FRA SIDIVAL FILA, NOMEN OMEN: FILA, TESSE E PREGA NELLO STUDIO PIÙ BELLO DEL MONDO
Nomen omen. Sidival Fila fila. Ed è il suo quello che è stato definito «lo studio più bello del mondo»: lo è. Uno studio metafisico, immerso nella romanità più pura, dove a 360 gradi si vede il mondo, si sovrastano il Colosseo e tutti gli imperatori, raggiungibile solo camminando lungo la Via Sacra. Sito all’ultimo piano del convento di San Bonaventura, immerso nel verde, vasti giardini ed albe e tramonti che porterebbero chiunque ad una spiritualità superiore. Infatti Sidival è, innanzitutto, un uomo di religione: un frate. Ma la sua spiritualità, la vocazione, l’ha ricevuta prima di conoscere Bonaventura, comunque dopo essere giunto, con un aereo da San Paolo, a Roma, per compiere il suo più grande sogno: visitare Parigi e conoscere il Novecento francese. A Parigi non è mai arrivato: Roma lo ha fermato vincolandolo misticamente alla sua eternità.
Per raggiungere il grande tavolo da lavoro, dove fra Fila fila, egli deve compiere molte scale, agguantato da una maglia di divinità ed antichità. I suoi pezzi sono tessuti sulle tele che le famiglie conservano nei cassetti della nonna, e che gli portano come gli portassero non solo gioielli di casa, ma i propri stessi antenati. Quelle grandi tele anticamente usate nelle sartorie, o come tovaglie, lunghe decine di metri: le prende e da esse tira fuori opere d’arte unica. Perché contengono la storia affettiva di intere generazioni, le aspettative di nozze novecentesche, i traumi delle guerre. Ne ricava grandissimi o minuscoli quadri, molti dei quali, cambiando la luce che vi è proiettata, cambiano magicamente il disegno. Proprio come nell’odierna tecnologia Fila è riuscito, con le sue sole mani e la sua tecnica, più unica che rara, a rendersi programmatore 3D di una sapiente arte mistica, monocromatica e nel medesimo tempo cangiante, immobile ma nel contempo in pieno dinamismo, giochi di ombre che rendono un colore mille colori, tessiture accartocciate, piegate, ondulate, alterate, ferite. Come in un quadro di realtà virtuale.
Si ispira ai suoi Lucio Fontana, Enrico Castellani, Alberto Burri, ma è Giotto, l’allievo che supera il maestro: e se non lo supera, se ne distacca e crea la propria unicità amanuense. La spiritualità che esce da questo certosino, infinito lavoro, si estende ed abbraccia tutto il Colle Palatino, la storia del mondo, la storia privata di ciascuno di noi. Ecco perché, prima di tutto, Sidival Fila è un frate, e prima ancora era un uomo che si è convertito una volta conosciuta Roma e che ha messo da parte l’arte. Impara l’arte e mettila da parte, poi torna da lei una volta pronto. E, quando ha imparato da Dio ad amare il pragmatismo umano e si è convertito, ecco tornare l’arte. Sant’Ambrogio scrive: «Non credere, dunque, solamente agli occhi del corpo. Si vede meglio quello che è invisibile, perché quello che si vede con gli occhi del corpo è temporale; invece quello che non si vede è eterno. E l’eterno si percepisce meglio con lo spirito e con l’intelligenza che con gli occhi». Dice Sidival: «Arte e preghiera sono il luogo della lotta, della fatica dove l’uomo si misura con l’oltre da sé, e questa distanza incolmabile è sorgente di sofferenza e fatica. Spesso invece si intende che l’arte sia evasione o gioco, e la preghiera fuga dalla realtà. Ma un rapporto si costruisce nella fatica, nella diversità di chi vuole dialogare, così nella preghiera».
Nato in Brasile nello Stato del Paranà nel 1962, già da adolescente si appassiona alle arti plastiche, prediligendo la pittura. Ama la tradizione medievale trecentesca, rinascimentale e barocca, ma si sente personalmente attratto dai moderni, dall’impressionismo e dal cubismo. Trasferitosi a San Paolo per gli studi, frequenta spesso i musei di questa città e dipinge guardando soprattutto ai movimenti artistici del primo Novecento europeo. Nel 1985, alla ricerca della sua identità artistica e personale, Sidival si trasferisce in Italia per approfondire la sua conoscenza della pittura e della scultura. Dopo qualche anno dal suo arrivo e varie esperienze lavorative, deciderà di ascoltare la sua vocazione alla vita religiosa, abbandonando così tutti i suoi progetti personali, ed entrando nell’Ordine dei Frati Minori di San Francesco d’Assisi. Nel 1999 è ordinato sacerdote a Roma, dove esercita il suo ministero al Policlinico Agostino Gemelli, al carcere di Rebibbia come volontario, in seguito nel convento di Vitorchiano e in quello di Frascati.
Per diciotto anni non si dedicherà più all’arte.
Gradualmente, attraverso piccoli lavori di restauro, si riavvicina all’arte. Nel 2006 ricomincia a dipingere, guardando specialmente l’Action Painting di Jackson Pollock, e sentendo affinità con l’arte informale europea e con lo Spazialismo. In questi primi anni di «vita nuova artistica», crea opere di grande intensità e rigore formale, tutte realizzate grazie al recupero di materiali poveri oppure obsoleti: carta, legno, tele, vecchie tele e stoffe, svariati metalli, materassi consunti, gesso. Nel 2007 realizza una prima mostra personale nel convento San Bonaventura di Frascati. Nel 2009 viene presentata a Roma per la prima volta con una piccola personale nella galleria Le Passage du Russie, presso il medesimo Hotel, che attira sul suo lavoro curiosità e attenzione da parte del mondo artistico della capitale. Attirando anche un collezionismo estero che lo porta a Monaco, nella Galerie du Gildo Pastor Center con la mostra «L’Eloquence de la Metiere». È invitato inoltre nell’ambito della manifestazione «Life in Gubbio», ad esibire le sue opere con la personale «Oltre la trama»; tre sue opere sono i premi assegnati dalla manifestazione rispettivamente a Dario Fo per la letteratura, a Gigi Proietti per il teatro e a Nicola Piovani per la musica.
Tra le più importanti collettive è invitato, nel 2010, alla mostra «Trasparenze: l’Arte per le energie rinnovabili» presso il Macro Testaccio di Roma (in seguito approdata a Napoli presso il Madre, Museo d’Arte Donna Regina), dedicata allo sviluppo sostenibile e all’impegno per riscattare il pianeta dal degrado ambientale; nel 2011, alla mostra «Lo splendore della Verità, la bellezza della Carità, Omaggio degli artisti a Benedetto XVI per il 600 di sacerdozio», a cura del Pontificium Consilium de Cultura. Nel 2012 la Galleria Ulisse dedica la mostra «Dittico sull’orlo dell’infinito» ad Agostino Bonalumi e Sidival Fila e molte sue opere fanno parte di una personale, «Le pieghe della luce», nello spazio ex Gil di Roma. Nel 2014 è invitato a partecipare al progetto «Atelier d’artista» della Galleria nazionale d’Arte moderna e contemporanea (Gnam) di Roma con un video permanente che presenta il suo lavoro artistico. Le sue opere fanno parte di importanti collezioni private in Francia, nel Principato di Monaco, in Svizzera, in Brasile e a New York. In Italia sue opere sono presenti, ad esempio, nella collezione della Fondazione Puglisi Cosentino di Catania e nella Collezione d’Arte contemporanea dei Musei Vaticani.
Sidival Fila sembrerebbe nato per questo, fila come il suo nome. «Il cielo si apre su Roma e continua a gridare – qui devono reiniziare i colori» (Davide Rondoni). Pregando.
Domanda. Perché l’Italia?
Risposta. Sono venuto in Italia nel 1985 attratto dalla cultura italiana, ma soprattutto dalla cultura europea. In realtà l’obiettivo del mio viaggio europeo era la Francia. Ho sempre ritenuto che quello che è stato il Rinascimento in Italia nel Cinquecento, è stato il Novecento in Francia per l’arte moderna. Il tutto senza grosse ambizioni: volevo soltanto vivere e stare qui in questo ambiente culturale. Ma arrivai a Roma e me ne innamorai. Il primo volo fu una rotta San Paolo-Roma, e il paradosso è che a Parigi non sono ancora mai stato, dopo oltre 30 anni.
D. Roma è la capitale della religione. C’entra qualcosa con la sua conversione?
R. In realtà venni in Europa per lavorare, non ero religioso né pensavo a questo. Stando in Italia dopo circa un mese trovai lavoro prima in un piccolo ristorante, poi in un locale al Gianicolo, infine in un bar brasiliano di Trastevere. Avevo 23 anni.
D. E quando è avvenuta la vocazione?
R. All’età di 25 anni ho avuto la vocazione, mi sono riavvicinato al cristianesimo per poi trovare in questo riavvicinamento il desiderio della vita in un convento.
D. Come è avvenuto questo?
R. Ho preso contatto con una parte di me che non funzionava, non è successo nulla di esterno. Sebbene la mia vita fosse in sostanza felice, sentivo che in una parte di me portavo la morte dentro, e questa morte era proprio la distanza nel rapporto con Dio. In questa mia prima parte di vocazione c’è stato un cambiamento radicale in cui ho vissuto l’esclusione di tutto quello che secondo me non era Dio, sono entrato in convento e ho dovuto lasciare da parte i miei progetti personali, soprattutto l’arte.
D. In che anno è entrato in convento?
R. Nel 1990. Poi sono state diverse le tappe formative: sono stato a Vitorchiano e a Frascati, quindi da Frascati sono venuto a Roma, a San Bonaventura, poi al Gemelli e da lì un’altra volta a Vitorchiano, poi di nuovo Frascati. È stato un percorso personale e spirituale molto lungo nella prima fase, mentre nella seconda fase sono divenuto formatore.
D. Quando si è avvicinato all’arte?
R. Nel 2005, quasi per gioco e per il desiderio di ammirare i quadri di Van Gogh e guardare film su Jackson Pollock e sulla sua tecnica, sempre portando avanti i miei impegni religiosi come formatore. Il mio riavvicinamento all’arte è avvenuto senza pretese e senza nessun progetto, era piuttosto un mio bisogno personale quello di contattare la mia parte artistica conciliandola con gli impegni religiosi.
D. Come riesce a conciliare le attività religiose con la sua arte?
R. Il mio lavoro artistico è fatto principalmente dopo cena, dedicando all’arte gli ultimi rimasugli di energia spesi durante tutta la giornata. Ciò potrebbe sembrare controproduttivo ma è proprio questo che mi rende contemporaneo: tutti i nostri contemporanei sono stressati, hanno poco tempo libero e sono tirati a destra e a sinistra ma devono anche sopravvivere in questo caos, e anch’io mi sento contemporaneo perché, come le altre, la mia vita è fatta di lacerazioni che ricadono, e si riflettono, nello stesso mio linguaggio, in quello che io faccio, in quello che io sono. Il tempo che impiego per andare negli ospedali lo potrei usare per l’arte, ma quando vado negli ospedali nutro il mio essere e questo nutrimento poi diventa la mia arte. Non si possono scindere queste due cose, anche perché altrimenti rimarrebbe solo tecnica artistica, e non emozioni di vita vissuta.
D. Come ha vissuto la religione in Brasile?
R. Da ragazzo frequentavo la chiesa come chierichetto, ma non per esperienza personale quanto per tradizione e per cultura, anche se io credevo in Dio, quindi andare in chiesa era un modo per espletare il senso della ritualità senza esprimere in alcuno modo un linguaggio personale. Con la conversione invece ho scoperto tale modalità e l’Italia mi è stata d’aiuto, poiché ho trovato il linguaggio con cui esprimermi anche attraverso la vita del convento, del ritiro, della storia, dell’eremo, dei monumenti storici, dell’arte. Sono stato molto aiutato nella mia conversione dalla cultura che ho acquisito in Italia e che anche mi ha permesso di divenire me stesso.
D. Com’è vissuto in Brasile il cattolicesimo?
R. Dal punto di vista dottrinale è uguale, il patrimonio della fede e quello religioso è lo stesso. C’è solo un ambiente più protestante, ma non inteso come protestantesimo storico europeo bensì come una grande varietà di letture e di interpretazioni difficilmente conciliabili tra loro; invece nel protestantesimo europeo ci sono dei punti in comuni con la chiesa. Forse in Brasile non c’è il retaggio culturale e il peso religioso che c’è in Europa, e quindi la religione si riversa più sul sociale e sulla gente; in Brasile c’è una «leggerezza religiosa» diversa anche perché la storia del Brasile stesso è diversa e il peso culturale della religione è molto più ridotto.
D. Da quanto manca dal Brasile?
R. Ci sono stato pochi mesi fa, ma non ci andavo da 4 anni. Io vivo dove sto, quando vado in Brasile mi sento a casa ma quando sono qui non ci penso.
D. Altre esperienze al di fuori dell’Italia?
R. Sono stato in Mozambico, in Jugoslavia; poi prima di entrare in convento sono stato in Spagna, Grecia, Austria, Svizzera, Inghilterra, Germania.
D. Sono stati viaggi in ambito religioso?
R. In realtà culturali, perché in Inghilterra e in Germania sono andato per imparare la lingua, ma ero già frate.
D. Cos’è un frate rispetto a un prete?
R. Il frate di per sé è un religioso che conduce una vita religiosa, mentre il prete è autorizzato al ministero sacerdotale. Poi un frate può diventare frate-sacerdote, che è il mio caso.
D. Il suo è considerato «lo studio più bello del mondo». Come si è trovato qui?
R. A settembre saranno 8 anni dal mio arrivo a San Bonaventura, per il trasferimento da Frascati dovuto al lavoro che facevo al Gemelli; anche il convento di Frascati è dedicato a San Bonaventura, ed hanno lo stesso santo protettore, ma il convento romano è stato fondato da Beato Bonaventura da Barcellona, mentre l’altro, quello frascatano, da San Bonaventura da Bagnoregio. Qui da noi, sul Palatino, c’è attività pastorale giovanile e vocazionale e vengono molti giovani da fuori per i corsi di formazione.
D. Che tipo di corsi di formazione?
R. Per esempio sacra scrittura, francescanesimo o maturità umana.
D. Non solo corsi vocazionali dunque?
R. Esatto, sono corsi spirituali aperti a tutti i giovani suddivisi in due ambiti: uno specifico per la formazione dei giovani e uno specifico vocazionale, che consentono in questo modo un approccio costruttivo verso la fede. Io non ho rapporti diretti con i giovani perché la mia funzione qui è essere tutore della chiesa per i matrimoni e per la manutenzione del convento, però ho un gruppo di terziari francescani che hanno scelto di dedicare la propria vita alla spiritualità di San Francesco essendo però laici, alcuni di loro sono anche sposati.
D. Cosa faceva al Gemelli?
R. Per tre anni sono stato il cappellano del Gemelli ed ero residente lì, poi sono stato trasferito qui ma al Gemelli andavo comunque tutti i giorni facendo il pendolare. Poi per 4 anni, dal 1999 al 2001, ho prestato le mie funzioni nel carcere di Rebibbia e ci andavo tutte le domeniche come volontario.
D. Come mai ha a disposizione questo studio e queste belle sale?
R. In questo spazio prima c’era una biblioteca seicentesca che, per lavori di consolidamento, è stata smantellata e portata in un altro convento. Questo spazio di conseguenza non era più agibile e per 5 anni è rimasto vuoto e inutilizzato. Il Provinciale che mi ha mandato qui mi ha appoggiato in questa mia vita artistica, dato che conciliavo l’arte e la fede, e voleva che continuassi con questa mia attività, così mi ha assegnato lo spazio nel piano terra che era molto più piccolo. Quando ho dovuto togliere i quadri dallo studio nel piano terra perché doveva essere usato per altre cose, li ho appoggiati qui sopra dove noi siamo adesso. Allora questo era un magazzino, poi piano piano mi sono organizzato e adesso è diventato il mio studio. Con i nostri risparmi siamo riusciti a fare dei piccoli interventi e mentre i quadri sono partiti in Francia per una mostra a Lille, a febbraio di quest’anno, ed altri sono stati trasferiti a gennaio per una mostra nella Galleria Portinari dell’Ambasciata brasiliana a Roma, in Piazza Navona, ho colto l’occasione insieme ai ragazzi di imbiancare tutto e mettere la luce.
D. Dove si trovano ora quei quadri?
R. A Lille, ospitati in una mostra molto importante finanziata dal Ministero della cultura francese nel Centro nazionale di ricerca, arte e cinema contemporaneo. La mostra è visitabile fino all’8 maggio prossimo.
D. Oltre a ispirarsi allo Spazialismo e a Pollock, come è arrivato a fare «arte tessile»?
R. Lavorando sulla materia, sui colori, sul recupero di oggetti di modo che la materia fosse molto eloquente e presente; nelle mie opere di transizione mi sono reso conto che le «canalette», ossia i solchi cuciti nella stoffa che avevo costruito si stavano allentando, e per evitare ciò ho cucito le canalette. La materia diventava così molto espressiva e rudimentale, creavo una forma che mi interessava ed ho così cominciato a creare quadri con delle grosse cuciture più in funzione della forma che della poetica che vuole esprimere l’opera. Ho poi avuto modo di approfondire questo processo di sviluppo che permette di creare uno stile che sia soltanto mio, perché come ricerca non c’è nulla di simile, anche se il filo è un materiale molto impiegato da diversi artisti. Quindi, da un concetto espressivo e materico ho fatto la ricerca sulla luce, sul colore, sulle vibrazioni cromatiche, sulla tridimensionalità: i miei quadri diventano ologrammi a seconda di dove colpisce la luce. Ed è proprio questo che stupisce la gente che guarda le mie opere. Siamo abituati, con i computer, a vedere delle trasformazioni spaventose, ma quello che meraviglia le persone è vedere un materiale che è tradizionale, fatto a mano con una tecnica artigianale, che ha però in sé le caratteristiche della tecnologia; quindi l’ambito particolare della mia ricerca è quello di creare una tridimensionalità cromatica e un’astrazione del colore.
D. Questi quadri hanno committenti ed un giro economico?
R. Sì, sono opere che stanno entrando nelle collezioni internazionali.
D. Le quotazioni dei suoi quadri sono alte?
R. Dipende dall’opera, possono arrivare anche a 70 mila euro.
D. E come vengono usati i soldi ricavati dalla vendita?
R. I soldi che rimangono a disposizione, a dire il vero, sono molto pochi, perché più della metà del ricavato va a pagare le tasse allo Stato. Il restante va al mantenimento del convento e a vari progetti di beneficenza per i bambini del Terzo mondo. Ne abbiamo vari e siamo impegnati su più fronti. Purtroppo l’Italia non aiuta, con la tassazione. (Romina Ciuffa)
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Anche su Specchio Economico – Aprile 2016
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(nello sfondo della copertina di Specchio Economico, un’opera di Sidival Fila)