HIKIKOMORI: DA PARETE A RETE

HIKIKOMORI: DA PARETE A RETE.
Studio e ipnosi di ROMINA CIUFFA
(www.psichelogia.com)

INTRODUZIONE ERICKSONIANA
“DA UNA STANZA ALL’ALTRA”

Chiesi a uno studente: “Come fai ad andare da questa stanza a quella stanza?”
“Prima di tutto mi alzo”, rispose. “Poi faccio un passo”.
Lo interruppi e dissi: “Dimmi tutti i modi possibili di andare da questa stanza a quella stanze”.
“Ci si può andare correndo”, rispose, “camminando, ci si può andare saltando, ci si può andare saltellando, facendo capriole. Si può andare a quella porta, uscire dall’edificio, entrare per l’altra porta dentro la stanza. Oppure se uno vuole può scalare la finestra…”.
“Hai detto che li avresti detti tutti, ma hai tralasciato un modo, che è il più importante”, dissi io. “Io di solito comincio col dire così: ‘Se voglio andare in quella stanza da questa stanza, io uscirei da quella porta lì, prenderei un taxi fino all’aeroporto, comprerei un biglietto per Chicago, New York, Londra, Roma, Atene, Hong Kong, Honolulu, San Francisco, Chicago, Dallas, Phoenix, tornerei indietro in macchina e entrerei nel giardino posteriore attraverso il passaggio di dietro, entrerei per la porta di dietro ed entrerei in quella stanza’. E abbiamo pensato solo ai movimenti in avanti! Non hai pensato di andare all’indietro, vero? Non hai pensato all’andare carponi”.
“E neanche a strisciare sulla pancia”, aggiunse lo studente.
È proprio vero che ci limitiamo così terribilmente in tutte le nostre forme di pensiero!

Milton Erickson [1]

L’HIKIKOMORI

Mi reco in Giappone nell’aprile 2019. Esco la mattina all’ora di punta, circa le 8 del mattino. La città di Tokyo è silenziosa come una faggeta. Non c’è traffico, pochissime automobili, molte biciclette e pedoni, comunque non sufficienti a dare il senso occidentale dell’ora di punta. Salgo sulla metropolitana, in particolare prendo la linea verde “Yamanote”: con quasi 4 milioni di utenti al giorno (poco meno dell’intero sistema di trasporti di New York), essa costituisce una delle linee metropolitane più grandi del mondo. Il suo percorso funge da circolare per la città di Tokyo e disegna un anello intorno al centro della città, incrociando gran parte delle altre linee dei trasporti di essa, più di 50. La folla è massiva, il silenzio tombale. All’interno dei convogli, sui quali si sale con grandi difficoltà ma altrettanto silenzio, si sta strettissimi. Eppure non si sente rumore, se non quello degli annunci riguardo la fermata successiva. Tutti i passeggeri sono fissi sul proprio tablet o telefonino, non si ha alcun contatto, la solitudine riempie la metro. Non si dovrebbe: guardo sui loro schermi, tutti in giapponese, voglio entrare in contatto con questo silenzio: sono videogiochi, non i social che l’occidentale si aspetterebbe. Dall’altra parte, non c’è nessuno. O meglio, ci sono dromedari e robot che altri utenti nel mondo stanno personificando. Molti portano la mascherina tipica, per una questione di igiene o di rispetto verso gli altri nonché di riservatezza: non si mostra, così, il rossore sul volto, se compare. Per indicare che la prossima è la nostra fermata, faccio “psiu” alla persona che mi accompagna in questo viaggio, lontana da me e, gesticolando e sussurrando, comunico timidamente: “Dobbiamo scendere”. Il mio sussurrio rimbomba nel vagone sovraffollato. Mi guardano tutti.


Romina Ciuffa, Kyoto

Hikikomori (引きこもり o 引き籠もりsignifica letteralmente, in giapponese, “stare in disparte, isolarsi” [2], dalle parole hiku “tirare” e komoru “ritirarsi” [3]). Il termine si riferisce a coloro che hanno scelto di appartarsi dalla vita sociale, cercando anche livelli estremi di isolamento e confinamento, per fattori personali e sociali di varia natura. In Giappone – dove per primo il fenomeno è stato definito – vi è, nondimeno, tra tali fattori, la particolarità del contesto familiare, che si dice caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da una eccessiva protettività materna; ciò si aggiunge alla grande pressione della società verso l’autorealizzazione ed il successo personale cui l’individuo viene sottoposto fin da sempre.

Per scegliere una definizione che più si avvicina a quest’ultimo fattore, quella di Marco Crepaldi: “L’hikikomori è una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle forti pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate” [4].

Si tratta, infine, della difficoltà adattiva di trarre sensazioni positive e stimoli dalle relazioni interpersonali e, più in generale, dalle dinamiche sociali moderne.

Fino a “ieri”, in Italia si parlava di hikikomori come di un fenomeno “strambo”, “antropologizzato” dall’effetto distanza, che porta a ritenere – secondo la scrivente – che, più chilometri intercorreranno tra una cultura e l’altra, minore sarà il “contagio”. Se, infatti, la trasmissione – base della culturalizzazione e, di seguito nel tempo, dell’antropologizzazione – è un processo tramite il quale l’informazione passa da un individuo all’altro attraverso meccanismi quali l’apprendimento sociale, l’imitazione, l’insegnamento o il linguaggio, fino al momento dell’avvento di una rete capillare come quella web si poteva ritenere che tali elementi mancassero tra due Paesi che distano quasi 10 mila chilometri l’uno dall’altro. Come pensare di contrarre una malattia da una tribù africana o la tubercolosi da una favela brasiliana.

Aguglio scrive [5]: La cultura non va considerata come qualcosa di esterno all’individuo, ma come una struttura specifica di origine sociale che contiene e rende possibile il funzionamento dell’apparato psichico; Beguin già nel 1952 affermava che “si è folli in rapporto a una data società”. Non può esistere alcun processo psichico senza l’esistenza di un filtro culturale che ordini e fornisca gli strumenti necessari per l’interazione della persona con il mondo. Le sindromi culturali comprendono un insieme eterogeneo di malattie, l’importanza e l’attualità delle quali è stata riconosciuta anche nel DSM-IV TR 3; nell’appendice è infatti presente una classificazione delle “cultural bound syndrome” che ha lo scopo di integrare l’inquadramento diagnostico multiassiale e di delineare le difficoltà che si possono incontrare applicando i criteri del DSM-IV in un contesto multiculturale. Il DSM-IV TR le definisce come: “Modalità ricorrenti, caratteristiche di certe regioni, di comportamento aberrante e di esperienza disturbante che possono essere o meno collegabili a qualche particolare categoria diagnostica del DSM-IV”. Si potrebbe dire che queste sindromi siano un modo specifico di una determinata cultura per esprimere una condizione di disagio psichico. Mentre le basi scientifiche della cultura occidentale permettono di classificare i sintomi psichiatrici in quadri ben precisi, nei luoghi in cui le sindromi culturali si verificano vengono spesso accettate come eventi non patologici. Inoltre, il sistema medico occidentale opera una netta distinzione fra mali di ordine fisico e mali d’ordine psichico; nelle culture tradizionali invece questa distinzione si perde, sia per quanto riguarda le procedure terapeutiche, che spesso non si differenziano, sia per quanto attiene alla ricerca delle cause della patologia. (grassetto mio)

Se poi ci si concentra sull’elemento “linguaggio” – intrinsecamente culturale – è evidente che nella trasmissione del disturbo essa è basicamente assente, trattandosi di due ceppi linguistici e antropologici completamente differenti. Il giorno e la notte, anche in termini di fuso orario. Lo stesso valga per l’imitazione, praticamente impossibile in due Paesi tanto distanti con popolazioni tanto distinte.

Se la trasmissione culturale è una componente fondamentale dell’evoluzione, essa non è l’unica. L’hikikomori più avanzato infatti, oltre che da un parallelismo culturale (due rette che prima dell’era web non si incontravano mai, non sottoposte a contagio ma a sviluppo evoluzionistico), deriva da un disagio sociale che riguarda tutti i Paesi economicamente sviluppati, nei quali si delinea un atteggiamento competitivo e perfezionista in vari ambiti di vita. Proprio nel senso di fallimento sociale sono da rintracciarne le cause profonde: lì dove si crea un gap tra il proprio sé ideale e la realtà nascono le paure di fallire, di deludere, di perdere tempo e, come conseguenza, un senso di vergogna di sé. Al disagio e alla sofferenza sperimentata si sommano pensieri valutativi più complessi quali repulsione, sfiducia e delusione verso un luogo e verso le persone che ne fanno parte, i cui valori appaiono a un hikikomori troppo distanti dai propri [6]. Questo luogo, oggi, è infinito: questo luogo, oggi, è online ed è wireless, senza fili.

Il contagio dunque non è causa, bensì concausa accelerata dall’effetto-web. L’hikikomori non è “malattia” in sé, bensì e prima di tutto disturbo cui può essere associata una malattia strictu sensu, ossia un’entità clinica sostenuta da alterazioni lesionali fisiche (in questo caso corticale); ma in esso prevale l’interiorizzazione di esperienze e, delle stesse, l’esteriorizzazione successiva a seguito di rielaborazione. Con una puntualizzazione: l’hikikomori in quanto tale non è stato riconosciuto ufficialmente – né in Giappone né dalla comunità scientifica internazionale – come una psicopatologia. Il che, sia pur escludendo il fenomeno dalla categorizzazione nosologica, lo rende flessibile. Questo glielo si deve: di esso, l’unica variabile strettamente caratterizzante e generalizzabile è l’impulso all’isolamento sociale. Le altre dimensioni variano da soggetto a soggetto: da chi presenti un forte quadro depressivo non legato a fobia sociale, a chi soffra di una profonda crisi esistenziale, a chi sia colpito da apatia; da chi soffra maggiormente le pressioni di origine sessuale a chi sia esposto a quelle legate al confronto con i pari. In altre parole, l’isolato sociale volontario non apparenecessariamente depresso, fobico sociale, dipendente da internet o psicotico, e a volte, addirittura, esce. Fisicamente.

In sintesi, pur non essendo stato categorizzato, l’hikikomori ha uno sviluppo dimensionale. Il modo di agire della stessa imperatrice giapponese Masako è stato accostato a quello degli hikikomori ma, secondo le fonti ufficiali, avrebbe invece sofferto di depressione [7], tanto da meritare la nomea mediatica di “principessa triste”. Per la sua grande, tentacolare dimensionalità il fenomeno sembra essere di scarsa diffusione come tutti quei fenomeni dei quali è difficile la vista (lo stesso motivo per cui il transessualismo MTF – male to female – è conosciuto da tutti mentre, diversamente, quello FTM – female to male – da pochi: la variante, tra le altre, è la visibilità concreta e percepibile del fenomeno dall’esterno dello stesso [8]); esso è, così, poco considerato a livello di problema sociale e viene chiuso negli stretti margini del problema individuale.


L’imperatrice giapponese Masako, anche detta “la principessa triste”

Reclusi sociali, eremiti, ragazzi spariti non fanno notizia perché non esistono a tutti gli effetti. La famiglia è reticente, tende a non enfatizzare il problema o, a maggior ragione ed effetto, a non vederlo, riconoscerlo, considerarlo tale: a ben vedere, da sempre si è preferito avere figli che escono poco a figli che escono molto. Da sempre la discoteca è stata il catalizzatore di ogni difficoltà. Eppure, in questi casi lo è la stanza da letto. Quella arredata dai genitori, quella che garantisce protezione. Qui tale protezione diviene maleficio e gli effetti della chiusura possono condurre e, di fatto conducono, a depressione, suicidio, dissociazione, alienazione, insicurezza, “haterizzazione” (odio in rete), distorsione della propria immagine, comportamenti ossessivo-compulsivi, automisofobia e manie di persecuzione, “autismo selettivo” od “a contesto specifico”, mutismo selettivo, disturbo d’ansia generalizzata e molto altro.

La comfort zone si trasforma nella discoteca più pericolosa che esista, in cui è presente uno spacciatore di droghe dai cui effetti difficilmente si uscirà. Si tratterà, nello sviluppo della patologia, di una “adolescenza senza fine” [9]. I ragazzi, in alcuni casi, non riescono a immaginare se stessi adulti o hanno l’impressione di non stare crescendo. La mancanza di contatto sociale e la prolungata solitudine hanno effetti profondi sullo hikikomori, che gradualmente perde le competenze sociali, i riferimenti comportamentali e le abilità comunicative necessarie per interagire con il mondo esterno [10].

Ne sono colpiti anche gli adulti. In Giappone, dove sono presenti le stime più concrete, nel 2016 il Governo parlava di 541mila soggetti coinvolti con un’età compresa tra i 15 e i 39 anni, e di 613mila appartenenti alla fascia di età tra i 40 e i 64 anni, generalmente indicati come la prima generazione hikikomori, di difficile reinserimento in società da quando, superata la soglia dei 60 anni e rimasti orfani, perdano l’unica fonte di sostentamento a disposizione [11]. Un elemento culturale strettamente collegato al fenomeno è la categoria dei parasite single (パラサイトシングル parasaito shinguru), ragazzi che continuano a vivere coi genitori ben oltre la maggiore età, i quali sembrano possedere, in una certa percentuale di casi, stili comportamentali simili e sovrapponibili a quelli di uno hikikomori.

Il termine hikikomori fu coniato dallo psichiatra Tamaki Saitō, riflettendo sulla similarità sintomatologica di un numero sempre crescente di adolescenti che mostravano letargia, incomunicabilità e isolamento totale [13], ed uno stile di vita caratterizzato da un ritmo circadiano sonno-veglia completamente invertito [14], “con ore notturne spesso dedicate a componenti tipiche della cultura popolare giapponese, come la passione per il mondo manga e, soprattutto, la sostituzione dei rapporti sociali diretti con quelli mediati via Internet” [15].


Tamaki Saitō

È lo stesso Saitō a fare una analogia tra parasite single e “mammoni” italiani: “Oggi i Paesi colpiti da questo fenomeno sono il Giappone e la Corea, aree di cultura confuciana, le cui società hanno assimilato il concetto di pietà filiale, enfatizzandone molto il valore. I genitori accudiscono i figli per essere da questi accuditi in vecchiaia, nel rispetto dell’alternanza dei ruoli. In America e in Inghilterra, una volta diventati adulti, i figli lasciano la casa paterna; in Giappone invece rimanere in casa è normale. Qui li chiamiamo ‘parasite singles’, mentre in Italia si chiamano’ mammoni’”.

Questo a significare quanto non siano poi così lontane le culture. Aggiunge: “Nei Paesi in cui la famiglia ha una grande importanza ci sono più hikikomori. In Giappone è così, e lo stesso in Corea. La pietà filiale. Forse anche in Sicilia, nella parte meridionale dell’Italia, ce ne sono. No? Nei Paesi in cui i rapporti familiari sono importanti, anche se il figlio si emargina guarderà sempre i genitori con rispetto e dipenderà da loro. Poiché c’è il problema dell’amae (dipendenza parentale). In Giappone senz’altro è importante il giudizio degli altri. Un ragazzo hikikomori è motivo di vergogna per il genitore; per questo viene rimproverato. Anche il ragazzo si preoccupa molto di cosa possono pensare gli altri e si tormenta. Così facendo però si convince di essere sbagliato e si isola sempre di più. In Giappone non c’è un dogma religioso, la gente non ha un credo, crediamo agli occhi degli altri, ci preoccupiamo di come ci vedono. Siamo molto sensibili al giudizio altrui e ci fa male essere disprezzati. In questa condizione diventa difficile superare lo hikikomori” [12].

L’hihikomori, o come in Italia lo si voglia chiamare dopo quanto detto, incarna lo spirito di una società giovane che soffre a causa dei cambiamenti sociali e i cui membri non sono in grado di affrontare il duro sistema educativo, la crescente instabilità del lavoro e la grande pressione sociale a partire da quella stessa famigliare.

Da parete a rete. Molti di loro, di qualunque età, sia pure confinati nella loro camera, ne oltrepassano le pareti: si collegano alla rete, sul web, ed entrano in mondi lontani. Nell’impossibilità (psicologica) di far uso del loro corpo costruiscono un avatar con il quale intraprendono battaglie epocali e interagiscono virtualmente con milioni di utenti, di cui antesignano fu il Pacman.

Va però sottolineato come la dipendenza da internet, spesso indicata come una delle principali responsabili dell’esplosione del fenomeno, rappresenti invero una conseguenza dell’isolamento, non la causa: il fenomeno ha origine ben prima della diffusione del personal computer.Prima che esistesse internet, l’isolamento degli hikikomori era, però, totale.Ad oggi, solamente il 10 per cento degli hikikomori naviga su Internet, mentre il resto impiega il tempo leggendo libri, “girovagando” all’interno della propria stanza o semplicemente oziando, incapace di cercare lavoro o frequentare la scuola.

I primi casi in Italia sono stati “diagnosticati” nel 2007, per poi diffondersi ed essere sempre più individuati come tali [16]. Nel 2013 la Società Italiana di Psichiatria ne individua circa 3 milioni tra i 15 e i 40 anni [17]. Il disturbo può essere anche associato alle culture nerd e geek, o ad una semplice dipendenza da Internet, limitando il fenomeno a una conseguenza del progresso della società e non a una chiara scelta volontaria del soggetto[18]. Una stima riferita al 2018 parla di 100 mila casi di hikikomori in Italia.

Ne ho conosciuta una.
O meglio: ho ritenuto che la stessa definizione, per lei, di hikikomori FOSSE già la terapia. Ossia la diagnosi è, in realtà, la tecnica: definire qui è curare.
Il caso è coperto da segreto professionale. Seguono solo le mie riflessioni.

RIFLESSIONI POST TRANCE IPNOTICA SU UNA PAZIENTE “HIKIKOMORI”

Il percorso terapeutico, in questo caso, non si fonda sul considerare l’isolamento come un problema di socializzazione. In particolare, a mia paziente non presenta problemi nella capacità di interagire all’esterno, bensì nel movimento e nella motivazione al movimento. Lo stesso Saitō ha specificato che, prima che l’hikikomori fosse definito in questo modo, si soleva parlare di Sindrome di Apatia. E in effetti l’apatia (dal greco a-pathos, “senza emozione”) consta di una riduzione dei comportamenti finalizzati dovuto a un problema di espressione della motivazione.

Ciò che vale la pena sottolineare, nel caso della mia paziente, è la distinzione tra apatia e depressione: il paziente apatico non prova disagio per la propria condizione, mentre la depressione si correla spesso con stati ansiosi, un tono negativo dell’umore e assenza di piacere (anedonia) che può arrivare fino al desiderio di morire. Nell’oscillazione tra depressione ed apatia si trova la mia paziente.In particolare, il riferimento all’hikikomori mi è servito per parlare con il suo stesso linguaggio, un linguaggio di terre lontane quando non fantastiche, nel particolare caso il Giappone, da dove nasce una delle più floride letterature immaginifiche.

L’hikikomori, dunque, qui è una tecnica mascherata da diagnosi: usare questo esempio, infatti, trasporta già la paziente fuori dal proprio contesto e la sblocca nei movimenti mentali, proprio come in una ipnosi non formale, indiretta, che è quella su cui maggiormente ho condensato i miei interventi su di lei.

In questo tipo di ipnosi, la paziente si è trovata completamente a suo agio, e si è completamente lasciata andare, piangendo e ridendo e muovendosi fra mondi.

Nella ipnosi formale, ho voluto concretare il suo pensiero magico: l’ipnosi in questo caso, sia pure tecnica dello psicoterapeuta che può giungere in luoghi ritirati nel paziente, diviene vero e proprio oggetto, ossia qualcosa che lei è in grado di osservare in quanto appassionata di tematiche quasi fantasmiche, mondi da raggiungere “stando qui”, una sorta di Netflix incarnato nel proprio inconscio.In questo modo, ho smosso la motivazione alla sua stessa radice, e nonostante l’abbia collocata in un luogo più semplice per lei da raggiungere, lei si è recata in un ambiente desertico. La sua motivazione a muoversi è stata così messa in risalto dalla sua stessa volontà, più che dal mio concreto condurla e “accompagnarla”.

Descrivendomi i luoghi durante la trance ipnotica, piangendo, ha voluto rendermi partecipe di questo suo viaggio “oltre”. La ridefinizione, ad opera sua, della scala che le ho chiesto di visualizzare (da grande scalinata a scaletta da pozzo) mostra il suo desiderio di non tornare, e la sua difficoltà a gestire la risalita, che ha definito “faticosa”, ha rinforzato comunque il suo spostamento che, sebbene fosse un ritorno a casa, ha motivato un allontanamento eventuale, futuro, futuribile. Ha dato delle possibilità. Ha lasciato intravedere la forza di un’arrampicata complessa, che però compie. O compirà.

Romina Ciuffa

 

BIBLIOGRAFIA

[1] ERICKSON M., “La mia voce ti accompagnerà”, Astrolabio, 79.
[2] MARIANI A.,Hikikomori, nulla oltre il pc, Avvenire.it, 1 novembre 2012.
[3] ZIELENZIGER M., Non voglio più vivere alla luce del sole. Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta, Elliot Edizioni, 2008, 30.
[4] CREPALDI M.,Hikikomori. I giovani che non escono di casa, 2019.
[5] AGUGLIA E. et al., Il fenomeno dell’hikikomori: “Cultural Bound” o quadro psicopatologico emergente?, in Giornale Italiano di Psicopatologia, vol. 16, 2010, pp. 157-158.
[6] CREPALDI M., cit.
[7] La “principessa triste” torna a viaggiare, in TG1 Online, 28 aprile 2013:TOKYO – Sarà il primo viaggio all’estero, quello di Masako di Giappone: da sette anni, la principessa “triste” soffre di depressione, malattia che l’ha tenuta lontana dagli eventi sia nipponici, sia esteri. DESTINAZIONE OLANDA. La principessa, 49 anni, ex diplomatica, accompagna il marito per assistere alla intronizzazione del nuovo re olandese Willem-Alexander, il 30 aprile ad Amsterdam. L’agenzia imperiale ha precisato che, durante la visita di sei giorni, la principessa assisterà all’incoronazione, ma potrebbe non prendere parte ad altri eventi ‘‘a causa del suo stato’’. UN VIAGGIO FUORI DALLA NORMA. Per Masako, 49 anni, si tratta del primo viaggio all’estero dopo il 2006 quando trascorse due settimane proprio in Olanda su invito della regina Beatrice, ma per una vacanza familiare. Da circa 11 anni invece – dopo avere visitato l’Australia e la Nuova Zelanda nel 2002 – la principessa, che ufficialmente soffre di depressione dal 2004, non ha più partecipato a viaggi ufficiali. Secondo la stampa nipponica, la sua condizione è causata anche dalla forte pressione della corte imperiale, incluse quelle sulla nascita di un erede per assicurare la successione. La donna ha invece avuto solo una figlia, Akiko, di 12 anni”.
[8] CIUFFA R., Tra uomini e donne non ci sono confini, in Panorama, www.archivio.panorama.it/archivio/Tra-uomini-e-donne-non-ci-sono-confini e in Mutatis Mutandis, www.rominaciuffa.com/transessuali-izzo-tolu/, 2006.
[9] SAITŌ T., Hikikomori: Adolescence Without End, University of Minnesota Press, 2013.
[10] MANGIAROTTI A., Chiusi in una stanza: gli hikikomori d’Italia, in Corriere della Sera, 11 febbraio 2009.
[11] HOFFMAN M., Nonprofits in Japan help ‘shut-ins’ get out into the open, in The Japan Times, 9 ottobre 2011; Aging hikikomori children’s lifelong dependency on parents, in Japan Today, 14 agosto 2013 (senza firma).
[12]PIERDOMINICI C., Intervista a Tamaki Saitō sul fenomeno “Hikikomori”, su Psychomedia.it.
[13] PIERDOMINICI C., cit.
[14] AGUGLIA E. et al., cit., pp. 157-164.
[15] OHASHI N., Exploring the Psychic Roots of Hikikomori in Japan, ProQuest, 2008.
[16] SPINIELLO R., PIOTTI A., COMAZZI D.,Il corpo in una stanza. Adolescenti ritirati che vivono di computer, p. 304, 2015.
[17] NICOLETTI G., L’Hikikomori entra nel vocabolario e nella realtà italiana, in La Stampa, 17 ottobre 2012.
[18] GIAMMETTA R., Hikikomori: isolarsi per troppa vergogna e dire no al conformismo, su quipsicologia.it, 25 febbraio 2013.




FRANCESCO MORACE: LA CRESCITA NON PUÒ E NON DEVE RAPPRESENTARE UN PROBLEMA, MA DEVE ESSERE FELICE

di ROMINA CIUFFA. Festival della Crescita. La domanda sorge spontanea: stiamo crescendo? Personalmente sostengo che si cresce fin quando non ci si alzi di statura; da quel momento, poi, si decresce. Perché le funzioni cominciano a venir meno. Ma aumentano le capacità. La vista lentissimamente cede, la memoria anche, ed altro; ma sappiamo utilizzare modelli più complessi di vitalità e congetturazione, ergo, creazione. Le abilità si moltiplicano, il pensiero sì che cresce. Del Festival ideato da Francesco Morace – sociologo e saggista, da oltre 30 anni attivo nell’ambito della ricerca sociale e di mercato con la sociologa e moglie Linda Gobbi, con la quale ha fondato e presiede Future Concept Lab – l’obiettivo è quello di creare un circolo virtuoso tra i protagonisti della crescita e dello sviluppo, siano essi cittadini o istituzioni, imprese o creativi, studenti o professionisti. Il «Manifesto della crescita», piattaforma progettuale delle tappe e dei contenuti sviluppati nell’arco del 2017, ha orientato la messa a fuoco di contesti e progetti di innovazione in varie città con incontri, workshop e performance dedicate. Crescita è cambiamento. E non metamorfosi, come spiega.

Domanda. Cos’è il Festival della Crescita?
Risposta. Due anni fa Future Concept Lab, che da sempre lavora sul tema del cambiamento, ha deciso di lanciare una nuova visione di crescita felice, agganciandola anche al successo di un piccolo caso editoriale, il mio libro «Crescita felice. Percorsi di futuro civile», che mette in discussione la decrescita felice pur condividendone alcuni passaggi, in particolare la non sostenibilità del modello economico precedente. È la terapia ad essere sbagliata: il tema non è fare un passo indietro e decrescere, bisogna adottare nuovi paradigmi. L’Università Bocconi di Milano tramite la casa editrice Egea ha supportato il festival, insieme ad altre aziende quali Herno, Illycaffè, Intesa Sanpaolo, Conad, Subito, Coldiretti, realtà che hanno creduto nel progetto e non hanno chiesto nulla in cambio, in un concerto di manager ed imprenditori: l’unico modo di venir fuori dall’impasse è mettere a fattor comune la visione della società, dell’economia civile e della crescita sostenibile.

D. Come è strutturato? 
R. È un festival non tematico che analizza la crescita in maniera trasversale. A Milano è più ampio e si svolge in quattro giornate: «Inventare la crescita» con artisti, musicisti, tecnologi; «Educare alla crescita» con professori e pedagoghi; «Comunicare la crescita», chiamando in causa giornalismo, pubblicità e marketing; infine «Coltivare la crescita», che coinvolge più direttamente la Coldiretti con l’agroalimentare e le imprese legate ai territori: giornata delle imprese e del made in Italy.

D. Cosa può fare l’Italia per riavviare un meccanismo virtuoso di crescita felice?
R. Non «scopiazzando» malamente il modello di altre realtà, ad esempio il mondo anglosassone o americano, ma estrarlo da quello che siamo, dal nostro genius loci e da quello che definisco Italian factor, ossia la nostra capacità di incrociare i pensieri, cosa che altre culture non hanno, e di moltiplicarne il valore. Siamo genio e sregolatezza, quelli che non riescono a moltiplicare il valore che hanno in casa.

D. A Milano una lunga tappa. Nel resto del territorio?
R. Milano è un punto di avvio, ma bisogna andare sui territori e a tal fine abbiamo individuato degli ambasciatori della crescita nelle 17 città visitate. Ad oggi sono 250. Con loro abbiamo capito che l’Italia ha uno straordinario potenziale messo in campo. Basti vedere i luoghi meravigliosi che ci ospitano, in qualche modo offerti dalla pubblica amministrazione in cambio di contenuti e relatori, che sono i nostri ambasciatori. Facciamo 10 tappe di più giorni in un anno con soli 300 mila euro: siamo ormai un modello di business che intercetta esigenze e bisogni locali. Un sindaco di un città medio-grande non sarebbe in grado di raggiungere a basso costo l’eccellenza dei contenuti offerti dai nostri relatori, e non saprebbe come gestirli.

D. Cos’è «Future Concept Lab»?
R. Nel 1989 mia moglie Linda ed io, insieme ad altri due colleghi sociologi, abbiamo avviato l’istituto di ricerca con la grande fortuna di avere avuto nei sei anni precedenti una fruttuosa esperienza con la società di ricerca GPF&Associati del sociologo Giampaolo Fabris; la particolarità della nostra «startup», come si definirebbe oggi quello che eravamo ieri, è stato l’intento di specializzarci nell’innovazione, una visione all’epoca non facilmente comprensibile tanto da rapportarci inizialmente solo con aziende straniere. Non marketing classico ma l’idea che l’innovazione è fatta da persone. Abbiamo così ingaggiato gli studenti stranieri che avevamo avuto come allievi per fare cool hunting, termine che oggi con la rete è stato banalizzato ma che nel 1992 ci consentì di ricevere le tendenze, all’epoca tramite diapositive, dalle capitali del design: Tokio, Parigi, Londra, New York e Milano. Dopo poco le città son diventate 40 e i corrispondenti 50, alcuni dei quali ancora con noi.

 

Festival della Crescita 2017, Romina Cuffa, Naby Eco Camara e Seydou Dao

Un momento sul palco del Festival della Crescita 2107

D. Nel concreto, di cosa si occupa?
R. Consulenza e formazione di aziende: sin dall’inizio abbiamo sintetizzato i segnali deboli del cambiamento fornendo un pacchetto derivato da un «laboratorio dei concetti del futuro». Nelle aziende, la direzione «Innovazione» con la quale principalmente lavoravamo non esiste più. Ora lavoriamo con il top management e con molti imprenditori, soprattutto italiani. Abbiamo ricevuto diversi premi in Europa come primo istituto che ha lavorato sulle tendenze socio-culturali.

D. Per questo parlavate di «trend foundation»?
R. Esattamente. Fondare il pensiero nelle aziende è definire uno scenario con megatendenze e paradigmi sulla base di ciò che cambia, suggerire prodotti e progetti che siano in sintonia con i risultati delle nostre ricerche. Per dieci anni, fino al 2012, abbiamo anche avuto un ufficio a San Paolo in concomitanza con il boom brasiliano. Il festival è il naturale proseguimento di questa attività.

D. Un nuovo mondo che oscilla tra «online» ed «onlife»: quali differenze? 
R. Paternalisticamente diciamo: spegnere e accendere i cellulari. La «second life» è stata un’idea «disruptive», innovativa, ma oggi pericolosa perché, tornando nella «total life», ne vanno compresi i confini. Sono le persone i protagonisti del cambiamento. Lo motiva nell’ambito del Festival 2017 TheFabLab di Massimo Temporelli, che cura la robotica e le tecnologie, ma anche Maria Sebregondi, inventrice della Moleskine, la quale spiega come non solo la parola scritta non scomparirà ma sarà invece una grande tendenza del futuro, per via del piacere manuale e artigianale del fare. Le due cose non si contrappongono. Venti anni fa si diceva che questa sarebbe stata la società dell’immagine: nulla di più sbagliato, nel senso che c’è l’immagine, c’è la parola che diventa immagine, c’è l’immagine che diventa parola. Siamo nel centro di una metamorfosi, straordinario concetto elaborato da Ulrich Beck nel libro postumo «La metamorfosi del mondo», in cui la distingue dal cambiamento in quanto quella non può essere decisa da noi, il cambiamento sì. Non si sceglie di diventare farfalla. Dobbiamo riprendere il controllo del cambiamento anche osservando i nostri figli.

D. Cosa si osserva sui giovani? 
R. Per i ricercatori sociali che lavorano sui grandi cambiamenti i ragazzi sono già farfalle ma non sanno dove volare e noi siamo bruchi che sperano di correre più forte, mentre i giovani stanno volando. C’è un gap antropologico ed è la tecnologia a fare la differenza. In questa fase di metamorfosi torna ad essere importante la diversità, e quando c’è diversità c’è vita: l’omologazione è morte. Pertanto anche alle aziende non forniamo più un taglio solo descrittivo delle tendenze di mercato e dei consumatori ma – con il passaggio ai «ConsumAutori» – proponiamo un capovolgimento per cui le aziende non devono più pensare al consumatore bensì lavorare sui valori, divenire campi gravitazionali, essere attrattori in modo trasversale rispetto alla tradizionale modalità del marketing, la quale fornisce un prodotto a ogni tipo di mercato laddove la segmentazione impone di arrivare all’unicum di ciascuno. Quando i grandi imprenditori come Olivetti hanno iniziato ad aprire le loro aziende non pensavano al consumatore ma a trasferire i propri valori attraverso un rapporto territoriale e familiare. Se pensiamo al cambio generazionale questo è stato anche un limite: venti anni fa in termini di marketing non avremmo parlato di grandi valori ma di colore e foggia dei vestiti, mentre ora parliamo di sostenibilità, di condivisione, di unicità nell’universale.

D. Il genius loci come si colloca in questo mutato contesto universale?
R. Nel manifesto della crescita abbiamo aggregato dei temi su cui c’è una condivisione quasi assoluta; uno di questi è l’incrocio delle sapienze locali. Il genius loci va trasferito nei linguaggi, e con le tecnologie odierne va amplificato; così si traduce e viene reso accessibile a chi non lo comprende. Questo è il lavoro di traduzione che cerchiamo di fare nelle aziende, ed ora anche nella pubblica amministrazione: mettere insieme le diversità non nel senso della tolleranza ma come «impollinazione felice» del colibrì, come recita il titolo di un mio libro: prima i colibrì erano solo gli artisti, i borderline, coloro che per definizione non si sentivano appartenenti ad una cultura, volavano e impollinavano; oggi lo è anche il consumatore. C’è una grande generatività che però ha difficoltà a riadattarsi a una logica identitaria, perché l’identità non è che un sistema di relazioni che trova in modo progressivo una Gestalt mutevole. Posso testimoniare che oggi la differenza tornano a farla le persone. Abbiamo lavorato per anni con le multinazionali, fino a un momento completamente impermeabili a questi ragionamenti e attente a cercare il profitto in modo scalabile; ora consapevoli. Vincerà chi è in grado di comprendere l’impollinazione e non chi cerca di scalare i problemi moltiplicando in modo standardizzato il poco valore che ha.

D. Che significa «deponenza»? 
R. Lo mutuo da Mauro Magatti e dal suo «Salto di paradigma»: deponenza è il punto di sfogo che evita l’arroganza del potere, oggi disfunzionale. Un’azienda non può controllare in modo verticale neanche i propri processi; nel contempo necessita di «serendipity», fare di necessità virtù. Non è un rapporto diretto attivo o passivo, è la capacità di intercettare ciò che avviene e portarlo sul territorio di pertinenza; come nel calcio, squadre che non hanno un proprio gioco ma capiscono quello altrui. Qui si tratta di avere un metodo. Il «ConsumAutore» non dice «voglio così e così deve essere», ma ha in testa un progetto di vita che modifica man mano che gli arrivano gli stimoli, e di essi sceglie quelli che sono in sintonia con il proprio sentire. Deponenza, insomma, è quella delle arti marziali, che usano la forza dell’altro indirizzandola contro di lui, anche se più forte.

D. Poiché stiamo parlando di crescita, e abbiamo bisogno di un attaccamento sicuro di bowlbiana memoria, cos’è oggi che ci fa crescere? Qual è il «caregiver» della nostra società? 
R. Ci fa crescere il sistema di relazioni che riusciamo a riconoscere intorno a noi, in Italia quasi sempre straordinario a partire dai luoghi che noi attraversiamo e dalle persone che quotidianamente incontriamo, anche il barista, un collega di lavoro, un passante in piazza. Da questo sistema di relazioni dobbiamo essere in grado nuovamente di attivare energie che siano progettuali, incontrando la diversità. La vera creatività è avere dei limiti e da essi poi ripartire con visioni nuove del futuro, rischiare sulla frontiera dell’inaspettato.

D. Se il «caregiver» è un sistema di riferimento, non possiamo rivolgerci sempre a chi non conosciamo. O sì?
R. Il sistema di relazioni prevede il «caregiver», prevede anche il genitore, prevede molto anche il nonno in questo momento e ancor più gli zii, perché lo zio si sceglie sulla base di chi ci corrisponde di più ed anche per quel sano distacco dal punto di vista affettivo e della frequentazione quotidiana che consente di individuare delle figure carismatiche nel senso dei maestri. L’importante è capire che tutto questo oggi diventa dinamico. Il sistema di relazioni è la nostra identità, la quale non è fatta di status, ed ha in questo momento la possibilità di essere elastica, ci lascia la responsabilità di scegliere. È anche vero che esistono gli incontri felici e fortunati, che sono normalmente quelli che ci cambiano la vita, da un professore ad un allenatore.

D. Un conto è il sociale, un conto è il «social». Escluderemmo il «social» come «caregiver» o potrebbe essere anche adesso, paradossalmente, una figura di attaccamento 2.0?
R. Noi siamo convinti che il social, così come il mondo digitale, possa essere l’amplificatore di tutto, ma non certamente la «foundation», ossia il punto di partenza, e devo dire che più sono giovani i ragazzi, più lo considerano in questi termini. Mentre il trentenne, cresciuto anche con queste nuove possibilità, ha un rapporto che, sia pure non passivo, è comunque di fascinazione, per i dodicenni che usano WhatsApp per mandarsi i compiti di scuola e studiare solo parzialmente, questi strumenti sono di amplificazione di relazioni che hanno già.

D. Purché non sfoci nel patologico.
R. Il rischio c’è sempre, e purtroppo il digitale amplifica anche le patologie.

D. Parlando di patologie senza andare nel clinico e delle nevrosi affettive che si sviluppano con l’uso dei nuovi media (ma non più tanto nuovi), come vede le relazioni che si generano proprio dal virtuale, la famosa «spunta blu» come nuova formula di stalking, in un mondo dove tutto è ossessivo? Ci si ossessiona e si ossessiona attraverso i social: ciò è risolvibile all’esterno o all’interno dello stesso sistema?
R. Ciò è vero, ma è assolutamente minoritario il fenomeno ossessivo. Per il 95 per cento osserviamo ancora una volta la capacità di dare al social quello che è del social, nel senso di rafforzare legami assolutamente reali che già si hanno. Non c’è più una «second life». Cadono in questa dimensione i deboli, con difficoltà di relazione, coloro che erano soli quando non c’erano i social e che molto spesso ne divengono oggetto. Lì credo che la risposta debba essere clinica, e che si debbano distinguere le patologie violente, che vanno curate, da tutto il resto che invece ha possibilità di essere ricondotto alla dimensione del reale, meglio ancora dell’onlife. La realtà è ormai tutto, è il modo in cui usiamo i social, è quanto di più fisico possa esistere e raccontabile anche online. I margini sono a grande rischio perché queste tecnologie radicalizzano il bene e il male e amplificano anche l’aggressività ma non dobbiamo cadere nell’errore di pensare che questo sia il mondo «social».

D. Non solo aggressività: c’è anche la passività nel guardare l’online, uno stato depressivo, quando non ossessivo, che non va nel clinico ma si dirige verso il clinico. Diciamo che se ci fosse una strada, il cartello sarebbe verde come quello autostradale, ed indicherebbe la direzione «clinico».
R. Vent’anni fa i ragazzini avevano crisi epilettiche perché giocavano troppo ai videogiochi. Il problema è che oggi si è talmente estesa questa possibilità che i soggetti più deboli cadono molto più frequentemente. Però tutto il resto si sta sviluppando in una direzione anche molto interessante perché dà ai ragazzi strumenti che prima non avevano per essere più creativi ed anche più in grado di avere un pensiero critico.

D. È la cosiddetta «experteen».
R. Esattamente: il diciottenne, più consapevole di noi ai nostri tempi, non ha più conflitto generazionale bensì una capacità individuale di relazionarsi con strumenti e conoscenze che prima non avevamo.

D. La metamorfosi beckiana come si coniuga con l’identità?
R. Siamo in piena metamorfosi e non ci accorgiamo di diventare farfalla, perché mentre il cambiamento può essere programmato, o immaginato con l’ideologia e la fantasia, la metamorfosi è una cosa che esiste a prescindere da noi, quindi dobbiamo affinare degli strumenti di autoriflessione. Beck parla di catastrofismo emancipativo: il cambiamento climatico, ormai evidente a tutti a parte qualche presidente americano, esiste e ci può portare, da essere umani, a cambiare noi stessi e certi comportamenti perché abbiamo paura. Questo parte da una metamorfosi che Beck dice essere in realtà il frutto di fenomeni collaterali, cose che non abbiamo immaginato o progettato ma che ci troviamo a dover affrontare perché qualcosa è andato storto.

D. Purché non sia una metamorfosi kafkiana: più che dal bruco alla farfalla dall’individuo allo scarafaggio.
R. Speriamo di no. Il rischio esiste ma dobbiamo dire che alla fine ce l’abbiamo sempre fatta, e so che, soprattutto con l’aiuto dei giovani, riusciremo ancora a farcela prendendoci più tempo per riflettere su di noi. Il saggista Thomas L. Friedman, in «Grazie per essere arrivato tardi», parla della diversità tra noi e la macchina così: quando si mette in pausa una macchina la macchina si ferma; quando si mette in pausa il cervello, il cervello comincia a riflettere. (ROMINA CIUFFA)

GALLERY FESTIVAL DELLA CRESCITA 2017, MILANO

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CASO WEINSTEIN: DALLA CONSIDERAZIONE DELLA DONNA ALLA «consiDESIDERIzzazione»

Parlo da uomo a uomo e non mi nascondo: sono più maschilista che femminista. Oltre a ciò, sono sempre stata dichiaratamente darwiniana, e con ciò intendo sollecitare riflessioni sulla natura umana: animale. Dotato di maggiore intelletto l’essere umano (forse), pur sempre un predatore il maschio. Ma, poiché tutta la vicenda Harvey Weinstein (rinvio ai giornali in cerca di click per comprendere la polemica scatenata dall’attrice Asia Argento) ha sollevato un polverone contro il sesso maschile, mi permetto di concentrarmi sull’altro punto di vista non molto considerato, quello dell’uomo, a partire da un tweet dell’attore Alec Baldwin in risposta alla stessa Argento (dopo, si sono reciprocamente bloccati su Twitter, rendon noto i media più educativi): «I casi sono due: se dipingi tutti gli uomini con lo stesso colore, o finisci il colore o finisci gli uomini».

Anzi, parto da un attimo prima, il momento in cui io stessa dico: quanto piace alle donne essere oggetto di considerazione? La definirei, coniando, una «considesiderizzazione», invero. Da che mondo è mondo, la donna fino ad una certa età ha un fare scocciato in reazione alle «molestie» subite da passanti che le sussurrano (o gridano) commenti eleganti o impropri sulle sue bellezze; dopo quella certa età, i commenti tendono a diminuire (in proporzione seni e labbra tendono ad aumentare a suon di chirurgia, per ristabilire l’equilibrio dalla natura violato). Non mi sono mai sentita infastidita da tali complimenti, in qualunque modo mi fossero espressi, tutt’altro: li ho sempre ritenuti – commenti e tentativi più sfrontati – sintomo di un’umanità che, fortunatamente, resta stabile nel suo divenire riproduttivo, istintivo. La considero non una questione «maschile», bensì educativa, scolastica, didattica, formativa, culturale. Avrei dovuto, dovrei, denunciarli tutti?

Parrebbe di sì, ora che so che la modella italo-filippina Ambra Battilana Gutierrez (anche testimone antiberlusconiana nel Ruby bis) ha guadagnato un milione di dollari a seguito di un accordo firmato con Weinstein, sebbene con esitazione e la motivazione che «con quei soldi avrei potuto aiutare mia madre e dare un futuro a mio fratello». Dichiarare questo le fa onore? «Armiamoci e partite». Resto cieca senza capire perché, se tanto molestata ed affranta, non abbia sporto denuncia, piuttosto abbia compensato l’amor proprio con una somma di denaro, quantificandosi. E cieca sono nei confronti di Asia Argento, che parla di maiali nonostante il padre abbia firmato il film «Phenomena» (non dovrebbe impressionarsi più di tanto) ma oggi si sveglia patrocinante di una class action con un mandato tacito firmato da tutte le donne del mondo che «hanno subito molestie» senza dichiararle nella sede ad uopo adibita.

Quando è accaduto a me, un no secco, anche educato, ai «big», ha fermato il mio conto in banca a un livello meritocratico. Avevo già la garanzia di un bestseller, cui mi opposi declinando l’offerta sinallagmatica del mio proponente di turno. Il quale non mi offese, né mi offende, tutt’altro: mi spinse a dimostrare quanto valessi a prescindere da quanto piacessi, e sulla mia autostima ciò ha avuto un effetto dirompente, quello di sentirmi più bella, in quanto desiderata, ma principalmente quello di scrivere meglio oggettivamente. Migliorarmi per migliorare l’intero sistema. Fare.

Per me una ballerina usa la testa prima dei piedi, un’attrice la capacità prima della recitazione. La verità è che le donne vogliono essere corteggiate, provocare, avere posizioni di prestigio «a costo di» sedurre. Per chiunque mastichi il Codice penale, la locuzione «a costo di» è sinonimo di una declinazione dell’elemento soggettivo del reato: il dolo eventuale. Meglio detto: l’agente (in questo caso la seduttrice) non vorrebbe commettere l’azione, ma al fine di ottenere lo scopo primario accetta anche le conseguenze eventuali di una condotta (in questo caso, la seduzione). L’esempio da manuale è la corsa in automobile su una strada trafficata: non c’è dolo diretto di uccidere ma è molto probabile che, in certe circostanze, possa provocarsi un incidente. È escluso qui il dolo volontario, in quanto l’agente non «vuole» in cuor suo che esso accada, ma non si è nemmeno nell’ambito della colpa; tanto che il penalista parla di «colpa cosciente» per indicare il caso sottostante in cui colui che agisce si rappresenta e prevede il risultato offensivo e, tuttavia, erroneamente ritiene con certezza che detto risultato non si verificherà nonostante la condotta. Siamo ad un passo dalla responsabilità oggettiva che la nostra Costituzione nel suo art. 27 esclude, affermando senza giri di parole che la responsabilità penale è personale; e che il delitto preterintenzionale (oltre l’intenzione) fa rientrare dalla finestra del Codice penale.

Ritengo che, in molti degli improvvisi casi segnalati dalle «attricette» e dalle altre professioniste (alcune delle quali presenti ad Arcore o in altri luoghi simili in cui si pratica bunga-bunga), la vittima possa assumere un ruolo attivo, e oscilli tra colpa cosciente e dolo eventuale. Gli artt. 609bis e seguenti del nostro Codice penale proteggono la libertà sessuale e il diritto di esplicare liberamente le proprie inclinazioni personali, impedendo altresì che il corpo possa essere senza consenso utilizzato da altri ai fini di soddisfacimento erotico. Le violenze vanno distinte dalle molestie dell’art. 660, che richiedono una petulanza (ed escludono il reato continuato per definizione) od altro biasimevole motivo negli atti di disturbo (spesso integrati nel mobbing). È qui impossibile non chiamare in causa la famosa «sentenza dei jeans», la quale però ha tutt’altro «sex-appeal». Infatti, in essa si parlava di stupro decontestualizzato, disfunzionale.

Asia Argento e Harvey Weinstein al Festival di Cannes (2004)

Ciò di cui parla Asia Argento (con le dichiarazioni sulle molestie subite dal produttore 20 anni fa) è (nel codice italiano almeno, e cercando di valutare la situazione in termini generali dal punto di vista del nostro ordinamento) l’abuso di autorità, che la legge n. 66 del 15 febbraio 1996 inserisce accanto alla violenza e alla minaccia a scopo sessuale. Fossi il giudice, chiederei all’accusa di definire il concetto di autorità: è tale quella di colui che sceglie chi parteciperà o meno alla produzione di un film multimilionario? Non entro nel merito del caso Weinstein, non ero presente quelle centinaia di volte che il grande seduttore ha violentato le sue inconsapevoli e sorprese vittime durante un provino, un colloquio, una cena; né lo ero negli altri innumerevoli casi di star oggi accusate dello stesso crimine (e non faccio a meno di tener presente il film «Rivelazioni», in cui le molestie sono commesse, in mobbing, da una donna – l’attrice Demi Moore – ai danni di un suo dipendente di sesso maschile – l’attore Michael Douglas -).

“Rivelazioni”, con Demi Moore e Michael Douglas

Distinguo tra stupri, molestie, violenze e abusi generici, da una parte, e sistemi che si sono sempre nutriti di tale consuetudine, dall’altra. I primi sono coperti a tutti gli effetti dalla fattispecie penale; i secondi entro certi limiti. E invito a esporre denuncia, strumento funzionale al perseguimento del criminale, non dei propri scopi, il quale va utilizzato in giudizio, non a mezzo stampa. In quest’ultimo caso, come dalla fattispecie di abuso sono stati tratti vantaggi dalla vittima, così similmente dall’impiego dei media: l’ottenimento di una copertina, di un titolo, di una presenza nel talk show, magari una parte in un film. Sicuramente un posto di rilievo dal parrucchiere.

L’uomo è predatore, ma – se è l’uguaglianza di genere che sosteniamo – la donna non è preda. Usa le armi della seduzione e, ove non lo faccia, non è vittima inerme di un sistema patriarcale. Non più. Ha posti di rilievo in politica, in azienda, nel cinema, ovunque voglia; sa tenere testa a un uomo. Quando, per forza fisica, non vi riesca, è stupro. Quando, per forza intellettuale, non vi riesca, è stupida. O fin troppo intelligente. Ed ora basta chiacchierare: tutte a lavorare. (ROMINA CIUFFA)

 




SOLETERRE (DAMIANO RIZZI): PSICO-ONCOLOGIA, IL CANCRO NON DEVE ESSERE UNA «TERRA SOLA»

Il cancro è una malattia a base somatica, che colpisce il corpo. Ma non risparmia la mente: l’abbattimento psicologico che si verifica a causa delle difficili cure e dell’aspettativa di vita, spesso declinata in negativo, ha una componente molto forte sulle possibilità di guarigione, a partire dall’influenza sullo stile di vita cui il paziente oncologico aderisce. La famiglia è coinvolta integralmente nel processo psicologico. La Sipo, Società italiana di psico-oncologia, ne prende atto sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1985: sorta come associazione integrante le figure professionali (psicologi, oncologi, psichiatri e altri operatori sanitari) che lavorano nell’ambito dell’oncologia e dell’assistenza alle persone malate di cancro e alle loro famiglie, promuove la conoscenza, il progresso e la diffusione della psico-oncologia in campo clinico, formativo, sociale e di ricerca.

Iniziativa di rilievo l’indizione di una giornata nazionale di psico-oncologia, quest’anno (22 settembre) alla sua seconda edizione. Vi ha partecipato la Fondazione Soleterre-Strategie di pace onlus, organizzazione umanitaria che opera per garantire i diritti inviolabili degli individui nelle «terre sole», con progetti e attività a favore di soggetti vulnerabili in ambito sanitario, psico-sociale, educativo e del lavoro, per l’affermazione di una cultura di solidarietà. Oltre che in Italia (a Pavia), è attiva in Ucraina, Costa d’Avorio, Marocco, El Salvador, Congo e Uganda, dove adotta metodologie di partenariato e di co-sviluppo per promuovere la partecipazione dei beneficiari degli interventi nei Paesi di origine e in terra di migrazione, e garantire la loro efficacia e sostenibilità nel tempo.

È presieduta da Damiano Rizzi che, dopo aver collaborato con organizzazioni umanitarie internazionali, nel 2001 ha, con altre 5 persone, creato Soleterre. Ha così lavorato e coordinato progetti di sviluppo umano in Bosnia Erzegovina, Kosovo, Costa d’Avorio, Albania, Romania, Marocco, Moldavia, Ucraina e Italia. Per le iniziative a favore di bambini poveri e malati di cancro in Ucraina ha ottenuto la targa d’argento della Presidenza della Repubblica italiana.

Domanda. La seconda giornata nazionale della psico-oncologia: chi coinvolge?
Risposta. Coinvolge a livello nazionale, regionale e provinciale diversi professionisti e associazioni che garantiscono ai pazienti malati di tumore e ai loro familiari sostegno e supporto psicologico e sociale, con una visione che considera le dimensioni complesse della malattia oncologica.

D. Quali sono i suoi obiettivi?
R. L’intenzione è quella di offrire un’assistenza attenta a una migliore qualità di vita durante tutto il percorso di malattia. Una caratteristica fondamentale del modello dell’oncologia pediatrica, sviluppato in Italia all’interno dei centri Aieop, Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica, è proprio quella della gestione multidisciplinare della cura. In particolare, l’avere indetto una giornata su questo tema significa impegnarsi a diffondere e sostenere ruolo e funzioni nella psico-oncologia fra i cittadini, per diffondere un approccio integrato alla conoscenza e alla cura delle malattie neoplastiche.

D. In che modo Soleterre ha partecipato al progetto?
R. Soleterre è impegnata fin dalla sua nascita, nel 2002, in progetti e interventi in difesa del diritto alla salute intesa, come indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità fin dal 1948, come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattia o infermità». Dal 2010 ha attivato il Piop, Programma internazionale per l’oncologia pediatrica, per garantire accesso alle cure in Paesi a basso e medio reddito e cure di qualità in Italia. La Fondazione aderisce alle principali società scientifiche internazionali che si occupano di oncologia, quali la Uicc, Union for international cancer control, o la Cci, Childhood cancer international. In occasione della seconda giornata nazionale della psico-oncologia, Soleterre è intervenuta a Brescia al convegno «I bisogni psico-sociali del malato e del caregiver. Esperienze sul campo in Lombardia», presentando i dati di una ricerca realizzata sui principali bisogni dei bambini malati e dei loro genitori, condotta in Costa d’Avorio, India, Marocco e Ucraina comparandoli con i dati italiani. Abbiamo anche presentato la Carta dei servizi di psico-oncologia realizzata presso l’oncologia pediatrica dell’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico San Matteo di Pavia.

D. Quali sono i bisogni psicosociali del malato e del caregiver?
R. I dati sono stati raccolti nel corso del 2013 da una ricerca finalizzata alla creazione di un confronto internazionale di bisogni e necessità dichiarate da medici, psicologi e familiari di pazienti affetti da tumore infantile. In linea con gli studi in letteratura focalizzati sulla costruzione di rappresentazioni mentali di malattia (RM) e con la teoria dell’autoregolazione di Leventhal, il principale bisogno psicologico espresso attiene alla sfera delle conoscenze e delle aspettative circa la malattia. Dalla nostra indagine risulta che per definire il percorso di senso occorre avere maggiori informazioni utili alla possibilità di rielaborazione personale, oltre ad un atteggiamento empatico dei medici e del personale. Tale tipo di bisogno espresso, in termini più generali, atterrebbe alla sfera della psico-educazione nella sua componente cognitiva, e dell’educazione socio-affettiva nella sua componente emotiva, che se considerate correttamente possono migliorare la capacità di contenimento emotivo dei genitori e dei bambini migliorando anche la compliance terapeutica, ossia la componente comportamentale. Per quanto attiene alla sfera sociale, dalla ricerca emerge che i principali bisogni espressi riguardano le complesse condizioni del contesto socio-economico e della difficoltà di accesso ai sistemi sanitari e alle cure, «difficoltà finanziarie e costi troppo elevati» in Costa d’Avorio, «un luogo migliore in cui ricevere cure» in India, «costo degli esami e delle medicine troppo elevato» in Marocco e «cure troppo care e trasfusioni a pagamento» in Ucraina.

D. Come nasce e in cosa consiste, esattamente, la Carta dei servizi di psico-oncologia della Provincia di Pavia?
R. Nasce dal bisogno di pubblicizzare i tanti servizi attivi nel territorio pavese, dentro e fuori gli ospedali, allo scopo di far sapere all’utente che esistono e che sono a sua disposizione. Lo scopo è diffondere tali materiali in collaborazione con ospedali e università al fine di fare incontrare la domanda di servizi e la sua offerta.

D. Siete operativi, come Soleterre e Sipo, solo in Lombardia, o anche nel resto del territorio?
R. Soleterre è attiva in campo oncologico pediatrico in Italia a Pavia e nel mondo in Costa d’Avorio, Marocco, Ucraina e Uganda. La Sipo è attiva in tutta Italia e a livello internazionale attraverso l’Ipos, ossia International psycho-oncology society.

D. Quali sono le vostre iniziative specifiche? Che impatto hanno?
R. Le nostre iniziative specifiche di supporto psicologico riguardano 10 ospedali, 29 associazioni e 18 enti pubblici in 5 Paesi di 2 continenti. Aiutiamo 1395 nuclei familiari che oltre al sostegno psicologico ricevono anche aiuti in termini economici per accedere a diagnosi, medicinali, materiale sanitario ecc. attraverso un fondo d’emergenza creato per fornire aiuto economico diretto alle famiglie meno abbienti. Il sostegno psicologico riguarda anche 347 tra medici e medici specialistici, infermieri e altre figure socio-sanitarie per cui è a disposizione il servizio e che ricevono formazione continua sul tema dell’oncologia pediatrica. Inoltre, la Fondazione Soleterre in ogni casa-famiglia ha attivato un servizio di psico-oncologia. Le case-famiglia in Ucraina, Costa d’Avorio e Uganda hanno accolto 293 famiglie garantendo vitto e alloggio, supporto psicologico e attività ricreative.

D. Qual è l’attuale stato delle ricerca oncologica prima, e psico-oncologica poi, in Italia e nel mondo? E quale lo stato delle strutture ospedaliere e cliniche private nel nostro Paese, anche in confronto con la situazione globale?
R. In Italia e nel mondo occidentale la ricerca oncologica è sempre in evoluzione. Grazie all’immunoterapia, alle terapie target, a chemioterapia, chirurgia e radioterapia, i pazienti oncologici vivono più a lungo. In Italia il vero problema resta quello del finanziamento pubblico alla ricerca, che è presente in una logica «emergenziale». Per fortuna esistono tante organizzazioni private che la finanziano. Le condizioni degli ospedali sono molto eterogenee tra loro con una difficoltà evidente in alcune aree del sud del Paese. Nei Paesi a basso e medio reddito, oltre a non fare ricerca, spesso non si ha accesso nemmeno a quella del mondo occidentale. Le condizioni degli ospedali pubblici sono troppo spesso insufficienti nei servizi di base, dalla diagnostica ai protocolli di cura.

D. In che modo la psicologia può aiutare il paziente oncologico e le sue famiglie?
R. Le evidenze scientifiche indicano che gli interventi psico-oncologici comportano una significativa riduzione del dolore, dell’ansia e della depressione, un miglioramento della qualità di vita e un’azione positiva su diversi parametri biologici indicatori di stress, quali il cortisolo. Il supporto psico-oncologico è considerato «l’altra metà della cura» e influisce positivamente sui risultati delle terapie.

D. Siete attivi anche nella psico-oncologia pediatrica: come?
R. Lo siamo quasi esclusivamente in ambito di oncologia pediatrica attraverso attività di educazione alla salute, diagnosi precoce, accoglienza, cure mediche, sostegno psico-socio-educativo, networking, sensibilizzazione e advocacy.

D. Il cancro è una «terra sola»?
R. Il cancro è una malattia che va curata e per fortuna i bambini, se ben curati, possono avere alti tassi di sopravvivenza. Purtroppo in molte aree della terra i bambini malati di tumore non vengono curati, e allora il cancro diviene una «terra sola».

D. Fondazione Soleterre: come nasce, cos’è, di cosa si occupa, com’è strutturata, come si regge, in che modo è supportata: una descrizione generale della Fondazione.
R. Soleterre è una fondazione partecipata nata circa 15 anni fa con l’intenzione di affermare per tutti gli individui il diritto ad essere curati. Lo abbiamo sempre fatto con tutte le nostre forze grazie all’aiuto di tanti donatori italiani e non solo. Soleterre è anche una concreta possibilità di cambiare davvero con tenacia e pazienza le cose che non vanno, poco a poco ma con tanta speranza e fiducia. Siamo circa 100 professionisti con competenze in diversi ambiti – medicina, psicologia, gestione e sviluppo dei progetti umanitari, comunicazione, raccolta fondi – che credono nel dovere di applicare veramente i diritti umani scritti nelle diverse costituzioni e leggi.

D. Lei di cosa si occupa?
R. Mi occupo, come psicologo, della supervisione nell’ambito del supporto psicologico e sociale del Programma internazionale per l’oncologia pediatrica. Ho personalmente contribuito ad avviare i progetti nelle aree di intervento e, come presidente della Fondazione Soleterre, curo i rapporti istituzionali e una parte della raccolta fondi. Cerco ogni giorno di dare speranza e futuro per poterne regalare una parte consistente alle altre persone. Sono sposato e ho due figli a cui vorrei dire un giorno di avere fatto al meglio la mia parte per migliorare le cose che non vanno. (ROMINA CIUFFA)

 

 




TRAUMA SENTIMENTALE: GIORGIO NARDONE LO SPIEGA BREVEMENTE E STRATEGICAMENTE

Trauma sentimentale: oggetto dei nostri giorni, del nostro divenire. Sempre più incerto, traghettato da uno spazio temporale in cui l’uomo era al centro della relazione ad uno in cui è la relazione ad essere al centro dell’uomo. Anche oggetto di un workshop tenuto dal fondatore del CTS, Centro di terapia strategica di Arezzo, Giorgio Nardone che, legatosi come psicologo e ricercatore alla Scuola americana di Palo Alto, è divenuto l’erede di un grande Paul Watzlawick, filosofo e psicologo, unico autore tradotto in ottanta edizioni differenti, avente la capacità di sintetizzare il lavoro di eminenti studiosi – da Gregory Bateson a Donald deAvila Jackson e Milton Erickson – in un unico e rigoroso modello teorico e applicativo. Finanche il padre del costruttivismo Heinz Von Förster amava dichiarare di essere lui stesso una invenzione di Watzlawick. È con quest’ultimo che nel 1987 Nardone fonda il suo centro aretino, dove applica il modello della terapia breve-strategica, particolarmente adatto alla risoluzione dei traumi, incluso quello sentimentale, per il suo approccio netto e veloce.

Nell’ambito del IV Congresso di psicologia della Società italiana di psicologia e psicoterapia relazionale (SIPPR) presieduta dal professor Camillo Loriedo, dal titolo «Psicologia in evoluzione. Progetti e soluzioni della psicoterapia per il futuro», tenutosi a Roma negli ultimi quattro giorni di settembre, anche d’amore s’è trattato. Con Nardone, sono intervenuti sul tema gli psicologi Piero Petrini, Luisa Martini e Giovanna De Maio. «Un ruolo ingrato, in quanto esponente maschile–afferma Nardone–quello di aprire il dibattito: e non è un caso, perché quando si parla di traumi sentimentali chiedono aiuto al 90 per cento le donne». Nel mondo egizio, tra i modelli più avanzati di società, spiega il fondatore del CTS, un editto prescriveva: se cogli una donna in flagranza di adulterio punisci il marito. «Erano già molto saggi. Possiamo anche rovesciare le cose. Smettiamola con la prosopopea del vittimismo. Il tradimento, da un punto di vista interazionale, non è mai un atto singolo, individuale, ma sempre di interazione».

Specifica che negli ultimi anni alcuni Paesi si stanno orientando verso una legislazione nuova: i matrimoni a termine, una profezia triennale che si autoavvera solo in quanto formulata. Il disturbo da iperattività sessuale, ora bandito dal DSM (il Manuale diagnostico dei disturbi elaborato dalla Società di psichiatria americana) definiva malato l’uomo che avesse più di due rapporti sessuali a settimana. Negli ultimi due decenni, per Nardone la ricerca scientifica ha subito la corruzione della misura quantitativa: calcoli da laboratori, non sul campo, e statistiche portano a deformazioni. Come dire che tutti al mondo mangiamo un pollo a testa a giorno, ma c’è chi ne mangia dieci e chi nessuno, e il problema dell’hypersex era emerso da una valutazione a livello mondiale della quantità media dei rapporti sessuali di una coppia dai 25 ai 50 anni, che dava un risultato di un rapporto e mezzo al mese. È la statistica.

«Grazie a questo–analizza Nardone–si era arrivati a ritenere rigorosamente scientifico, perché quantitativamente misurato, un disturbo completamente inventato da una deformazione di scientismo, di riduzionismo, non di scienza. Purtroppo di esempi come questo possono farsene anche riguardo psicopatologie molto più importanti e anche su ricerche che si danno il tono di scientificità, in questo ed altri campi». Cominciamo ad utilizzare il dialogo strategico con noi stessi, suggerisce il padre della breve-strategica. «Portiamo le persone di fronte alla condizione estrema del trauma sentimentale vissuto dal vivo, ossia la flagranza del tradimento, un’immagine che rimane con la densità di un disturbo post traumatico».

A proposito di tradimento Luisa Martini, psicoterapeuta e didatta dell’IIPR, l’Istituto italiano di psicoterapia relazionale, fa riferimento al romanzo «I giorni dell’abbandono» di Elena Ferrante, dove, tra i due partner sottoposti ad uno stress da tradimento, a morire è il cane Argo: la fedeltà. È il fedele che soccombe. In ogni fedeltà che non conosce il tradimento, e neppure ne ipotizza l’esistenza, c’è troppa infanzia, troppa ingenuità, per riprendere Umberto Galimberti. «Nelle relazioni con un altro significativo–spiega la Martini– è necessario mettere in conto il tradimento delle aspettative fantasmatiche di entrambi i partner, di ciò che ciascuno di essi si attende dall’altro ma, non di inferiore rilevanza, da se stesso in relazione con l’altro: ciò fa parte delle nostre possibilità di crescere nella conoscenza di noi stessi e di chi è con noi. La fiducia infantile rischia di divenire una prigione. Accade che il mondo del tradito perde tutti i suoi significati e che entrambi i partner devono riorientarsi. Il tradito vuole sapere tutto, il traditore si sottopone all’interrogatorio».

James Hillman arriva a postulare una verità fondamentale relativa al tradimento: non si danno amore e fiducia senza possibilità di tradimento. Hillmann parla, nei suoi lavori, delle reazioni disfunzionali al tradimento: vendetta, negazione dell’altro, cinismo («tutti gli uomini sono inaffidabili»), negazione di sé («non mi esporrò mai più»), scelte paranoiche (la persecuzione, ad esempio, valida soprattutto ai tempi del web e dei social network).

Nardone, in modo «breve-strategico», pone una domanda chiave: dopo un trauma sentimentale, non solo tradimento, cosa fare? Lasciare il partner o rimanere? Come si arriva a capire quale sarà la scelta migliore? «Ho affrontato questo argomento in un mio libro sul trauma nelle decisioni. Si arriva alla soluzione solo dialogando con se stessi, ma non con la parte razionale: con quella viscerale. Bisogna mettersi sul ciglio del precipizio e verificare quali sono i brividi, per citare la ballerina Sylvie Guillem». Essa sostiene che mantenersi sul precipizio sia l’unico modo per un artista di restare vivo.

La domanda fondamentale da farsi, per Nardone, non è «mi ama ancora?», perché questo è delegare mentre bisogna, invece, fare i conti solo con se stessi. Nemmeno domandandosi «amo ancora?», bensì «posso farne a meno?». L’interrogativo corretto apre scenari il più delle volte non contemplati, perché «quando si comincia ad immaginare in se stessi la vita senza quel partner, quindi a sperimentarla, ci si accorge di qualcosa che prima non si riusciva a vedere. Trovata la risposta, si ha già la strada da percorrere. Nel dialogo strategico–spiega–sono le domande che fanno le risposte. Il problema si pone se la risposta è: non si può fare a meno di quella persona. Ma in tal caso, è necessario evitare di fare la figura della vittima o del vendicatore: se non si può farne a meno, la risposta è chiara e si agisce di conseguenza, senza tornare indietro».

Parlare di traumi sentimentali è qualcosa di viscerale, è parlare del poter fare a meno di qualcuno o no. Da cui il percorso successivo. «Abbiamo bisogno di riduttori di complessità, ossia di stratagemmi che ci consentano di risolvere la complessità attraverso soluzioni semplici. È l’uovo di Colombo, sia pure sofferto: una sofferenza che non è attraversata si trasforma in una lenta agonia, la quale è ben peggiore. Il mio amico Emil Cioran diceva: il coraggio che manca ai più è il coraggio di soffrire per cessare di soffrire».

Se per Pietro Petrini il trauma sentimentale porta ad una dissociazione in grado di primitivizzare l’uomo, Giovanna De Maio spiega cosa evitare e come riprendersi da un trauma sentimentale: «Un abbandono è così devastante da essere paragonato a un vero e proprio lutto: si è sconfortati, inermi, si tratta di una perdita. Per Cesare Pavese un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra miseria, nullità, inermia, e così sintetizza la condizione di fine avvertita quando si entra in contatto con la parte più vulnerabile di se stessi».

Il terapeuta potrà accompagnare la persona che ha subito la perdita attraverso le cinque fasi di elaborazione del lutto descritte da Elisabeth Kübler-Ross: rifiuto («non può essere successo»), patteggiamento («torniamo insieme», «faccio tutto quello che non ho mai fatto prima», «prometto»), rabbia («mi ha ingannato»), depressione («ho sbagliato tutto», «non c’è futuro»), infine accettazione. Cercare di non pensare è già pensare, il tentativo vano di distrarsi non fa altro che allungare il tunnel dei sintomi; l’abbandonarsi è sicuramente la cosa più importante da fare, non come consigliano i familiari, gli amici, il cui dire non fa altro che intensificare il senso di inadeguatezza. Il terapeuta deve sintonizzarsi con il dolore e la sofferenza dell’altro, evidenziando come non ci sia nulla di patologico o sbagliato nel continuare a soffrire. Il dolore delle perdite sentimentali non sparisce: esso decanta. Per agevolare il processo bisogna immergersi come una bustina di tè nell’acqua bollente.

Per questi psicologi dunque, del trauma sentimentale non bisogna vergognarsi. Tutt’altro: esso va ascoltato, e attentamente. (ROMINA CIUFFA)

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GIOVANNA PINI: ECCO IL CENTRO NAZIONALE CONTRO IL BULLISMO «BULLI STOP» (con intervento dello studente LUCA MURATORI)

In un mondo che cambia di continuo una cosa non è mai cambiata: il bullismo. Se non nell’ampliarsi e definirsi anche come «cyberbullismo». Ciò che si muove, oggi, però è l’informazione: possiamo fare finalmente qualcosa. Prima ciò non era possibile, non era concesso. Da una parte, in questa nuova società i genitori difendono i propri figli e non danno spazio ad altri modelli educativi; dall’altra, è opportuno modificare lo stesso approccio ai giovani, perché diventino parte di un processo di trasformazione che li faccia emergere e li renda consapevoli. A Roma nasce, a tale intento, il Centro nazionale contro il bullismo «Bulli Stop», presieduto da Giovanna Pini, che coinvolge i ragazzi nelle attività di più variegato genere, a partire da spot sociali e attività teatrali. Al Teatro Olimpico di Roma, il 27 maggio si esibiscono 250 ragazzi in «C’era una volta un bullo…». Fare per capire. Capire per cambiare. Ecco come.

Domanda. Il 27 maggio il Teatro Olimpico di Roma ospiterà il vostro spettacolo. Da cosa nasce il progetto?
Risposta. Lo spettacolo coincide con la nostra terza giornata nazionale «Giovani uniti contro il bullismo». A febbraio si è in realtà tenuta una giornata nazionale contro il bullismo, ma noi siamo stati i primi a farla, tre anni fa, con il Centro nazionale contro il bullismo «Bulli Stop» dove, per contrastare tale fenomeno, utilizziamo la teoria del «teatro d’animazione pedagogico». Per l’occasione portiamo in scena 250 ragazzi che hanno realizzato interamente lo spettacolo, dalle scenografie ai costumi, alla drammaturgia, alla recitazione: dalla forte aggregazione che hanno stabilito automaticamente il bullismo viene sconfitto. È, infatti, proprio con l’aggregazione che i ragazzi possono conoscersi, e rispettarsi. Il bullo, dotato di aggressività, non nasce cattivo; molti danno la colpa alla famiglia e all’ambiente in cui vive. La scuola ha un grande compito: se tutti i professori, che normalmente vedono i ragazzi per molte ore al giorno, facessero qualcosa per sconfiggere il bullismo e conoscessero bene i loro studenti, potremmo mettere un seme sano in ognuno di loro, molti di loro lo fanno e sanno quanto sia importante guidare i giovani di oggi.

D. Cosa fa, nelle scuole, il Centro nazionale contro il bullismo «Bulli Stop»?
R. Sono le stesse scuole a chiamarci per tenere dei dibattiti sul tema. Non vado sola, ma accompagnata da Teresa Manes, madre di Andrea Spezzacatena, il ragazzo che si è impiccato per bullismo, e con me porto sempre una decina di ragazzi di Bulli Stop, che sposano questa causa, devono parlare fra di loro perché è fra di loro che riescono a comprendersi meglio. Chi è stato un bullo porta la propria realtà nella scuola, ed emotivamente cambia tutto se è egli stesso che dichiara di aver sbagliato, in quanto riesce a catturare i propri coetanei. Con i giovani non si possono fare dibattiti teorici, dobbiamo renderli partecipi in modo che possano essi stessi formare una catena tra di loro per sconfiggere il bullismo. Quello che a noi manca e su cui lavoriamo da tempo, con il legale del nostro Centro Avv. Eugenio Pini, è una legge sensata, non una legge a tavolino fatta da chi non sta sul campo con i ragazzi tutti i giorni. Anche se adesso venisse approvata la proposta di legge in discussione, che implicherà la nomina in ogni scuola di un referente per il bullismo, non viene definita tale figura: si tratta di esperti o di psicologici? Che percorso hanno fatto per contrastare il bullismo? Da chi vengono formati? Non si possono fare le solite «italianate»; occupandomi da oltre 15 anni di bullismo mi è capitato di parlare con tante madri o ricevere le loro mail in cui segnalano di avere sì denunciato il bullo, ma di aver scatenato una reazione peggiorativa in cui i compagni di classe hanno preso ancora più di mira la vittima. Alcuni presidi replicano che queste sono «ragazzate» ed alcuni professori negano, c’è troppa omertà.

D. Che caratteristiche ha il bullismo?
R. Tre caratteristiche fondamentali: la ripetitività dell’evento, l’intenzionalità e l’asimmetria di potere. Se si presentano insieme, si può dire che è un caso di bullismo, se ne manca una potrebbe essere solo un caso di violenza o di scherno: bisogna saper scindere bene queste tre caratteristiche, un episodio isolato non si può definire come un atto di bullismo.

D. Come è nato il Centro?
R. Su iniziativa dei ragazzi, tanti adolescenti messi insieme nei numerosi anni di lavoro nelle scuole, proprio per affermare che «noi siamo diversi»: dalla loro idea abbiamo creato «Bulli Stop». All’Istituto G.G. Visconti di Roma, venivo a fare le prime sperimentazioni sul bullismo, ci sono anche altri insegnanti sparsi per l’Italia con i quali abbiamo contatti e che sanno fare il proprio lavoro: bisogna unire le forze di quelli che lo sanno fare, non di quelli che creano associazioni in un mese e vogliono cavalcare l’onda del bullismo, ognuno vuole brillare di luce propria ma per distruggere il bullismo ciò non è utile.

D. Chi sono i componenti del vostro Centro?
R. Io ne sono il presidente, mentre presidente onorario è il generale Luciano Garofano, ne sono portavoce Amadeus e Paola Perego, come madrina abbiamo Maria Grazia Cucinotta, come ambasciatori Max Gazzè e Paolo Genovese, come testimonial Antonella Mosetti e come media partner ufficiale rtr99 con Luca Casciani. Sono tanti anni che questi personaggi ci seguono e danno maggiore eco alle nostre iniziative. Inoltre, i ragazzi che partecipano al progetto hanno bisogno di sapere che sono importanti e hanno bisogno di visibilità, e lo stesso spettacolo viene presentato ogni anno da Amadeus. Ma se dal mondo adulto c’è questa disponibilità, è dai ragazzi che parte il tutto.

D. La vittima sta in silenzio però.
R. La vittima è silente, raramente parla, deve essere spronata a farlo e per questo dovrebbero essere previsti negli orari settimanali di tutte le scuole dei momenti di incontro in cui focalizzare le problematiche giovanili, coinvolgendo i ragazzi e facendoli sentire responsabili ed inseriti.

D. Anche se il bullismo c’è sempre stato, perché proprio oggi sta emergendo in maniera così significativa?
R. La società è cambiata molto, ma più in generale è cambiato il mondo della comunicazione: adesso un atto di bullismo si può filmare, mettere su Facebook ed essere condiviso da migliaia di utenti, il cyberbullismo viaggia ad una velocità stratosferica. Per lo spettacolo di quest’anno abbiamo preso tre favole: Dumbo, che era bullizzato per le sue orecchie, Cenerentola, esempio di bullismo al femminile con le sorelle e la matrigna, e Cappuccetto Rosso, in cui il lupo cattivo rappresenta il cyberbullismo e la realtà virtuale. Il bullismo è sempre esistito, anche nelle favole e nelle opere letterarie, ne è esempio lampante Pinocchio.

D. Ma perché proprio ora sembra diventato più forte?
R. È «esplosa cattiveria» da parte dei ragazzi per il fatto di non essere più seguiti costantemente dalla famiglia, mancano dei punti di riferimento: madre e padre di solito lavorano entrambi, non seguono sempre i figli, e andando avanti nel tempo stanno venendo meno i valori essenziali a partire dagli stessi genitori. Oggi questi ultimi difendono i figli anche se commettono atti di bullismo, e spesso sono i genitori che «bullizzano» i professori, mentre in altri tempi si prendevano schiaffi e punizioni per certi comportamenti. Noi portiamo alla cronaca atti di bullismo gravi, fisici, ma ci sono anche atti di bullismo psicologico, i quali uccidono la mente dei ragazzi, l’autostima, la crescita, gettando le basi per un futuro fragile. Non dimentichiamo che il bullo da adulto probabilmente avrà comportamenti antisociali, ma siamo noi che stiamo lasciando completamente da soli i nostri giovani, sembra quasi che questi si educhino tra di loro e così vengono meno punti di riferimento come la famiglia o la scuola, e il valore diventa quanto dice il compagno di classe, è lui che educa perché è con lui che si trascorre la maggior parte del tempo. E questo è il grande errore.

D. In che modo correggerlo?
R. Il nostro Centro nazionale contro il bullismo va direttamente nelle scuole a insegnare l’educazione al rispetto. I soldi dello Stato devono essere spesi nel modo giusto, bisogna fare una legge sensata, creare a monte una task force a livello legislativo, un tavolo tecnico di esperti che si occupano di bullismo da almeno 10 anni: non finanziamo progetti con soldi che non sappiamo dove finiscono. Il bullo non agisce mai da solo, ha anche affiliati e gregari che lo istigano, mentre gli affiliati della vittima di solito non parlano perché, dicono, altrimenti «le prendono» anche loro: che ne parlino allora in forma anonima alla polizia, alla polizia postale, ai carabinieri, perché prima di tutto anche queste figure pubbliche sono dei genitori, persone che possono capire ed aiutare. Ma anche l’amico non può star fermo a guardare, deve agire. E con tutti i casi che ci sono di professori o maestri che picchiano gli studenti, cosa stiamo aspettando a mettere le telecamere nelle scuole? Alcuni professori sono contrari perché dicono che in tale modo è lesa la loro privacy, ma cosa devono nascondere? In un caso di bullismo potrebbero guardare le riprese, non si giudica il lavoro di un professore. Sarebbe anche ora di inserire dei questionari nelle scuole per valutare gli insegnanti, stilati da psichiatri, educatori, pedagogisti; noi al Centro abbiamo come referente scientifico il professor Matteo Villanova, con cui abbiamo iniziato le ricerche sul bullismo nel 2002.

D. Come unire le forze?
R. Vogliamo creare il primo polo del Centro nazionale contro il bullismo su Roma, e da qui allargarci, fare corsi di formazione per genitori e insegnanti, dare supporto alla vittima che può venire a parlare con noi, avere il contatto con le forze dell’ordine, in poche parole: un polo gestito da gente che sa di cosa parla.

D. Avete creato vari video in cui risaltano i temi del bullismo, che si possono trovare sul vostro canale YouTube «Bulli Stop». Tra questi spicca: «Anime nere», che vede la presenza di giovani studenti. Come è finanziata questa attività?
R. Quel video, come gli altri, è stato fatto con le nostre amicizie e senza alcuna sovvenzione. Io leggo le mail, rispondo al telefono, incontro mamme, vado ai dibattiti, tutto a titolo gratuito, eppure il Centro non riceve finanziamenti mentre associazioni nate da meno di 6 mesi sì.

D. Negli altri Stati come funziona?
R. Dalle altri parti funziona tutto meglio, si è più supportati in tutto. Un esempio in eccesso: in America il poliziotto spara, mentre qui non può usare neanche il manganello.

D. Avete chi si occupa delle controversie che sorgono?
R. Abbiamo anche il settore legale, delegato allo studio dell’avvocato Eugenio Pini che ha curato molti casi di bullismo.    (ROMINA CIUFFA)

Ho intervistato uno dei giovani protagonisti dello spot «Anime Nere» (visializzabile qui sotto), finanziato dal «Bulli Stop» per sensibilizzare la società sul tema del bullismo: Luca Muratori, che frequenta il terzo anno del liceo scientifico internazionale Gian Galeazzo Visconti in Via Nazario Sauro. È lui che fa la parte della vittima nello spot sociale ideato e girato da Giancarlo Scarchilli con la supervisione della prof.ssa Giovanna Pini; gli altri protagonisti sono suoi compagni di scuola.

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D. Dove avete girato questo spot?
R. A Roma, esattamente nei giardini del Pincio a Villa Borghese. La parte della vittima è quella che mi riesce meglio. Con me un mio compagno di classe, Valerio Paradisi, fa la parte di uno degli affiliati del bullo: al tempo dello spot, ossia lo scorso anno scolastico, frequentavamo il secondo liceo scientifico internazionale. Gli altri due protagonisti sono compagni di scuola più grandi: Gregorio Palazzi, il bullo, e il secondo affiliato, Simone Tolino, che nel video mi imbavaglia con il nastro adesivo. Per girarlo abbiamo impiegato circa un paio di giorni ma la preparazione per arrivare a girare lo spot è durata circa tre mesi, fra organizzazione, doppiaggio, scelte delle location, sceneggiatura, montaggio etc, etc. Tutto questo grande lavoro per uno spot che dura 30-50 secondi realizzato con professionisti del cinema.

D. Cosa hai provato, cosa hai imparato da questa esperienza?
R. Nello spot ero legato e imbavagliato, e non era una bella sensazione sapere che queste cose accadono nella realtà quotidiana; è stato nello stesso momento tanto emozionante quanto triste.

D. Lo stesso vale per gli altri ragazzi dello spot, i «bulli»?
R. In quel momento ero tutto legato, vedevo che loro recitavano la propria parte, e sono certo che non provavano gioia nell’immedesimarsi in quel ruolo.

D. Prima di entrare a contatto con «Bulli Stop» conoscevi la problematica del bullismo?
R. Ne avevo sentito parlare in tv, ma direttamente non più di tanto perché credo che questa piaga sociale si possa trovare in fasce di età più alte, verso i 15-16 anni. Non manca anche prima dei dieci anni, ma di certo è meno frequente. Ora, insieme ai miei compagni di scuola, siamo coinvolti nel progetto «Bulli Stop» e cerchiamo di rendere il nostro ambiente più vivibile, più attento.

D. Come sei entrato a far parte di questa iniziativa?
R. All’interno del Visconti è presente la scuola di teatro d’animazione pedagogico di Giovanna Pini: è stata lei ad introdurci nella lotta contro il bullismo. Ogni anno realizziamo e portiamo in scena uno spettacolo al Teatro Olimpico, sia la sera che la mattina per i ragazzi delle scuole di Roma, con cui intendiamo evidenziare il problema su palchi più ampi che non quelli scolastici dove il fenomeno nasce e, a volte, anche muore, per la scarsa visibilità o l’omertà che lo contraddistingue.

D. Ti è mai capitato di assistere di persona a scene di bullismo?
R. Sì, e non sono piacevoli da vedere.

D. Come hai reagito?
R. Non sono rimasto fermo lì a guardare la sofferenza di una persona debole, sono andato ad aiutarla. Ma so che, in realtà, ad essere debole è proprio il bullo.

D. Da dove pensi parta il bullismo?
R. Non tanto dal ragazzo, ma dalla famiglia, dai genitori: il bullismo è una mancanza di qualcosa, può ad esempio essere imputato a maltrattamenti da parte dei genitori, all’assenza di amici, alla scarsa considerazione che riceve. Il bullo può provenire da situazioni difficili, può essere orfano, i genitori possono fare violenza, maltrattamenti, o drogarsi. Per questo, ha necessità di «emergere» e lo fa con comportamenti deviati.

D. Come può un genitore affrontare il figlio «bullo»?
R. È difficile: il bullo non racconta mai la propria fragilità interna, e per il genitore può essere difficile capire se il figlio sia un bullo o no.

D. Se i genitori, in linea generale, sono impossibilitati ad intervenire, chi può farlo?
R. I bulli non vogliono cambiare perché sono contenti del proprio comportamento, ne vanno fieri, e non riflettono sul male che arrecano: non ci pensano proprio a farsi aiutare.

D. E la vittima può farsi aiutare?
R. Potrebbe sentirsi, nella maggior parte dei casi, in imbarazzo a raccontare le angherie subite, e chiudersi in se stessa. Ma l’insegnante potrebbe percepire questo malumore e fare molto. In classe è capitato di prendere in giro un amico in maniera bonaria, magari provocando una reazione ben più grave che noi non possiamo prevedere. Molte volte quando questo compagno è assente in classe i professori ci domandano il perché di certe prese in giro. L’insegnante è fondamentale, dato che i ragazzi vivono più fuori casa che in casa, ed può essere certo una fonte di miglioramento per noi.

D. Cosa ti ha apportato la conoscenza di Giovanna Pini?
R. Nonostante io non sia né un bullo né una vittima, mi ha dato grandi insegnamenti in questi anni. Mi ha aiutato nella recitazione, ma soprattuto dal punto di vista caratteriale perché prima ero molto timido, ora sono diverso e più consapevole. Sarebbero necessarie, nelle scuole, figure come la sua, ma purtroppo è raro. Noi del Visconti siamo molto fortunati, forse un caso unico.          (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Giugno 2017