REPORTAGE AMATRICE. MAX DE TOMASSI: SE DOMO NON VA AL BRASILE È MARISA MONTE CHE VA A DOMO

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L’intervista di Romina Ciuffa a Max De Tomassi giornalista, esperto di Brasile e uno degli 8 residenti di Domo, dove ha portato in vacanza Marisa Monte pochi giorni prima del sisma.

Sono 69 le frazioni di Amatrice, la più distante è Domo, a 14 chilometri e 24 minuti secondo Google Map. Sita a 870 metri sul livello del mare, ha, d’inverno, 8 residenti. Tra questi il giornalista Rai Max De Tomassi, conduttore radiofonico della trasmissione «Brasil» e profondo conoscitore della cultura verdeoro. La sua casa è caduta, come le altre, il pagliaio, avente un tetto di legno, si è mantenuto. Si trovava all’interno dell’abitazione, alle 3:36 del 24 agosto, sua figlia Benedetta, che trovandosi in salone non è rimasta colpita dalle macerie che sono crollate nella sua camera da letto.

Domo ha una storia sismica interessante: infatti, nel 1639 era già stata completamente rasa a terra da un terremoto, e ricostruita. Ma più in là, dove ora si trova. Max De Tomassi mi descrive la situazione del suo «vilarejo», in portoghese brasiliano letteralmente «villaggio», e titolo di uno dei più noti brani della grandissima cantante Marisa Monte che proprio a Domo aveva trascorso, pochi giorni prima del sisma, le vacanze.

Domanda. Si è fatto molto parlare di Amatrice ma pochi si sono soffermati sulle frazioni che sono, comunque, rimaste colpite dal terremoto.
Risposta. È bene sottolineare l’importanza delle frazioni. Amatrice è un Comune di Rieti, recentemente il decreto ha dato determinate garanzie ai possessori di seconde case. A Domo, come nelle altre frazioni, molti posseggono una seconda casa, si tratta di una delle economie più importanti di Amatrice che riempie di persone tutto il territorio comunale per le vacanze estive ed invernali. Va enfatizzata l’importanza delle frazioni e quindi anche di un posto piccolo come Domo. Non ci sono frazioni particolarmente grandi, si possono trovare una quarantina di persone.

D. Lei è uno degli 8 residenti.
R. Sì, siamo 8, ma di frazioni come Domo ce ne sono tante. Domo è un posto unico, e qui subentra il campanilismo che è in ognuno di noi: quindi per me Domo è il posto più bello del mondo perché ci sono cresciuto, perché lì ho imparato ad andare in bicicletta, perché cacciavo le lucertole, raccoglievo i funghi con le castagne, facevo una vita libera. Domo è la libertà per tutti noi che ci siamo cresciuti e che ci siamo fatti grandi da quelle parti, Domo è il posto in cui i genitori aprono la porta di casa e dicono ai figli: «Torna a pranzo», e i figli rientrano soli perché non ci sono rischi di automobili o di altro tipo. È il posto ideale per meditare, per ritrovarsi, per fare le cose più semplici della vita, che sono anche le più belle: stare davanti al camino, fare passeggiate nel bosco, cercare le sorgenti di acqua purissima, pescare le trote con le mani, parlare con i pastori, mangiare formaggi appena fatti, in una dimensione d’uomo bucolica.

D. Domo è stata colpita dal sisma?
R. È stata colpita da un punto di vista architettonico. La maggior parte delle case sono inagibili, ma non ci sono stati morti.

D. Vi accorperanno nei moduli abitativi con altre frazioni?
R. Al Coc mi hanno detto che daranno moduli abitativi a chi ne farà richiesta e ne avrà il diritto, e li accorperanno in luoghi dove sarà più semplice fare opere di urbanizzazione.

Schermata 2016-11-02 a 13.18.18D. Una delle più grandi cantanti brasiliane, Marisa Monte, è venuta in vacanza a Domo pochi giorni prima.
R. A giugno mi trovavo in Brasile da lei, pranzavamo come sempre a casa sua, e mi ha manifestato il suo desiderio di fare un viaggio in Italia. Le ho proposto di venirmi a trovare in montagna, a Domo, per poi andare insieme al mare, in barca, per farle conoscere il Mediterraneo. Così è arrivata con suo marito e i suoi figli facendo una prima tappa a Venezia, città d’arte, passando per la montagna e quindi arrivando tutti insieme in Sardegna.

D. Ha avuto la fortuna di vedere luoghi che ora non esistono più.
R. Esatto, siamo stati anche a visitare Amatrice. Racconto un aneddoto: da poco mi ero tagliato i capelli dal mio barbiere di sempre, Pietro Serafini, di 84 anni, e incontrandolo lo salutai presentandolo. Così pensarono che sarebbe stata una esperienza farsi fare i capelli «all’italiana», e chiedemmo a Pietro se avesse due posti liberi per loro nel suo negozio. Lui li accolse con gioia e tagliò loro i capelli. Pietro, un simbolo di Amatrice, è morto sotto le macerie. Mi tagliava i capelli fin da quando avevo un anno, era lui ad avermi fatto il primo taglio.

D. La sua casa ha subito danni?
R. È inagibile, va abbattuta e ricostruita da zero.

D. Domo nel 1639 ha subito un altro terremoto, quindi era già stata ricostruita da capo.
R. Sì, ma era stata ricostruita in un’altra area: l’area del terremoto del 1639 adesso è solo un prato 400 metri più in là.

D. Sembrerebbe un triste destino.
R. È un’area sismica: non si può cambiare il destino spostandosi di 400 metri.

D. Ma oggi Domo non è completamente distrutta, si potrà ricostruire sopra lo stesso borgo.
R. Sì, inoltre le tecniche sono diverse, anche perché probabilmente la ricostruzione su case del 1600 sarebbe stata molto più complicata di oggi. Oggi si distrugge e si rifà.

D. Aggiungendo che ora c’è più cultura del terremoto, si potranno fare costruzioni antisismiche, anche se commettiamo spesso gli stessi errori.
R. Sì, ma consideriamo anche l’ignoranza dell’essere umano che dopo il primo terremoto ha costruito palazzi pensando che contro un tale cataclisma bastassero delle pareti profonde 60 centimetri. Con gli anni la legge è cambiata, ma le pareti e le mura sono rimaste le stesse di un tempo, nonostante la legge antisismica imponesse il tetto in cemento: eppure è stato proprio questo tipo di tetto che ha fatto crollare le case. Paradossalmente il mio pagliaio, avente un tetto di legno, non ha subito danni.

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D. Marisa Monte ha scritto una delle canzoni di maggior successo, «Vilarejo».
R. «Vilarejo» significa «villaggio», e già nel mio emotivo identificavo questo «vilarejo» di cui parlava il suo testo nella mia Domo. Quest’estate, quando eravamo a casa mia, sentivo Marisa parlare al telefono con la moglie di Caetano Veloso e le diceva proprio questo: che ci trovavamo in un vero e proprio «vilarejo», dove ci si conosce tutti, si mangia insieme, si vive in collettività.

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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AMBASCIATORE CELSO AMORIM: BRASILE, DAL MEDIORENTE ALL’EUROPA PASSANDO COME MINISTRO DI FRANCO, LULA E DILMA

Uno degli uomini che ha fatto la storia del Brasile: proveniente da Santos (San Paolo), ma residente a Rio de Janeiro, Copacabana, una carriera prima accademica come professore di lingua portoghese per l’Istituto Rio Branco e di Scienze politiche e relazioni internazionali per l’Università di Brasilia, oltre che membro dell’area Affari internazionali dell’Istituto di Studi avanzati dell’Università di San Paolo; quindi una carriera cinematografica che lo porta a capo dell’Embrafilme, impresa statale, come direttore generale, ma anche cineasta; è però chiamato, e per due volte, a svolgere l’incarico di ministro degli Esteri: dieci anni, di cui due sotto il presidente Itamar Franco, otto sotto «Lula». Quindi ministro della Difesa con Dilma Rousseff, ed ambasciatore. Oltre che scrittore (tre libri: «Conversa com jovens diplomatas» (2011), «Breves narrativas diplomáticas» (2013), e l’ultimo, recentissimo «Teerã, Ramalá e Doha – Memórias da Política Externa Ativa e Altiva» (2015), ha ricevuto il premio «Bravo Business» dalla rivista «Latin Trade» nella categoria «leader innovativo dell’anno» ed è stato definito da David Rothkopf, sulla rivista americana «Foreign Policy», il «miglior ministro del mondo». È Celso Amorim.

Domanda. Se fossi una studentessa di diplomazia, come mi insegnerebbe le relazioni internazionali?
Risposta. Direi innanzitutto di leggere i miei libri, perché in essi ho definito le priorità della politica estera brasiliana negli anni in cui sono stato ministro, soprattutto quelli in cui ho ricoperto tale incarico per il presidente Lula. Parlo delle relazioni del Brasile con l’America del Sud, ma anche con altri Paesi in via di sviluppo come l’India, il Sud Africa, della creazione del gruppo dell’Ibas, del Brics, dei rapporti del Brasile con i Paesi arabi, delle nostre iniziative o partecipazioni ad iniziative relative al Medioriente, del programma nucleare iraniano, in generale di tutti i temi più rilevanti quali le relazioni commerciali globali nell’ambito dell’Omc, l’Organizzazione mondiale del commercio, in cui il Brasile ha avuto un ruolo predominante soprattutto in un certo periodo di tempo. È tutto scritto lì.

D. È uscito di recente il suo ultimo libro, «Teerã, Ramalá e Doha: Memórias da Política Externa Ativa e Altiva» («Teheran, Ramallah e Doha: memorie della politica esterna attiva ed alta», dove «altiva» è sinonimo di elevatezza).
R. È diviso in tre parti, ossia tre racconti diplomatici. Il primo è incentrato sulla Dichiarazione di Teheran del 17 maggio 2010 attraverso la quale Brasile e Turchia si sono resi protagonisti dell’accordo con l’Iran per lo scambio di uranio in relazione al programma nucleare, rispondendo ad una sollecitazione iniziale dei Paesi occidentali. Il secondo riguarda Ramalà, un simbolo per indicare il nostro avvicinamento ai Paesi mediorientali e principalmente arabi, ma anche la partecipazione ad iniziative legate alla pace tra Palestina e Israele insieme al riconoscimento, da parte del Brasile, dello Stato palestinese; da cui il titolo «Ramalà», che vuole essere una sintesi di questo procedimento, giacché è Gerusalemme ad esser considerata la capitale, non Ramalà, che invece è la sede amministrativa del Governo palestinese. Il terzo racconto riguarda Doha, la terza capitale del Medioriente, con la quale il Brasile ha rapporti commerciali molto intensi ed io particolarmente ne sono stato molto coinvolto durante i miei incarichi governativi. Nel caso di Doha inizialmente ero ambasciatore del Brasile nell’Omc, poi ministro degli Affari esteri ma anche capo delle delegazioni brasiliane nelle relazioni commerciali. Uno dei passi più significativi della Dichiarazione di Doha che fece partire le negoziazioni era stata la Dichiarazione sulla proprietà intellettuale e la salute, la quale concesse flessibilità ai Paesi in via di sviluppo per la produzione di medicine generiche, e riuscimmo ad ottenere un abbassamento dei prezzi per malattie come Aids, tubercolosi, malaria ed altre; partecipai alle varie trattative in tema di sussidi agricoli ed altre questioni di interesse del Brasile e di altri Paesi, e creammo a quel tempo un G20, differente da quello dei leader, che ebbe molta influenza nelle negoziazioni che, se prima erano incentrate solo sui Paesi ricchi, divennero appannaggio anche dei Paesi in via di sviluppo. In generale i tre temi del mio libro costituiscono la sintesi di ciò che un Paese definito emergente è riuscito a fare in otto anni di Governo. L’unico tema veramente importante che non ho inserito in questo libro è l’America Latina, invece presente in altri libri che ho scritto sul Sud America.

D. Cosa pensa della situazione che oggi vede il Medioriente protagonista nella scena globale e, soprattutto, occidentale?
R. È una situazione molto complessa. Oggi il grande tema è, senza dubbio, quello della Siria e dello Stato islamico. Credo che il lato positivo sia nella sopravvenuta consapevolezza che per la negoziazione sia necessaria la presenza di tutti gli attori principali per l’accordo nucleare con l’Iran, includendo l’Iran stesso: il fatto che ci sia un dialogo è una cosa nuova. La questione mediorentale è anche legata a quella dell’immigrazione verso l’Europa, pertanto è un tema che ha ripercussione sugli europei, ma ciò che spesso le persone dimenticano è che assume centralità la questione della Palestina e che la non-soluzione del problema palestinese finisce per generare frustrazioni e risentimenti che producono situazioni come quella che stiamo vivendo ora. Ovviamente è un problema complesso che non può essere ridotto a unità, ma indubbiamente si è andato generando un sentimento di alienazione in gran parte dei cittadini degli Stati arabi e di quegli arabi che sono residenti in Europa, ciò causando le conseguenze che ben conosciamo.

D. Il presidente Dilma Rousseff aveva dichiarato di esser pronta ad accogliere, in Brasile, i rifugiati provenienti dall’Europa e dai Paesi dai quali fuggono, generando anche delle polemiche a riguardo.
R. Il Brasile ha una tradizione di accoglienza, anche prima degli attacchi di Parigi eravamo flessibili rispetto all’entrata di rifugiati in particolar modo provenienti dalla Siria. Il nostro è un Paese di immigrazione, che ha, tra siriani e libanesi, probabilmente 10 milioni di residenti. Abbiamo sempre accolto rifugiati, siano politici siano economici, come, nel caso europeo, spagnoli, portoghesi, italiani ed altri.

D. Discorso a parte merita il caso Battisti, condannato con sentenza passata in giudicato per 4 omicidi a due ergastoli; problema di differente natura quello della sua estradizione, che però in comune con il tema «accoglienza» riguarda la presenza di un europeo, nel qual caso italiano, in Brasile, con decisioni di natura più diplomatica che politica.
R. Credo di non dover entrare nel merito di questa questione, ma ritengo necessario rispettare le decisioni sovrane di un Paese.

D. Il Governo Dilma è contrario alla nomina di Dani Dayan, ex capo dei coloni nei territori della West Bank, come ambasciatore israeliano a Brasilia; e soprattutto ha dato luogo ad incidente diplomatico il fatto che, prima di comunicare il nome per i canali ufficiali, ciò sia stato reso pubblico tramite Twitter. Come esperto di diplomazia, cosa ne pensa?
R. Non rappresento più il Governo oggi, e parlo solo in base ad una mia personale analisi: credo che la reazione brasiliana sia stata corretta, il Brasile fino ad oggi non ha comunicato una decisione, ma in ambito diplomatico l’attesa di una risposta equivale ad una risposta negativa, in questo caso per due ragioni: una di forma e l’altra di contenuto. Quella di forma è importante quanto quella di contenuto in questa fattispecie; infatti, non sono state seguite le normali procedure, ossia il post su Twitter ha preceduto una richiesta confidenziale da parte dell’autorità competente, e con un aggravante: Dayan non è un ambasciatore qualunque, in quanto è stato il leader degli insediamenti israeliani in Palestina, dunque espressione di una politica che il Governo brasiliano condanna. In realtà, credo che questa non sia stata solo una «gaffe» diplomatica, bensì una mossa israeliana avente l’intento di collocarci all’interno di un «fatto consumato», e anche se indirettamente il Brasile si troverebbe ad accettare la posizione israeliana sulla Palestina, senza rispettare l’Accordo di Oslo: di questo passo la stessa idea di uno Stato palestinese comincerebbe ad essere utopia, e questo non è concepibile. Credo che il Governo brasiliano abbia agito correttamente tanto per la forma, quanto per la sostanza politica, ossia per ciò che rappresenta tale atto. Non si tratta di un ambasciatore appartenente all’opposizione, o che semplicemente abbia idee differenti dalle nostre: si tratta piuttosto di una questione centrale per la soluzione del problema mediorientale.

D. E dell’umanità.
R. Il punto dell’umanità è centrale: avevo sul mio tavolo durante il mio ministero, ed ho messo nella copertina di un mio libro, una mappa del 1511 fatta da un cartografo italiano che rappresentava Betlemme al centro del mondo, per la nascita di Gesù.

D. Può raccontare la sua politica estera e la sua visione ad un non brasiliano?
R. Sono stato ministro degli Esteri due volte, la prima con il presidente Itamar Franco, la seconda con il presidente «Lula»; successivamente, con il presidente Dilma, sono stato ministro della Difesa. La mia visione del Brasile, e non tutti devono essere d’accordo con me, è che il Brasile è un Paese che sta crescendo e tentando di affermare il proprio posto nel mondo; nel contempo il mondo sta cambiando e questi cambiamenti generano opportunità di una maggiore presenza brasiliana. Non siamo più nella bipolarità della Guerra Fredda, né nell’unipolarità dell’immediato dopoguerra: è un mondo più diversificato, più «multipolare», mi piace definirlo. Credo che il Brasile, anche unito al Sud America e ad altri Paesi emergenti, può costituire un polo di questa nuova configurazione. A mio avviso il fatto che vi siano vari poli di potere è salutare: dobbiamo e possiamo contribuire. Credo che, attraverso l’integrazione sudamericana, attraverso la cooperazione con altri Paesi emergenti, attraverso la formazione di gruppi come l’Ibas, ossia India, Brasile e Africa del Sud, o il Brics, ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, attraverso l’avvicinamento ai Paesi arabi e il mantenimento di buoni rapporti con l’Europa e gli Usa, attraverso tutte queste azioni la politica estera brasiliana negli ultimi anni sia riuscita a contribuire ad un mondo che dia più opportunità e nel quale vi sia meno egemonia. Non è un processo rapido: la storia delle relazioni internazionali non si misura per anni o decadi, ma a volte per secoli. È però un piccolo impulso in una certa direzione che ci sembra migliore, quella di un mondo multipolare che segua norme internazionali e più giuste. La definizione di «giusto» può variare da Paese a Paese, ma vogliamo norme più equilibrate che trasformino l’uso della forza, soprattutto quello unilaterale come è avvenuto in Irak e in Libia, e lo rendano sempre meno frequente.

D. Possiamo dire che oggi il Brasile è più ricco?
R. Economicamente, possiamo dire che è più ricco se prendiamo un periodo di almeno venti anni, se non quaranta. Negli ultimi dieci anni stiamo vivendo una recessione, ma ciò accade, è un momento difficile per il mondo intero. Il Brasile è riuscito ad evitare che questa crisi, iniziata nel 2009, lo colpisse in maniera profonda, ma adesso è giunta anche da noi e dobbiamo affrontarla, è il momento di dimostrare la nostra resilienza, la capacità di adattarci e cambiare nonostante gli ostacoli. Ci riusciremo, perché il Brasile, da quando sono una persona adulta, è riuscito a vincere tre grandi ostacoli: il primo è stato l’autoritarismo, la politica della dittatura militare; il secondo, quello dell’instabilità economica, l’inflazione per quasi 50 anni; il terzo, ancora in corso, quello della riduzione delle diseguaglianze. Il Brasile non è un Paese povero, bensì di reddito medio nell’insieme, ma è un Paese molto «disuguale»; questa disuguaglianza sta diminuendo molto soprattutto con i Governi di Lula e Dilma. Con Lula si notò in misura maggiore in quanto era quella un’epoca di grande sviluppo economico, ma il processo continua. Sì, il popolo brasiliano è più ricco, perché un maggior numero di persone partecipano al mercato, arrivano all’università, per tale ragione hanno accesso a impieghi migliori, e questo è il cambiamento più grande.

D. Cosa pensa dei grandi eventi che si sono tenuti e che si stanno ancora per tenere, dalla Giornata mondiale dei giovani che ha portato il Papa a Rio de Janeiro, ai Mondiali di calcio del 2014 fino alle Olimpiadi che stiamo aspettando per giugno? Essi non sono stati per i brasiliani anche un grande problema sotto molti punti di vista, come hanno dimostrato le rivolte chiamate «O gigante acordou»?
R. Non li vedo come un grande problema. Credo che la maggioranza dei brasiliani è stata felice di ospitare questi eventi, e li ha apprezzati. È chiaro che è sempre possibile muovere critiche, come questa: perché spendere soldi per uno stadio anziché per un ospedale? Le cose non sono in realtà escludentisi, abbiamo portato gente, turisti, mercato, e se a Rio, dove io risiedo, oggi vedo molti più stranieri che nel passato è per questi motivi. Ci sono anche molti più turisti brasiliani. Curiosamente non molti italiani: più francesi e tedeschi. Forse perché, essendo gli italiani molto simili ai brasiliani, non è facile distinguerli bene. Credo che tali eventi abbiano contribuito a riprogettare il Brasile, è una cosa eccezionale per qualunque Paese: in circa sei anni la visita del Papa, la Coppa del Mondo e le Olimpiadi. È anche incredibile che il Brasile, per essere scelto come ospite delle Olimpiadi, ha gareggiato con gli Usa, con Madrid e con Tokyo, tre Paesi del G7. Ed è stato scelto, probabilmente perché possiede questo potere di attrattiva che gli americani definiscono «soft power». Ma esso non basta: sono stato ministro della Difesa e so bene che per poter usare il «soft power» è necessario avere una base di «hard power».

D. Come si difende il Brasile?
R. Abbiamo 17 mila chilometri di frontiere con altri Paesi, 10 vicini, e non abbiamo una guerra con alcuno di essi da 150 anni: è sintomo di una diplomazia capace. Abbiamo 8 mila chilometri di litorale marittimo, e anche questo richiede buoni strumenti difensivi oltre che diplomatici, parte di una grande strategia.

D. Come vede l’Italia, dal punto di vista di un brasiliano, di un uomo politico e diplomatico, e delle varie persone che lei è?
R. Come brasiliano e come umanista, l’Italia è un Paese formidabile. Ripeto sempre che uno degli elementi della mia formazione è stato il cinema italiano dell’epoca del Neorealismo, per le lezioni che da esso ho appreso non solo di cinema, del quale sono appassionato, ma anche di umanesimo, insegnamenti sui valori umani. Questo è straordinario. Per non parlare dell’arte. Come uomo politico, vedo che l’Italia e il Brasile hanno molti punti in comune: il modo di guardare ad esempio. Vedo che l’Italia, anche in situazioni molto complesse come quella irachena, ha una posizione più moderata ma, a differenza del Brasile, è membro della Nato. Il Brasile non è membro di alcuna alleanza militare, e questo già crea una differenza di prospettiva. Abbiamo altre differenze, che credo siano minori e normali, come nel caso della riforma del Consiglio di sicurezza o in questioni commerciali. Ho sempre ritenuto, comunque, l’Italia un Paese moderato, alla ricerca di soluzioni pacifiche; ciononostante, il fatto di essere membro della Nato crea, a mio avviso, alcune limitazioni. Sto parlando come persona indipendente, in quanto oggi non appartengo ad alcun Governo e ciò mi dà modo di fare queste dichiarazioni: credo che l’Italia non avrebbe partecipato, di per sé, all’attacco in Libia, come è accaduto. Ha partecipato in ragione dell’alleanza con la Francia, l’Inghilterra, gli Usa, e l’Italia, membro della Nato, ha dovuto prendervi parte. Come credo che avrebbe idee più moderate sull’Irak ed altre questioni. L’Italia è un Paese importante, e potrebbe avere un ruolo maggiore nel G20 internazionale, quello dei leader, rispetto a certi temi, anche politici o relativi alla pace e alla sicurezza. Credo anche che, nella questione dell’immigrazione, essa abbia una mentalità più aperta di molti altri Paesi europei, e ciò è un punto a favore dell’Italia. Il Brasile ora sta appoggiando la candidatura italiana per il Consiglio di sicurezza e ciò dimostra che, a prescindere dalle differenze, riconosciamo il valore e l’importanza di questo Paese.

D. Nota una differenza tra la diplomazia italiana e la diplomazia brasiliana?
R. Ogni diplomazia rispecchia naturalmente il popolo e la formazione. Il Brasile è un Paese in cui è presente una grande pluralità e tale elemento influenza e modifica il Brasile, che fortunatamente è fuori dai grandi conflitti mondiali, solo sfiorando la seconda guerra mondiale; l’Italia, invece, ha partecipato alle due guerre mondiali. L’Italia è un Paese ricco, il Brasile si sta sviluppando, e questo crea differenze che si riflettono nella diplomazia, ma non tanto nello stile. È molto facile e naturale il linguaggio di un diplomatico italiano, simile al nostro. Subiamo certamente il fascino italiano della cultura e della teoria politica, Machiavelli e Gramsci per citarne solo due, indispensabili.

D. Cosa farà nel futuro, dopo gli anni di Governo e i precedenti di cinema?
R. Ho tre figli che fanno cinema, una quarta che lavora in un’organizzazione internazionale. Il cinema lo lascio ai primi tre, io oggi resto uno spettatore.

D. Cosa la portò al cinema?
R. Studiavo ed ero appassionato di filosofia, e a quei tempi il cinema non era solo arte: in Brasile esso costituiva un vero e proprio strumento di cambiamento sociale, di trasformazione. Il cinema ha fatto sì che i paulisti e i carioca, gli abitanti di San Paolo e di Rio de Janeiro, conoscessero il «Nordest» del Brasile e la sua povertà, ad esempio. Anche la politica era molto legata al cinema. Entrai però nella carriera diplomatica che ho condotto, insieme all’essere ministro, per oltre 50 anni. Ora tengo lezioni, partecipo a conferenze alle quali sono invitato o commissioni, anche nell’ambito delle Nazioni Unite, su questioni legate a problemi globali di salute ma anche calcio, perche siamo sempre brasiliani; sono stato capo dell’Osservatorio elettorale dell’Oea, l’Organizzazione degli Stati americani ad Haiti. Un libro è costituito da una prefazione, una storia ed un epilogo: io mi trovo nella fase dell’epilogo, ho sempre lavorato per lo Stato e per organismi internazionali, ma non lavorerei, pur rispettandola, in un’impresa privata. Sono servitore dello Stato.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Marzo 2016




TURISMO INTELLIGENTE E CULTURALE: LE NUOVE SFIDE E PROSPETTIVE PER IL BRASILE E L’ITALIA SECONDO GEOGRAFI ED ACCADEMICI

Brasile e Italia, quale politica turistica? Glaucio José Marafon, Marcelo Antonio Sotratti e Marina Faccioli, nel libro «Turismo e território no Brasil e na Itália-Novas perspectivas, novos desafios», raccolgono gli interventi di geografi ed universitari: è questo il risultato di un lavoro di cooperazione tra l’Istituto di Geografia Igeog della Uerj, l’Università dello Stato di Rio de Janeiro, e il Dipartimento del Turismo dell’Università di Roma Tor Vergata. Cinque testi brasiliani e cinque italiani.

Nuove prospettive e nuove sfide al centro anche del convegno del 2 febbraio 2016, ospitato a Palazzo Pamphilj, sede dell’Ambasciata del Brasile in Italia. Presenti i geografi Marafon, dall’Università Uerj di Rio de Janeiro, e Faccioli, dall’Università di Roma Tor Vergata, il professor Aniello Angelo Avella, che del libro ha scritto la prefazione e si presenta a nome dell’Istituto italiano di cultura di Rio de Janeiro; con essi dibattono André Cortez per l’Ufficio Promozione commerciale, Investimenti e Turismo dell’Ambasciata, segretario del settore politico e dei rapporti con il Parlamento (sono con lui Flaminia Mantegazza e Ana Paula Torres), Ottavia Ricci per il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Giuseppe Imbesi dalla Sapienza di Roma, Stefano Landi dalla Luiss-Guido Carli, Stefano Sassi, giornalista ed economista, e Maurizio Vanni, dall’Università del Museo sociale argentino di Buenos Aires. L’incontro è arricchito dalla presentazione del video speciale della Rai «I 450 anni di Rio de Janeiro e il contributo degli italiani».

Contribuiscono al testo alcuni professori dell’Igeog: Amanda Danelli Costa, Clara Carvalho de Lemos, Marcelo Antonio Sotratti, Rafael Angelo Fortunato, Vanina Heidy Matos Silva; da Tor Vergata Alessandro Macchia, dalla Sapienza e la Politecnica marchigiana Paola Nicoletta Imbesi, le ricercatrici Anna Tanzarella e Francesca Spagnuolo; e Christovam Barcellos per la Fundação Oswaldo Cruz. Il libro è edito dalla stessa Uerj.

ANIELLO ANGELO AVELLA. «Navegar é preciso», bisogna navigare. Così Avella introduce il volume, citando Fernando Pessoa. E specifica: viaggiare sì, ma intelligentemente. Il turismo culturale, fenomeno di grande attualità («espressione resa problematica dalla difficoltà di definire e conciliare i termini turismo e cultura», specifica), merita di essere studiato nei suoi diversi aspetti, tra i quali hanno rilievo i «motivi legati alla tradizione del viaggio culturale e alle sue implicazioni socioeconomiche, utili a mostrare i meccanismi per mezzo dei quali è possibile usufruire della cultura come momento di ozio».

È altresì necessario ricordare la peculiarità del «nuovo» a cui porta il viaggio, creando relazioni tra persone e popolazioni differenti e situazioni di socialità che producono trasformazioni delle identità sociali. Ciò causa, secondo il professore filobrasiliano, la messa in discussione del proprio stile di vita e dell’immagine di sé agli occhi degli altri.

Del Brasile Avella è un grande esperto: professore di Storia della cultura dei Paesi di lingua portoghese nella Facoltà di Lettere e filosofia di Roma Tor Vergata, responsabile scientifico della cattedra Agustina Bessa-Luís istituita presso la stessa facoltà dall’Instituto Camões (Ministeri della Cultura e degli Affari esteri del Portogallo), «visiting professor» nella Universidade do Estado do Rio de Janeiro (Uerj), coordinatore degli accordi di cooperazione scientifica di Roma Tor Vergata con le università brasiliane. Oltre a ciò, è associato al Consiglio Nazionale delle Ricerche e fondatore dell’Associazione eurolinguistica Sud; è socio della più antica istituzione culturale del Brasile, l’Instituto histórico e geográfico brasileiro, fondato nel 1838; è membro dei consigli scientifici ed editoriali di riviste internazionali; ha ricevuto nel 2004 il riconoscimento della «Medaglia Tiradentes» dall’Assemblea legislativa dello Stato di Rio de Janeiro. È autore di numerose pubblicazioni nell’ambito delle relazioni culturali fra l’Italia e i Paesi di lingua portoghese, in particolare il Brasile. Per il quale consiglia, al «visitatore intelligente», una guida speciale: la collezione che Don Pedro donò al Brasile stesso subito dopo la morte della moglie napoletana, Teresa Cristina di Borbone, dalla quale prende il nome. 20 mila pezzi, da libri rari a fotografie d’epoca e quadri di grandi autori italiani (ci sono anche Tiziano, Annibale Carracci e Salvator Rosa), collocati a Rio de Janeiro tra la Biblioteca nazionale, il Museo storico nazionale e l’Istituto storico e geografico brasiliano (IHGB).

Riporta Avella che, grazie all’imperatrice napoletana, in Brasile si rinvengono anche elementi di arte etrusca e pompeiana, che lei portò con sé nel bagaglio sulla nave che la condusse a Rio nel 1843. Oltre a ciò, la statua del greco Antinoo, che lei donò, nel 1880, all’Accademia di Belle Arti di Rio, oggi trasferita nel Museo nazionale delle Belle Arti. Per l’esperto è proprio la borbonica Teresa Cristina uno dei principali punti di giuntura per la cultura italo-brasiliana, e fu lei a rendere Rio de Janeiro punto di partenza e di arrivo delle escursioni oltreoceaniche nei campi della musica, della letteratura, del teatro, delle arti plastiche, con implicazioni politiche e sociali. Per questo il Secondo Impero fu, secondo lo studioso, un momento decisivo (l’espressione è di Antonio Candido) nella costruzione del sistema di relazioni politiche, sociali e culturali tra Brasile e Italia, quando queste da episodiche divennero sistemiche.

Ricorda anche Nísia Floresta (1810-1885), educatrice e poetessa brasiliana pioniera del femminismo in Brasile, direttrice di un collegio a Rio de Janeiro e autrice di numerose pubblicazioni in difesa di donne, indios e schiavi. Nata nel Rio Grande do Sul, avendo abitato anche nel Pernambuco e a Rio de Janeiro, si trasferì nel 1849 in Europa (Portogallo, Inghilterra, Italia, Grecia ed altro) fino addirittura a morire a Rouen, in Francia.

Primo forte collegamento: è il 1859 quando a Firenze pubblica «Scintille d’un’anima brasiliana», cinque saggi («Il Brasile», «L’abisso sotto i fiori della civiltà», «La donna», «Viaggio magnetico» e «Una passeggiata al giardino di Lussemburgo»); ed è il 1864 quando a Parigi è dato alle stampe il primo volume di «Trois ans en Italie, suivis d’un voyage en Grèce», dove la scrittrice affronta i problemi politici e sociali italiani e riflette sulla storia e le manifestazioni culturali locali. Per il prefattore del libro curato da Marafon, Sotratti e Faccioli, quello di Floresta costituisce un diario di viaggio valido per lo studio della storia italiana dal punto di vista dei dominati.

Anche Carlos Magalhães de Azeredo, fondatore dell’Accademia brasiliana di Lettere, parla della «divina Roma» nelle sue memorie ricordando gli anni in cui vi abitò nell’ultima decade dell’800, mentre Cecília Meireles ne contempla le rovine tra i suoi «Poemas italianos» del 1953: per lei Roma è il principio di tutto. Quindi Murilo Mendes, Haroldo de Campos, Antonio Callado, Silvano Santiago etc. Senza dimenticare Sérgio Buarque de Holanda, che insegnò a Roma tra il 1952 e il 1954, padre di Chico. Sì, proprio quel Chico Buarque destinato a divenire, da vivo, la leggenda non postuma del Brasile nel mondo, patrono di una nuova spiritualità basata sulle parole: esiliato nella capitale italiana nel 1969, ci conobbe per vie «di traverso». Rientrato in Brasile, questo tropicalista non avrebbe più dimenticato l’Italia, e il ristorante «Il Moro» a Fontana di Trevi.

MARINA FACCIOLI. Stereotipi. Affronta questo tema la geografa Marina Faccioli, tra i coordinatori del libro italo-brasiliano. Laureata in Geografia alla Sapienza di Roma con una tesi sullo sviluppo dell’area metropolitana romana, dottorato di ricerca in Geografia urbana e regionale, ricercatrice per l’Istituto di Geografia economica a Verona, professore associato di Geografia nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Tor Vergata, ha studiato le relazioni fra trasformazioni del processo produttivo e forme di riqualificazione delle risorse culturali localizzate, con specifico interesse per un’analisi in chiave regionalista. Filo conduttore della sua attività di ricerca è il tema della valenza culturale che il sistema territoriale locale è in grado di esprimere quale soggetto di forte coesione socio-economica, con particolare riguardo alla definizione e alla qualificazione di una cultura urbana di carattere postindustriale.

«Non credo che i nostri giovani vadano in Brasile in cerca di stereotipi. Dico sempre che non si conosce una città guardando i monumenti ma girando per le strade, e sono convinta che i giovani siano intelligenti, formati, attenti e sensibili a questo». Aggiunge: «Facendo lezione ai ragazzi brasiliani ho trovato delle differenze con i nostri». Innanzitutto disponibilità e fidelizzazione nei confronti degli italiani, da una parte insita nella storia, dall’altra data dall’eco dell’industria italiana, che «ha insegnato molto in Brasile». Altre diversità riscontrate sono nel «senso della terra, che noi non conosciamo: non abbiamo una storia agricola come quella dei brasiliani, appartenenti a un modello istituzionale di agricoltura familiare».

L’attaccamento alla terra, secondo la geografa, ha condizionato e orientato le modalità di politica turistica accolte dai brasiliani, ossia un turismo nelle campagne diverso da quello agrituristico tipico dell’Italia. Questa differente attitudine raccoglie la domanda dei visitatori che vogliono conoscere qualcosa di più degli stereotipi. Da anni, riferisce, sono attive esperienze di turismo etico in campagna, dove si va a conoscere lo stile di vita a partire da una formula di turismo solidale. «Il loro attaccamento alla terra mi ha stupito, perché sta nella capacità di autopromuoversi».

Rio non esisterebbe se non ci fossero le favelas, sostiene la relatrice. «Sulle favelas si è costruita la città», non si tratta di insediamenti, e lì «le persone oggi si autopromuovono e partecipano al gioco collettivo della valorizzazione turistica della favela stessa. Molti studenti vi si trasferiscono per studiare, proprio perché l’Italia non offre prospettive nel settore, i turisti a Roma continuano a diminuire, e non per gli attacchi terroristici. Dovremmo imparare anche noi a fare politica turistica. Intanto i ragazzi hanno cominciato a lavorare nelle favelas aprendo ristoranti e portando italianità».

Riguardo al mare, «dovremmo imparare dai brasiliani, noi che non riusciamo a valorizzare Ostia e rendiamo il litorale romano un pezzo staccato dalla città». Il mare «non basta più come spiaggia, sole, acqua» ma deve divenire il «pezzo di una grande città». Ciò porta oltre le diversità, è un processo identitario che si costruisce in tanti luoghi diversi. «Ho faticato a far capire ai brasiliani la nostra passione per il localismo, poiché hanno dimensioni tali che si parla di natura, foreste, terra e parchi». E di disponibilità culturale, conclude.

CLAUDIO JOSÈ MARAFON. Ricardo Vieiralves, rettore della Uerj, ha incentivato il lavoro congiunto con l’Università di Tor Vergata e, a partire dal 2010, è stata frequente la presenza di professori italiani nei corsi carioca in Geografia e in Turismo, spiega a Specchio Economico il professor Marafon. Questo ha portato comunque a una riflessione: il Brasile è un Paese che riceve ancora pochi turisti stranieri. «La politica del Ministero brasiliano va nel senso di ampliare i numeri dando maggiore visibilità al territorio brasiliano, per renderlo più attrattivo. Detto obiettivo–specifica Marafon–passa per una politica di sicurezza e divulgazione, giacché spesso l’immagine del Brasile è associata a violenza». E ciò non è necessariamente vero, sottolinea il professore.

Turismo sociale, turismo di avventura, natura: questi ed altri elementi garantiscono al Brasile «di poter ricevere sempre più visitatori da tutto il mondo». Ma la politica deve adeguarsi, ed è ciò che l’incontro di questi esperti mira a evidenziare. Infatti, il Brasile è noto solo per alcune delle innumerevoli attrattive.
Però il costo della vita sale anche per il turista: dopo i grandi eventi, e in prossimità del successivo, i Giochi olimpici 2016 che si terranno a partire da giugno, esso è cresciuto senza compassione.

Cosa pensa Marafon di questo? Costituisce un problema? «Stiamo vivendo una crisi molto forte che ha svalorizzato la nostra moneta, il reale: oggi infatti, un euro corrisponde a circa 5 reali. Per il brasiliano la vita è senza dubbio più cara, ma ciò torna a favore del nostro turismo–spiega–. Per il turista internazionale, infatti, è ora più economico recarsi in Brasile, e questo va visto come un vantaggio che abbiamo».

FLAMINIA MANTEGAZZA. Flaminia Mantegazza, responsabile dell’Ufficio Turismo dell’Ambasciata del Brasile, guidato da André Cortes, parla del «Brasile diverso», del Brasile come «esplosione della natura». Così: «Sono solita dire che l’Italia è un museo culturale a cielo aperto, il Brasile è invece un museo naturale. Nel miscuglio di razze presenti, 30 milioni sono gli italiani. Abbiamo ammirazione per la natura–prosegue–e insieme la necessità di valorizzare ciò che è nostro». Una tradizione che «chi è già stato in Brasile percepisce: quello che c’è fuori lo prendiamo e lo trasformiamo».

Si sofferma, quindi, sulla geografia. «Il Brasile è a 12 ore di volo dall’Italia, che racchiude 28 volte. L’influsso turistico brasiliano in Italia è il settimo, mentre gli italiani che visitano il Brasile sono terzi, superati da Francia e Germania. Il Brasile–prosegue Mantegazza–occupa la prima posizione per le risorse naturali, ma solo la ventottesima nell’indice di competitività internazionale. E siamo qui in Italia anche per imparare questo».

Non si può dire di conoscere tutto il Brasile, per estensione il quinto nel mondo con 8,5 milioni di chilometri quadrati, diviso in 5 regioni e sei bioma: Amazzonia, Cerrado, Pantanal, Caatinga, Pampa e Mata Atlântica. Ne fa un quadro veloce la responsabile dell’Ufficio Turismo: «L’Amazzonia è enorme, il fiume ha una dimensione di 6200 chilometri quadrati e da una sponda non si vede l’altra; esso va dai 3 ai 15 chilometri, ha 1100 affluenti e racchiude ogni specie di pesci. In tutto il Brasile si trovano ancora riserve indigene, non solo in Amazzonia ma anche nel Sud-Est e nella zona di Rio dove abitano le tribù». Queste sono, per la relatrice, le giuste esperienze da fare per un turismo sostenibile, con la possibilità di pernottare in palafitte immerse nella natura. Nel bioma amazzonico la spiaggia è visibile con la bassa marea del fiume, e i suoi alberi altissimi creano l’umidità necessaria a far sì che l’ecosistema si riproduca.

Il Cerrado è un bioma che «rappresenta il 23 per cento del territorio e attraversa 15 dei 27 Stati. Caratterizzato da arbusti bassi con una buccia dura e rami contorti e sparsi, ricco di animali e piante, ha una produzione e un’economia delle quali vivono 30 milioni di persone».

Della Foresta Atlantica fanno parte, tra l’altro, il Corcovado e Rio de Janeiro, infatti «al loro interno si trova la foresta che separa la parte Sud dalla parte Nord. Nel percorso di questo bioma vivono 120 milioni di persone e 10 tribù indigene, e da qui proviene il 70 per cento del Pil brasiliano. Cerchiamo di proteggere la foresta, ma essa è molto diminuita: oggi le istituzioni sono impegnate a preservarla. La Foresta Atlantica scorre e taglia tutto il litorale di Bahia».

La Caatinga è «una zona di cactus e piante grasse di foresta non molto fitta, che rappresenta il Nord-Est sconosciuto; comprende 10 Stati e il 10 per cento del territorio popolato da 27 milioni di persone. I cactus fanno parte di un ecosistema particolare perché si possono mangiare o bere». Invece in un altro bioma, quello della Pampa, ultimo Stato nella frontiera con Paraguay e Argentina comprendente il Rio Grande do Sul, «si trova una vegetazione diversa, con piante al di sopra dei 500-800 metri dal livello del mare, ottima per l’allevamento di bestiame. Qui sono le Cascate di Iguazù e molte altre belezze».

«Il bioma del Pantanal, invece–spiega ancora–comprende entrambi i biomi dell’Amazzonia e della Foresta Atlantica, i quali si contagiano a vicenda, creando un’esuberanza di territorio vergine piena di grotte e fiumi incontaminati con 263 specie di pesci e 2 mila specie di piante acquatiche. Dal 2 all’11 aprile 2016 ospiterà l’Adventure Week, frutto della grande tendenza brasiliana per il turismo di avventura e il turismo naturale».
E, ricorda, nel 2018 il Brasile ospiterà la Conferenza mondiale sull’acqua: esso, pur nei suoi problemi di siccità, raccoglie circa il 12 per cento di tutta l’acqua dolce del pianeta. «Certo che l’ecosistema è devastato. Sebbene riusciamo a mantenere tutto ancora in vita, non sappiamo fino a quando. C’è una grande coscienza delle autorità e del popolo, ma sappiamo anche che l’interesse economico, purtroppo, va oltre».

STEFANO SASSI. «Parlo sempre volentieri del Brasile anche se ritengo che sia una delle cose più difficili da fare». Così introduce il suo intervento il giornalista ed economista Stefano Sassi. «Non dobbiamo dimenticarci che stiamo parlando di un continente e non di uno Stato. Non si può parlare del Brasile pensando solo a Rio de Janeiro, anzi: forse la cosa meno brasiliana del Brasile è proprio Rio de Janeiro, che ritengo la più bella città dopo Roma. Non per i monumenti ma per la natura: quando i portoghesi arrivarono, videro questo fiume che brillava oro e capirono la bellezza del posto. È l’unica città nel mondo che ha all’interno un parco nazionale, scimmie e serpenti e, fino alla metà degli anni Ottanta, anche otto giaguari che sono stati spostati perché, affamati, scendevano nelle favelas».

Oggi si parla di cambiare l’immagine del Brasile, prosegue il giornalista. «Ho letto che i brasiliani cercano di dare l’appellativo di ‘viaggio intelligente’ alla visita in Brasile. Ma quando parliamo di cultura del Brasile dobbiamo decidere che cosa intendiamo per cultura. I 500 mila brasiliani che ogni anno vengono in Italia sanno esattamente che cosa vengono a vedere, i 200 mila italiani che vanno in Brasile non lo sanno. Al di là della fotografia particolare che tutti conosciamo, quella delle spiagge, le palme, le belle ragazze: ma il Brasile non è questo, o non è solo questo. Fino a qualche tempo fa non sapevo che vi sono reperti etruschi portati da una borbona, come non sapevo per esempio che in Brasile c’è la più grossa isola idromarina del mondo, più grande della Svizzera, con oltre 1 milione e 100 mila capi di bufali allo stato brado».

Sassi si sofferma a descrivere ciò che in Italia si sa meno del Brasile, dal genere musicale del Forrò (ben oltre il Toquinho che tutti sono abituati a conoscere), località che sono patrimonio dell’umanità (cita Minas Gerais), completamente conservate, indios, conventi francescani, alligatori. «C’è un problema di informazione. La lacuna è di voi brasiliani, che dovete far conoscere il vostro Paese, dire che cosa avete, perché il turista sceglie sulla base di quello che sa. Il Brasile andrebbe visitato in lungo e largo, ma ci vuole una vita».    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Febbraio 2016

 

 




7 SETTEMBRE: L’INDIPENDENZA DEL BRASILE DAL PORTOGALLO LUNGO UN CAMMINO DI SCHIAVITÙ E SANGUE

Il 22 aprile del 1500 Pedro Alvares Cabral avvistò terra: era l’attuale Santa Cruz de Cabràlia, nello Stato nordestino di Bahia. Il Brasile non era affatto una meta accattivante: abitata da indigeni, e non v’erano dichiarati propositi colonialisti da parte degli europei, sebbene quel territorio fosse stato già spartito tra Spagna e Portogallo, ancor prima della sua scoperta ufficiale quando, con il trattato di Tordesillas (7 giugno 1494), i due iberici definivano la frontiera che divideva il continente brasiliano da Nord a Sud, dall’attuale stato di Parà fino alla città di Laguna (modificata in seguito con l’espansione portoghese ad Ovest). Allo sbarco di Cabral l’intento era mite: si intendeva popolare le Americhe ed usare le terre brasiliane come base per il commercio con le Indie, l’impresa di navigazione puntava sugli scambi con i prodotti locali. Era necessario capire come.

L’occupazione vera e propria inizia comunque, sebbene 32 anni dopo, con la fondazione nello Stato di San Paolo di Vila de São Vicente, che è nel guinnes dei primati come la «cidade mais velha do Brasil»: nel 1531 il re del Portogallo João III inviò in Brasile i coloni con Tomé de Sousa, primo governatore generale. I portoghesi trovarono un popolo ingenuo (che li accolse prima di doverli odiare) privo di organizzazione militare che poterono assoggettare con facilità più che con destrezza e, in base al vecchio Trattato di Tordesillas integrato da quello di Saragozza del 1529, il nuovo territorio entrò ufficialmente a far parte della zona d’espansione territoriale del Portogallo. Risale al 1533 la prima struttura politica ed amministrativa brasiliana, basata sulle «capitanias», come volle re João III, concessioni terriere di tipo feudale date dal sovrano a nobili che, in cambio di un tributo, ottenevano pieni poteri sulla terra; ciò però implicava anche indipendenza di interessi presso ogni capitanato (ve n’erano 12), che di fatto era una comunità separata dalle altre, per tale ragione non attenta al commercio e alla difesa del Paese dagli interessi stranieri. Il re ritenne, per ovviare a questa dispersione, di fondare un potere centrale, nominando un governatore generale: il 29 marzo 1549 fu fondata la capitale, Salvador.

Fu allora che l’accoglienza brasiliana si tradusse in ostilità e nel conflitto bianchi-neri: da una parte i portoghesi costringevano gli oriundi a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, dall’altra la tratta degli schiavi fece giungere dall’Africa più di 4 milioni di neri. Contro le barbarità i preti gesuiti costruirono «reducciones», villaggi di civilizzazione e difesa contro le razzie dei coloni portoghesi e spagnoli, in cui i missionari accoglievano i fuggiaschi ed insegnavano la fede cristiana. Intanto gli schiavi si rifugiavano nelle regioni dell’interno più inaccessibili dove si organizzavano in «quilombos», il più emblematico dei quali è il quilombo di Palmares – comunità autonoma, regno o repubblica secondo alcuni – che occupava una vasta area, grande quasi quanto il Portogallo, nella zona nordorientale del Brasile, tra gli odierni Stati dell’Alagoas e Pernambuco, e che arrivò a contare 30 mila abitanti. Ancora oggi questo quilombo è il simbolo della resistenza degli africani alla schiavitù, così come lo è Zumbi dos Palmares.

Quando giunsero le navi della Compagnia Olandese delle Indie Occidentali nel Pernambuco, fu destabilizzato il mercato della canna da zucchero e facilitata la fuga degli schiavi per contrastare il Portogallo. Ma l’Olanda riuscì a prendere solo la città di Olinda e fu proprio a Palmares che gli olandesi puntarono, nel 1644, per tentare un’alleanza antiportoghese: primo tentativo olandese di conquistare le terre brasiliane ad onta della bolla papale «Ea quae pro bono pacis» del 1506 e del Trattato di Tordesillas che la stessa proteggeva, secondo cui alle nazioni europee differenti da Portogallo e Spagna che conducevano esplorazioni era negato l’accesso alle nuove terre, lasciandosi loro unicamente opzioni come la pirateria. Francesi ed olandesi provarono ad insediarsi, saccheggiarono Bahia, addirittura i secondi conquistarono temporaneamente la capitale e dal 1630 al 1654 si stabilirono nel Nordeste fondando la colonia di Nuova Olanda, padroneggiando una lunga striscia della costa più accessibile dall’Europa e controllando l’interno. Ma dopo anni di guerra aperta con i portoghesi gli olandesi si ritirarono, nel 1661.

Nel 1678 il governatore della Capitania de Pernambuco, stanco del lungo conflitto col quilombo de Palmares, si riappacificò col leader di Palmares, Ganga Zumbi, ed offrì la libertà a tutti gli schiavi fuggitivi a condizione che il quilombo si sottomettesse all’autorità portoghese; la proposta venne accettata ma Zumbi, sospettoso e contrario ad accettare la libertà solo per il quilombo mentre gli altri neri del Brasile rimanevano in stato di schiavitù, spodestò Ganga Zumbi divenendo il nuovo leader di Palmares, che invece soccomberà ai portoghesi nel 1694, dopo 94 anni di esistenza. Zumbi, tradito e denunciato da un vecchio amico, sarà localizzato, catturato e decapitato a 40 anni, per divenire eroe e martire. Ma l’insofferenza contro il dominio europeo si era ormai diffusa, oltre che nei quilombos e tra gli oppressi, anche nelle élite creole – strati benestanti di popolazione nata in America da genitori europei, molti dei quali iberici – che la cultura illuministica e le rivoluzioni americana e francese influenzavano.

Il Brasile, un secolo più tardi, giunse all’indipendenza senza una vera e propria lotta di liberazione nazionale, senza un vero e proprio (finale) spargimento di sangue, bensì per una decisione della famiglia regnante. Infatti, nel 1807 Napoleone invase il Portogallo marciando su Lisbona e il principe (futuro Pedro I), scortato dall’esercito britannico che fornì la protezione navale al viaggio, fuggì in Brasile giungendo a Rio nel 1808 e proclamandola capitale del Regno Unito di Portogallo. Il Brasile aprì i propri porti ed escluse lo status di colonia, provocando le ire di molti; così nel 1821 il re decise di rientrare a Lisbona e di lasciare il figlio Pietro come reggente del Brasile. Quest’ultimo, nonostante le pressioni dei liberali per tornare in patria, rimase (nel cosiddetto «Dia do Fico», ossia giorno dell’«io resto») e il Portogallo non poté più dominare il Brasile. Pietro I, istituendo una monarchia costituzionale, ne dicharò l’indipendenza il 7 settembre 1822 al grido di «Indipendenza o morte!», sulle rive del fiume Ipiranga.

Nelle negoziazioni del Congresso di Vienna, al Brasile fu data inizialmente condizione di regno all’interno dello Stato portoghese. Il Portogallo assunse la denominazione ufficiale di Regno Unito di Portogallo, Brasile e Algarve il 16 dicembre del 1815 (Gazzetta di Rio de Janeiro del 10 gennaio 1816), status che venne perso il 29 agosto 1825 dopo la ratificazione del Trattato di Rio de Janeiro siglato alla fine della Guerra d’Indipendenza del Brasile.

Il reggente João VI diveniva Imperatore Titolare del Brasile de jure, e simultaneamente abdicava in favore del figlio Pedro de Alcântara (Pedro I do Brasil), giuridicamente allora Principe Reale di Portogallo, Brasile e Algarve, già imperatore de facto del Brasile: in questo modo, alla morte del padre, avrebbero potuto eventualmente unirsi le due corone. Il Brasile aveva intanto, simultaneamente, un imperatore e un re (1822-1826) e due imperatori (1825-1827). Nel 1831 il regno passò a soli 5 anni a Pietro II, che dopo 9 anni di reggenze fu acclamato imperatore nel 1840, a 14 anni. Il suo regnò durò fino al 1889, quando fu rovesciato da un colpo di Stato che istituì la repubblica. Nel 1888, dichiarò l’abolizione della schiavitù.    (ROMINA CIUFFA)

Il 7 settembre il Brasile celebra l’indipendenza dall’incubo lusitano: colonialismo, corte e schiavismo che non fecero bene a un Paese che Paese ancora non era, bensì una terra totalmente vergine dalle dinamiche europee di conquiste e ricchezza, a scapito di un territorio e di una popolazione accoglienti. È istituita festa nazionale ma, mutata mutandis, la giornata del 7 settembre non è, per la popolazione, motivo di festeggiamenti, bensì occasione di protesta mentre il presidente Dilma Rousseff, vestita di bianco e con la fascia presidenziale, sfila a bordo della Rolls Royce cabrio ufficiale in testa al corteo di Brasilia, alla presenza di circa 25 mila persone. E lancia alla popolazione un videomessaggio, che traduciamo interamente.

Non senza anticipare ciò che Dilma ha fatto: non ha parlato di nulla, ha spostato il baricentro delle responsabilità del Paese prima al di fuori del Paese stesso (la crisi internazionale, i drammi dei Paesi emergenti, i rifugiati sulle spiagge europee) addirittura cogliendo l’occasione per invitarli a recarsi in Brasile, ove saranno accolti (ma come?); quindi spostando il medesimo baricentro in una visione autoattribuente, con un locus of control interno del tipo «il problema è dentro di noi». In un discorso nel quale si fa retorica senza empatia e dove sono presenti molte ripetizioni e scarsa capacità linguistica e comunicativa, accompagnato, per di più, da stacchetti di forte impatto, stile Casa Bianca, che aprono ciascuno dei paragrafi in cui esso è stato distinto. «Casa verdeoro».

L’avvocato e politico Flavio Bierrenbach, per anni ministro del Tribunale militare, ha commentato altri discorsi della Rousseff: «Seguo la politica brasiliana attentamente da sempre. Ho già visto nella mia vita presidenti che sono buoni oratori, cattivi oratori, mediocri oratori: non ho avuto alcuna sopresa dinnanzi a quello che è quasi un caso di dislessia, incapacità di formulare un’idea con inizio, discorso e conclusione, incapacità di comunicare qualcosa. La presidentessa brasiliana non sa comunicare. Dovrebbe leggere. Risulterebbe più semplice, più intelligente per se stessa e per i suoi discorsi». Mentre, per lo storico Leandro Karnal: «Non è necessario sapere di tutto, o parlare di tutto: il silenzio è meglio in certi casi e crea un’utile illusione di conoscenza sullo spettatore».

La traduzione è effettuata senza apportare modifiche al discorso, mantenendo anche le ripetizioni. (ROMINA CIUFFA)

DILMA ROUSSEFF. «Cari brasiliani e brasiliane, voglio parlarvi oggi, 7 settembre, giorno dell’indipendenza del Brasile, come un momento per riflettere, parlare delle nostre preoccupazioni sul presente ed il futuro del Paese. È vero che attraversiamo una fase di difficoltà, affrontiamo problemi e sfide, e so che la mia responsabilità è quella di presentare percorsi e soluzioni per fare ciò che deve esser fatto. I problemi e le sfide derivano da un lungo periodo di azioni di un Governo che ha compreso di dover spendere ciò che è necessario per garantire impiego, continuità di investimento, programmi sociali. Dobbiamo ora rivalutare tutte queste misure e ridurre quelle che devono essere ridotte. I nostri problemi vengono anche da fuori, e nessuno che sia onesto può negarlo: è evidente che la situazione in molte parti del mondo si è nuovamente aggravata per la crisi internazionale, colpendo ora i Paesi emergenti, Paesi importanti, anche partner del Brasile. Il mondo, oltre a questo, affronta tragedie di natura umanitaria, come quella scioccante dei rifugiati che muoiono nelle spiagge europee mentre cercano rifugio dalla guerra. L’immagine di un bambino di appena tre anni ha commosso tutti noi e ci ha posto una grande sfida».

«Noi, il Brasile, siamo una nazione formata da popolazioni delle più diverse origini che qui vivono in pace. Anche nelle più grandi difficoltà, o in crisi come quella che stiamo attraversando, abbiamo le braccia aperte per accogliere i rifugiati. Colgo l’occasione, nel giorno di oggi, per rinnovare la nostra disponibilità ad accogliere coloro che, espulsi dalla propria patria, vogliano venire qui a vivere, lavorare e contribuire alla prosperità e alla pace del Brasile».

«Insisto: le difficoltà sono nostre, e sono superabili. Ciò che voglio dire, con tutta franchezza, è che stiamo attraversando sfide. È possibile commettere errori, ma li supereremo e andremo avanti. Ecco alcuni rimedi a questa situazione: è vero, sono amari, ma indispensabili. Le misure che stiamo adottando sono necessarie per risistemare la nostra casa, ridurre l’inflazione ad esempio, rafforzarci dinnanzi al mondo, e condurre il Brasile nel più breve tempo possibile alla ripresa della crescita. Possiamo e vogliamo essere esempio per il mondo, esempio di crescita economica e di valorizzazione delle persone. Lo sforzo di noi tutti è quello che ci porterà a superare questo momento. Io lo so. E so anche che l’unione intorno al nostro Paese e al nostro popolo è la forza capace di condurci lungo questo viaggio. È il momento, questo, in cui dobbiamo sorvolare le differenze minori e mettere in secondo piano gli interessi individuali o di parte. Mi sento pronta a condurre il Brasile sul cammino di un nuovo ciclo di crescita, ampliando le opportunità che il nostro popolo ha per andare avanti con più e migliori impieghi. Noi vogliamo un Paese con inflazione sotto controllo, interessi decrescenti, rendite e salari alti. Posso garantire che nessuna difficoltà mi farà rinunciare all’anima e al carattere del mio Governo, che consistono nell’assicurare, in questo Paese di grandi diversità, opportunità uguali per la nostra popolazione, senza battute d’arresto, senza retrocessioni».

«Noi siamo stati capaci di tirare fuori dalla miseria milioni di persone ed elevarne altri milioni ai canoni di consumo delle classi medie. Cresceremo di nuovo per avanzare ancor di più in questo cammino, costruendo un Brasile di lavoratori e imprenditori, di studenti, di esperti nell’agricoltura, nel commercio, nell’industria, nei servizi. Ma sappiamo che ancora manca molto per ottenere questo e perciò abbiamo bisogno di tornare a crescere, per portare, ad esempio, educazione di qualità a tutta la popolazione, dall’asilo al dottorato. Abbiamo esperienze vincenti e voglio contare su una grande vittoria: abbiamo appena vinto il primo posto nelle Olimpiadi mondiali della conoscenza tecnica, cui hanno partecipato 59 Paesi, molto forti nella formazione professionale come la Germania, la Corea del Sud, il Giappone, la Francia. La buona notizia è che l’84 per cento dei vincitori avevano fatto o stavano per fare il Pronatec (il Programma nazionale di accesso all’insegnamento tecnico e all’impiego, ndr), un accordo tra il Governo e il Senai (Servizio nazionale di apprendimento industriale, ndr), che conferisce borse di studio per la formazione tecnica, e vorrei sottolineare che la famiglia di uno dei vincitori della medaglia d’oro ha ricevuto anche la Bolsa Família, che gli ha consentito di accedere alle Olimpiadi».

«Cari brasiliani, care brasiliane, il giorno dell’indipendenza deve essere un momento di incontro del Brasile con se stesso, una celebrazione e un tributo che prestiamo agli eroi che hanno lottato per un Brasile forte, libero, indipendente. È in questo giorno che dobbiamo pensare che Paese vogliamo per noi e per i nostri figli e nipoti. È in questo giorno che onoriamo gli eroi dell’indipendenza, che rendiamo omaggio a tutti i brasiliani che hanno lottato e dato la propria vita affinché il nostro Paese restasse sempre libero dall’oppressione».

«È in questo giorno che riaffermiamo quello che una nazione e un popolo hanno di meglio: la capacità di lottare e la capacità di convivere con la diversità, tollerante nei confronti delle differenze, rispettoso nella difesa delle idee, e soprattutto ferma a difendere la miglior conquista raggiunta e che dobbiamo garantire permanentemente: la democrazia e l’adozione del voto popolare come metodo unico e legittimo di eleggere i nostri governanti e rappresentanti».

«L’indipendenza, cari brasiliani e brasiliane, accade ogni giorno nel Paese, nelle nostre case, nelle nostre famiglie, dentro ognuno di noi. È la forza nella nostra autostima come popolo e la certezza che i brasiliani sono ciò che il Brasile ha di meglio, con il nostro lavoro, la nostra unione, il nostro sforzo per mantenere le nostre famiglie e creare i nostri figli e nipoti, con l’allegria con cui passiamo i buoni momenti ed il coraggio con cui affrontiamo quelli brutti. Siamo tutti in lotta per l’indipendeza del Brasile. Oggi, più che mai, siamo tutti il Brasile».  (ROMINA CIUFFA)

In Italia quest’anno l’Ambasciata brasiliana, con sede a Roma nel Palazzo Pamphilj di Piazza Navona, ha invitato a festeggiare il 193esimo anniversario attraverso un ricevimento privato tenutosi l’8 settembre. Rioma lo ha documentato. L’ambasciatore Ricardo Neiva Tavares ha accolto, insieme alla moglie Cecilia, gli ospiti. Pur mancando un momento culturale, una tavola rotonda che spiegasse cosa sia l’indipendenza per un brasiliano, cosa è accaduto e come si è arrivati a quel 7 settembre in cui il re portoghese stesso ha liberato il Brasile dal Portogallo, l’evento è risultato, come ogni anno, il momento di incontro di moltissimi personaggi che ruotano intorno all’area verdeoro, intorno a caipirinha, pão de queijo, brigadeiros e beijinhos. Presente innanzitutto l’Ambasciatore del Portogallo in Italia, Manuel Lobo Antunes, accreditato anche presso l’Albania, Malta e la Repubblica di San Marino e, come Rappresentante permanente, presso le organizzazioni delle Nazioni Unite con sede a Roma (Fao, Ifad e Wfp/Pam). La sua partecipazione significa molto e infonde all’evento un afflato di storia e resurrezione.

L’apertura di Palazzo Pamphilj, appartenuto dal 1470 alla famiglia Pamphilj, completamente rinnovato dal Cardinale Giovanni Battista Pamphilj che, dal 1644, chiamò i più importanti artisti e architetti dell’epoca, come Bernini e Borromini per riprogettare l’intero isolato, è sempre un momento importante, che coniuga la storia, l’arte e l’architettura italiane con l’insediamento brasiliano: l’edificio infatti, ospita dal 1920 questa Ambasciata, ed è diventato una proprietà brasiliana nel 1961. (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Ottobre 2015




STEFANO MASTRUZZI: SAINT LOUIS, LA DOMUS ROMANA DELLA MUSICA DAL 1976, ANZI, DAL 123 D.C.

Stefano Mastruzzi è uno dei più geniali e riusciti (ma giovani) imprenditori italiani. Non ha visto crisi perché l’ha contrastata a suon di jazz che è, per definizione, improvvisazione: mentre altri chiudevano, lui ha rischiato, investito. Ciò che lo rende ancora più speciale è l’essere chitarrista e direttore d’orchestra e l’aver amato a tal punto la musica da renderla non solo emozionale, ma anche pragmatica. Anche laureato in Giurisprudenza ed editore di un giornale, «Music In», oggi apre la quarta sede del suo Saint Louis College of Music, nel cuore del Rione Monti di Roma, integrando le 3 già esistenti con 18 nuove aule per un totale di 50 aule e 3 studi di registrazione. Appartenente precedentemente a un artista, prima che Mastruzzi l’acquistasse, la nuova sede è ricca di disegni nelle pareti che la ristrutturazione volutamente non ha cancellato. Ma non è questa l’unica particolarità: durante il recupero degli ambienti sotterranei, nell’area delimitata da Via Baccina e Via del Grifone, sono state riportate alla luce strutture murarie antiche. È riemersa così un’antica Domus romana, risalente al 123 d.C., visibile anche dalle aule dove è stata valorizzata con vetri a vista e senza mai collidere con la storia.

Si apre in tal modo il quarantesimo anno accademico, nello slogan «40 ben suonati»: fondato nel 1976, il Saint Louis, prima e unica istituzione privata in Italia autorizzata dal Miur a rilasciare lauree di primo e di secondo livello, è fra le più rinomate realtà didattiche musicali di eccellenza di respiro europeo, con oltre 1.600 allievi ogni anno provenienti da tutta Italia e da molti Paesi europei ed extraeuropei, in crescita costante del 6-8 per cento annuo. Dal 1998 è diretto da Mastruzzi, che l’ha rilevato, e fino a oggi  l’evoluzione è stata straordinaria: dai 90 iscritti del 1998 ai 1.600 del 2015; dall’unica sede (quella storica ancora attiva in Via Cimarra) alle 4 sedi di oggi, site in Via Urbana (400 metri quadrati), Via del Boschetto (500 metri quadrati), Via Baccina (800 metri quadrati). Il corpo docente è cresciuto da 16 a 110 docenti professionisti. Sono stati prodotti 24 dischi dal 2004, anno di nascita della prima etichetta, la Jazz Collection, seguita da una seconda, Urban 49, e da una terza, Camilla Records. Sono stati pubblicati 10 libri didattico-divulgativi, e in stampa, entro la fine del 2015, ce ne sono altri 12. E ancora: Radio Jazz Saint Louis, web radio diretta da Adriano Mazzoletti, che propone 24 ore di jazz al giorno dal lunedì al venerdì con programmi che riguardano l’intero arco del jazz dalle origini ad oggi; un Centro di produzione artistica; un’agenzia, il Saint Louis Management; i nuovi corsi «Musica nel mio piccolo» per bambini dai 3 ai 5 anni, e molto altro.

Domanda. Cos’è il Saint Louis e come ha fatto a divenire la più grande scuola di musica e fucina di artisti d’Italia?
Risposta. Il Saint Louis non è una scuola di musica, c’è ben altro e non lo si può spiegare, ma solo cogliere e percepire; osservando gli allievi seduti nei corridoi con le chitarre in braccio e una progressione armonica da inseguire, sbirciando nelle aule dove prendono vita le orchestre, ascoltando le produzioni discografiche delle nostre etichette, guardando alle 100 band che ogni anno qui nascono e portano fuori la propria musica, partecipando alle decine di master class con personaggi straordinari, lasciandosi ipnotizzare dai suoni destrutturati di giovani votati alla musica elettronica e al sound design, vivendo un cortometraggio musicato, orchestrato e diretto da compositori in erba, scattando negli studi del Saint Louis un’istantanea di fonici con mani tentacolari su decine di potenziometri, ascoltando la radio del Saint Louis o semplicemente i suoni ovattati che dalle aule sfuggono con destrezza alle trappole acustiche e si diffondono nelle strade del rione Monti. Il Saint Louis è un progetto dinamico, spinto costantemente da un vento teso di rinnovamento, alla ricerca di un’impossibile perfezione, vissuta ora sistemando la punteggiatura di un programma didattico, ora stravolgendolo completamente, ogni qualvolta si ravvisino cambiamenti di rotta nel mondo del lavoro. Perché, per etica, non possiamo, non vogliamo e non dobbiamo formare professionisti di una professione che fu, ma di quella che sarà.

D. Come considera la formazione?
R. La formazione di un ragazzo esige una responsabilità immediata che travalichi logiche politiche, sindacali, imprenditoriali, di interesse pubblico o privato; non possiamo permettere che le legittime ambizioni artistiche di un giovane possano venire mortificate e compromesse da un insegnante demotivato, da un docente che vinca ai punti il proprio ruolo, da un musicista che abbia appeso le corde al chiodo il giorno dopo essere stato assunto. Tutti noi, che oggi siamo il Saint Louis, inconsapevolmente continuiamo a trasmettere ai nostri giovani allievi tutta l’energia, il coraggio e il sogno musicale che abbiamo condiviso con Maurizio Lazzaro e Alessandro Centofanti.

D. Quali sono i corsi Saint Louis?
R. I corsi accademici di primo livello autorizzati e attivati sono molteplici. È anche attivo il corso di secondo livello in Composizione e arrangiamento Jazz, che rappresenta il livello più alto di formazione accademica, equivalente alla laurea specialistica, il primo in Italia con combo e orchestra a disposizione per l’esecuzione e la pratica di direzione delle proprie partiture. I contenuti spaziano da tecniche armoniche a tecniche compositive e di strumentazione, arrangiamento per piccole formazioni, per big band, per archi e formazioni miste. A partire dal corrente anno, sono stati inoltre autorizzati 6 Master di primo livello in Big Band per musicisti d’orchestra; Music Management, ossia alta formazione per futuri manager dello spettacolo con i migliori promotori italiani e internazionali di ambito pop, jazz e indie; Film Scoring, una specializzazione in musica per film con i grandi compositori nazionali; Contemporary Jazz; Popular Music e Musica elettronica.

D. L’internazionalizzazione è la punta dell’iceberg Saint Louis?
R. Grazie alla sua posizione geografica e la centralità all’interno della Capitale, il Saint Louis costituisce una naturale meta d’interesse per allievi internazionali che vogliano svolgere parte dei propri studi in Italia ma anche per artisti in visita e docenti di musica dei vari Conservatori europei: hanno partecipato alle ultime selezioni per l’ammissione studenti provenienti da Italia, Spagna, Francia, Polonia, Romania, Russia, Bulgaria, Gran Bretagna, Iran, Messico, Azerbaijan, Georgia. Partendo da una ferma convinzione dell’importanza del processo di internazionalizzazione ai fini della valorizzazione e della qualificazione delle attività formative, artistiche e di ricerca, abbiamo intrapreso da lungo tempo una politica di apertura verso l’Europa ed il resto del mondo, promuovendo attivamente progetti di collaborazione con istituti internazionali di Alta formazione artistica, con programmi di scambio per studenti e docenti, master class e workshop intensivi tenuti da artisti in visita, ed anche un nostro concorso internazionale di jazz che coinvolge 15 diverse nazioni, il Jazz Contest. Dal 2011 il Saint Louis è membro attivo dell’Aec, l’Association Européenne des Conservatoires, credendo nell’importanza del confronto su base internazionale con istituzioni di formazione di pari livello e ambito, e nel 2014 gli è stata riconosciuta la Eche, ossia l’Erasmus Charter for Higher Education, venendo ufficialmente inserito nella partecipazione attiva al programma comunitario Erasmus+. Ciò ha consentito di intensificare i programmi di scambio per studio, tirocinio, docenza o formazione in altri istituti e in aziende del settore, cui siamo collegati anche attraverso il Consorzio Working With Music+, progetto interamente dedicato all’inserimento lavorativo post-lauream in aziende e istituti di formazione europei. L’anno accademico 2015/2016 poi si apre all’insegna di un nuovo importante progetto, l’Italian Jazz on the Road, festival europeo itinerante ideato e promosso da noi ed un supporto del MiBact, che porterà 40 giovani musicisti italiani selezionati fra i nostri migliori talenti in tour europeo, da Roma a Helsinki, Londra, Barcellona, Maastricht, Aalborg, per un totale di 30 concerti. Abbiamo inoltre inaugurato due nuove progetti rivolti agli studenti internazionali: il Richmond Program, in collaborazione con la Richmond University di Roma, per il completamento artistico della formazione degli studenti americani, e il Programa Conexão Cultura Brasil, in collaborazione con il Governo brasiliano per l’incentivazione della formazione di studenti brasiliani in condizioni socio-economiche svantaggiate. A proposito di Brasile: oltre alla presenza, da sempre tra i nostri docenti, del grande chitarrista samba-jazz Eddy Palermo, all’interno della scuola è stato attivato un coro di musica brasiliana, il Coro di Rioma, fondato da Romina Ciuffa e diretto dalla cantante soteropolitana Claudia Marss (www.riomabrasil.com).

D. Il Saint Louis è anche una grande agenzia che rappresenta i migliori artisti in circolazione da una parte, e i suoi allievi più brillanti dall’altra. Cosa fa esattamente il Saint Louis Management?
R. L’agenzia artistica si occupa di inserire i migliori diplomati nel mondo del lavoro attraverso produzioni, concerti, dischi e pubblicazioni, un raccordo fondamentale tra il momento formativo e quello lavorativo. Ogni anno il Saint Louis Management promuove i giovani talenti con più di 250 concerti in tutta Italia, li porta al Lab on the Road, salotto musicale romano che dà spazio a tutti i gruppi nati all’interno dei corsi, li inserisce nelle programmazioni di club e festival su territorio nazionale, organizza i Summer e Winter Gigs, vere e proprie maratone stagionali sui palchi più prestigiosi; fa partnership con i Conservatori europei attraverso molte iniziative; consente di compiere tirocini formativi all’estero, veri e propri inserimenti lavorativi in altri istituti di Alta formazione artistica per docenze, ricerche o assistenza; inserisce nel mondo del lavoro, da produzioni televisive o cinematografiche a studi di registrazione, club e scuole di musica. Il Saint Louis Management inoltre seleziona ogni anno all’interno del nostro vivaio artisti o gruppi da produrre tramite le 3 etichette indipendenti: Urban 49 per il pop e il rock, Jazz Collection e Camilla Records, quest’ultima che prende il nome da mia figlia e comprende un misto di generi.

D. E il Centro di produzione artistica?
R. Il Centro segue, produce e promuove i progetti più interessanti individuati all’interno della scuola stessa, affiancandoli in ogni singola fase di crescita. Entrato a far parte del Centro di produzione artistica, il giovane musicista viene assistito in tutte le fasi: dalla creazione di un gruppo che possa eseguirne i brani, all’affiancamento di un tutor con cui confrontarsi nella stesura del brano, nell’arrangiamento e nell’interpretazione, per proseguire con sedute in studio di registrazione che si trasformano infine nella realizzazione di un cd, pubblicato e promosso. Tutti gli studenti degli ultimi due anni di Alta formazione partecipano alla realizzazione delle proprie pubblicazioni editoriali, un cd o vinile che rappresenta il sunto del loro lavoro e un biglietto da visita per il futuro.

D. Nel prossimo febbraio 2016 sarà avviato anche il progetto di musicoterapia?
R. La musicoterapia rappresenta una delle nuove sfide per il Saint Louis, che userà parte dei nuovi spazi per l’attuazione di un progetto dalla forte ricaduta sociale. Il nuovo Dipartimento ospiterà sedute di musicoterapia, anche gratuita per fasce di reddito, per formare musico-terapisti, svolgere ricerca in collaborazione con le università italiane. Musicoterapeuti qualificati e di fama lavoreranno all’interno dell’Istituto, permettendo agli studenti di assistere alle terapie e di confrontarsi per creare nuovi spunti di riflessione e di contatto e tenendo corsi qualificanti per futuri musicoterapeuti. Il progetto prevederà l’attuazione di diverse terapie, molte a titolo gratuito per i pazienti perlopiù bambini e adolescenti, di cui copriremo interamente le spese annuali.

D. È pronto anche il progetto di recupero e diffusione del patrimonio musicale italiano del ‘900: come sarà attuato?
R. Sosterremo con nostri fondi 3 orchestre stabili, per un totale di 50 musicisti e 3 direttori d’orchestra che eseguiranno repertori tratti dalle colonne sonore di Mario Monicelli, le partiture originali di Enrico Pieranunzi, la musica tradizionale napoletana. Le orchestre, composte da giovanissimi talenti, si esibiranno nei Conservatori europei esportando un repertorio tratto dal patrimonio culturale musicale italiano, dai primi del ‘900 ai giorni nostri. Il progetto coinvolge anche 25 giovani arrangiatori che avranno il compito di recuperare e arrangiare questo vasto repertorio, un’occasione di studio applicato a situazioni lavorative reali.

D. La nuova sede è preziosa per tutto ciò che è il Saint Louis, ma è inestimabile per la Domus romana del I secolo che si cela sotto le sue mura: un pezzo della storia di Roma e una vera e propria responsabilità: qual è il suo progetto per il recupero e la valorizzazione di un bene storico di tale levatura?
R. Ho avviato il recupero della Domus romana al fine di renderla fruibile agli studiosi e al pubblico. È un grande patrimonio risalente al I secolo d.C. ricco di mosaici, mura ottimamente conservate e persino un affresco. Lungo Via del Grifone si susseguivano una serie di ambienti riconducibili a strutture commerciali e magazzini posti al pian terreno di un grande edificio, verosimilmente una delle insule che le fonti antiche ci ricordano caratterizzare quest’area della Suburra. Le stanze, che si sviluppavano parallele all’asse stradale di Via Baccina, presentano sulle pareti in opera laterizia tracce delle porte e delle finestre obliterate da interventi successivi. La copertura, con volte a botte, è scomparsa, ma le sue tracce si conservano sulle pareti più interne. Negli ambienti adiacenti si riconoscono invece strutture con funzione abitativa di un certo pregio, risalenti all’età antonina. Una grande stanza rettangolare, coperta con volta a botte e con ampie aperture sulle pareti lunghe, conserva ampi tratti della pavimentazione musiva originale ad esagoni bianchi e rombi neri alternati, mentre si conservano in situ alcune formelle. In un secondo ambiente, con pavimento a mosaico a scacchi in bianco e nero, risaltano partiture con motivi decorativi floreali e la figura di un piccolo uccello. Dall’analisi dei mattoni impiegati per la costruzione della rete fognaria originale, si è riscontrato una sorta di «marchio di fabbrica» indicante, oltre al produttore, anche il nome dei Consoli in carica, ossia Paetino e Aproniano. Questa indicazione consente di definire l’anno esatto di produzione: il Consolato del 123 d.C., ma ovviamente avremo certezze una volta terminati gli studi da parte della Soprintendenza archeologica.       (ROMINA CIUFFA)

Dario Franceschini, ministro dei Beni e delle Attività culturali e del turismo, è in prima linea rappresentando le istituzioni e inaugurando, con Stefano Mastruzzi, la quarta sede del Saint Louis College of Music di Via Baccina, a Roma, il 24 settembre 2015, un evento non classico nel quale tutte le aule si riempiono di concerti, jam session, improvvisazioni, in un trionfo di qualità. Tra i nuovi, tra i jazzisti, tra i moderni, tra i classici, anche Bobby Solo, che si ferma in una saletta e improvvisa con il chitarrista Marco Manusso un concerto che è apprezzato anche dalla direttrice del Maxxi Giovanna Melandri. Avuta a mente la fresca legge 13 luglio 2015, n. 107, «La Buona scuola», alcuni punti della quale riguardano specificamente l’alta formazione musicale (uno per tutti: i fondi per il funzionamento amministrativo e didattico delle istituzioni statali dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica sono incrementati di 7 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al 2022); e la generica raccomandazione legislativa al Governo di occuparsi dell’armonizzazione dei corsi formativi di tutta la filiera del settore artistico-musicale, l’incontro è stato anche un’occasione per ascoltare il ministro Franceschini descrivere le intenzioni proprie e del Governo.

«Ricordo i dischi jazz di mio padre. Sono a lui grato per avermi fatto conoscere il jazz da piccolo attraverso Radio Elle, quando andavo a fare un’ora di jazz a Ferrara con un mixer di latta costruito artigianalmente in casa. Si è perso molto tempo per capire che il jazz italiano è un punto di riferimento europeo fatto di grandi maestri e di tanti giovani talenti che combattono le difficoltà insite nella sfida di far diventare la propria vocazione un lavoro. Spesso ci riescono, ma fuori dai nostri confini nazionali. Dobbiamo compiere un grande investimento, che è insito anche in quella sfida su cui io insisterò giorno per giorno finché avrò questa responsabilità: riuscire ad affiancare la contemporaneità al ruolo primario che ci ha dato la storia, quello di tutelare e valorizzare il patrimonio materiale e immateriale delle generazioni che ci hanno preceduto. È importante aver centrato la prima occasione di riconoscimento da parte del Miur dell’equipollenza del titolo accademico nel settore del jazz e della musica moderna: per noi è stata una grande richiesta, difficile e faticosa, che ha necessitato di tempo, e il nostro percorso è servito anche al sottoscritto per portare all’approvazione del Parlamento una norma che riconosce un percorso per ottenere l’equipollenza delle scuole che fanno riferimento ai beni culturali. Con una visione burocratica si poteva immaginare che una scuola che si occupa di danza, musica o letteratura potesse avere gli stessi parametri che servono alle altre scuole; abbiamo così approvato una norma che legittima i Ministeri Miur e Mivar a stabilire per decreto i criteri per cui le scuole che fanno riferimento al vasto campo dei beni culturali possano ottenere agevolazioni per il titolo. Il Centro Sperimentale di Cinematografia ad esempio, che forma da decenni grandi eccellenze, non aveva il riconoscimento della laurea, e ciò creava molti problemi a coloro che poi, avendo quel diploma, non lo vedevano riconosciuto nel proprio percorso professionale italiano o internazionale. Il bando del jazz è stato un forte segnale. Certo le somme potrebbero essere più notevoli, e vedremo se miglioreranno le condizioni della finanza pubblica e della quota riservata al mio Ministero, si tratta comunque di un segnale che inverte una tendenza. Su suggerimento delle associazioni del jazz, incluso il Saint Louis, abbiamo cambiato una regola che precludeva la possibilità di accedere ai fondi ordinari; oggi anche per la musica contemporanea come per il jazz ci sono possibilità vantaggiose di accedervi, ripeteremo il bando cercando di non distribuire i fondi a pioggia perché è chiaro che dobbiamo imparare a puntare sulla qualità. Ho letto allibito del Fus, Fondo unico per lo spettacolo, che fonda l’attribuzione su base storica: la tecnica principale è che chi prendeva continua a prendere, chi non prendeva non riesce a prendere. Le regole sono cambiate introducendosi una percentuale di qualità, e sono state approvate da tutti i Comuni. I quarant’anni del Saint Louis e l’inaugurazione della nuova sede avvengono a pochi giorni da quell’evento straordinario che è stato la serata del jazz a L’Aquila, una grande platea di migliaia e migliaia di persone interessate al jazz, grandi maestri e giovani di talento insieme, e il volto gioioso degli aquilani che hanno una sfida da gestire che non è solo quella di restaurare i palazzi, ma anche di far tornar vivo il centro storico. Abbiamo deciso di farlo tutti gli anni e spero che questo diventi un appuntamento straordinario con i grandi nomi del jazz italiano e internazionale. Sono contento che con il finanziamento del Ministero si sia fatta quest’operazione internazionale».

(ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Ottobre 2015




LUCA MUCCI: MODENA TERZO MONDO, UN’ASSOCIAZIONE CHE AIUTA MIGLIAIA DI BRASILIANI A SPERARE

Modena Terzo Mondo (Mtm) è un’associazione di volontariato e solidarietà internazionale presente in Brasile da circa 25 anni, fondata da alcuni privati guidati da Luca Mucci, con l’obiettivo di tutelare i diritti e promuovere l’emancipazione dell’individuo in tutte le sue dimensioni attraverso la sensibilizzazione di persone e coscienze sulle grandi tematiche legate alla condizione di sottosviluppo e discriminazione sociale, economica, culturale e religiosa cui è soggetta buona parte della popolazione mondiale. Mtm si pone come punto di riferimento tra gli altri ed opera come associazione coltivando rapporti cordiali, collaborativi e fraterni, aiutando concretamente i più poveri e inducendo i più fortunati a vivere, pensare ed agire secondo la giustizia e la carità. Comunque esulando da un discorso cattolico.

Tutto comincia nel 1991 con il primo viaggio di Mucci, elettricista, insieme ad altri amici volontari nel Nord Est brasiliano, precisamente a Joaquim Nabuco, nello Stato del Pernambuco, dove da pochi mesi lavoravano tre suore dell’ordine del Divino Amore. Mucci scopre che a Modena sono molti coloro che condividono uno stile di vita improntato sulla solidarietà, lontano dagli affetti più cari; così fonda l’associazione che presiede, della quale oggi fanno parte Stefano Lugli, Andrea Di Paolo, Danilo Ferrari, Lidia Caruso, Enzo Mazzoli, Romina Buttini, Luca Caselli, Elisa Chierchia, Giulia Farinetti, Cristina Ioele.

I mezzi attraverso i quali Modena Terzo Mondo persegue i propri fini sono gruppi di studio, incontri, letture e dibattiti, collegamenti e collaborazioni con realtà esterne quali associazioni, movimenti religiosi, laici, diocesi, centri missionari ed istituzioni varie. Tutte le attività e i progetti sono svolti prevalentemente tramite le prestazioni fornite dai propri aderenti (non retribuite in alcun modo): mezzi finanziari derivanti dai contributi associativi, dalle oblazioni private e dagli eventuali contributi pubblici; mezzi culturali propri o derivanti dal collegamento con movimenti simili, con l’apparato scolastico, con le istituzioni, con i centri culturali e con i mass-media; mezzi civili propri o derivanti dal collegamento con esperienze di formazione civile e di volontariato nel servizio di rilievo sociale; mezzi formativi propri o derivanti dal collegamento con tutte le istituzioni pastorali e comunitarie impegnate nell’educazione. Il numero degli aderenti all’associazione è illimitato ed aperto a tutte le persone di buona volontà desiderose di impegnarsi nella solidarietà e nel volontariato.

Luca Mucci spiega i progetti che, in tale modo, ha portato avanti l’associazione. Non pochi, non piccoli.

Domanda. Perché ha voluto fondare questa associazione?
Risposta. Venticinque anni fa, compimmo un viaggio in Brasile per andare a trovare una suora che aveva aperto un centro per bambini a Recife, e in quell’occasione ci rendemmo conto che le notizie che ci arrivavamo e che ci venivano raccontate erano molto diverse dalla realtà: falsate e modificate a regola. Da lì è iniziata la nostra storia: tornati in Italia fondammo l’associazione perché avevamo visto e non potevamo dire che non conoscevamo, quindi dovevamo per forza fare qualcosa per cambiare: cominciammo ad occuparci dei bambini, poi ci siamo dedicati anche ad altri settori come agricoltura, salute, acqua.

D. In che modo l’associazione vi ha visto operativi nei primi anni?
R. Abbiamo innanzitutto subito cominciato a coinvolgere amici, parenti e conoscenti per costruire il primo centro per bambini a Pernambuco; da allora ne abbiamo costruiti 36.

D. Con quali finanziamenti?
R. Molto autofinanziamento: amici, soci e volontari. Adesso siamo in tutto 450, ogni mese ognuno mette quello che può, ma mettiamo in atto anche tantissime iniziative in tutta Italia, anche perché i nostri volontari sono sparsi un po’ dappertutto: di Modena c’è rimasto solo il nome. Nessuno di noi fa questo tipo di mestiere, siamo tutti privati, io personalmente trascorro 4-5 mesi all’anno in Brasile ormai da 20 anni. Sempre a mie spese. Ma in tutto questo tempo abbiamo fatto moltissima strada.

D. Quali sono le mete del vostro lavoro in Brasile?
R. Ogni viaggio è diverso dall’altro, faccio il giro di diversi centri ogni anno e mi occorrono una quindicina di giorni per ognuno di essi: c’è da sbrigare molto lavoro burocratico perché di questi centri ogni giorno usufruiscono circa 4 mila ragazzi e per mantenerli occorrono ogni mese tantissimi soldi. Così mi do da fare, insieme ad altri, per cercarli.

D. Il Governo brasiliano vi sostiene?
R. Ci sostiene molto, negli ultimi anni è cambiato molto in senso positivo, sui temi sociali è tutta un’altra cosa rispetto a 25 anni fa, quando eravamo più malvisti che benvisti.

D. È merito del nuovo Governo?
R. I Governi del PT, il Partito dei lavoratori, sono totalmente diversi rispetto ai Governi di destra, e per i brasiliani è meglio: si pensi solo al progetto «Luce per tutti». In un Paese che ha avuto più di 50 milioni di cittadini senza corrente elettrica in casa, con il lavoro del Governo almeno 30 milioni di persone ora la hanno.

D. Dove avete trovato le situazioni più gravi?
R. Ce ne sono diverse, nel Maranhão, nel Pernambuco, nel Ceará. Il Nord-Est era un bacino di schiavi, di donne delle pulizie, camerieri, muratori, un Paese completamente dimenticato dai Governi precedenti: ma se si tolgono i nordestini da San Paolo la città si ferma. Lavoriamo anche molto a San Paolo, nelle periferie come Guaianazes, dove abbiamo sostenuto la costruzione del centro «Casa Dos Meninos»; e a Mariana, nel Minas Gerais, dove abbiamo sostenuto il centro di integrazione familiare «Espaço Livre».

D. Lavorate anche con la Chiesa?
R. Siamo un’associazione d’ispirazione cristiana ma non di Chiesa, e siamo aperti a tutti anche in ragione del fatto che abbiamo obiettivi umanitari. Dal canto suo la Chiesa modenese è presente in Brasile da circa 50 anni e con essa lavoriamo per la causa, come con chiunque abbia a cuore i problemi delle persone a prescindere da tutto.

D. La politica italiana vi aiuta?
R. Lasciamo perdere. Ma abbiamo lavorato molto con gli enti locali dell’Emilia Romagna: nonostante la crisi, i terremoti, le sciagure che sono accadute dalle nostre parti, il sostegno c’è sempre.

D. Ha incontrato molti personaggi impegnati nei vari campi, tra cui Padre Luigi Ciotti, Gianni Minà, Marina Silva ed altri: chi il più significativo per l’associazione?
R. L’ex presidente brasiliano Lula, che a Modena è venuto tante volte prima che diventasse presidente e i suoi viaggi in Italia li organizzavamo noi. Siamo rimasti in ottimi rapporti e ci vediamo ogni 2-3 mesi, abbiamo portato avanti insieme numerose iniziative.

D. È migliorato il Brasile?
R. Sì. Ad esempio è il Paese che ha più studenti universitari all’estero, il Governo paga tutte le spese e dà la possibilità a tutti di poter fare questa esperienza. Fino a 12 anni fa, i ragazzi di colore non andavano all’università, mentre ora ci vanno. Si sono avuti passi in avanti incredibili. Indubbiamente ci sono dei problemi, però meno di quello che si fa intendere. Molte cose sono orchestrate da una minoranza che non accetta di aver perso per la terza volta consecutiva le elezioni, e fa di tutto e di più per cercare di invertire un risultato che è evidente.

D. Condivide le azioni compiute dal Governo per i Mondiali e le Olimpiadi?
R. Ci sono state azioni negative, come gli sgomberi delle favelas, che non condivido per come sono stati condotti, spostando persone per centinaia di chilometri senza fornire loro le condizioni di vita minime, e questa è stata una delle poche cose pessime che sono state compiute. Ma dall’altra parte ne hanno sistemate altre: il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, dipende dai punti di vista, ma il Brasile resta l’unico Paese che si è aggiudicato Mondiali di calcio ed Olimpiadi.

D. Per lei è un fatto positivo?
R. Se non ci fossero state problematiche molto grandi, sarebbe stato più che positivo. Un fatto che ha salvato tanta gente, ha portato soldi e creato molte infrastrutture le quali, oltre ad essere state impiegate per i Mondiali prima, per le Olimpiadi poi, resteranno.

D. Avrebbero potuto dare alfabetizzazione e sanità.
R. Ma non si può dimenticare che di alfabetizzazione ne è stata fatta tanta in questi anni, così come di progetti sociali.

D. E l’ambasciatore brasiliano in Italia, Ricardo Neiva Tavares, come si pone nei vostri confronti?
R. Anche lui è venuto a Modena diverse volte, ci sostiene e si dà da fare. Oggi con noi l’Ambasciata è aperta, dieci anni fa invece era molto chiusa.

D. Come funziona il volontariato?
R. Ci sono tantissimi ragazzi che chiedono di poter fare questo tipo di esperienza con i progetti, ognuno si paga le proprie spese, c’è un costo di mantenimento politico nelle strutture di 10 euro al giorno, e i volontari sono ospitati direttamente nelle case a ciò adibite o da famiglie che da molti anni mettono a disposizione alcune loro stanze.

D. Come si conosce la vostra attività?
R. Con un passa parola continuo. Non c’è bisogno di fare tanta pubblicità perché ogni anno quei 30-40 volontari che vanno via coinvolgono altre persone e ogni anno ci sono gli amici degli amici.

D. In Italia invece organizzate eventi e fate incontri?
R. Tutto quello che facciamo è sensibilizzare chiunque su quelle situazioni di ingiustizia che circolano nel mondo, e che purtroppo sono tante. Manca proprio la comunicazione dei mass media che è praticamente nulla, e si parla del Brasile solo per gli eventi sportivi, le favelas, o la corruzione o la foresta che sta per essere distrutta, ma non si parla del fatto che siamo noi che ordiniamo la legna, non si parla di queste contraddizioni.

D. Chi è che sceglie i progetti?
R. Nascono con i viaggi ma devono autosostenersi nel tempo: noi non andiamo a dire a casa degli altri cosa è giusto fare o meno, quello è colonialismo. Andiamo a vedere di cosa hanno bisogno. Siamo aperti alle proposte altrui e a valutarne la fattibilità che è prospettata.

D. Parliamo di alcuni progetti specifici. Aiutate le prostitute del Ceará?
R. Fortaleza è uno dei paradisi del turismo sessuale internazionale, ogni anno migliaia di minorenni vengono sfruttati approfittando della loro miseria. Come associazione, siamo impegnati a denunciare e contrastare questo fenomeno, a costruire due case di prevenzione dello sfruttamento con corsi di informatica, alfabetizzazione, sport, teatro, danza, capoeira, musica, un refettorio con cucina e molto altro, per dare loro la possibilità di un futuro migliore. Parte fondamentale sono le attività sportive: nel quartiere Bom Jardim e Farol di Fortaleza non esistono strutture aperte a tutti e i ragazzini chiedono un luogo dove trovarsi per fare attività di gruppo e non continuare a stare in strada. Un progetto del Governo brasiliano nel quale siamo impegnati, «Viravida», ossia «cambia vita», dà la possibilità di fare un corso professionale al termine del quale le aziende coinvolte garantiscono posti di lavoro: in questi ultimi anni sono stati assunti 25 mila ragazzi che hanno cambiato vita lasciando completamente la strada per svolgere una professione. Certo non abbiamo risolto il problema dello sfruttamento, ma coloro che entrano nel programma e ne colgono le opportunità fino in fondo possono cambiare vita. Esiste anche un’associazione delle prostitute del Ceará, l’Aproce, nata dopo il primo caso di Aids: riunite in assemblea prostitute, ex prostitute e volontarie il 13 novembre 1990 formalizzarono il desiderio di organizzare il gruppo, guidato da Rosarina Sampaio. Aproce è la prima associazione di prostitute che ha ottenuto la registrazione in Brasile senza usare un nome di fantasia. In seguito è stata creata la Federazione nazionale delle prostitute del Brasile.

D. Non è altrettanto importante sensibilizzare al fine di evitare a monte lo sfruttamento del turismo sessuale?
R. Abbiamo ottenuto dei servizi televisivi con «Le iene» di Italia Uno, anche perché gli italiani insieme ai tedeschi si contendono la palma d’oro per lo sfruttamento. Ci sono interessi economici legati al turismo sessuale, che non conosce crisi, e non solo in Brasile.

D. Cosa fate per i pernambucani?
R. Joaquim Nabuco è un paese rurale di 17 mila abitanti situato a 118 chilometri da Recife. È la prima città indipendente fondata alla fine dell’800 dagli schiavi. Il lavoro ruota attorno alle «usinas», fabbriche di lavorazione della canna da zucchero, che durante i sei mesi della raccolta danno impiego; nei restanti sei mesi il numero di personale impiegato viene ridotto dell’80 per cento. Ciò porta a condizioni di povertà estrema, molti finiscono in strada crescendo in una realtà di delinquenza, analfabetismo, prostituzione e droga. Dal 1991 le suore del Divino Amore svolgono una missione di solidarietà in quel comune e noi le abbiamo sostenute con affetto all’inizio della loro opera in Brasile. Per loro ha fatto tanto anche il gruppo di padre Luigi de Rocco di Belluno. Abbiamo quindi realizzato il primo progetto di solidarietà a distanza e dal 1992 ad ora sono state sviluppate diverse attività di sostegno umanitario, formazione personale e collettiva, creando fortissimi rapporti tra gli autoctoni e i volontari italiani. Attualmente la nostra associazione sostiene la Fondazione Giovani di Joaquim Nabuco per la vita con sede nella Casa dei giovani, acquistata nell’agosto 2004, resa abitabile e dotata di un computer con connessione a internet per dare modo a tutti i ragazzi di cercare lavoro e mantenere i contatti con amici e famigliari lontani. Oggi 450 bambini partecipano alle attività della casa.

D. Lo Stato del Piauì è uno dei più poveri (e sconosciuti) del Brasile. Le pessime condizioni di vita hanno portato alcune città, come Acaua e Guaribas ad avere il triste primato di città con la minor aspettativa di vita dell’ intero Brasile: 58 anni contro una media nazionale di ben 10 anni superiore. Come siete presenti?
R. Il Piauì, coprendo il 3 per cento del territorio nazionale, è il decimo Stato brasiliano in ordine di estensione, grande quasi quanto l’Italia. Il 70 per cento della popolazione fino a 10 anni fa era senza energia elettrica; i suoi abitanti, che sono circa 6-7 milioni, sono sparsi in tutto il Brasile. Abbiamo portato avanti un progetto di agricoltura per far sì che i ragazzi restino a vivere dove sono, nati senza dover migrare. Puntiamo al sostegno all’agricoltura familiare e alla scuola con formazione agricola della comunità di Tapera, alla realizzazione dell’orto comunitario, a programmi imperniati sull’autosufficienza e la sicurezza alimentare, sulla tutela e valorizzazione delle risorse umane, con un occhio di riguardo al ruolo delle donne e dell’infanzia. Altro progetto è quello del Centro di formazione Mandacarù, entità filantropica che aiuta le famiglie della zona del cosiddetto «Semi-árido» a migliorare la qualità di vita. Inoltre, problema ricorrente nel Piauí e principalmente nella regione di Pedro II, è recarsi in città, in media a 40 chilometri di distanza, senza nessun tipo di sicurezza, al sole e alla polvere: la creazione della scuola polivalente di Tapera, con l’appoggio delle istituzioni italiane, consente ai bambini della regione di studiare in una migliore struttura. E ancora: vogliamo rendere possibile e gratuito l’accesso all’acqua per migliaia di famiglie.

D. A Goiania, invece, che fate?
R. È una città che conta un milione e mezzo di abitanti: moderna, con eleganti grattacieli, che però è circondata da una popolosa periferia i cui abitanti vivono in povertà o in condizioni di vera miseria. Lì sosteniamo l’associazione Todos os Santos, ossia con tre asili-scuole che ospitano fino a circa 600 bambini compresi fra i tre e gli otto anni; abbiamo contribuito a costruire una scuola per il rinforzo scolare dei maggiori di 8 anni, che segue il P.E.T.I., programma di «sradicamento» del lavoro infantile, e supportiamo la scuola di informatica Bairro Capua.

D. Modena Terzo Mondo inoltre sostiene da anni moltissimi progetti in diverse città di Goiás. Può dircene alcuni?
R. Per la Radio Vila Boa Fm, con il sostegno di Modena Terzo Mondo, sono state costruite la sala d’incisione, la cabina di regia e sono state fornite le attrezzature per la trasmissione della musica: la radio oggi ha il 60 per cento degli ascolti. Il progetto Scuola Famiglia Agricola ha l’obiettivo di impedire che i giovani figli di contadini si sradichino della loro terra. Ancora: la Diocesi di Goiás, assieme alla Pastorale del Migrante, dopo aver assistito centinaia di persone povere costrette a un costante esodo, ha deciso di creare un centro di accoglienza, chiamato Casa del Migrante, che noi sosteniamo. Sulla spinta della richiesta di famiglie alla ricerca di trattamenti per alcolisti e tossicodipendenti con difficoltà ad entrare in centri di recupero, sono nati l’istituzione Chácara de Recuperação Paraíso e un progetto di reinserimento sociale per promuovere ricongiungimenti familiari e sociali. E molto altro. Ma, in genere, il lavoro non finisce mai.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Settembre 2015




AMBASCIATA BRASILIANA. CELPE-BRAS PER POCHI E RAPIDI: CHIUSE DI NUOVO LE ISCRIZIONI ALL’UNICO ESAME DI LINGUA UFFICIALE

di ROMINA CIUFFA (anche su http://www.riomabrasil.com/diploma-celpe-bras-per-pochi-intimi-di-nuovo-chiuse-le-iscrizioni-allesame-di-lingua/). Chiuse per l’ennesima volta in un battibaleno le iscrizioni al test del Celpe-Bras, unico in Italia, neanche fosse un concorso per posti di lavoro. A chi ha presente la televisione a premi, Celpe-Bras potrebbe sembrare il titolo di uno di quei programmi in cui anche solo partecipare è impossibile, e in cui il montepremi è sottoposto a dinamiche di fortuna, ma in questo caso il montepremi non vale altrettanto: si tratta del semplice accesso all’esame di lingua brasiliana ufficiale, unico in Italia, consentito ogni 6 mesi solo a 50 fortunati. L’attestato di conoscenza della lingua portoghese per stranieri è rilasciato dal Ministero dell’educazione brasiliano che certifica il livello di conoscenza della lingua. Si tratta dell’unica certificazione di competenza brasiliana in portoghese come lingua straniera riconosciuta ufficialmente. In Italia, l’esame è svolto nel Centro culturale Brasile-Italia dell’Ambasciata del Brasile a Roma, unica istituzione ammessa per esso.

La situazione è la seguente: le prove d’esame sono fissate due volte l’anno, in aprile e in ottobre. Sono solo 50 gli ammessi a sostenere ciascuna prova, ma l’iscrizione è pressoché impossibile poiché, non appena aprono i termini per le nuove iscrizioni, in poco meno di una giornata tale numero si completa. Anche in quest’ultima sessione, nessuno di coloro che, in eccesso del numero di 50, attendevano con l’ansia legata alla necessità di avere tale attestazione, è riuscito nell’impresa pluriennale di iscriversi all’esame Celpe-Bras, né agli altri. Esclusi anche e soprattutto coloro che non hanno una connessione internet o non sono pratici dell’online, o che durante il giorno lavorano e non posso guardare con fissità il sito dell’Itamaraty. L’accesso a quella finestra di pochi minuti in cui il Brasile apre le porte della propria lingua non è per tutti.

La frustrazione è massima e, in un momento in cui il verdeoro si è aperto, ciò è inconcepibile. Considerato che il Celpe-Bras è, internazionalmente, l’unica certificazione «accettata in aziende e istituzioni di insegnamento come comprovante la competenza in lingua portoghese e in Brasile è richiesta dalle università per l’ingresso in corsi di laurea e in programmi di post-laurea», questa constatazione rende impossibile la vita di coloro che si dedicano alle attività connesse e impiegano tempo, risorse ed energie, al Brasile, Paese che oggi chiede aiuto alla globalizzazione: il «Brics» comincia proprio con la sua iniziale e mostra una situazione economica in via di sviluppo, una grande popolazione, un immenso territorio, abbondanti risorse naturali strategiche, forte crescita del prodotto interno e della quota nel commercio mondiale.

Il Brasile costantemente invita l’Italia a portare know how, operatività, cervelli quando non anche le mani, e l’Italia lo segue con dedizione, quando non devozione: non si tratta di sola energia verde, si tratta soprattutto di energia mentale. Sono in un numero spropositato gli italiani che si occupano di Brasile, il nostro made in Italy ha una competenza elevata. Ma gli italiani non possono – se non in numero di 50 a semestre – acquisire l’utile, quando non indispensabile, certificazione linguistica del Celpe-Bras, salvo essere tra i primi 50 ad effettuare il «click» sul sito due volte l’anno.

Se l’Italia vincolasse l’eventualità dell’accesso all’eolica al click dei 50 Paesi più veloci, considerando l’evoluzione tecnologica, il Brasile se l’aggiudicherebbe? Il montepremi è ben più alto, proprio per questo il paragone è calzante: qui si tratta solo dell’accesso ad un esame di lingua, che in ogni Paese del mondo è a disposizione di tutti e in diversi momenti. Non ci sono posti di lavoro, non è un concorso per notai.     (ROMINA CIUFFA)




PANDEIROMANI (Il Messaggero)

PANDEIROMANI di Romina Ciuffa. “Painderomani” è la definizione giusta. Come altro riferirsi alla mania capitolina per il pandeiro in un’unica parola che racchiuda Brasile, mani e romanità? Con una premessa: il Brasile romano non è solo prorompenti ballerine per manifestazioni estive o transessualismo ad uso e consumo della pagina politica. Tutt’altro: c’è un intero mondo che batte su tamburi di legno e balla Samba, Pagode e Forrò, proprio ora che in Brasile è inverno. Così la contro-estate de’ noantri è iniziata con la Festa Junina, quella in onore di São João, quintessenza dell’inverno brasiliano che segue la tradizione del Forrò, ballo il cui nome deriva dall’inglese “for all” proprio ad indicare una fruibilità universale; a Tor di Quinto si è riprodotta l’intera Quadrilha con i suoi riti contadini, accompagnati da cibo tipico, artigianato, churrasco.Per il “pandeiromano” quest’ultima ha rappresentato il gong di apertura delle danze estive, oltre i ritmi di una settimana-tipo così composta, unitamente a corsi di samba e stage di capoeira e a rode casalinghe “inter nos”: il lunedì aperitivo trasteverino con la chitarra di Edward Rosa e le percussioni di Eduardo Santos, il martedì immancabile il Forrò a Testaccio, il mercoledì lo choro sanlorenzino degli italiani Choroma, il giovedì le roda de samba notturne a San Giovanni, il venerdì le feste in zona Ostiense e Marconi e i fine settimana quelle sull’Appia Pignatelli e negli stabilimenti balneari.

Un tratto della spiaggia di Capocotta ad esempio, introdotto dalla bandiera “Ordem e progresso”, fa da apripista diurno a danze, esibizioni di capoeira sulla riva, partite di domino ai tavoli di un bar che è verde, blu e giallo ed è benedetto dal Cristo Redentor di Rio de Janeiro: caipirinha espressa al guaranà e frullati al maracujà, dalle casse la musica di Ivete Sangalo e Zeca Pagodinho e le jam session di tutti quei brasiliani che hanno eletto Roma come seconda patria per il proprio cavaquinho. Fino a Focene e Maccarese si è spinta la cantante amazzonica Raquel Araujo, esibitasi per tutta l’estate con Vini Braz, Roland Faller, Fabio Carnevali, Riccardo Fiano; e nei lidi di Pescara la domenica molti altri migrano con puntualità, quando non più lontano. Anche i grandi sono giunti quest’anno in una capitale tappezzata da cartelloni recanti la scritta “Il Brasile ti chiama”: primi tra tutti Ana Carolina nel consolidato gemellaggio con Chiara Civello, Maria Gadù con la sua “Shimbalaiê”, João Bosco, Jota Veloso. E sempre ai pandeiromani è dedicata Rioma, nuova costola brasiliana del Saint Louis College of Music, che mette “il Brasile a portata di riomano” (www.riomabrasil.com); ma pure la storia verde-azzurra cantata con puntualità da Zè Galia; i tamburi del Grupo Santa Fè; le interpretazioni stilistiche della jazzista Susanna Stivali che, dopo le sue esibizioni nella terra del Carnevale, ha portato la medesima bandiera da Roma centro fino a Civitavecchia; l’impegno culturale dell’eccentrico astrofisico paulista Juracy Rangel Lemos e le sfide cantautoriali della italo-carioca Natalia Green; non da ultima l’imprenditorialità della romana Fabiana Vizzani che, con il marito Miguel Reis, ha aperto a San Paolo uno dei più noti locali dal sapore italo-brasiliano. E un viaggio, uno per tutti, quello che da Salvador da Bahia ha condotto, per riscaldare questa lunga estate romana, i tre Nò de Marinheiro: a teatro, nei giardini dell’Aventino, al Pantheon, a Trastevere e nelle spiagge Isa Milena Machado, Maurissio Santti e Antonio Jorge hanno fatto ballare i pandeiromani, anche ospitando sul palco la cantante baiana Marlene Rosa ed una nostrana, la teramana Tiziana De Angelis, new entry della scena live italiana dell’ordine e del progresso con un cd autoprodotto di brani tradizionali.

Una sorta di “sindrome di Stoccolma”, più propriamente di Bahia la sua, che l’ha fatta innamorare del suo stesso sequestratore, il Brasile. Sindrome che, in portoghese brasiliano, ha un nome: saudade. (ROMINA CIUFFA)