà ritagliato il vestito adatto a ciascun individuo. Così come fece innanzitutto su se stesso Milton Erickson, trovando soluzioni che implementassero le sue risorse e ridimensionassero i suoi (molti) handicap: si cucì addosso un completo che fosse “completo” proprio perché suo, e che lo “completasse” là dove sembrava/era dato per scontato che lui non potesse arrivare. Nonostante la sua grave disabilità fisica, affrontò da solo un viaggio in canoa pur senza la forza nelle gambe necessaria per muovere la canoa fuori dall’acqua, nuotare, pagaiare; per tutta un’estate navigò lungo il Mississippi, nutrendosi dei pesci che pescava e delle piante che trovava, e percorse 1.200 miglia. Dopo questa esperienza, il suo torace era aumentato di 15 centimetri, poteva nuotare per un chilometro e mezzo e pagaiare dall’alba al tramonto. E non fu la sua unica impresa. Questa non è una potenzialità di Erickson: è la potenzialità di tutti.


Milton Erickson

ESPERIENZE. Romina Ciuffa, laureata in Psicologia all’Università La Sapienza di Roma (già avvocato, dopo aver conseguito le laureee in Giurisprudenza all’Università LUISS-Guido Carli nel 1999, e in Scienze Politiche all’Università ROMA TRE nel 2001), ha, tra l’altro, lavorato presso il Carcere di Rebibbia in sostegno ai carcerati del Complesso Penale prima (Ministero di Giustizia), quindi del SerT (Servizio Tossicodipendenze) nel Nuovo Complesso (alcol, droga, gioco d’azzardo), specializzandosi nelle dipendenze (Ministero della Salute), con la dott.ssa Anna Augusta Taddeo. Ha trascorso anni nella Favela della Rocinha (Rio de Janeiro) occupandosi delle problematiche della comunità, con principale attenzione alle dinamiche dell’infanzia e dell’adolescenza dei ragazzi di strada e, negli adulti, delle situazioni di malessere, povertà, malattia.

È specializzata in Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana presso la scuola di Roma, diretta dal prof. Camillo Loriedo, psichiatra, docente di Psichiatria presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, direttore della UOC di Psichiatria e Disturbi del Comportamento Alimentare presso il Policlinico Umberto I, autore di innumerevoli pubblicazioni. 

Ha collaborato come psicologa con il dott. Emanuele Mazzone nel Presidio di Riabilitazione NUOVA SAIR a Roma, attraverso l’applicazione agli adolescenti autistici dell’ipnosi indiretta. Il Presidio accoglie giovani autistici cui vengono erogate prestazioni riabilitative, attività di carattere ludico-ricreativo e ludico-sportivo e attività sanitarie di tipo medico-infermieristico. L’area di azione del centro è la periferia di Roma est, caratterizzata da un alto livello di disagio socio-economico e marginalità.

Giornalista con all’attivo molte pubblicazioni sul tema della psicologia, i suoi articoli sono pubblicati sulla rivista quarantennale SPECCHIO ECONOMICO, in una specifica rubrica che lei stessa cura, e sul suo sito MUTATIS MUTANDIS nella categoria PSICOLOGIA (www.rominaciuffa.com/category/psicologia/).

Opera anche su METODO DROMO, di sua elaborazione: www.dromobility.com/metododromo.

Messo a punto in anni di viaggi e dromomania dalla stessa Romina Ciuffa, il METODO DROMO prende atto della necessità di fuggire – tacciata dai più con un connotato negativo e grossolano – e la utilizza come risorsa per superare ericksonianamente l’empasse. Attraverso la terapia, l’ipnosi e viaggi mirati, sarà utilizzato il “tempo di fuga” da taluni problemi non come semplice (e pericoloso) stacco e distacco, bensì come crescita e velocizzazione del metabolismo emotivo attraverso il ricorso ai nuovi stimoli o il corretto impiego degli antichi. Sarà un viaggio alla ricerca di se stessi, in superamento di fobie, depressioni, attacchi di panico, ossessioni, ed altro. Particolarmente indicato per affrontare e/o risolvere i problemi di una coppia, ivi inclusi quelli attinenti il tradimento, di cui è punto di forza. Si sviluppa in un viaggio mentale ed effettivo, una partenza vera e propria “senza ritorno”. 

Per contatti diretti e chat: www.psichelogia.com

 




IPNOSI: ORA ALZATI E UCCIDI. PARTE 2: DAL REATO IMPOSSIBILE ALL’INCONSCIO TESTIMONE IN GIUDIZIO

Segue da https://www.rominaciuffa.com/ipnosi-soggetti-abilitati/

IPNOSI. ASPETTI GIURIDICI
di Romina Ciuffa*
psicologa ipnotista
avvocato

PARTE 2. L’IPNOSI NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO

Introduzione alla seconda parte

A me gli occhi. Ora alzati e uccidi. È possibile? Dò la risposta alla vexata quaestio che tormenta chi ha dubbi sul potere dell’ipnosi, tanto in negativo (“Su di me non ha effetto”), tanto in positivo (“Ma io ho paura!”). Ne dò la risposta analizzando l’ordinamento giuridico in questo mio personale studio, che nelle precedenti versioni del Codice penale italiano aveva fatto invece l’illustre (ben più di me) autore Guglielmo Gulotta, ma che ora va rivisitato per la nuova formulazione. Per un giurista, infatti, a tale domanda si affianca il più rilevante interrogativo: di chi è la responsabilità dell’azione compiuta e indotta in stato di trance? E, ancor prima: è possibile che l’ipnosi possa tanto? Perché, se sì, viva l’ipnosi. Pericolosa sì, ma potente. Mi sono domandata, così, accanto ad altri, se non si rientri nella fattispecie del reato impossibile (art. 49, comma 2, del codice penale): una risposta positiva (l’ipnosi configura una fattispecie di reato impossibile al pari di chi voglia uccidere e, per farlo, spari con una pistola giocattolo, o pugnali un fantoccio) depotenzia lo strumento ipnotico ma ci rende liberi; una risposta negativa (il reato è possibile, ossia si può indurre l’ipnotizzato a compiere un atto contro la propria volontà, anche criminale, così come abusare di lui) potenzia l’ipnosi e apre uno scenario immenso non solo nella psicologia e nella psichiatria, ma anche nell’ordinamento giuridico, anche alla luce della responsabilità penale personale che la Costituzione esprime. E pur sempre viva l’ipnosi.

Ciò detto vale (con le dovute specifiche qui sotto indicate) non solo per il dilemma penale. Nel codice civile, il punto interessante è quello della sanzione per l’atto compiuto in stato di ipnosi: nullità, annullabilità, inesistenza? Un giurista sa quanto la questione sia rilevante: indurre a scrivere testamento o a donare una proprietà in stato di trance, ad esempio, è possibile? E in che modo sanzionabile?

Ultima questione, l’utilizzabilità dell’ipnosi nel processo penale: è lecito e valido l’impiego di tale strumento per far riaffiorare ricordi? E che valenza probatoria detta escussione ha nel nostro ordinamento processuale? E negli altri Stati? Ne faccio una questione “sentimentale”: l’inconscio può testimoniare la verità?

 

PARTE 2. IPNOSI: ORA ALZATI E UCCIDI. DAL REATO IMPOSSIBILE ALL’INCONSCIO TESTIMONE IN GIUDIZIO

Nel nostro ordinamento, a livello di legislazione ordinaria, prenderemo in considerazione le quattro norme fondamentali (ovviamente collegate ad altre) applicabili all’ipnosi. Una di esse è di materia civilistica, due sono contenute nel Codice penale, la quarta nel Codice di procedura penale. Nell’ordine, le descrivo qui sotto.

 

  • CODICE CIVILE

In ambito civilistico, ciò che è importante ai fini della presente trattazione è la valutazione dell’efficacia di un atto che è stato compiuto in uno stato di trance ipnotica o di suggestione post-ipnotica. Sovviene l’art. 428 c.c., titolato “atti compiuti da persona incapace d’intendere o di volere”, il quale prevede che gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore. La norma si riferisce alla cosiddetta incapacità naturale, ossia quella non risultante ufficialmente dai registri dello stato civile che è accertata in base a criteri sostanzali o procedimentali, comunque in grado di mettere il soggetto in una condizione, anche transitoria, di squilibrio contrattuale, dovuto a un vizio volitivo.

L’incapacità di intendere o di volere rilevante ai fini della norma deve essere verificata di volta in volta, in relazione allo specifico atto compiuto dall’incapace. Nel caso specifico dello stato ipnotico, bisogna verificare se esso possa configurare quell’incapacità naturale richiesta per l’annullamento di un atto compiuto in sua costanza; cito, una su tutte, la sentenza della Corte di cassazione n. 7344 dell’8 agosto 1997, secondo cui “nell’incapacità naturale è sufficiente che le facoltà psichiche del soggetto siano ridotte”. Le sue cause ricomprendono una menomazione della sfera intellettiva e volitiva, anche non patologica. Ed ai casi di ubriachezza o tossicodipendenza, età avanzata, infermità fisiche, stati passionali acuti, intenso bisogno di denaro, fino a suggestione, sorpresa, inesperienza e immaturità, il giurista Rodolfo Sacco aggiunge la suggestione ipnotica[6].

ANNULLABILITÀ. Secondo l’opinione dominante, nel concetto di inapacità naturale di cui all’art. 428 c.c. rientra anche l’ipnosi. Ma, secondo altra opinione, “la questione (…) sembra quanto meno discutibile perché, a rigor di logica, l’ipnosi dovrebbe esser considerata come una ipotesi di violenza fisica (o assoluta) e pertanto fuori dal campo di applicazione dell’art. 428 c.c.”[7]. Ciò che preme osservare qui è quanto la configurazione dello stato ipnotico come incapacità naturale porti effetti differenti rispetto ad una sua configurazione come assenza di volontà (non vizio): è la differenza giuridica che passa tra annullamento e nullità. Applicando l’art. 428 c.c. (l’ipnosi produce incapacità naturale) si rientra nella disciplina dell’annullamento, e dunque: il negozio annullabile in quanto concluso da un incapace di intendere e di volere è produttivo di effetti e li conserva sino alla sentenza; questa non è di accertamento ma costitutiva, poiché elimina una situazione giuridica esistente e gli effetti del negozio retroattivamente. L’annullamento può essere chiesto al giudice solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge (annullabilità relativa) e solo in rari casi da chiunque vi abbia interesse (annullabilità assoluta).

NULLITÀ. Considerando, invece, lo stato ipnotico come uno stato in cui la volontà non è menomata, flebile, bensì totalmente assente in quanto prodotto da violenza fisica (vis ablativa) [8], si andrebbe ad applicare la disciplina della nullità, per cui l’atto compiuto in tale condizione non è mai sorto, non ha mai prodotto effetti, è insanabile (salvo che la legge non prescriva diversamente), può essere convertito solo a determinate condizioni (ripetizione); la legittimazione all’impugnazione è assoluta e l’azione di nullità spetta a chiunque, purché interessato; ha effetto anche nei confronti dei terzi. Tale approccio avvalla l’affermazione che nel caso dell’ipnosi manchi assolutamente un simulacro di volontà, pertanto il contratto sarà privo del requisito essenziale psichico per il consenso negoziale, e quindi, nullo ex art. 1325 n. 1 c.c.; la dichiarazione sarebbe soltanto materialmente riferibile all’agente, in quanto fisicamente costretto senza alcuna possibilità di opporvisi. Questo perché il soggetto sottoposto ad ipnosi “non ha altra volontà che quella che gli viene imposta dall’operatore; allo stesso modo egli non ha pensieri, se non quelli che l’operatore gli suggerisce; egli non presenta la minima ombra di spontaneità ed un movimento a lui impresso viene eseguito senza che la sua volontà sia capace di arrestarlo, l’atto è soltanto eseguito dagli organi dell’ipnotizzato, è da attribuirsi non alla sua volontà e coscienza, cioè alla sua personalità, temporaneamente soppressa, ma alla volontà e coscienza dell’operatore”[9].

INESISTENZA. Non manca una parte della dottrina, infine, che indica nell’inesistenza dell’atto la sanzione più appropriata, essendo carente di quei requisiti minimi utili alla definizione di un atto come negozio, sebbene nullo. L’atto, in poche parole, non è mai sorto.

Nonostante il soggetto ipnotizzato, per Di Cagno, divenga un automa in balia dell’ipnotista sulla base di una pretesa energia promanante dall’ipnotista che ricorda il magnetismo animale di Franz Anton Mesmer, egli sostiene che non è comunque possibile far rientrare nell’ipotesi di violenza assoluta gli atti compiuti nello stato post-ipnotico, ossia quando l’esecuzione del comando ipnotico avviene dopo la deipnotizzazione, “mancando l’estremo dell’immediatezza dell’esecuzione dell’atto quale risultato diretto dell’energia fisica impiegata”. Il medesimo problema si concretizza anche per gli atti compiuti in stato di ipnosi leggera. Qui la convinzione di una vis ablativa nell’ipnosi comincia a cedere. Le teorie indicate si riferiscono, ormai, ad una concezione dell’ipnosi che ha in parte significato. Infatti, “si ricordi che il grado di coinvolgimento dell’individuo nell’ipnosi varia da caso a caso e che col termine di profondità dell’ipnosi si allude proprio a questa gradualità di partecipazione del soggetto al fenomeno in questione”[10].

Il regime applicabile, invero, dipende dalla situazione verificatasi nella fattispecie concreta. Va, cioè, valutato ed accertato come e quanto, fattivamente, si sia concretata la perdita o la diminuzione di coscienza che, in uno stato di induzione, può variare su una scala molto vasta, soggettiva, e che non può essere generalizzata; accertamento, questo, indubbiamente complesso, ma che chiama in causa la neurologia dell’ipnosi e la forza che tale strumento può espletare, effettivamente, non su un soggetto bensì su quel determinato soggetto.

 

  • CODICE PENALE

Sono due le norme che, peraltro espressamente, richiamano l’ipnosi: gli artt. 613 e 728 c.p. Le descrivo di seguito.

 

a. L’ART. 613 DEL CODICE PENALE

L’art. 613 c.p. punisce chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcooliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato d’incapacità d’intendere o di volere. Reclusione fino a un anno, e due aggravanti al terzo comma: reclusione fino a cinque anni a) se il colpevole ha agito col fine di far commettere un reato; b) se la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla legge come delitto. Il concorso delle due aggravanti non è ipotizzabile perché la prima richiede il fine di far commettere il reato, la seconda lo esclude. Se il fatto è commesso da pubblico ufficiale è applicata l’aggravante dell’art. 61 n. 9, se commesso da un medico che ha agito con abuso della professione la condanna non è aggravata, ma ai sensi degli artt. 30 e 31 c.p. è comminata l’interdizione temporanea dalla professione. Soggetto passivo è chiunque non si trovi già in stato di incapacità di intendere e volere.

Inoltre, la norma va interpretata in combinato disposto con l’art. 86 c.p. per cui: “Se taluno mette altri nello stato di incapacità di intendere o di volere, al fine di fargli commettere un reato, del reato commesso dalla persona resa incapace risponde chi ha cagionato lo stato di incapacità”.

La prima domanda: è questo un reato impossibile? (previsto espressamente dall’art. 49, comma 2, c.p.). Ossia: è possibile indurre in stato di trance qualcuno senza la sua volontà? È possibile far compiere atti criminosi all’ipnotizzato?

La risposta è, generalmente, negativa[11]. È possibile indurre una trance ipnotica senza consenso solo su chi è già assuefatto, come una profezia che si autodetermina, o su soggetti che, prestandosi per la prima volta all’ipnosi, implicitamente danno il consenso. Si può anche operare con soggetti riluttanti (Milton Erikson ammette che la riluttanza dei suoi pazienti era ambivalente, cioè contrastata dal desiderio del soggetto di esibirsi e di provare questa particolare esperienza), o attraverso tecniche dialettiche nelle quali le parole “ipnosi” o “sonno” non sono mai pronunciate. Altro è il problema se il soggetto ipnotizzato volontariamente perda il controllo del proprio comportamento mentre è in ipnosi, e soprattutto, con Orne, se esista corrispondenza tra l’esperienza soggettiva di libertà di scelta ed il comportamento dell’ipnotizzato[12]. “Si possono verifìcare in ipnosi diverse ipotesi: può aumentare il controllo dell’ipnotista sul soggetto per la diminuita capacità critica di quest’ultimo. È poi possibile che il soggetto elimini i suoi processi decisionali per la durata della trance ipnotica ed accetti la realtà in base alle istruzioni dell’ipnotista – che può anche alterare i dati di realtà – piuttosto che in base alle sanzioni concrete dei suoi organi di percezione. Un’alternativa completamente differente è che il soggetto in ipnosi possa essere forzato a commettere azioni contro la sua morale”[13].

Per la scuola di Nancy, i soggetti ipnotizzati divengono come automi che eseguono qualunque cosa sia loro comandata: l’ipnotismo può venire usato con propositi criminali. La scuola della Salpètrière ritiene, in opposizione, che l’uso antisociale dell’ipnotismo è possibile solamente quando nel soggetto siano già presenti tendenze criminali: l’ipnotizzato non potrebbe essere indotto a commettere azioni che si rifiuterebbe di compiere in condizioni normali. Per entrambe le scuole, però, la suggestione ipnotica può essere usata con successo per compiere i crimini sessuali sull’ipnotizzato[14].

Molti autori hanno sostenuto, con esperimenti, la possibilità di indurre il soggetto a nuocere a se stesso o a terzi; per altri, è invece mpossibile provocare ipnoticamente una condotta antisociale. Lo stesso Erickson istruì 50 soggetti in trance, selezionati da un gruppo di 500, a rubare piccole somme di denaro, a leggere la corrispondenza destinata ad altre persone, a commettere atti autolesivi, a dare false informazioni, a infrangere regole morali, a commettere atti lesivi dell’incolumità personale altrui ed altri atti antisociali. In nessun caso il soggetto tenne il comportamento che gli era stato suggerito[15]. Questa divergenza di risultati è spiegata in letteratura secondo tre criteri:

  • l’ipnotizzato compie atti antisociali perche in sé ha una tendenza criminale;
  • l’ipnotizzato compie atti antisociali perché percepisce la sperimentalità della situazione;
  • l’ipnotizzato compie atti antisociali perché l’ipnotista se ne assume la responsabilità.

Numerosi sono i fattori cui legare il comportamento[16], ad esempio, il fatto stesso che una determinata azione sia richiesta al soggetto da un professore, in un laboratorio universitario, altera considerevolmente il significato contestuale del comportamento. Se gettare l’acido addosso a qualcuno rappresenta un comportamento antisociale, compiere la stessa azione in una situazione sperimentale riveste un significato completamente diverso, in quanto il soggetto percepisce la non pericolosità del suo gesto, anche se apparentemente non sembra vi siano misure precauzionali. Molte variabili influenzano il comportamento del soggetto e tra esse si possono includere: le circostanze in cui il comportamento viene richiesto (in laboratorio, in privato, con testimoni, ecc), la posizione e la reputazione dell’ipnotista, il proposito che il soggetto attribuisce alle richieste dell’ipnotista”[17].

Oltre a tale problema, sussiste quello accennato del nesso eziologico tra causa ed effetto del comportamento, che non può essere interrotto pena la violazione della norma costituzionale di cui all’art. 27 che prevede la personalità della responsabilità penale. La teoria causale della conditio sine qua non considera causa ogni antecedente senza il quale il risultato non si sarebbe avverato: è cioè sufficiente che l’uomo abbia realizzato un antecedente indispensabile per il verificarsi del risultato perché si abbia il rapporto di causalità. Ma al nesso di causalità va aggiunto, per una corretta definizione penale, l’elemento soggettivo del reato, ossia il concorso del dolo o della colpa dell’agente (escluderei l’ipotesi di Pioletti secondo cui l’ipnotizzato dovrebbe sempre rispondere per colpa del reato commesso durante lo stato ipnotico per il fatto stesso di aver consentito di farsi porre in trance[18]). Tanto che la teoria della condicio sine qua non è stata molto osteggiata, e sostituita da quella più tenera della “causalità adeguata”, secondo cui perché esista il nesso occorre che il soggetto abbia determinato l’evento con un’azione adeguata, idonea in astratto a determinare l’effetto, secondo un giudizio ex ante in base all’esperienza di casi simili: non si considerano causati dall’agente gli effetti che al momento dell’azione si presentavano improbabili, cioè gli effetti straordinari o atipici dell’azione stessa. Per la teoria “nomologico-funzionale”, invece, un evento deve reputarsi effetto di un altro evento quando tra essi esiste un rapporto di successione costante, ossia quando dato l’uno, l’altro segue in modo ineccepibile. Per le tre teorie citate, l’ipnosi è comunque adeguata alla causazione dell’evento criminoso, e la risposta alla domanda: “Si tratta di reato impossibile?” è negativa. È possibile. Non è infatti quello dell’ipnosi il caso in cui la punibilità è esclusa quando, per l’inidoneità dell’azione o l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso.

E Granone risponde: “Sul terreno medico-legale, anche se da un punto di vista più teorico che pratico, questa eventualità non deve rigettarsi come vorrebbero coloro che ammettendola, temono di compromettere il buon nome dell’ipnotismo. Le difficoltà della sua attuazione pratica, sono, per buona sorte, notevoli e richiedono da una parte un criminale che sia contemporaneamente un assai esperto ipnotizzatore e dall’altra un soggetto succubo, che raggiunga gradi profondi di suggestionabilità e di ipnosi sonnambolica, come non è tanto facile incontrare. D’altro canto gli ipnotisti esperti sanno che l’amnesia derivante dall’ipnosi non è sempre assoluta; emergono spesso all’improvviso sprazzi di ricordi e questi, denunciati, possono far crollare il delitto meglio architettato con l’ipnotismo”[19].

b. L’ART. 728 DEL CODICE PENALE

L’art. 728 c.p. punisce chiunque pone taluno, col suo consenso, in stato di narcosi o d’ipnotismo, o esegue su lui un trattamento che ne sopprima la coscienza o la volontà, è punito, se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità della persona, con l’arresto da uno a sei mesi o con l’ammenda da 30 euro a 516 euro. Aggiunge, nel secondo comma, che tale disposizione non si applica se il fatto è commesso, a scopo scientifico o di cura, da chi esercita una professione sanitaria.

La ratio dell’incriminazione delle pratiche ipnotiche va ricondotta all’art. 2 della Costituzione, dove si riconosce l’inviolabilità dei diritti dell’uomo in quanto singolo, nell’aspetto specifico dell’inviolabilità della libertà morale[20]. Anche qui, come analizzato in tema di incapacità naturale, il punto è il coinvolgimento del soggetto: si va da un grado minimo in cui il controllo della relazione da parte dell’ipnotista è modesto ed il senso della realtà dell’ipnotizzato non è intaccato, a un grado massimo in cui tale controllo è totale e il senso della realtà è fortemente compromesso.

La prima considerazione da fare sulla norma è formale e definitoria: il legislatore parla di ipnotismo, confondendo il metodo con lo stato. Più appropriato sarebbe stato parlare di “stato ipnotico”.

È richiesto il consenso di chi è posto in stato di incapacità nel senso sopraddetto (consenso che sia valido).

Del terzo comma si è accennato nel capitolo precedente (cfr. https://www.rominaciuffa.com/ipnosi-soggetti-abilitati/) relativamente all’esercizio dell’ipnosi da parte di chi non svolga professione sanitaria; tale norma introduce una causa di giustificazione per tali soggetti, estromettendoli dalla configurabilità del reato. Non escluderà, invece, la punibilità del non abilitato nel senso già descritto.

Quindi, è enunciata una condizione obiettiva di punibilità: che dal fatto derivi pericolo per l’incolumità della persona. Gulotta in particolare distingue pericoli per il soggetto, pericoli per l’operatore, pericoli per la medicina, pericoli per l’ipnosi stessa come metodo[21]. Non c’è prova che induca a ritenere che l’ipnoterapia possa avere effetti deleteri sui pazienti. Platonov, collaboratore di Pavlov, dichiarava di non aver mai osservato alcuna influenza dannosa dell’ipnosi sui pazienti, avendola usata per più di 50 anni su oltre 50.000 casi [22]. Cheek, poi, “ironizza ed afferma che i meccanismi con i quali l’ipnosi può produrre un effetto dannoso non sono differenti dagli strumenti usati da Lady Macbeth sul marito o da Jago su Otello; aggiunge che si produce un maggior danno dall’ignorare l’ipnosi che non dall’uso intelligente delle forme della suggestione”[23].

Diversamente dalle opinioni sulla pericolosità dell’ipnosi[24], il diritto non è opinabile, e questa problematica non può essere scissa dalla necessità di individuare un nesso eziologico, come richiesto dalla norma dell’art. 41 c.p., secondo cui “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”: stabilire se la situazione psicologica pregressa del soggetto possa essere considerata una di quelle cause preesistenti o simultanee che non escludono il rapporto di causalità tra l’azione e l’evento è cosa oltremodo complessa, come si è già avuto modo di sottolineare, ma ancor di più lo è nel caso dell’ipnosi.

Un cenno meritano le conseguenze pericolose cui la soppressione di sintomi tramite ipnosi potrebbe generare, giacché prima che il sintomo venga soppresso, esse deve venire interpretato. Sono state raccolte comunque prove che la soppressione del sintomo è comunque utile per il paziente[25].

 

  • CODICE DI PROCEDURA PENALE

Non vi è alcun diretto riferimento all’ipnosi nell’impianto processualpenalistico italiano. L’istituto potrebbe essere, però, ben collocato nell’ambito dell’interrogatorio e dell’escussione probatoria ai fini di ricordare. L’art. 64, comma 2, c.p.p., collocato tra le regole generali dell’interrogatorio in sede predibattimentale (indagini preliminari, convalida dell’arresto e del fermo o udienza preliminare), contiene la prescrizione per cui non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti. Tale norma esprime il principio della libertà morale e di autodeterminazione, che prevale su quello pubblico dell’accertamento della verità: non si può ricorrere all’ipnosi o alla narcoanalisi prescindendo dal consenso dell’imputato. Lo scopo è quello di evitare di ricorrere a modalità incompatibili con l’interrogatorio quale mezzo di difesa. Più avanti, nell’ambito dell’escussione dibattimentale, l’art. 188 detta la medesima previsione, mentre il successivo art. 189, nel regolare le prove “atipiche”, stabilisce che, quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede all’ammissione, sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova. La Relazione che accompagnava il Progetto preliminare del Codice faceva cadere l’accento su “narcoanalisi, lie-detector, ipnosi e siero della verità, che, a giudizio della Commissione, vanno banditi dalla sede processuale per la scarsa attendibilità che viene loro generalmente riconosciuta”.

È da premettere che, alla luce di quanto riportato anche in precedenza relativamente alla necessità di consenso e alla condizione che non vi sia pericolo per l’incolumità della persona, e alla luce dell’art. 499 c.p.p. che proibisce di porre al teste domande suggestive, il procedimento probatorio italiano mal si concilia con l’ipnosi (comma 3: “Nell’esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte”)[26].

Eppure, negli altri Paesi dell’ipnosi è fatta, in certi limiti, applicazione per scoprire eventuali simulazioni di malattie (un caso fu quello di una simulata paralisi alle gambe, che l’ipnotista indusse a muovere durante la trance), identificare le menzogne e controllare la verità (non sono rare le discordanze tra una risposta ideomotoria in trance e le risultanze del lie-detector)[27], ottenere confessioni[28], suscitare ricordi di avvenimenti passati coperti da amnesia e migliorare il ricordo di avvenimenti passati (una grande utilità è tratta per neutralizzare aspetti dell’affettività che possono incidere sui processi della memoria), indagare sulla volontà criminosa, investigare sull’eventualità che un crimine sia stato perpetrato su istigazione di un ipnotista criminale, diagnosticare la capacità di intendere e di volere dell’imputato; nonché l’ipnosi è impiegata quale strumento di indagine e di terapia in criminologia, e mezzo terapeutico in vittimologia[29].

In quest’ultima branca, che si propone lo studio della vittima, l’ipnosi costituisce una tecnica terapeutica di elezione utile nelle nevrosi traumatiche, alla stregua di uno strumento sociale di intervento per il trattamento dei danni psicologici derivanti da un crimine, idoneo ad ottenere risposte attive ed adattive a situazioni di stress cui il paziente non è capace di far fronte con successo.

Contano anche, sulla base degli esperimenti condotti, il grado di ipnotizzabilità delle persone sospette, i motivi di resistenza e di inganno, la profondità della trance, le tecniche impiegate[30]. L’ipnosi può, comunque (e come accennato sopra), non essere attendibile al fine di ottenere la verità da persone riluttanti; inoltre, anche se è possibile ipnotizzare qualcuno senza la sua volontà, questi può mentire intenzionalmente; ed il soggetto che accetti l’ipnosi volontariamente può comunque ricordare versioni distorte dei fatti accaduti. Non è, pertanto, in linea con il nostro ordinamento fondare un giudizio su dichiarazioni rilasciate dall’imputato/indiziato in ipnosi, dovendosi considerare troppi fattori difficilmente controllabili, oltre alla notazione (Schafer)[31] che la Giuria (in America) potrebbe essere troppo influenzata, sia positivamente che negativamente, dalle dichiarazioni ottenute con l’ipnosi indipendentetemente dal loro significato oggettivo. Si suole essere più propensi al suo impiego nel caso di indiziati o imputati amnesici, per il diritto di ciascuno di essere curato da una malattia; pur sottolineando come non siano infrequenti casi di pseudomemorie. E con un limite formale: le risultanze ipnotiche possono essere considerate accettabili solo se confermate da dati oggettivi e verificati.

In Italia mancano comunque esempi di riferimento sull’impiego dell’ipnosi ai fini della formazione della prova forense. Utile è però ricordare per analogia la condanna alla reclusione emessa nei riguardi di Don Giorgio Carli, parroco di Bolzano, per violenza sessuale ai danni di una parrocchiana all’epoca minorenne (sentenza della Corte di Appello di Bolzano del 16 aprile 2008), la quale si è basata sull’uso della distensione immaginativa per la riemersione del ricordo. Tale tecnica non sembra discostarsi molto dal modello ipnotico, a maggior ragione eriksoniano, in quanto utilizza un’atmosfera regressiva (permette alla memoria di allargarsi fino a rioccupare il terreno dal quale s’era ritirata) volta ad attivare animazioni fantasmatiche. Le caratteristiche intrinseche della modalità di recupero delle immagini presentate dal paziente, secondo la Rivista medica italiana di psicoterapia ed ipnosi e gran parte della dottrina, non possono costituire un fondamento attendibile in un contesto forense. Don Carli avrebbe violentato la vittima dai suoi 9 ai suoi 14 anni, e i ricordi dei fatti erano emersi solo nel corso di una terapia analitica cui lei si era sottoposta in quanto presentava sintomi non comprensibili; tali memorie erano dettagliate al punto da convincerla che contenessero la verità. In primo grado il prete fu assolto, in secondo fu condannato perché il tribunale del riesame accolse un diverso orientamento disposto a riconoscere la vicinanza tra sogno e realtà, tra materiale onirico e prove a carico. Per completezza di trattazione, si aggiunge che la Corte di cassazione ha in seguito decretato la sopraggiunta prescrizione del reato, ma con obbligo di risarcire economicamente la parrocchiana (Cass. pen., sez. III, 28 aprile 2009, n. 17846): il giudice di legittimità non si è pronunciato sul punto oggetto del presente lavoro, ma confermando le statuizioni civili della sentenza di merito ha implicitamente ammesso e convalidado l’uso della procedura sopracitata.

Se è vero che “gli psicologi asseriscono che non è la biografia o la storia che genera nevrosi, ma è la nevrosi a generare biografia e storia. Perciò i sogni e le fantasie si usano in analisi, non nelle aule giudiziarie”[32], lo stesso può dirsi dell’ipnosi: il suo impiego in ambito forense non può sottrarsi alla valutazione secondo i medesimi criteri adoperati per stimare l’attendibilità della prova scientifica. D’altronde nel caso di indiziati ed imputati il suo utilizzo non si accompagna necessariamente allo stimolo dell’interrogato ad una maggiore sincerità; mentre per il recupero di memorie in testimoni o vittime di reati esso può rilevarsi utile, ma non in assoluto, ai fini processuali, comunque restando ferma la riserva del giudice di attribuire volta per volta alle risultanze il giusto peso in relazione ai soggetti coinvolti e agli altri elementi di confronto oggettivo reperibili negli atti acquisiti. “In particolare, dopo aver selezionato i casi ed avere ottenuto il consenso scritto della persona che richiede, per il diritto alla salute, di essere sollevata dall’amnesia, si impiegheranno tecniche ipnotiche generiche, atte a far sì che una volta tornati allo stato di veglia i soggetti possano ricordare episodi o fatti per i quali soltanto in un momento successivo potranno essere interrogati in stato di coscienza vigile. L’impiego dell’ipnosi in questi casi dovrà, quindi, essere limitata unicamente ad allenare, per così dire, il soggetto, suggerendo, attraverso delle istruzioni post-ipnotiche, che ricorderà al meglio ciò che gli si chiederà in un secondo momento allo stato di veglia dopo la seduta, evitando, pertanto, di fornire suggestioni che potrebbero rappresentare fondamento su cui installare pseudomemorie”[33]. Sono comunque indispensabili videoregistrazioni complete.

Concludo con la domanda della letteratura: l’inconscio può testimoniare la verità?

 

CONCLUSIONI 

Andrei O. Popescu, “Solitudine, autoritratto dell’inconscio”

Con la presente trattazione ho dato solo avvio a quella che potrebbe essere una lunga disquisizione sulla rilevanza giuridica dell’ipnosi, nei termini esposti, in relazione alle molteplici fattispecie che possono concretarsi anche avuto riguardo alle altre norme in combinato disposto. Ne emerge anche, e con chiarezza, l’assenza di una posizione dell’ordinamento e dei suoi estensori, che è sinonimo dell’assenza di una definizione dell’ipnosi prima, dei suoi limiti dopo, e dunque della sua valenza al di fuori dell’ambito terapeutico e curativo, dove essa può avere degli effetti – quelli giuridici – che oltrepassano la “giurisdizione psicologica e somatica” e si riversano nel mondo reale come produttivi di conseguenze giuridiche.

Annullare un negozio in quanto perfezionato in stato ipnotico, o considerarlo nullo in nuce; emettere una condanna sulla base di dichiarazioni o comportamenti espressi durante la trance; essere perseguibili penalmente per aver “indotto” l’ipnotizzato a commettere “senza o contro volontà” un reato; ritenere quest’ultimo incapace di intendere e di volere; porlo in una condizione di pericolo per la sua incolumità: queste ipotesi sono da una parte in grado di fondare una base solida, anche solo per la loro postulazione, affinché lo strumento ipnotico sia inserito in un sistema più ampio. Dall’altra costituiscono tutte alternative ipotizzabili in via astratta, ma da convalidare nel concreto. E l’ipnosi, per sua stessa etimologia hýpnos, sonno, non rientra nel concreto se non negli effetti che ne derivano. Perciò è assai “blasfemo” considerarla al pari di una sostanza stupefacente, che obiettivamente e scientificamente interagisce con il corpo prima, con la psiche durante, ed è misurabile. Lo stato di trance non ha un valore quantitativo, bensì qualitativo; non è misurabile, bensì descrivibile. Ed anche nella sua descrizione è vincolato alle regole della soggettività e della narrazione, meglio detto dipende dal soggetto ipnotizzato, dalla sua percezione di quanto esperito, dal nuovo stato riscontrato dopo il risveglio (anche in momenti molto successivi, ed eventualmente coinvolgendo la valenza del comando post-ipnotico), e, con Erikson, dallo stesso ipnotizzatore e da quel rapport che tra questi e l’altro è creato, dipendente da entrambi, dal contesto, dalle loro soggettività e percezioni reciproche ed individuali.

Troppi i fattori che impediscono a noi, e al legislatore a maggior ragione, di definire scientificamente l’ipnosi. Lo stato alterato di coscienza cui essa mira può essere, a mio parere, inteso come una vera e propria actio libera in causa, l’assoggettamento consapevole ad uno spazio-tempo inconsapevole in cui muoversi, uno stato preordinato di incapacità di intendere e di volere. Lo stesso che, nel campo del diritto, è rilevante penalmente nel definire le azioni compiute nell’alterazione psichica che il soggetto si è procurato (ad esempio, mediante droghe o alcolici) allo scopo di commettere un reato o di prepararsi una scusa (art. 87 c.p.). Nonostante l’agente non avesse la capacità d’intendere e di volere al momento del fatto, il reato commesso in stato di incapacità preordinata è punibile e l’esecuzione del reato viene fatta fittiziamente risalire al momento in cui l’agente ha preordinato lo stato di incapacità (lascio per altra sede le considerazioni sull’elemento psichico – dolo o colpa – da valutarsi tanto al momento della preordinazione quanto al momento della commissione del fatto).

Così l’ipnosi. Attraverso essa, l’azione diviene libera dalla causa. Ma non per questo il soggetto diviene un automa non imputabile. L’inconscio è ben più attento di quanto non sembri. Resta ferma la nota frase alfieriana del “volli fortissimamente volli”, che viene affiancata ai successi o ai fallimenti dell’ipnosi (l’Alfieri la pronunciò in riferimento alla volta in cui si fece legare alla sedia per non avere distrazioni dallo studio si rasò i capelli solo su una metà della testa affinché il suo impresentabile aspetto lo dissuadesse dall’uscire di casa): ciò che fortissimamente si vuole, l’ipnosi fa fare. Ciò che “fortissimamente” non si vuole è, invece, opera di altri meccanismi o cause. Ciò che è certo è che, a fini terapeutici, non è sufficiente “ipnotizzare”, bensì essere formalmente psicologi, informalmente “bravi”, come non solo e non da ultimo anche Freud sosteneva. (ROMINA CIUFFA)

*Romina Ciuffa, psicologa, riceve in centro storico a Roma, ai Castelli Romani (Monte Compatri) e, su appuntamento, a Milano (info@rominaciuffa.com) 

NOTE

[6] SACCO R., Il consenso, in Tratt. contratti RescignoGabrielli, Torino, 1999, I, 419.
[7] CENDON P., Commentario al codice civile, Giuffré, 292. Cfr. BIGIAVI W., I vizi della volontà nella dichiarazione cambiaria, Sperling & Kupfer, Merano, 1943; DI CAGNO V., L’ipnosi e l’incapacità di intendere e di volere, in Riv. Trim. dir. e proc. civ., 1955, 808 ss.; PANZA G., Contratto compiuto in stato di ipnosi, Università di Bari, in Casi e questioni in tema di contratti, Bari, 1970.
[8] PUCCINI L., Osservazioni in tema di incapacità naturale a testare con particolare riguardo al caso di suggestione ipnotica, in Giur. Comp., Cass. Civ., 1953, I, 288.
[9] DI CAGNO V., 1956, 815.
[10] GULOTTA G., cit., 390.
[11] ORNE M. T., The Potential Use of Hypnosis in Interrogation, in BINDERMAN A., ZIMMER H., The Manipulation of Human Behavior, Wiley, New York, 1961.
[12] ORNE M., Antisocial Behavior and Hypnosis, in ESTABROOKS G. H., Hypnosis Current Problems, Harper and Row, New York, 1962, 146 ss.
[13] GULOTTA G., cit., 469.
[14] Avviene anche l’inverso, il caso dell’ipnotista che viene accusato dalla paziente di abuso sessuale. In tal senso GULOTTA G., cit. 553, “(…) Ho cercato di mostrare (GULOTTA G., Le vittime di aggressioni sessuali, in ERMENTINI A., GULOTTA G., Psicologia, psicopatologia e delitto, Giuffrè, Milano, 1971, 217) come talune false accuse da parte di donne, di avere subito aggressioni sessuali, possano derivare da una pseudologia fantastica, in cui proiettano il loro desiderio di avere rapporti sessuali con l’altro. Arons descrive come riuscì ad accertare, tramite ipnosi, che un’accusa di tal genere era calunniosa. L’ipnotista veniva consultato da un medico amico, accusato da una donna di quarantacinque anni, che egli aveva in cura, di comportamento seduttivo nei suoi confronti mentre ella si trovava in stato di ipnosi. Il medico tuttavia garantiva la propria innocenza. L’ipnotista consultato ascoltò la registrazione delle due sedute iniziali, dopo le quali il medico, sicuro della stabilità emotiva della paziente, non aveva più effettuato registrazioni. L’accusato assicurava che ogni seduta si era svolta con la massima correttezza professionale e sottolineava di essersi comportato con la paziente in modo formale, rifiutando anche di chiamarla per nome quando ciò gli era stato domandato dalla paziente stessa, declinando inoltre gentilmente alcuni inviti mondani da lei rivoltigli. Arons ricorse quindi ad una seduta ipnotica, presente l’avvocato nello studio del medico. La donna sembrava ansiosa di essere ipnotizzata per provare l’autenticità della sua storia. L’ipnotista eseguì test di vario genere (il soggetto era in posizione eretta, ma rilassata, gli occhi chiusi ed eseguiva movimenti di tipo ideomotorio richiesti): la donna si dimostrò particolarmente suggestionabile. Completati i preliminari, l’ipnotista si preparò a deipnotizzare il soggetto suggerendole prima: lei non si ricorderà di nulla di ciò quando io toccherò il suo posto, o quando conterò fino a tre, o quando mentirò. L’interrogatorio della paziente allo stato di veglia non si differenziò dai precedenti interrogatori: le risposte vennero date con lo stesso candore e la stessa prontezza. Tuttavia, ogni volta che la risposta aveva a che vedere con le presunte aggressioni sessuali, il suo dito indice si contraeva violentemente”.
[15] ERICKSON M. H., An Experimental Investigations of thè Possible Antisocial Uses of Hypnotism, in Psychiatry, 1939, 391.
[16] Orne ha sostenuto che la difficoltà principale dell’interpretazione della letteratura è costituita dalla mancanza di distinzione tra tre fondamentali tipi di comportamento: a) il comportamento che appare ripugnante al soggetto, ma che è legittimato nel contesto sociale in cui avviene l’ipnosi; b) il comportamento che l’individuo non terrebbe in condizioni normali, ma che assume a causa di forti desideri inconsci o consci che lo spingono a compiere quel determinato atto; c) il comportamento che il soggetto non desidera tenere, sia a livello conscio che inconscio e che egli rifiuterebbe nella relazione che precede l’ipnosi. È soltanto in quest’ultimo caso che, qualora avvenisse, si potrebbe senz’altro ritenere che l’ipnosi abbia determinato un atto antisociale (ORNE M. T., Can a Hypnotized Subject. Be Compelled to Carry Out Otherwise Unacceptable Behavior? A Discussion, in Int. J. of Clin. Exp. Hypnosis, 1972, 2).
[17] GULOTTA G., cit., 486.
[18] PIOLETTI U., Ipnotismo, in Nov. Dig. it., Utet, Torino, 1963, 38.
[19] GRANONE F., Trattato di ipnosi (Sofrologia), Boringhieri, Torino, 1972.
[20] CALLIERI B., FLICK G. M., I comportamenti indotti: aspetti psichiatrici e giuridici, in Riv. It. Diritto e Procedura Penale, 1973, 800; TAORMINA C., Narcoanalisi, in Enciclopedia del Diritto, XXVII, Giuffrè, Milano, 1977, 489.
[21] GULOTTA G., cit., 447.
[22] PLATONOV K., The Word as a Phsysiological and Therapeutic Factor, Foreign Languages Publishing House, Mosca, 1959.
[23] CHEEK D. B., Hypnosis: and Additional Tool in Human Reoriention to Stress, in Northwest Med., 1958, 177, in GULOTTA G., cit., 448.
[24] Mi sembra opportuno riportare il contributo di GULOTTA G., cit., 552: “Poiché la sperimentazione sull’uomo ha subito recentemente negli Stati Uniti notevoli restrizioni allo scopo di proteggere i soggetti partecipanti all’esperimento e l’ipnosi è stata giudicata una procedura soggetta a rischi, due autori hanno di recente riesaminato il problema (COE W., RYKEN K., Hypnosis and Risks to Human Subjects, in Am. Psychol., 1979, 673). Essi hanno confrontato su 209 studenti di psicologia (157 maschi e 152 femmine) divisi i cinque gruppi, gli effetti della somministrazione della scala Stanford forma C, con quelli seguenti alla: a) partecipazione ad un esperimento di apprendimento verbale; b) ad un esame universitario; e) ad una lezione universitaria; d) alla vita del College in generale. Il risultato a cui sono giunti è che l’ipnosi in nessuno dei casi è apparsa causalmente responsabile di produrre effetti e negativi di tipo emotivo o sintomatologico più che le altre situazioni confrontate, sia sotto il profilo della durata dell’effetto della sintomatologia, sia sotto il profilo della qualità di essi. È apparso per esempio che la partecipazione ad un esame, alla vita scolastica produce più ansietà, depressione e infelicità che la induzione di ipnosi con la relativa fenomenologia riferita alla scala adottata”.
[25] EYSENCK H. J., RACHMAN S., Terapia del comportamento nevrotico, Franco Angeli, Milano, 1971.
[26] TAORMINA C, voce Narcoanalisi, in Enc. del Diritto, Giuffrè, Milano, XXVII, 1977, 489.
[27] MUTTER C, Regressive Hypnosis and the Polyghraph: A Case Study, in Am. J. of Clinical Exp. Hypnosis, 1979, 47. Floch afferma che un atto, giudicato disdicevole da chi lo compie, può essere represso fino al punto che colpa ed ansietà associate con l’atto non possono essere scoperte dal poligrafo (FLOCH M., Limitations of the Lie Detector, in Journal of Crim. Law and Criminology, 1950, 651).
[28] Per ORNE T., The Potential Use of Hypnosis in Interrogation, in BINDERMAN A., ZIMMER H., The Manipulation of Human Behavior, Wiley, New York, 1961, 169, esistono difficoltà tecniche.
[29] Per una casistica americana, WORTHINGTON T., The Use in Court of Hypnotically Enhanced Testimony, in Int. J. of Clin. Exp. Hypn., 1979, 402, e WARNER K., The Use of Hypnosis in thè Defense of Criminal Cases, in Int. J. of Din. Exp. Hypn., 1979, 417.
[30] FIELD P. B., DWORKIN S. F., Strategies of Hypnotic Interrogation, in Journal of Psychology, 967, 47 ss.
[31] SCHAFER W.D., RUBIO R., Precedence and Suggested Rules in Criminal Investigations, presentato al congresso della Society for Clin. Exp. Hypnosis, dicembre 1973.
[32] SPETTU M., Aspetti legali di ipnosi in www.scuoladiipnosi.net, Omni Hypnosis Training Center of Slovenia.
[33] SPETTU M., cit.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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IPNOSI: CHI È CHE VA IN GALERA? PARTE 1: SOGGETTI ABILITATI ALL’IPNOSI

IPNOSI. ASPETTI GIURIDICI
di Romina Ciuffa*
psicologa ipnotista
avvocato

PARTE 1. SOGGETTI ABILITATI ALL’IPNOSI. TUTTI?
(segue in PARTE DUE: https://www.rominaciuffa.com/ipnosi-alzati-e-uccidi/)

Introduzione alla prima parte

Il presente lavoro intende dare un inquadramento prima facie della normativa applicabile all’ipnosi, meglio detto delle sue contraddizioni giuridiche sia nell’inserimento ad opera del legislatore (nazionale e comunitario), sia nell’interpretazione ad opera della giurisprudenza, della dottrina e degli stessi interessati. Infatti, avallare l’una o l’altra lettura delle norme implica la possibilità di impiegare lo strumento dell’ipnosi in maniera più o meno ampia e in settori distinti; per questo, sono soliti darne una lettura aperta coloro che non esercitano una professione sanitaria e che praticano l’ipnosi in quanto abilitati da un titolo straniero che l’ammette ovvero dopo aver frequentato una scuola in Italia differente da quella di specializzazione. La lettura restrittiva, che ne fa la scrivente, delega l’esercizio dell’ipnosi alle categorie sanitarie – iscritte ai rispettivi Albi – del medico, nei limiti delle finalità curative, dello psicologo e dello psicoterapeuta, nei limiti delle loro competenze di cui alla legge n. 56 del 18 febbraio 1989. L’ipnosi da “intrattenimento”, sebbene non giovi alla categoria, è comunque legittima se fuori tali ambiti; mentre l’ipnologo esperto, non medico e non psicologo, può utilizzarla liberamente in qualità di libero professionista solo ai fini della crescita personale del cliente, per il suo sviluppo e la presa di coscienza, per la riscoperta di risorse e l’insegnamento di tecniche atte al dissolvere disagi e per il miglioramento personale e relazionale.

Non gioverà però a tali ultimi soggetti la condizione obiettiva di non punibilità data dall’art. 728 del Codice penale, che punisce chi ponga taluno, col suo consenso, in stato d’ipnotismo (…), o esegue su lui un trattamento che ne sopprima la coscienza o la volontà, se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità della persona, esentandolo invece dalla pena se il fatto è commesso, a scopo scientifico o di cura, da chi esercita una professione sanitaria. Nel medesimo Codice si rinviene anche la norma dell’art. 613, che punisce chiunque, mediante suggestione ipnotica (…), pone una persona, senza il consenso di lei, in stato d’incapacità d’intendere o di volere, e aggrava la pena se il colpevole ha agito col fine di far commettere un reato o se la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla legge come delitto. In relazione alle due norme sopracitate, si analizza in questo testo anche la configurabilità del reato impossibile di cui all’art. 49, comma 2, c.p., attraverso l’analisi della concreta possibilità che lo strumento ipnotico sia in grado di produrre tali gravi conseguenze, rispondendo alle domande: è possibile indurre in stato di trance qualcuno senza la sua volontà? È possibile far compiere atti criminosi all’ipnotizzato?

Si tratterà anche della materia civilistica, valutando le teorie che vedono nell’atto negoziale compiuto da chi è stato indotto in trance un atto annullabile, nullo od inesistente; in questo senso partendo dalla norma dell’art. 428 del Codice civile e assimilando la condizione dell’ipnotizzato a quella dell’incapace naturale (nel testo si descriverà meglio la questione anche sul piano definitorio), per giungere all’opposta teoria secondo cui il soggetto in trance è sottoposto ad una vis ablativa, la stessa presente nella violenza fisica che esclude del tutto la riferibilità dell’atto al soggetto coartato (ma escludendo comunque si tratti di vis compulsiva, per il diritto intesa come quella violenza psichica integrata dalla prospettazione di un male ingiusto).

Infine, con riferimento al Codice di procedura penale, si analizzeranno le ipotesi in cui l’ipnosi possa essere impiegata a fini processuali nell’interrogatorio dell’indiziato o nell’escussione probatoria dell’imputato, e di altri soggetti quali i testimoni o la vittima. Si tratterebbe comunque di una prova innominata, atipica, che il giudice ha la facoltà di ammettere ex art. 189 c.p.p. se idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudicante la libertà morale della persona. Si risponderà, così, a questa domanda: la prova assunta attraverso ipnosi coarta tale libertà, anche nel caso di soggetto consenziente o richiedente un’escussione attraverso ipnosi? E si valuteranno le varie ipotesi in cui tale procedura possa essere considerata ottimale (come nel caso della vittimologia), utile (come nel caso delle amnesie e del ricordo di avvenimenti passati), oppure fuorviante (come nel caso di soggetto riluttante).

SOGGETTI ABILITATI ALL’IPNOSI – QUESTIONI

 Il fatto che vi sia una questione aperta sull’ipnosi allo stato giuridico della letteratura non fa che definire l’ipnosi in senso positivo, ossia darle legittimità. Invero, essa è presente direttamente solo in due articoli del Codice penale italiano (l’art. 603 e l’art. 728) e indirettamente nell’art. 188 del Codice di procedura penale. Ciò, da una parte rende giustizia alla sua identificazione, dall’altra – per genericità e incompletezza, nonché sinteticità nel suo inserimento – la declassa tra istituti non chiari, sui quali è dovuta (e deve) intervenire la giurisprudenza al fine di dare una spiegazione attuale all’ipotesi del legislatore penale del 1930 (che modificava il precedente Codice Zanardelli, datato 1889) e a quella del legislatore procedurale del 1988 (successiva alle codificazioni del 1865, del 1913 e del 1930). Anni in cui, certamente, non solo l’ipnosi, ma tutta la materia psicologica era considerata al di fuori di una struttura scientifica: questa constatazione di cronologia storica non fa che confermare la necessità che all’ipnosi sia data una definizione più certa e adeguata ai tempi che l’hanno vista evolvere e riconoscere quale possibile metodologia a supporto del medico e dello psicologo nelle materie di loro competenza.

Materie che non hanno avuto facile convivenza prima, collocazione dopo. Con l’entrata dell’Italia nell’Unione europea (definitivo fu il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1º novembre 1993, al quale gli Stati aderenti giunsero dopo un lungo percorso intrapreso dalle Comunità europee precedentemente esistenti e attraverso la stipulazione di numerosi trattati di integrazione). Un primo, rilevante punto è quello relativo alla libera circolazione delle persone nei Paesi membri, che include la possibilità di esportare il proprio titolo conseguito nello Stato di provenienza. in attuazione dell’art. 117, comma 3, della Costituzione e nel rispetto dei principi dell’Unione europea in materia di concorrenza e di libertà di circolazione. Integrando la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio COM n. 119 del 2002, relativa al riconoscimento reciproco delle qualifiche professionali tra i Paesi membri, approvata l’11 febbraio 2004, la legge n. 4 del 14 gennaio 2013 – emanata in attuazione dell’art. 117, comma 3, della Costituzione (potestà legislativa concorrente) – disciplina le professioni non organizzate in ordini o collegi, e in esse può esser fatta rientrare quella dell’ipnologo, se assimilata a quella del libero professionista intellettuale. Assimilazione che è compiuta con leggerezza e forzatura, oltre che scarsa quando non assente cognizione di causa, da chi ha interesse ai suoi effetti giuridici.

La tesi per cui la professione di “ipnotista” debba essere garantita sic et simpliciter senza necessità di essere inserita in un ambito più ampio e declinato (come quello della professione medica o psicoterapeutica) è sostenuta informalmente da molti, formalmente solo da alcuni Paesi, la Svizzera o la Gran Bretagna ad esempio. Con riferimento a quest’ultima, la British Medical Association nel 1955 riabilitava ufficialmente l’ipnosi; la Commissione di studi designata si ispirò per molto tempo al rapporto presentato da Husson[1] all’Académie Royale de Medécine nel 1831 (comunque non accolto dal plauso dei suoi tempi), e dichiarò che le conclusioni di suddetto rapporto erano “fortemente anticipatrici e per la maggior parte ancora valide”. Ciò, però, non avveniva in altri Paesi, tra i quali spicca la Francia, nonostante gli studi compiuti da Jean-Martin Charcot (fondatore della clinica psichiatrica presso l’Ospedale della Salpêtrière di Parigi, il primo a utilizzare l’ipnosi come cura nel fenomeno del “grand hypnotisme” negli isterici) ed i lavori compiuti dal suo allievo Pierre Janet (“La Médecine Psychologique”), e nonostante l’alternativa versione di Hippolyte Bernheim, fondatore della Scuola di Nancy (che intendeva l’ipnosi come una sorta di sonno o stato alterato di coscienza prodotto dalla suggestione, con implicazioni terapeutiche ed un fondamento più psicologico che neurologico).

Né tale riabilitazione avveniva altrove, salvo rare eccezioni tra cui spiccano gli Stati Uniti (nel 1958 l’American Medical Association inserì l’ipnosi nella terapia medica, precisandone le condizioni d’impiego), che riconoscono la professione indipendente di ipnoterapista dal 1979, e la cui American Medical Association ha recentemente deciso che, dal 1° gennaio 2004, anche gli ipnotisti non terapeuti (non-licensed) possano operare nella Sanità[2].

Tornando in Europa, il principio della libera circolazione delle persone negli Stati membri farebbe dedurne la constatazione che – in mancanza di una regolamentazione italiana della professione di ipnoterapista e di una previsione che la vincoli al conseguimento di un diploma o all’appartenenza ad un determinato ordine professionale – si sia ottenuto un lasciapassare per gli “ipnotisti” inglesi e svizzeri (o altri aventi simile riconoscimento) ad esercitare in Italia, senz’aggiuntivo titolo se non quello conseguito nello Stato di provenienza. Così anche affermava (5 gennaio 2005) l’ufficio legale europeo, motivando: “Se la professione di cui si tratta non è regolamentata nello Stato di accoglienza, allora non è necessario richiedere il riconoscimento delle qualifiche; è possibile cominciare a svolgere tale professione in questo Stato alle stesse condizioni che si applicano ai cittadini nazionali e con gli stessi diritti e gli stessi obblighi”.

È oltremodo evidente come il mancato riconoscimento nel nostro ed in altri Paesi europei del titolo riconosciuto di ipnologo/ipnoterapista – conseguibile (in Gran Bretagna ad esempio) previa frequentazione di corsi aperti anche ai non laureati, e con la correlata possibilità di stipulare la relativa assicurazione di indennità professionale – produca presso di noi una confusione foriera di gravi effetti giuridici, a partire da quelli drastici di cui all’art. 348 del Codice penale italiano che prevede, per chiunque abusivamente eserciti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, una pena della reclusione fino a sei mesi o una multa da 103 a 516 euro. La Corte di cassazione ha chiarito che incorre in tale reato “chi è sfornito del titolo richiesto (laurea, diploma) o non ha adempiuto alle formalità prescritte come condizione per l’esercizio della professione (ad esempio, l’iscrizione all’albo) o ne è stato sospeso o interdetto”. Lo stesso giudice ha chiarito, con sentenza n. 34200 del 6 settembre 2007, che non ha importanza ai fini della configurabilità del reato che il paziente sia più o meno cosciente della carenza del titolo abilitativo. La vexata quaestio è: si tratta, nel caso dell’ipnotista riconosciuto altrove, di esercitare abusivamente in Italia la professione ex art. 348 c.p., ovvero è applicabile la copertura UE?

La risposta è duplice e contraddittoria, sempre fondata su considerazioni di parte e interpretazioni disfunzionali, ricordando come lo stesso “concetto” di ipnosi, oltre che il metodo, sia soggetto a valutazioni differenziate a seconda che esso si contestualizzi in un ambito curativo-terapeutico, ovvero con finalità spettacolari, o infine volte al solo miglioramento delle condizioni della persona senza chiamare in causa i presupposti di diagnosi e guarigione. Non da ultima la questione del proliferare di “professionisti” in ipnologia e scuole ad uopo costituite, un intero sistema alias un giro d’affari che, prima di chiamare in causa il paziente, punta al lucro di chi lo costituisce: in Italia potrebbe essere integrata la fattispecie del reato di abuso della credulità popolare di cui all’art. 661 c.p. nel caso di coloro che istigano all’esercizio della professione medica e dell’ipnosi persone non qualificate, ossia scuole, corsi, meeting, organizzati con l’intento di abilitare alla pratica clinica dell’ipnosi. Niente di molto diverso di quanto avvenga nella polemica sul coaching, così come in molti altri campi nei quali lo strumento è impiegato. Senza considerare l’assenza, per costoro, di un codice deontologico e di un Albo ad uopo.

Analogicamente, in tema di investigazioni, l’International Society of Hypnosis allarmisticamente sottolineava in due risoluzioni (ottobre 1978 ed agosto del 1979) la tendenza degli agenti di Polizia, con un training minimo in ipnosi e senza una vasta competenza professionale, ad usare l’ipnosi per facilitare presumibilmente il ricordo di testimoni e vittime circa gli accadimenti in relazione a qualche crimine. La Società si oppone all’uso da parte della Polizia di questa tecnica, suggerendo che tali attività debbano eventualmente essere effettuate con l’aiuto di psichiatri e psicologi, esperti nell’uso forense dell’ipnosi, che costoro siano sempre presenti durante l’interrogatorio e che delle sedute sia sempre fatta una completa videoregistrazione. Direttive anche imposte all’FBI dal Dipartimento della Giustizia,.

Tornando all’Italia, la premessa necessaria la fanno l’art. 1 e l’art. 3 della legge n. 56 del 18 febbraio 1989 sull’ordinamento della professione di psicologo. Il primo definisce la professione di psicologo, e lo legittima all’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità, oltre che alle attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito, ma solo dopo aver conseguito l’abilitazione in psicologia mediante l’esame di Stato ed essere iscritto nell’apposito albo professionale (art. 2). In virtù dell’art. 3, invece, l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del D.P.R. n. 162 del 10 marzo 1982, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti: questa norma non è sormontabile. L’affermazione che l’ipnosi sia competenza dello psicologo o dello psicoterapeuta, per la giustizia della rappresentazione della normativa, è legata alla finalità per cui tale strumento è impiegato. Una volta espresso il vincolo tra ipnosi e psicoterapia, la prima assumerà il ruolo che le spetta: quello di un metodo specifico avente finalità terapeutica.

Nel caso del medico, egli potrà utilizzare l’ipnosi senza aver conseguito la specializzazione da psicoterapeuta, ma solo nell’ambito curativo che è proprio della sua professione e per il quale ha conseguito l’abilitazione, come è nei casi di analgesia o anestesia; gliene sarà invece inibito l’uso nel senso di sollevare il paziente da problemi psicologici. Esattamente come costituirebbe abuso quello dell’ostetrica che inducesse la trance ipnotica nella partoriente, o dell’infermiere che lo facesse per calmare il paziente ospedalizzato. Tale abuso potrà cioè perpetrarsi nel caso in cui il medico improntasse un intervento ipnotico con finalità psicoterapeutiche, psichiche e non fisiche. Il Codice di deontologia medica del 1978 imponeva ai medici di ispirarsi alle conoscenze scientifiche (art. 4) e di non favorire in qualsiasi modo chi esercita abusivamente un’attività sanitaria ivi compresa l’ipnosi-terapia (art. 93), con un espresso riferimento, dunque, alla materia oggetto del presente lavoro.

Riferimento contenuto anche nell’art. 128 del Regolamento del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, che consente al medico provinciale di autorizzare chi non eserciti la professione sanitaria a trattenimenti di ipnotismo, con ciò affermando la liceità dell’ipnosi solo a titolo di intrattenimento pubblico (spettacolarizzazione) ma non nel caso di fini scientifico-terapeutici. Infatti, tale norma non si riferisce ai medici (“a chi non eserciti la professione sanitaria”); e se il medico provinciale può accordare l’autorizzazione a trattamenti di ipnotismo nei casi “non sanitari”, non potendosi consentire ciò che è vietato dalla legge, se ne deduce che – per il principio di non contraddittorietà dell’ordinamento giuridico – è ammessa in nuce l’ipnosi quando utilizzata per finalità scientifiche.

Proprio attraverso tale norma Guglielmo Gulotta risponde alle seguenti domande: “(…) Può un non medico utilizzare l’ipnosi senza finalità curative? Può un non medico ipnotizzare con finalità curative? Lo psicologo a questi riguardi può considerarsi differentemente da tutti gli altri non medici ed essergli consentito ciò che agli altri non medici non è consentito?”[3]. Nessun dubbio, per lui, di una risposta affermativa nel caso del mero esercizio dell’ipnosi senza finalità terapeutiche anche da parte di chi non sia medico (anche se è sempre sconsigliabile–aggiunge–che una persona non preparata utilizzi questo mezzo a scopo dimostrativo o di divertimento).

Risponde a tali domande anche attraverso l’analisi della sentenza della IV Sezione della Corte di cassazione del 10 luglio 1969, per cui “non può contestarsi che la terapia ipnotica sia riservata agli esercenti la professione sanitaria regolarmente iscritti all’albo professionale: è sufficiente in proposito ricordare l’art. 728 comma 2, c.p., il quale consente, a scopo scientifico e curativo, il trattamento idoneo a sopprimere la coscienza e la volontà altrui, mediante narcosi o ipnosi, soltanto agli esercenti la professione sanitaria, vietandola a chi ad essa non è abilitato” (dell’art. 728 c.p. e degli altri che richiamano l’ipnosi in ambito penalistico, che tratterò nel capitolo seguente). A ben vedere, ed oppositivamente a tale pronuncia del giudice supremo, la norma di cui all’art. 728 c.p. – volta a punire chiunque ponga taluno, col suo consenso, in stato di narcosi o di ipnotismo, o esegua su di lui un trattamento che ne sopprima la coscienza o la volontà se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità della persona – è costruita dal legislatore non al fine di vietare al non medico l’attività di ipnotismo, bensì per escludere, in suo capo, la causa di giustificazione che invece applica all’esercente una professione sanitaria che abbia commesso il medesimo fatto a scopo scientifico o di cura. In sintesi, il non medico non potrà fruire dell’esenzione, ma non gli è per ciò solo vietata la pratica dell’ipnotismo. L’esempio lampante è quello della “suggestologia” bulgara, che utilizza tecniche di tipo ipnotico a scopi di insegnamento delle lingue straniere.

Resta fermo il fatto che un non medico non possa utilizzare l’ipnosi a scopo terapeutico, e sono imputabili del reato di cui all’art. 348 c.p. il “guaritore” e chi esprime giudizi diagnostici e, valendosi del metodo della psicoterapia suggestiva, consigli cure ai malati che si rechino a consultarlo: è, infatti, necessario il controllo medico per evitare i pericoli di mancanza di diagnosi o del mancato accertamento dell’eventuale guarigione o peggioramento. Ossia: non esiste divieto di ipnotizzare a scopi non terapeutici, ma resta ferma la responsabilità dell’agente se ciò possa procurare pericolo all’incolumità della persona[4].

E lo psicologo può? Gulotta risponde così, con una spiegazione concreta e razionale: “Soprattutto nell’ipnosi è da dire che la differenza tra l’aspetto sperimentale e quello clinico rende indispensabile la funzione dell’ipnotista psicologo, dato che nelle facoltà mediche non si insegna la sperimentazione del comportamento umano. E poiché come sempre la clinica e la sperimentazione sono strettamente legate, anche lo psicologo ipnotista rigorosamente diretto alla sperimentalità deve avere pratica dell’ipnoterapia. Ciò soprattutto perché il clinico poi possa avvantaggiarsi di ciò che lo sperimentalista gli mette a disposizione. Non a caso la Società internazionale d’ipnosi è chiamata d’ipnosi clinica e sperimentale[5]. La psicoterapia non è di pertinenza medica: in entrambi i casi del medico e dello psicologo dev’esservi un’adeguata preparazione (Freud sosteneva fermamente questo). Lo psicologo specializzato ha però compiuto, rispetto al medico, studi che attengono direttamente alla diagnosi e alla terapia dei disturbi psicopatologici, salvo che il medico non abbia approfondito adeguatamente la materia. Se ne deduce la possibilità di impiegare l’ipnosi come strumento alternativo, tra i vari in possesso dello psicologo.

In conclusione, l’ipnologo esperto, non medico o psicologo, non può praticare l’ipnosi per finalità cliniche, diagnostiche o terapeutiche, ma può utilizzarla liberamente, in qualità di libero professionista, ai fini della crescita personale del proprio cliente, per il suo sviluppo e la presa di coscienza, oltre che per la riscoperta di risorse e l’insegnamento di tecniche atte al dissolvere disagi e per il miglioramento personale e relazionale. (ROMINA CIUFFA) (…)

*Romina Ciuffa, psicologa, riceve in centro storico a Roma, ai Castelli Romani (Monte Compatri) e, su appuntamento, a Milano (info@rominaciuffa.com) 

 

NOTE

[1] Nel 1831 Husson presentò all’Accademia un dettagliato resoconto finale, volto a sottolineare da un lato la realtà dei fenomeni di magnetizzazione e la loro applicazione clinica, dall’altro la necessità di un intervento dell’Accademia per garantire l’impiego esclusivamente medico della magnetizzazione. Il resoconto finale nonostante le pressioni di Husson non venne discusso dall’Accademia, che si trincerò su posizioni di chiusura, opponendosi alla pubblicazione del rapporto.
[2] Tra gli Stati americani che ammettono l’uso delle tecniche ipnotiche a scopo investigativo o giuridico: California, Texas, Alabama, California, Pennsylvania, Alaska, Michigan, Utah, Arizona, Minnesota, Virginia, Connecticut, Missouri, Washington, Delaware, Nebraska, West Virginia, Florida, New York, Indiana, Hawaii, North Carolina, Iowa, Illinois, Oklahoma, Kansas. Codici deontologici e rigide linee guida governano l’uso dell’ipnosi a scopi forensi, e non è ammesso l’uso della trance ipnotica nei confronti degli imputati o dei sospettati. In altri Stati come Georgia, South Dakota, Wyoming, Mississippi, Louisiana, Colorado, Nevad,a North Dakota, Idaho, New Mexico, Oregon, Ohio, New Jersey, Tennessee, Texas, sono richieste procedure di salvaguardia e verifica incrociata affinché le testimonianze rese in stato ipnotico siano ammissibili.
[3] GULOTTA G., Ipnosi. Aspetti psicologici, clinici, legali, criminologici, 1980, Giuffré, 425.
[4] GULOTTA G., cit., 435.
[5] GULOTTA G., cit., 436.

 




NON BASTA INFORMARE: È LA PSICOLOGIA AD INCORAGGIARE I COMPORTAMENTI ECOLOGICI

«Una persona sana di mente non preferirà mai la vista di un cumulo di foglie morte a quella dell’albero da cui sono cadute», scriveva nel 1985 il filosofo e psicologo Edward O. Wilson, teorico della biofilia, ossia la tendenza umana verso la natura. Da quest’ultima l’uomo proviene e a quest’ultima accede attraverso comportamenti differenziali che possono proteggere l’ambiente o indebolirlo, se non deformarlo o distruggerlo.

Il rapporto uomo-natura è l’oggetto di studio degli psicologi ambientali soprattutto in ragione delle distorsioni che l’hanno viziato e che hanno condotto al deterioramento di entrambe le parti dell’equazione ecologica: la natura, che vive una situazione di estrema emergenza causata dall’errore antropocentrico, e l’uomo, la cui qualità della vita si è ridotta, in quanto strettamente collegata alla qualità dell’ambiente e, attraverso di essa, alla qualità dello sviluppo economico.

Alla base del difficile e conflittuale rapporto tra uomo e ambiente stanno il diverso modo di funzionare del «tecnosistema» umano – in particolare di quello economico – in relazione con l’ecosistema, e la tendenza delle società industrializzate ad affrontare la natura come sfida ambientale e non come dimensione entro cui adattarsi. Affrontare la crisi ecologica impone innanzitutto di scoprirne le fondamenta: infatti, la crisi ecologica si profila sostanzialmente quale crisi del rapporto fra il mondo naturale e il mondo umano, segno di un equilibrio distrutto. La delicata situazione presente sottolinea la necessità di tornare a far proprio il concetto di «limite», perché quello adottato sino ad oggi non è l’unico modo possibile di vivere, si offrono anche percorsi diversi: al centro della questione vanno ricondotti l’uomo e lo stile di vita che ha deciso di adottare.

La perdita di biodiversità è frutto di scelte indipendenti di miliardi d’individui che fanno uso di risorse e servizi ecologici: il comportamento umano deve essere guidato nel senso di uno sviluppo sostenibile che, lungi dal costituire una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento che mette l’una di fronte all’altra le generazioni. Il punto di partenza della progressiva presa di coscienza ecologica è l’avvio del programma dell’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, le Scienze e la Cultura, denominato Mab ossia «Man and Biosphere», varato agli inizi degli anni Settanta, un osservatorio privilegiato per affrontare con mezzi e competenze adeguati i diversi problemi dell’ecosistema: nel binomio uomo-biosfera, l’uomo è proposto al centro della Terra come elemento centrale e attivo nei processi bioecologici, e il sistema ecologico è la nuova unità di analisi.

Nel 1987 il concetto di sostenibilità fu lanciato per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica e degli studiosi dal rapporto Brundtland, conosciuto anche come «Our Common Future», della Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo; esso è divenuto un obiettivo dichiarato delle politiche economiche e ambientali dei vari Paesi e degli accordi internazionali aventi per oggetto materie ambientali a partire dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, cui parteciparono 172 Governi, 108 capi di Stato o di Governo, 2.400 rappresentanti di organizzazioni non governative e oltre 17 mila persone.

In quell’occasione fu firmata la Convenzione sulla diversità biologica, finalizzata ad anticipare, prevenire e combattere alla fonte le cause di significativa riduzione o perdita della diversità biologica in considerazione del suo valore intrinseco e dei suoi valori ecologici, genetici, sociali, economici, scientifici, educativi, culturali, ricreativi ed estetici, oltre che a promuovere la cooperazione tra gli Stati e le organizzazioni intergovernative. Un nuovo meeting a Rio si è svolto nel 2012, il «Rio+20», e le dichiarazioni a margine sono state scoraggianti: «Questo è un momento unico in cui il mondo ha bisogno di una visione comune, di impegno e di una forte leadership. Ma il documento che abbiamo per le mani in questo senso è un fallimento», dichiarava Mary Robinson, ex presidente della Repubblica irlandese ed ex alto commissario dell’Onu per i diritti umani; Jeremy Wates, segretario generale dell’Ufficio per l’Ambiente europeo, ha definito il meeting un flop, e Fernando Cardoso, che nel 1992 era presente all’Earth Summit e dal 1995 è stato anche presidente del Brasile, affermava che «la divisione tra ambiente e sviluppo è anacronistica e non porterà alla soluzione dei problemi che stiamo creando ai nostri discendenti diretti. La soluzione è nella crescita sostenibile, non nella crescita a tutti i costi».

L’interesse verso i temi trattati dalla Psicologia ambientale ha richiesto un inquadramento della materia a livello istituzionale e accademico. In Italia non solo è stato compiuto un grande passo in ambito universitario verso il riconoscimento formale della disciplina, ma è stato anche creato, nel 2005, il Centro interuniversitario di ricerca in Psicologia ambientale (Cirpa) per la promozione e lo sviluppo della materia, un consorzio tra le università italiane e gli enti di ricerca, nel quale risultano fino al momento più consolidati gli interessi della ricerca psicologica in questo senso. Sotto la direzione di Mirilia Bonnes e la vicedirezione di Marino Bonaiuto, provenienti dall’Università Sapienza di Roma, il Cirpa vanta un comitato scientifico nel quale sono presenti ricercatori dalle Università di Padova, di Roma Tre, di Cagliari, di Napoli.

«Sostenibilità» fa riferimento alla necessità di venire incontro ai bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri: le variazioni apportate all’ambiente dalle attività umane devono mantenersi entro limiti tali da non danneggiare irrimediabilmente il contesto biofisico globale e permettere alla vita umana di continuare a svilupparsi. Ciò significa fare in modo che il tasso di inquinamento e di sfruttamento delle risorse ambientali rimanga nei limiti della capacità di assorbimento dell’ambiente ricettore e delle possibilità di rigenerazione delle risorse secondo quando consentito dai cicli della natura, per evitare la crescita dello stock di inquinamento e dell’elettrosmog nel tempo, l’effetto serra, l’estinzione di specie naturali, la deforestazione, la desertificazione, la distruzione della foresta amazzonica, e molti altri dei danni irreparabili che l’uomo provoca e ha provocato con il proprio comportamento non «biosferico».

È sull’uomo che si deve incidere per compiere l’improcrastinabile e necessaria inversione di marcia: solo attraverso la modificazione dei comportamenti individuali è possibile salvare il pianeta. Ciò non è cosa facile: il comportamento è frutto di meccanismi spesso incontrollabili o difficilmente trasformabili. Inoltre, la profonda sfiducia del singolo nel sistema rende l’impresa ancora più ardua, dovendo intervenire non solo sugli aspetti cognitivi del comportamento, ma più spesso sulla sfera motivazionale ed emotiva che guida il comportamento umano ed è parte integrante del «making plan» decisionale. Di tale impresa si stanno occupando gli psicologi ambientali con studi e ricerche sul campo e utilizzando metodi quantitativi e qualitativi, attraverso «case studies» che mettono al centro l’uomo – da solo e nella sua componente sociale – con le credenze, i valori, il sistema normativo, le motivazioni, in generale tutti quegli elementi che muovono il comportamento individuale e che vanno a comporre lo stile di vita.

Un comportamento ecologico può essere realizzato in modo intenzionale (prendere la bicicletta al posto dell’auto per un fine ambientale) o non intenzionale (prendere la bicicletta al posto dell’auto per risparmiare i costi della benzina), ma essere comunque efficace sul punto dell’impatto ambientale. È ecologico, o più ecologico di un altro, anche un comportamento che, pur non arrecando beneficio all’ambiente, si pone su un piano neutrale. La maggior parte dei comportamenti rilevanti sono espressione di abitudini, nelle quali l’intenzionalità è pressoché nulla, azzerata da meccanismi di risparmio cognitivo, e l’unità di analisi è più lo stile di vita che non il gesto singolo: le abitudini sono stringhe comportamentali nemiche dell’ambiente ed è soprattutto su queste che devono intervenire gli psicologi ambientali, risvegliando i singoli sulle conseguenze di azioni non ponderate e fornendo delle motivazioni differenti per gli atteggiamenti e la condotta routinaria. Oltre a ciò, la differente direzione motivazionale dei comportamenti colloca, accanto a valori altruistici ed egoistici, valori «biosferici» che sottendono ai comportamenti ambientali e li guidano, e che devono essere stimolati nell’ottica di un cambiamento globale.

La psicologia ambientale ha, inoltre, preso atto di un fenomeno in grado di dare una netta sferzata al comportamento, le «epifanie ambientali», che si presentano all’individuo come una rivelazione improvvisa, repentina, che lo avvicinano al senso della natura, e lo inducono a modificare il proprio stile di vita in funzione di un’ecologicità cosciente. Si verifica, in questi casi, quel ritorno alla natura che gli psicologi ambientali auspicano, si ricuce il rapporto uomo-natura in funzione di quest’ultima e si prende atto della sua presenza, prima invisibile.

Vi sono anche casi, affatto rari, in cui l’uomo nasce con una spiccata predisposizione verso l’ambiente o in cui, avendo l’occasione di vivere in un contesto naturale, matura non solo convinzioni, abitudini e stile di vita ecologici, bensì un’identità ambientale che può eventualmente evolversi nel senso di un impegno costante per la salvaguardia della natura. Per Wilson, «le persone preferiscono stare in ambienti naturali, in particolare nella savana o in un habitat simile a un parco. Amano poter spaziare con lo sguardo su una superficie erbosa relativamente piana punteggiata di alberi e cespugli. Vogliono stare vicino a una massa d’acqua: un oceano, un lago, un fiume o un ruscello. Cercano di costruire le proprie abitazioni su un rilievo, da cui poter osservare in sicurezza la savana o l’ambiente acqueo. Con regolarità quasi assoluta, questi paesaggi sono preferiti agli scenari urbani brulli o con poca vegetazione. In una certa misura, le persone mostrano di non amare le immagini di boschi in cui lo sguardo non può spaziare, la vegetazione è complessa e disordinata e il terreno è accidentato: in breve, le foreste con alberi piccoli e fitti e un denso sottobosco. Prediligono caratteristiche topografiche e aperture che consentono una visione più ampia».

Con il termine di biofilia si è definita una predisposizione dell’uomo verso la natura che per Wilson ha origini genetiche, e ciò si sintetizza nell’innata affiliazione emozionale dell’uomo agli altri organismi viventi, quel rapporto emotivo che da sempre lega gli esseri umani alle altre forme di vita che l’hanno accompagnato nel viaggio dell’evoluzione. «Biofilia–dice Wilson–è la tendenza innata a concentrare il proprio interesse sulla vita e sui processi vitali (…). Fin dall’infanzia, con animo felice, noi concentriamo la nostra attenzione su noi stessi e sugli altri organismi. Apprendiamo a distinguere la vita dal mondo inanimato e a dirigerci verso la vita come una farfalla attratta dalla luce di una veranda».

L’affinità dell’uomo con la natura, e con tutti gli esseri viventi, sarebbe dunque un prodotto della selezione naturale. Il concetto di verde appare come un punto di riferimento molto coinvolgente, archetipico e quasi viscerale. Il fatto che soggetti di differenti culture mostrino preferenze analoghe avvalora l’eventualità di una base genetica delle preferenze umane per l’habitat, che costituisce indubbiamente per tutti gli organismi il primo e cruciale passo per la sopravvivenza. Gli effetti benefici per la salute psichica e fisica dell’uomo derivanti da un contatto diretto con la natura sono ampiamente documentati da un’estesa letteratura scientifica: l’espressione «restorativeness» si riferisce agli effetti positivi che l’ambiente naturale ha per il benessere psicologico dei soggetti.

L’identificazione con il tema ambientale può sorgere, in misura più o meno ampia, anche nelle aree verdi degli ambienti urbani – se presenti, se note, se accessibili – o essere guidata da un’educazione ambientale attenta e mirata. La sola informazione, però, non è sufficiente a produrre un cambiamento nei comportamenti, o comunque un cambiamento stabile, come non sono sempre utili le strategie impiegate dalla politica, ad esempio tasse ambientali e incentivi monetari, in grado addirittura di spiegare un effetto inverso riducendo la motivazione morale delle persone a comportarsi in modo pro-ambientale.

Gli interventi sono distinti in strategie «soft», quelle informative, che hanno lo scopo di incrementare la conoscenza, la consapevolezza, le regole e le abitudini delle persone, come le campagne di sensibilizzazione sulla raccolta differenziata; e «hard» o strutturali, aventi lo scopo di cambiare le circostanze in cui sono messi in atto i comportamenti decisionali; fornire servizi per il riciclo dei rifiuti ne è un esempio. È importante individuare quei comportamenti che possono migliorare, in modo significativo rispetto ad altri, le condizioni ambientali, per indurre più massicciamente i primi; gli interventi devono essere dotati di un buon fondamento teorico e ad ogni intervento deve seguire una valutazione corretta delle sue conseguenze. Dove bisogna gettare un tovagliolo di carta? In quale dei contenitori: indifferenziato, umido o carta? L’azione informativa è utile a colmare il deficit di conoscenza; subito dopo deve intervenire l’azione strutturale, ossia la predisposizione, da parte delle autorità troppe volte sorde, di servizi per la raccolta, perché il comportamento compreso possa essere concretamente attuato. Da ciò consegue la forte necessità di educare la politica prima di tutto.

Sebbene sia sempre più possibile riscontrare una dichiarata consapevolezza ambientale, quest’ultima non risulta accompagnata da una matura azione quotidiana di sostenibilità ambientale, e i lavori realizzati dagli psicologi mostrano il ridotto riscontro delle campagne massicce volte a promuovere comportamenti ecologici responsabili. L’eccesso di informazione e le propagande morali non sono sufficienti a produrre processi di cambiamento di questo genere; secondo gli «ecopsicologi» della branca della «Ecopsicologia» è erroneo ritenere che la sensibilità ambientale possa maturare principalmente attraverso campagne di informazione e di comunicazione, o attraverso interventi di educazione ambientale nelle scuole, senza piuttosto l’esperienza di natura che tende a favorire l’emergere di un nuovo atteggiamento verso l’ambiente naturale, coinvolgendo non solo il sapere razionale ma anche la riflessione astratta, per modificare le immagini mentali e cambiare, riaccendendo un senso di profonda connessione con la Terra, nella consapevolezza che i valori non si modificano in un corso di formazione più o meno convenzionale, bensì attraverso azioni di formazione in cui la persona abbia modo di disimparare credenze che aveva dato come immodificabili nel passato.

In tempi recenti le società europee hanno acquisito la consapevolezza della necessità di comportamenti più responsabili e delle conseguenze delle azioni individuali e collettive sull’ambiente, e l’educazione ambientale ha assunto un ruolo centrale e diverso rispetto alla tradizionale accezione che la confinava nell’ambito dell’educazione naturalistica o negli spazi destinati alle campagne informative o di sensibilizzazione, o nelle aree protette.

La pura didattica o la semplice informazione non sono più in grado di fornire gli strumenti necessari ad agire in modo responsabile ed autonomo e garantire un grado di sviluppo sostenibile della nostra società; l’educazione ambientale deve sempre più configurarsi come educazione alla sostenibilità (ambientale, economica, sociale o dello sviluppo in senso lato): un impegno e un’opportunità in grado di coinvolgere tutti gli attori sociali, chiamati a diversi livelli e con competenze pluridisciplinari a definire obiettivi, strategie, azioni per attività integrate, utili a produrre una crescita culturale tale da riflettersi, mediante modifiche permanenti di atteggiamenti e comportamenti, sulla qualità ambientale e sulla nostra società, per preparare gli individui all’intenzione di prendere decisioni consapevoli rispetto all’ambiente.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2014




GIOVANNA PINI: ECCO IL CENTRO NAZIONALE CONTRO IL BULLISMO «BULLI STOP» (con intervento dello studente LUCA MURATORI)

In un mondo che cambia di continuo una cosa non è mai cambiata: il bullismo. Se non nell’ampliarsi e definirsi anche come «cyberbullismo». Ciò che si muove, oggi, però è l’informazione: possiamo fare finalmente qualcosa. Prima ciò non era possibile, non era concesso. Da una parte, in questa nuova società i genitori difendono i propri figli e non danno spazio ad altri modelli educativi; dall’altra, è opportuno modificare lo stesso approccio ai giovani, perché diventino parte di un processo di trasformazione che li faccia emergere e li renda consapevoli. A Roma nasce, a tale intento, il Centro nazionale contro il bullismo «Bulli Stop», presieduto da Giovanna Pini, che coinvolge i ragazzi nelle attività di più variegato genere, a partire da spot sociali e attività teatrali. Al Teatro Olimpico di Roma, il 27 maggio si esibiscono 250 ragazzi in «C’era una volta un bullo…». Fare per capire. Capire per cambiare. Ecco come.

Domanda. Il 27 maggio il Teatro Olimpico di Roma ospiterà il vostro spettacolo. Da cosa nasce il progetto?
Risposta. Lo spettacolo coincide con la nostra terza giornata nazionale «Giovani uniti contro il bullismo». A febbraio si è in realtà tenuta una giornata nazionale contro il bullismo, ma noi siamo stati i primi a farla, tre anni fa, con il Centro nazionale contro il bullismo «Bulli Stop» dove, per contrastare tale fenomeno, utilizziamo la teoria del «teatro d’animazione pedagogico». Per l’occasione portiamo in scena 250 ragazzi che hanno realizzato interamente lo spettacolo, dalle scenografie ai costumi, alla drammaturgia, alla recitazione: dalla forte aggregazione che hanno stabilito automaticamente il bullismo viene sconfitto. È, infatti, proprio con l’aggregazione che i ragazzi possono conoscersi, e rispettarsi. Il bullo, dotato di aggressività, non nasce cattivo; molti danno la colpa alla famiglia e all’ambiente in cui vive. La scuola ha un grande compito: se tutti i professori, che normalmente vedono i ragazzi per molte ore al giorno, facessero qualcosa per sconfiggere il bullismo e conoscessero bene i loro studenti, potremmo mettere un seme sano in ognuno di loro, molti di loro lo fanno e sanno quanto sia importante guidare i giovani di oggi.

D. Cosa fa, nelle scuole, il Centro nazionale contro il bullismo «Bulli Stop»?
R. Sono le stesse scuole a chiamarci per tenere dei dibattiti sul tema. Non vado sola, ma accompagnata da Teresa Manes, madre di Andrea Spezzacatena, il ragazzo che si è impiccato per bullismo, e con me porto sempre una decina di ragazzi di Bulli Stop, che sposano questa causa, devono parlare fra di loro perché è fra di loro che riescono a comprendersi meglio. Chi è stato un bullo porta la propria realtà nella scuola, ed emotivamente cambia tutto se è egli stesso che dichiara di aver sbagliato, in quanto riesce a catturare i propri coetanei. Con i giovani non si possono fare dibattiti teorici, dobbiamo renderli partecipi in modo che possano essi stessi formare una catena tra di loro per sconfiggere il bullismo. Quello che a noi manca e su cui lavoriamo da tempo, con il legale del nostro Centro Avv. Eugenio Pini, è una legge sensata, non una legge a tavolino fatta da chi non sta sul campo con i ragazzi tutti i giorni. Anche se adesso venisse approvata la proposta di legge in discussione, che implicherà la nomina in ogni scuola di un referente per il bullismo, non viene definita tale figura: si tratta di esperti o di psicologici? Che percorso hanno fatto per contrastare il bullismo? Da chi vengono formati? Non si possono fare le solite «italianate»; occupandomi da oltre 15 anni di bullismo mi è capitato di parlare con tante madri o ricevere le loro mail in cui segnalano di avere sì denunciato il bullo, ma di aver scatenato una reazione peggiorativa in cui i compagni di classe hanno preso ancora più di mira la vittima. Alcuni presidi replicano che queste sono «ragazzate» ed alcuni professori negano, c’è troppa omertà.

D. Che caratteristiche ha il bullismo?
R. Tre caratteristiche fondamentali: la ripetitività dell’evento, l’intenzionalità e l’asimmetria di potere. Se si presentano insieme, si può dire che è un caso di bullismo, se ne manca una potrebbe essere solo un caso di violenza o di scherno: bisogna saper scindere bene queste tre caratteristiche, un episodio isolato non si può definire come un atto di bullismo.

D. Come è nato il Centro?
R. Su iniziativa dei ragazzi, tanti adolescenti messi insieme nei numerosi anni di lavoro nelle scuole, proprio per affermare che «noi siamo diversi»: dalla loro idea abbiamo creato «Bulli Stop». All’Istituto G.G. Visconti di Roma, venivo a fare le prime sperimentazioni sul bullismo, ci sono anche altri insegnanti sparsi per l’Italia con i quali abbiamo contatti e che sanno fare il proprio lavoro: bisogna unire le forze di quelli che lo sanno fare, non di quelli che creano associazioni in un mese e vogliono cavalcare l’onda del bullismo, ognuno vuole brillare di luce propria ma per distruggere il bullismo ciò non è utile.

D. Chi sono i componenti del vostro Centro?
R. Io ne sono il presidente, mentre presidente onorario è il generale Luciano Garofano, ne sono portavoce Amadeus e Paola Perego, come madrina abbiamo Maria Grazia Cucinotta, come ambasciatori Max Gazzè e Paolo Genovese, come testimonial Antonella Mosetti e come media partner ufficiale rtr99 con Luca Casciani. Sono tanti anni che questi personaggi ci seguono e danno maggiore eco alle nostre iniziative. Inoltre, i ragazzi che partecipano al progetto hanno bisogno di sapere che sono importanti e hanno bisogno di visibilità, e lo stesso spettacolo viene presentato ogni anno da Amadeus. Ma se dal mondo adulto c’è questa disponibilità, è dai ragazzi che parte il tutto.

D. La vittima sta in silenzio però.
R. La vittima è silente, raramente parla, deve essere spronata a farlo e per questo dovrebbero essere previsti negli orari settimanali di tutte le scuole dei momenti di incontro in cui focalizzare le problematiche giovanili, coinvolgendo i ragazzi e facendoli sentire responsabili ed inseriti.

D. Anche se il bullismo c’è sempre stato, perché proprio oggi sta emergendo in maniera così significativa?
R. La società è cambiata molto, ma più in generale è cambiato il mondo della comunicazione: adesso un atto di bullismo si può filmare, mettere su Facebook ed essere condiviso da migliaia di utenti, il cyberbullismo viaggia ad una velocità stratosferica. Per lo spettacolo di quest’anno abbiamo preso tre favole: Dumbo, che era bullizzato per le sue orecchie, Cenerentola, esempio di bullismo al femminile con le sorelle e la matrigna, e Cappuccetto Rosso, in cui il lupo cattivo rappresenta il cyberbullismo e la realtà virtuale. Il bullismo è sempre esistito, anche nelle favole e nelle opere letterarie, ne è esempio lampante Pinocchio.

D. Ma perché proprio ora sembra diventato più forte?
R. È «esplosa cattiveria» da parte dei ragazzi per il fatto di non essere più seguiti costantemente dalla famiglia, mancano dei punti di riferimento: madre e padre di solito lavorano entrambi, non seguono sempre i figli, e andando avanti nel tempo stanno venendo meno i valori essenziali a partire dagli stessi genitori. Oggi questi ultimi difendono i figli anche se commettono atti di bullismo, e spesso sono i genitori che «bullizzano» i professori, mentre in altri tempi si prendevano schiaffi e punizioni per certi comportamenti. Noi portiamo alla cronaca atti di bullismo gravi, fisici, ma ci sono anche atti di bullismo psicologico, i quali uccidono la mente dei ragazzi, l’autostima, la crescita, gettando le basi per un futuro fragile. Non dimentichiamo che il bullo da adulto probabilmente avrà comportamenti antisociali, ma siamo noi che stiamo lasciando completamente da soli i nostri giovani, sembra quasi che questi si educhino tra di loro e così vengono meno punti di riferimento come la famiglia o la scuola, e il valore diventa quanto dice il compagno di classe, è lui che educa perché è con lui che si trascorre la maggior parte del tempo. E questo è il grande errore.

D. In che modo correggerlo?
R. Il nostro Centro nazionale contro il bullismo va direttamente nelle scuole a insegnare l’educazione al rispetto. I soldi dello Stato devono essere spesi nel modo giusto, bisogna fare una legge sensata, creare a monte una task force a livello legislativo, un tavolo tecnico di esperti che si occupano di bullismo da almeno 10 anni: non finanziamo progetti con soldi che non sappiamo dove finiscono. Il bullo non agisce mai da solo, ha anche affiliati e gregari che lo istigano, mentre gli affiliati della vittima di solito non parlano perché, dicono, altrimenti «le prendono» anche loro: che ne parlino allora in forma anonima alla polizia, alla polizia postale, ai carabinieri, perché prima di tutto anche queste figure pubbliche sono dei genitori, persone che possono capire ed aiutare. Ma anche l’amico non può star fermo a guardare, deve agire. E con tutti i casi che ci sono di professori o maestri che picchiano gli studenti, cosa stiamo aspettando a mettere le telecamere nelle scuole? Alcuni professori sono contrari perché dicono che in tale modo è lesa la loro privacy, ma cosa devono nascondere? In un caso di bullismo potrebbero guardare le riprese, non si giudica il lavoro di un professore. Sarebbe anche ora di inserire dei questionari nelle scuole per valutare gli insegnanti, stilati da psichiatri, educatori, pedagogisti; noi al Centro abbiamo come referente scientifico il professor Matteo Villanova, con cui abbiamo iniziato le ricerche sul bullismo nel 2002.

D. Come unire le forze?
R. Vogliamo creare il primo polo del Centro nazionale contro il bullismo su Roma, e da qui allargarci, fare corsi di formazione per genitori e insegnanti, dare supporto alla vittima che può venire a parlare con noi, avere il contatto con le forze dell’ordine, in poche parole: un polo gestito da gente che sa di cosa parla.

D. Avete creato vari video in cui risaltano i temi del bullismo, che si possono trovare sul vostro canale YouTube «Bulli Stop». Tra questi spicca: «Anime nere», che vede la presenza di giovani studenti. Come è finanziata questa attività?
R. Quel video, come gli altri, è stato fatto con le nostre amicizie e senza alcuna sovvenzione. Io leggo le mail, rispondo al telefono, incontro mamme, vado ai dibattiti, tutto a titolo gratuito, eppure il Centro non riceve finanziamenti mentre associazioni nate da meno di 6 mesi sì.

D. Negli altri Stati come funziona?
R. Dalle altri parti funziona tutto meglio, si è più supportati in tutto. Un esempio in eccesso: in America il poliziotto spara, mentre qui non può usare neanche il manganello.

D. Avete chi si occupa delle controversie che sorgono?
R. Abbiamo anche il settore legale, delegato allo studio dell’avvocato Eugenio Pini che ha curato molti casi di bullismo.    (ROMINA CIUFFA)

Ho intervistato uno dei giovani protagonisti dello spot «Anime Nere» (visializzabile qui sotto), finanziato dal «Bulli Stop» per sensibilizzare la società sul tema del bullismo: Luca Muratori, che frequenta il terzo anno del liceo scientifico internazionale Gian Galeazzo Visconti in Via Nazario Sauro. È lui che fa la parte della vittima nello spot sociale ideato e girato da Giancarlo Scarchilli con la supervisione della prof.ssa Giovanna Pini; gli altri protagonisti sono suoi compagni di scuola.

[wpdevart_youtube]https://www.youtube.com/watch?v=BuXaGRjbYi0[/wpdevart_youtube]

D. Dove avete girato questo spot?
R. A Roma, esattamente nei giardini del Pincio a Villa Borghese. La parte della vittima è quella che mi riesce meglio. Con me un mio compagno di classe, Valerio Paradisi, fa la parte di uno degli affiliati del bullo: al tempo dello spot, ossia lo scorso anno scolastico, frequentavamo il secondo liceo scientifico internazionale. Gli altri due protagonisti sono compagni di scuola più grandi: Gregorio Palazzi, il bullo, e il secondo affiliato, Simone Tolino, che nel video mi imbavaglia con il nastro adesivo. Per girarlo abbiamo impiegato circa un paio di giorni ma la preparazione per arrivare a girare lo spot è durata circa tre mesi, fra organizzazione, doppiaggio, scelte delle location, sceneggiatura, montaggio etc, etc. Tutto questo grande lavoro per uno spot che dura 30-50 secondi realizzato con professionisti del cinema.

D. Cosa hai provato, cosa hai imparato da questa esperienza?
R. Nello spot ero legato e imbavagliato, e non era una bella sensazione sapere che queste cose accadono nella realtà quotidiana; è stato nello stesso momento tanto emozionante quanto triste.

D. Lo stesso vale per gli altri ragazzi dello spot, i «bulli»?
R. In quel momento ero tutto legato, vedevo che loro recitavano la propria parte, e sono certo che non provavano gioia nell’immedesimarsi in quel ruolo.

D. Prima di entrare a contatto con «Bulli Stop» conoscevi la problematica del bullismo?
R. Ne avevo sentito parlare in tv, ma direttamente non più di tanto perché credo che questa piaga sociale si possa trovare in fasce di età più alte, verso i 15-16 anni. Non manca anche prima dei dieci anni, ma di certo è meno frequente. Ora, insieme ai miei compagni di scuola, siamo coinvolti nel progetto «Bulli Stop» e cerchiamo di rendere il nostro ambiente più vivibile, più attento.

D. Come sei entrato a far parte di questa iniziativa?
R. All’interno del Visconti è presente la scuola di teatro d’animazione pedagogico di Giovanna Pini: è stata lei ad introdurci nella lotta contro il bullismo. Ogni anno realizziamo e portiamo in scena uno spettacolo al Teatro Olimpico, sia la sera che la mattina per i ragazzi delle scuole di Roma, con cui intendiamo evidenziare il problema su palchi più ampi che non quelli scolastici dove il fenomeno nasce e, a volte, anche muore, per la scarsa visibilità o l’omertà che lo contraddistingue.

D. Ti è mai capitato di assistere di persona a scene di bullismo?
R. Sì, e non sono piacevoli da vedere.

D. Come hai reagito?
R. Non sono rimasto fermo lì a guardare la sofferenza di una persona debole, sono andato ad aiutarla. Ma so che, in realtà, ad essere debole è proprio il bullo.

D. Da dove pensi parta il bullismo?
R. Non tanto dal ragazzo, ma dalla famiglia, dai genitori: il bullismo è una mancanza di qualcosa, può ad esempio essere imputato a maltrattamenti da parte dei genitori, all’assenza di amici, alla scarsa considerazione che riceve. Il bullo può provenire da situazioni difficili, può essere orfano, i genitori possono fare violenza, maltrattamenti, o drogarsi. Per questo, ha necessità di «emergere» e lo fa con comportamenti deviati.

D. Come può un genitore affrontare il figlio «bullo»?
R. È difficile: il bullo non racconta mai la propria fragilità interna, e per il genitore può essere difficile capire se il figlio sia un bullo o no.

D. Se i genitori, in linea generale, sono impossibilitati ad intervenire, chi può farlo?
R. I bulli non vogliono cambiare perché sono contenti del proprio comportamento, ne vanno fieri, e non riflettono sul male che arrecano: non ci pensano proprio a farsi aiutare.

D. E la vittima può farsi aiutare?
R. Potrebbe sentirsi, nella maggior parte dei casi, in imbarazzo a raccontare le angherie subite, e chiudersi in se stessa. Ma l’insegnante potrebbe percepire questo malumore e fare molto. In classe è capitato di prendere in giro un amico in maniera bonaria, magari provocando una reazione ben più grave che noi non possiamo prevedere. Molte volte quando questo compagno è assente in classe i professori ci domandano il perché di certe prese in giro. L’insegnante è fondamentale, dato che i ragazzi vivono più fuori casa che in casa, ed può essere certo una fonte di miglioramento per noi.

D. Cosa ti ha apportato la conoscenza di Giovanna Pini?
R. Nonostante io non sia né un bullo né una vittima, mi ha dato grandi insegnamenti in questi anni. Mi ha aiutato nella recitazione, ma soprattuto dal punto di vista caratteriale perché prima ero molto timido, ora sono diverso e più consapevole. Sarebbero necessarie, nelle scuole, figure come la sua, ma purtroppo è raro. Noi del Visconti siamo molto fortunati, forse un caso unico.          (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Giugno 2017

 




AGGRESSIVITÀ E FRUSTRAZIONE: DALL’EFFETTO ARMA AL MODELLAMENTO TV

Un eccesso di aggressività si avverte: madri che uccidono figli che uccidono padri che uccidono mogli, stupri, lacerazioni con l’acido, cadaveri occultati, giochi di pulsione distruttiva per dirla freudianamente. Precedentemente ho parlato del conflitto interiore, il dubbio, l’angoscia correlata. In questo articolo l’intenzione è quella di dare un senso alle teorie sull’aggressività e la frustrazione, estremamente collegate alle teorie sul conflitto. Non è un segreto che, più passa il tempo, più la frustrazione avanza. Essa è generata dalla politica, dalle istituzioni, dalla qualità della vita, dal confronto con altri Paesi: sebbene l’erba del vicino sia sempre più verde, e questo è il caso di ricordarlo. Ma di certo l’Italia ha raggiunto un picco storico di frustrazione. Intendo per frustrazione una reazione personale e comportamentale accompagnata da sintomi vegetativi, che può portare a disturbi psicosomatici, disturbi mentali quando non vere e proprie malattie. Essa si verifica quando un ostacolo si presenta, un obiettivo non è raggiunto, un compito è interrotto, la propria autostima è minacciata, non è possibile gratificare un bisogno, e in tutte quelle situazioni in cui l’individuo sperimenta un «fermo» rispetto alle proprie aspettative più ampie.

Kurt Lewin (1890-1947), gestaltista, teorico della funzione del campo C=f(P,A) secondo cui il comportamento di un individuo è una funzione regolata da fattori interdipendenti costituiti dalla sua personalità e dall’ambiente che lo circonda, effettua esperimenti sulla sospensione ed interruzione del compito e nota che l’energia mobilitata continua ad operare e cerca vie di scarico, un accumulo che è percepito soggettivamente come un’esperienza emotiva spiacevole e dolorosa.

Sigmund Freud (1856-1939) ricollega la frustrazione alla mancata gratificazione dell’Es, per lui elemento libidinoso della psiche che non conosce negazione né contraddizione, e, nel suo modello energetico della motivazione, fa confluire l’accumulo connesso in altro: l’uso di meccanismi di difesa conduce a differenti soluzioni di sfogo, la prima delle quali è la sublimazione dell’energia ossia il suo scambio in attività sostitutive (lo sport ad esempio), o lo spostamento verso altri bersagli, spesso aggressivo. Ricordando i tre luoghi psichici freudiani: l’Es (la parte impulsiva, irrazionale, animalesca), il SuperIo (l’etica, la coscienza morale che sorge gradualmente e tende a reprimere gli impulsi dell’Es), l’Io (che si situa tra l’Es e il SuperIo, media tra le due tendenze e consiste in un continuo tentativo di equilibrio). Quest’ultimo è sempre in oscillazione anche in soggetti sani adulti. Un esempio per tutti il fil «Un giorno di ordinaria follia» in cui il protagonista Bill Foster, interpretato da Michael Douglas, per la frustrazione di una giornata qualunque raggiunge il punto di non ritorno, armandosi e minacciando la città.

Collegano frustrazione ed aggressività molti autori, in senso energetico l’etologo tedesco Konrad Lorenz (1903-1989), secondo cui compito della società e degli educatori è reprimere le spinte o creare valvole di sfogo (negli anni di Freud la militarizzazione era un’alternativa molto valida). Sono John Dollard (1900-1980) e i colleghi del gruppo di Yale a dare il massimo rilievo al collegamento tra frustrazione ed aggressività. Secondo essi l’aggressività presuppone sempre frustrazione, e quest’ultima conduce sempre ad un comportamento aggressivo, un legame che può essere rivisto solo attraverso strategie di ridirezionamento verso attività in grado di consentire la scarica. Si verifica uno spostamento quando muta il target della spinta aggressiva attraverso comportamenti diretti verso altri soggetti ed oggetti distinti rispetto alla causa generativa.

Ma questa teoria è considerata estremista: per Robert Richardson Sears (1908-1989) e George Armitage Miller (1920-2012) «non sempre», ossia frustrazione e aggressività sarebbero collegati solo ove vi siano condizioni particolari (la frustrazione prepara l’aggressività ma non la implica), ed è Leonard Berkowitz (1926-2016) che, con gli esperimenti ben noti degli «indizi aggressivi», rilevava il cosiddetto «effetto arma»: se nel campo è presente un oggetto che richiama aggressività, esso catturerà l’attenzione selettiva dell’osservatore che avrà non solo difficoltà a ricordare altri dettagli (problema dei falsi ricordi, molto rilevante nelle testimonianze e deposizioni processuali), ma sarà maggiormente predisposto all’uso della violenza. L’indizio aggressivo «arma», infatti, suggerisce il comportamento violento, finanche lo legittima, ed innesca una sequenza distruttiva, configurandosi come appiglio. L’esempio più lampante è costituito dai disordini pubblici e gli scontri che avvengono nel corso di manifestazioni in cui sono presenti forze dell’ordine dotate di armi, manganelli ed altri oggetti simili. Berkowitz aveva condotto un esperimento per avallare la sua teoria, e aveva evidenziato come i soggetti ignari, umiliati e derisi da un complice dello sperimentatore, tendevano ad infliggere più scosse, e più prolungate, al provocatore quando venivano a conoscenza che alcune armi, presenti nel campo di sperimentazione, appartenevano a costui.

La teoria degli indizi aggressivi è applicabile in Paesi quali gli Stati Uniti d’America, dove le armi possono essere acquistate, il nuovo presidente è favorevole al loro uso – in questo modo ampliando la motivazione dei cittadini a possederle se non altro per potersi difendere da altri che ne abbiano comprate – e non a caso nel Paese sono molto comuni le stragi nelle scuole generate dagli stessi studenti. In questo anche i media hanno un’elevata responsabilità, ma per dare atto di questo a breve mi soffermerò sugli studi di Bandura.

Intanto Dolf Zillmann pone un limite alla teoria dell’effetto arma, integrandola con l’evidenziazione dell’interpretazione tra arousal (eccitazione) ed aggressività: dopo le provocazioni i soggetti compivano attività fisica su una cyclette, e coloro che subito dopo il termine dell’esercizio fisico potevano somministrare una scossa al provocatore erano meno aggressivi rispetto ai soggetti che attendevano 6 minuti. Ciò perché questi ultimi non potevano più attribuire l’arousal allo sforzo fisico, e dovendo scaricare la tensione accumulata la riversano nel comportamento aggressivo. Diversamente accadeva ai primi. L’attribuzione della frustrazione ad una motivazione, diceva Zillmann, arresta l’aggressività.
L’aggressività per Seneca era follia, per i greci coraggio in battaglia, Thomas Hobbes (1588-1679) parlava di un uomo «homini lupus», mentre Friedrich Nietzsche (1844-1900) dava solo al Super Uomo la capacità di canalizzarla. Per i comportamentisti, l’aggressività è frutto di condizionamento operante (derivato dagli studi di Ivan Pavlov) in cui il rinforzo è dato dalle condizioni vantaggiose del comportamento aggressivo, mentre per i cognitivisti parla Albert Bandura (1925).

Lo psicologo canadese, nell’ambito dei suoi studi sulla «agenticità umana», considera il «modellamento per imitazione» come meccanismo di base per l’aggressività. Dal 1960, con le psicologhe Dorothea e Sheila Ross della Stanford University, condusse una serie di esperimenti sugli effetti che la visione di un soggetto violento in azione può esercitare sugli osservatori: sono i famosi «Bobo Doll Experiments», gli esperimenti con la bambola Bobo. Lo psicologo divise dei bambini di età prescolare in tre gruppi di bambini in età prescolare;  nel primo inserì un proprio collaboratore con il compito di mostrarsi aggressivo nei confronti del pupazzo gonfiabile Bobo. L’adulto picchiava il pupazzo con un martello gridando: «Picchialo sul naso!» e «Pum pum!». Nel secondo gruppo, quello di confronto, il collaboratore giocava con le costruzioni di legno senza manifestare aggressività nei confronti di Bobo. Nel terzo gruppo, quello di controllo, i bambini giocavano da soli, senza alcun adulto con funzione di modello. Successivamente i bambini venivano condotti in un’altra stanza nella quale erano presenti giochi neutri come peluche e modellini di camion, e giochi aggressivi quali fucili, una palla con una faccia dipinta legata ad una corda, e lo stesso Bobo. I bambini del primo gruppo manifestavano un’incidenza maggiore di comportamenti aggressivi rispetto a quelli che avevano visto il modello pacifico e a quelli che avevano giocato da soli. Ossia: l’aggressività si impara. C’è un modello che influenza gli altri. Tali esperimento portarono a conclusioni molto operative nell’ambito deggli effetti della TV sui bambini stessi. E non solo. Ciò dimostra come in un Paese nel quale le armi sono a portata di mano e la televisione propini modelli di violenza continui sia più facile una tornata di «effetto arma» e modellamento stile Bobo. I media italiani non aiutano: i dati lo dimostrano. Inutile rinchiudersi nella torre costituzionale della responsabilità penale personale: non è così. In molti casi, tale responsabilità è dell’intera società.

Nel metodo: sulla frustrazione a stessa seduta di psicoterapia/psicoanalisi si presta ad esserne fonte: il tempo limitato, il distacco dello psicanalista, il fatto di doverlo dividere con gli altri pazienti e, in particolar modo, il pagamento. Un terapeuta di approccio cognitivo-comportamentale mira a sviluppare nel soggetto un riapprendimento, dopo aver valutato quale apprednimento è stato generato dalla sperimentazione della frustrazione da parte del paziente, e come si è modificato il suo comportamento. Un utile test è l’inventario dei meccanismi di difesa, ma sono sempre validi il Rorschach, noto test di interpretazione di macchie, e il Tat (Test di appercezione tematica) di Henry Murray, che porta all’interpretazione di 31 immagini tra foto, riproduzioni, quadri, illustrazioni.  (Romina Ciuffa)




FUNZIONE RIEDUCATIVA DELLA PENA (PARTE UNO): IL RUOLO DELLO PSICOLOGO VA POTENZIATO

In un sistema democratico l’imputato si presume innocente fino alla sentenza di condanna, dopo la quale assume la condizione formale di condannato ed eventualmente, nell’entrare in un istituto penitenziario per espiare la condanna applicata dal giudice della cognizione, quella sostanziale di detenuto. Nella fase dell’esecuzione – competente ne è il Magistrato di sorveglianza – si aprono molte strade.

Esse sono tutte guidate da un unico strumento: il trattamento penitenziario, una serie articolata di interventi tesi a contrastare gli effetti negativi della detenzione e dell’internamento.
Pregiudiziale è l’attività di osservazione del comportamento e della personalità, per garantire la massima individualizzazione degli strumenti applicati. Di entrambi – osservazione e trattamento – è responsabile lo psicologo che, con altri operatori, è definito «esperto» dall’articolo 80 dell’Ordinamento penitenziario.

In questi articoli – il presente e quelli che seguiranno – individueremo le norme che consentono l’esperimento dell’attività rieducativa all’interno degli istituti penitenziari, sorte sotto l’egida del dettato dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione, e la rimarcazione delle lacune del sistema. Sarà descritto il trattamento rieducativo come il programma teso a modificare gli atteggiamenti del condannato e dell’internato, che sono stati la causa della sua mancata integrazione sociale, ed analizzate le varie dottrine che incidono sulla visione del condannato e del suo comportamento antisociale. Saranno analizzate le modalità alternative con le quali può essere eseguita la pena e se ne stabilisce il valore dal punto di vista della sicurezza sociale e della maggiore stabilità del sistema nel suo rapporto con la recidiva.

Si esemplificheranno, quindi, gli strumenti che l’Ordinamento penitenziario, introdotto nel 1975 e integrato negli anni, mette a disposizione del sistema carcerario per assicurare al condannato un processo cognitivo ed emozionale completo che gli consenta non solo di comprendere il valore della propria azione criminale, ma anche di inserirsi in un iter di ricostruzione attraverso l’educazione. Si indicheranno le strade dell’educazione formale – quella (più cognitiva) che si ottiene dall’istruzione, dal lavoro intramurario ed extramurario, dalla religione – ed informale – più emozionale, perseguita attraverso creatività e interazione, nonché un più profondo contatto con l’inconscio (è il caso dell’arteterapia, delle attività teatrali e musicali in carcere, dei rapporti con la famiglia e con l’esterno) – e si nomineranno altresì progetti di ricerca-intervento che hanno trovato accesso, diretto o indiretto, negli istituti penitenziari e, quando possibile, se ne valuteranno gli effetti. Nondimeno saranno individuati degli interventi che, realisticamente, prendono atto della difficoltà sociale, del pregiudizio, dell’effettivo reinserimento dell’ex detenuto nel sistema lavorativo ed affettivo e, allo scopo di non rendere vano il percorso evolutivo affrontato nel corso della detenzione, predispongono anelli di giunzione tra carcere e impresa.

La pena assorbe più funzioni, a seconda di come la si interpreti e la si sia interpretata nelle varie epoche storiche. Oggi l’articolo 27, comma 3, della Costituzione enuncia: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Sono la Scuola classica e la Scuola positivista ad aver determinato le due letture chiave: l’articolo 27 risponde ai postulati della Scuola positiva del diritto penale, che respinge la concezione afflittiva della pena postulata dalla Scuola classica («tanto male inflitto per tanto male arrecato») e dà alla pena finalità di difesa sociale nella sua funzione di riadattamento, in accordo con la concezione della responsabilità di fronte alla legge penale.

Prima la Scuola classica, basandosi su una concezione assoluta del diritto, aveva posto a fondamento del diritto penale i seguenti principi: a) il delinquente è un uomo qualunque senza particolari differenze da tutti gli altri; b) la condizione e la misura della pena sono commisurate in relazione alla presenza e al grado del libero arbitrio; c) la pena ha funzione etico-retributiva del male commesso, perciò deve essere assolutamente proporzionata al reato, afflittiva, personale, determinata e inderogabile.

La funzione rieducativa, volta a cogliere l’occasione della condanna penale per perseguire la risocializzazione e il recupero del condannato costituisce anche la ratio giustificatrice delle pene sostitutive (articolo 53 della legge n. 689 del 1981) e delle misure alternative alla detenzione (articoli 47-54 della legge n. 354 del 1975); queste ultime possono evitare al detenuto la permanenza in stabilimenti carcerari (affidamento in prova, detenzione domiciliare) o ridurre la durata della permanenza in carcere (semilibertà, liberazione anticipata per riduzione di pena), come descritto dalla citata legge dell’Ordinamento penitenziario n. 354 del 26 luglio 1975 recante le norme sull’Ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà e dal successivo Regolamento di esecuzione.

Quando si parla di Ordinamento penitenziario si fa riferimento all’apparato normativo che regolamenta il momento della privazione della libertà personale in esecuzione di una sanzione penale, in particolare della legge n. 354. Caratteristica della riforma penitenziaria del 1975 è quella di essere nata da sola, senza che l’opinione pubblica fosse chiamata ad esprimersi, né alcuna dottrina fosse ascoltata. Comunque il testo della legge resta fedele agli intenti rieducativi del terzo comma dell’articolo  27 della Costituzione e rifiuta la tesi dell’irrecuperabilità di taluni quando proclama l’applicabilità del trattamento «a ciascun internato o condannato» (articolo 13 comma 3).
Il ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca, Mario Zagari, sintetizzava in cinque note le mete che la legge intendeva perseguire: l’umanizzazione del trattamento; l’efficacia del trattamento; il favorire i contatti con il mondo esterno; la giurisdizionalizzazione dell’Ordinamento penitenziario attraverso il magistrato di sorveglianza, figura indipendente dall’amministrazione cui affidare la supervisione dell’esecuzione penitenziaria; la riduzione della popolazione detenuta mediante l’introduzione di misure alternative alla pena detentiva.

Con queste norme, varate proprio mentre entra in crisi la concezione medico-clinica della rieducazione, il legislatore ha inteso dare importanza alla funzione risocializzatrice della pena soprattutto nella fase esecutiva, considerando il carcere non più come luogo di segregazione e di separazione dalla società, ma come momento di intervento per offrire le strutture materiali e psicologiche necessarie al reinserimento. I principi fondamentali sono elencati sin dal primo articolo della legge n. 354, intitolato «Trattamento e rieducazione»: innanzitutto, il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni su nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche, credenze religiose. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Infine, il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti; si specifica anche: i detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. L’ 431 del 29 aprile 1976 descrive il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà come «l’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali», e aggiunge: «Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale».

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È possibile una modificazione degli atteggiamenti? C’è un suggerimento nell’articolo 4 sull’integrazione e il coordinamento degli interventi di ciascun operatore professionale o volontario: questi «devono contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di integrazione e di collaborazione».

Il trattamento rieducativo è attuato in base all’articolo 1, comma 6, O.P. «secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti». La metodologia di realizzazione del trattamento è descritta nell’articolo 13 O.P. e consta di tre punti fondamentali: il punto di partenza è rappresentato dai bisogni, dalle carenze del soggetto e dalle cause del disadattamento sociale, il punto di arrivo è costituito dal reinserimento sociale, il tramite tra i due è formato dall’osservazione scientifica della personalità e dalla conseguente offerta di interventi che rappresenta per l’Amministrazione penitenziaria un obbligo di fare.

Il coordinato disposto dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione e delle norme dell’Ordinamento penitenziario delinea un sistema di gestione dinamica  dell’esecuzione della pena attraverso l’uso degli strumenti ordinari previsti a tale scopo, rappresentati dalla promozione della redazione e dell’attuazione dei programmi di trattamento per la definizione dei percorsi di reinserimento sociale, e dall’ammissione alle varie alternative alla detenzione.  (ROMINA CIUFFA, psicologa)

SEGUE. Parte due: https://www.rominaciuffa.com/carcere-educazione-formale/