NON BASTA INFORMARE: È LA PSICOLOGIA AD INCORAGGIARE I COMPORTAMENTI ECOLOGICI

«Una persona sana di mente non preferirà mai la vista di un cumulo di foglie morte a quella dell’albero da cui sono cadute», scriveva nel 1985 il filosofo e psicologo Edward O. Wilson, teorico della biofilia, ossia la tendenza umana verso la natura. Da quest’ultima l’uomo proviene e a quest’ultima accede attraverso comportamenti differenziali che possono proteggere l’ambiente o indebolirlo, se non deformarlo o distruggerlo.

Il rapporto uomo-natura è l’oggetto di studio degli psicologi ambientali soprattutto in ragione delle distorsioni che l’hanno viziato e che hanno condotto al deterioramento di entrambe le parti dell’equazione ecologica: la natura, che vive una situazione di estrema emergenza causata dall’errore antropocentrico, e l’uomo, la cui qualità della vita si è ridotta, in quanto strettamente collegata alla qualità dell’ambiente e, attraverso di essa, alla qualità dello sviluppo economico.

Alla base del difficile e conflittuale rapporto tra uomo e ambiente stanno il diverso modo di funzionare del «tecnosistema» umano – in particolare di quello economico – in relazione con l’ecosistema, e la tendenza delle società industrializzate ad affrontare la natura come sfida ambientale e non come dimensione entro cui adattarsi. Affrontare la crisi ecologica impone innanzitutto di scoprirne le fondamenta: infatti, la crisi ecologica si profila sostanzialmente quale crisi del rapporto fra il mondo naturale e il mondo umano, segno di un equilibrio distrutto. La delicata situazione presente sottolinea la necessità di tornare a far proprio il concetto di «limite», perché quello adottato sino ad oggi non è l’unico modo possibile di vivere, si offrono anche percorsi diversi: al centro della questione vanno ricondotti l’uomo e lo stile di vita che ha deciso di adottare.

La perdita di biodiversità è frutto di scelte indipendenti di miliardi d’individui che fanno uso di risorse e servizi ecologici: il comportamento umano deve essere guidato nel senso di uno sviluppo sostenibile che, lungi dal costituire una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento che mette l’una di fronte all’altra le generazioni. Il punto di partenza della progressiva presa di coscienza ecologica è l’avvio del programma dell’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, le Scienze e la Cultura, denominato Mab ossia «Man and Biosphere», varato agli inizi degli anni Settanta, un osservatorio privilegiato per affrontare con mezzi e competenze adeguati i diversi problemi dell’ecosistema: nel binomio uomo-biosfera, l’uomo è proposto al centro della Terra come elemento centrale e attivo nei processi bioecologici, e il sistema ecologico è la nuova unità di analisi.

Nel 1987 il concetto di sostenibilità fu lanciato per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica e degli studiosi dal rapporto Brundtland, conosciuto anche come «Our Common Future», della Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo; esso è divenuto un obiettivo dichiarato delle politiche economiche e ambientali dei vari Paesi e degli accordi internazionali aventi per oggetto materie ambientali a partire dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, cui parteciparono 172 Governi, 108 capi di Stato o di Governo, 2.400 rappresentanti di organizzazioni non governative e oltre 17 mila persone.

In quell’occasione fu firmata la Convenzione sulla diversità biologica, finalizzata ad anticipare, prevenire e combattere alla fonte le cause di significativa riduzione o perdita della diversità biologica in considerazione del suo valore intrinseco e dei suoi valori ecologici, genetici, sociali, economici, scientifici, educativi, culturali, ricreativi ed estetici, oltre che a promuovere la cooperazione tra gli Stati e le organizzazioni intergovernative. Un nuovo meeting a Rio si è svolto nel 2012, il «Rio+20», e le dichiarazioni a margine sono state scoraggianti: «Questo è un momento unico in cui il mondo ha bisogno di una visione comune, di impegno e di una forte leadership. Ma il documento che abbiamo per le mani in questo senso è un fallimento», dichiarava Mary Robinson, ex presidente della Repubblica irlandese ed ex alto commissario dell’Onu per i diritti umani; Jeremy Wates, segretario generale dell’Ufficio per l’Ambiente europeo, ha definito il meeting un flop, e Fernando Cardoso, che nel 1992 era presente all’Earth Summit e dal 1995 è stato anche presidente del Brasile, affermava che «la divisione tra ambiente e sviluppo è anacronistica e non porterà alla soluzione dei problemi che stiamo creando ai nostri discendenti diretti. La soluzione è nella crescita sostenibile, non nella crescita a tutti i costi».

L’interesse verso i temi trattati dalla Psicologia ambientale ha richiesto un inquadramento della materia a livello istituzionale e accademico. In Italia non solo è stato compiuto un grande passo in ambito universitario verso il riconoscimento formale della disciplina, ma è stato anche creato, nel 2005, il Centro interuniversitario di ricerca in Psicologia ambientale (Cirpa) per la promozione e lo sviluppo della materia, un consorzio tra le università italiane e gli enti di ricerca, nel quale risultano fino al momento più consolidati gli interessi della ricerca psicologica in questo senso. Sotto la direzione di Mirilia Bonnes e la vicedirezione di Marino Bonaiuto, provenienti dall’Università Sapienza di Roma, il Cirpa vanta un comitato scientifico nel quale sono presenti ricercatori dalle Università di Padova, di Roma Tre, di Cagliari, di Napoli.

«Sostenibilità» fa riferimento alla necessità di venire incontro ai bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri: le variazioni apportate all’ambiente dalle attività umane devono mantenersi entro limiti tali da non danneggiare irrimediabilmente il contesto biofisico globale e permettere alla vita umana di continuare a svilupparsi. Ciò significa fare in modo che il tasso di inquinamento e di sfruttamento delle risorse ambientali rimanga nei limiti della capacità di assorbimento dell’ambiente ricettore e delle possibilità di rigenerazione delle risorse secondo quando consentito dai cicli della natura, per evitare la crescita dello stock di inquinamento e dell’elettrosmog nel tempo, l’effetto serra, l’estinzione di specie naturali, la deforestazione, la desertificazione, la distruzione della foresta amazzonica, e molti altri dei danni irreparabili che l’uomo provoca e ha provocato con il proprio comportamento non «biosferico».

È sull’uomo che si deve incidere per compiere l’improcrastinabile e necessaria inversione di marcia: solo attraverso la modificazione dei comportamenti individuali è possibile salvare il pianeta. Ciò non è cosa facile: il comportamento è frutto di meccanismi spesso incontrollabili o difficilmente trasformabili. Inoltre, la profonda sfiducia del singolo nel sistema rende l’impresa ancora più ardua, dovendo intervenire non solo sugli aspetti cognitivi del comportamento, ma più spesso sulla sfera motivazionale ed emotiva che guida il comportamento umano ed è parte integrante del «making plan» decisionale. Di tale impresa si stanno occupando gli psicologi ambientali con studi e ricerche sul campo e utilizzando metodi quantitativi e qualitativi, attraverso «case studies» che mettono al centro l’uomo – da solo e nella sua componente sociale – con le credenze, i valori, il sistema normativo, le motivazioni, in generale tutti quegli elementi che muovono il comportamento individuale e che vanno a comporre lo stile di vita.

Un comportamento ecologico può essere realizzato in modo intenzionale (prendere la bicicletta al posto dell’auto per un fine ambientale) o non intenzionale (prendere la bicicletta al posto dell’auto per risparmiare i costi della benzina), ma essere comunque efficace sul punto dell’impatto ambientale. È ecologico, o più ecologico di un altro, anche un comportamento che, pur non arrecando beneficio all’ambiente, si pone su un piano neutrale. La maggior parte dei comportamenti rilevanti sono espressione di abitudini, nelle quali l’intenzionalità è pressoché nulla, azzerata da meccanismi di risparmio cognitivo, e l’unità di analisi è più lo stile di vita che non il gesto singolo: le abitudini sono stringhe comportamentali nemiche dell’ambiente ed è soprattutto su queste che devono intervenire gli psicologi ambientali, risvegliando i singoli sulle conseguenze di azioni non ponderate e fornendo delle motivazioni differenti per gli atteggiamenti e la condotta routinaria. Oltre a ciò, la differente direzione motivazionale dei comportamenti colloca, accanto a valori altruistici ed egoistici, valori «biosferici» che sottendono ai comportamenti ambientali e li guidano, e che devono essere stimolati nell’ottica di un cambiamento globale.

La psicologia ambientale ha, inoltre, preso atto di un fenomeno in grado di dare una netta sferzata al comportamento, le «epifanie ambientali», che si presentano all’individuo come una rivelazione improvvisa, repentina, che lo avvicinano al senso della natura, e lo inducono a modificare il proprio stile di vita in funzione di un’ecologicità cosciente. Si verifica, in questi casi, quel ritorno alla natura che gli psicologi ambientali auspicano, si ricuce il rapporto uomo-natura in funzione di quest’ultima e si prende atto della sua presenza, prima invisibile.

Vi sono anche casi, affatto rari, in cui l’uomo nasce con una spiccata predisposizione verso l’ambiente o in cui, avendo l’occasione di vivere in un contesto naturale, matura non solo convinzioni, abitudini e stile di vita ecologici, bensì un’identità ambientale che può eventualmente evolversi nel senso di un impegno costante per la salvaguardia della natura. Per Wilson, «le persone preferiscono stare in ambienti naturali, in particolare nella savana o in un habitat simile a un parco. Amano poter spaziare con lo sguardo su una superficie erbosa relativamente piana punteggiata di alberi e cespugli. Vogliono stare vicino a una massa d’acqua: un oceano, un lago, un fiume o un ruscello. Cercano di costruire le proprie abitazioni su un rilievo, da cui poter osservare in sicurezza la savana o l’ambiente acqueo. Con regolarità quasi assoluta, questi paesaggi sono preferiti agli scenari urbani brulli o con poca vegetazione. In una certa misura, le persone mostrano di non amare le immagini di boschi in cui lo sguardo non può spaziare, la vegetazione è complessa e disordinata e il terreno è accidentato: in breve, le foreste con alberi piccoli e fitti e un denso sottobosco. Prediligono caratteristiche topografiche e aperture che consentono una visione più ampia».

Con il termine di biofilia si è definita una predisposizione dell’uomo verso la natura che per Wilson ha origini genetiche, e ciò si sintetizza nell’innata affiliazione emozionale dell’uomo agli altri organismi viventi, quel rapporto emotivo che da sempre lega gli esseri umani alle altre forme di vita che l’hanno accompagnato nel viaggio dell’evoluzione. «Biofilia–dice Wilson–è la tendenza innata a concentrare il proprio interesse sulla vita e sui processi vitali (…). Fin dall’infanzia, con animo felice, noi concentriamo la nostra attenzione su noi stessi e sugli altri organismi. Apprendiamo a distinguere la vita dal mondo inanimato e a dirigerci verso la vita come una farfalla attratta dalla luce di una veranda».

L’affinità dell’uomo con la natura, e con tutti gli esseri viventi, sarebbe dunque un prodotto della selezione naturale. Il concetto di verde appare come un punto di riferimento molto coinvolgente, archetipico e quasi viscerale. Il fatto che soggetti di differenti culture mostrino preferenze analoghe avvalora l’eventualità di una base genetica delle preferenze umane per l’habitat, che costituisce indubbiamente per tutti gli organismi il primo e cruciale passo per la sopravvivenza. Gli effetti benefici per la salute psichica e fisica dell’uomo derivanti da un contatto diretto con la natura sono ampiamente documentati da un’estesa letteratura scientifica: l’espressione «restorativeness» si riferisce agli effetti positivi che l’ambiente naturale ha per il benessere psicologico dei soggetti.

L’identificazione con il tema ambientale può sorgere, in misura più o meno ampia, anche nelle aree verdi degli ambienti urbani – se presenti, se note, se accessibili – o essere guidata da un’educazione ambientale attenta e mirata. La sola informazione, però, non è sufficiente a produrre un cambiamento nei comportamenti, o comunque un cambiamento stabile, come non sono sempre utili le strategie impiegate dalla politica, ad esempio tasse ambientali e incentivi monetari, in grado addirittura di spiegare un effetto inverso riducendo la motivazione morale delle persone a comportarsi in modo pro-ambientale.

Gli interventi sono distinti in strategie «soft», quelle informative, che hanno lo scopo di incrementare la conoscenza, la consapevolezza, le regole e le abitudini delle persone, come le campagne di sensibilizzazione sulla raccolta differenziata; e «hard» o strutturali, aventi lo scopo di cambiare le circostanze in cui sono messi in atto i comportamenti decisionali; fornire servizi per il riciclo dei rifiuti ne è un esempio. È importante individuare quei comportamenti che possono migliorare, in modo significativo rispetto ad altri, le condizioni ambientali, per indurre più massicciamente i primi; gli interventi devono essere dotati di un buon fondamento teorico e ad ogni intervento deve seguire una valutazione corretta delle sue conseguenze. Dove bisogna gettare un tovagliolo di carta? In quale dei contenitori: indifferenziato, umido o carta? L’azione informativa è utile a colmare il deficit di conoscenza; subito dopo deve intervenire l’azione strutturale, ossia la predisposizione, da parte delle autorità troppe volte sorde, di servizi per la raccolta, perché il comportamento compreso possa essere concretamente attuato. Da ciò consegue la forte necessità di educare la politica prima di tutto.

Sebbene sia sempre più possibile riscontrare una dichiarata consapevolezza ambientale, quest’ultima non risulta accompagnata da una matura azione quotidiana di sostenibilità ambientale, e i lavori realizzati dagli psicologi mostrano il ridotto riscontro delle campagne massicce volte a promuovere comportamenti ecologici responsabili. L’eccesso di informazione e le propagande morali non sono sufficienti a produrre processi di cambiamento di questo genere; secondo gli «ecopsicologi» della branca della «Ecopsicologia» è erroneo ritenere che la sensibilità ambientale possa maturare principalmente attraverso campagne di informazione e di comunicazione, o attraverso interventi di educazione ambientale nelle scuole, senza piuttosto l’esperienza di natura che tende a favorire l’emergere di un nuovo atteggiamento verso l’ambiente naturale, coinvolgendo non solo il sapere razionale ma anche la riflessione astratta, per modificare le immagini mentali e cambiare, riaccendendo un senso di profonda connessione con la Terra, nella consapevolezza che i valori non si modificano in un corso di formazione più o meno convenzionale, bensì attraverso azioni di formazione in cui la persona abbia modo di disimparare credenze che aveva dato come immodificabili nel passato.

In tempi recenti le società europee hanno acquisito la consapevolezza della necessità di comportamenti più responsabili e delle conseguenze delle azioni individuali e collettive sull’ambiente, e l’educazione ambientale ha assunto un ruolo centrale e diverso rispetto alla tradizionale accezione che la confinava nell’ambito dell’educazione naturalistica o negli spazi destinati alle campagne informative o di sensibilizzazione, o nelle aree protette.

La pura didattica o la semplice informazione non sono più in grado di fornire gli strumenti necessari ad agire in modo responsabile ed autonomo e garantire un grado di sviluppo sostenibile della nostra società; l’educazione ambientale deve sempre più configurarsi come educazione alla sostenibilità (ambientale, economica, sociale o dello sviluppo in senso lato): un impegno e un’opportunità in grado di coinvolgere tutti gli attori sociali, chiamati a diversi livelli e con competenze pluridisciplinari a definire obiettivi, strategie, azioni per attività integrate, utili a produrre una crescita culturale tale da riflettersi, mediante modifiche permanenti di atteggiamenti e comportamenti, sulla qualità ambientale e sulla nostra società, per preparare gli individui all’intenzione di prendere decisioni consapevoli rispetto all’ambiente.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2014




ERTHARIN COUSIN: ONU, INSIEME A OBAMA PIANTIAMO SEMI PER SFAMARE IL MONDO

Ambasciator non porta pena, è detto. Ma una pena ce l’ha Ertharin Cousin, rappresentante permanente degli Stati Uniti presso le Agenzie dell’Onu: la fame nel mondo. Il World Food Programme, in italiano Programma Alimentare Mondiale, è stato istituito nel 1963 con sede in Italia, a Roma, e costituisce il braccio operativo del sistema delle Nazioni Unite per gli aiuti alimentari. Tra gli obiettivi di sviluppo del millennio che le Nazioni Unite si sono prefissate di raggiungere entro il 2015, dimezzare la percentuale della popolazione colpita dalla fame nel mondo è diventato prioritario e per raggiungerlo l’ambasciatrice è giunta a Roma, inviata personalmente da un suo vicino di casa: Barack Obama. Lui stesso le chiese, durante un party natalizio tra amici, di portarlo alla presidenza.

Domanda. Sembra che da sempre sapesse dove dirigere le sue energie. Qual è stato il filo conduttore della sua vita?
Risposta. Ho iniziato con naturalezza la carriera forense, che ho proseguito per 30 anni, una decisione mossa da un unico desiderio: quello di aiutare gli altri. Mio padre era un attivista operante per i diritti civili nella nostra comunità a Chicago, nel West Side, mia madre un’operatrice sociale. Ci hanno cresciuti insegnandoci l’impegno per la comunità, così fu per me molto naturale decidere di divenire un avvocato. Cominciai a Chicago, praticando il Community Law e occupandomi soprattutto di violenze domestiche e di problemi tipici di uno stato di povertà. Il passo successivo fu l’Onu, mi occupavo non dell’organizzazione bensì dei singoli membri. Era il 1983 quando Chicago elesse per la prima volta un sindaco afroamericano, Harold Washington, un momento di assoluta importanza per la storia della nostra città. Avevo lavorato per la sua campagna elettorale, e mi occupai di quella di Jesse Jackson nelle elezioni presidenziali statunitensi del 1984. In quelle occasioni ebbi modo di ampliare i miei orizzonti e ottenni l’opportunità di occuparmi di altre campagne e di divenire direttore degli uffici regionali del Segretario generale dello Stato dell’Illinois e direttore del Chicago Ethics Board. Quindi mi avvicinai al settore privato, nel ruolo di qualità di direttore degli Affari governativi per la compagnia telefonica AT&T. In quel periodo Bill Clinton si candidava alle presidenziali, vincendole, e mi fu richiesto di lavorare per il suo team, così mi trasferii a Washington; avevo studiato International Law and Policies con l’ex Segretario di Stato Dean Rusk ma, devota al lavoro di comunità, non avevo mai pensato che avrei potuto usare tali competenze allo stesso fine. Mi sentii molto onorata quando la Casa Bianca mi chiese di lavorare per il Ministero degli Esteri.

D. È rimasta per molto tempo alla Casa Bianca?
R. Ho seguito le attività di Hillary Clinton in Cina, per la Conferenza sulle donne, per poi occuparmi nel 1996 delle operazioni per la campagna presidenziale Clinton-Gore. Dopo la vittoria fui nominata vicepresidente degli Affari governativi, comunitari e politici, ma soprattutto, dal 1997 ho lavorato per il Board for International Food and Agricultural Development, ente che assiste i progetti agricoli dell’Agenzia per lo Sviluppo internazionale, quindi per il Jewel Food stores, una compagnia con 35 mila impiegati, fino a divenirne vicepresidente per gli Affari pubblici. Le soddisfazioni economiche derivate dall’impiego nel settore privato non mi bastavano. La mia domanda è sempre stata una: cosa posso fare per rendere la vita degli altri migliore? Così nel 2002 sono entrata a far parte dell’America’s Second Harvest, oggi Feeding America, la più grande organizzazione americana per la fame, che sostiene le oltre 200 banche del cibo nel Paese. Durante quel periodo ci siamo impegnati a portare il cibo nelle zone colpite dall’uragano Katrina, e quell’esperienza mi ha fatto capire quale fosse il mio dono, aiutare gli altri. Quindi ho cominciato a lavorare per aiutare varie organizzazioni americane non profit, sviluppando gli accordi necessari alla loro sopravvivenza. In questo modo ho capito che senza il settore privato queste organizzazioni non avrebbero futuro, e ho appreso a mettere a punto le partnership appropriate, che è il know-how che ho portato con me in questa esperienza di ambasciatore dell’Onu.

D. Quando è entrata a contatto con l’attuale presidente degli Usa?
R. Nel Natale 2006 ho incontrato per caso, in una festa dei vicini, il senatore Barack Obama che mi ha detto: «Sto pensando di farlo, e vorrei che lei mi aiutasse». Io risposi: «Se si candiderà, io ci sarò». Capii subito, quando genericamente disse «farlo», che si riferiva alla corsa per le presidenziali. Ho partecipato in gennaio ad un incontro più ufficiale e sono divenuta consulente senior della sua campagna. Inizialmente nessuno pensava che avrebbe vinto. Con i Clinton avevo lavorato molto, e avrei di certo appoggiato Hillary se Barack, che è un amico e un vicino, non me l’avesse chiesto, ed è stato impossibile per me dirgli di no. Ho così informato il team Clinton che avrei seguito Obama e loro, consapevoli del fatto che provengo dall’Illinois, sono stati comprensivi. Li ho rassicurati che non avrei mai compiuto alcunché potesse ledere la loro campagna, e così è stato. Abbiamo lavorato duramente. Quando iniziammo, nessuno conosceva Barack Obama se non dal discorso che tenne al Congresso, che ricordo come il giorno più freddo mai avuto nell’Iowa. Più avanti era molto chiaro che avrebbe vinto, poiché il suo messaggio cominciò ad essere ascoltato in tutto il Paese, ed io iniziai a chiedermi cosa avrei voluto fare in tal caso.

D. Come avvenne lo spostamento dagli uffici presidenziali verso l’ambiente diplomatico degli aiuti?
R. Una volta eletto, informai il presidente che avrei voluto lavorare per organizzazioni umanitarie e lui mi disse: «Che idea grandiosa!», perché era a conoscenza del fatto che da sempre ero stata entusiasta di svolgere un lavoro di aiuto alla comunità. Anche il team di Obama esultò dinanzi alla mia scelta. Nel settembre 2009 sono stata nominata dal presidente rappresentante permanente presso le Agenzie dell’Onu per il cibo e l’agricoltura, tre organizzazioni maggiori e tre minori, tutte operanti a Roma: il WFP (World Food Program), l’Ifad (International Fund for Agricultural Development), la Fao (Food and Agricultural Organization), l’Iccrom (International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property), l’Idlo (International Development Law Organization) e l’Unidroit (International Institute for the Unification of Private Law).

D. In cosa consiste il suo compito?
R. Non si tratta solo di fornire cibo, bensì di dare alle popolazioni gli strumenti perché possano procurarselo da sé e divenire, nel tempo, più indipendenti. Lo facciamo attraverso programmi specifici come il P4P, Purchase for Progress, e accordi in cui cerchiamo di garantire equità tra le parti e sostegno verso i Paesi in via di sviluppo. Il WFP costituisce il braccio operativo del sistema delle Nazioni Unite per quanto riguarda gli aiuti alimentari; anche la Fao si occupa di aiutare l’agricoltura, ponendosi come foro neutrale in cui le nazioni si incontrano alla pari per negoziare accordi e discutere linee di condotta. L’Ifad promuove e finanzia programmi e progetti che mettano i poveri delle aree rurali in condizione di sconfiggere la povertà. Tra le minori, l’Iccrom è il Centro Internazionale di Studi per la Conservazione e il Restauro dei Beni culturali e si occupa della conservazione del patrimonio sia mobile che immobile in tutto il mondo; l’Idlo pensa allo sviluppo del diritto in ambito internazionale e l’Unidroit, più specificamente, all’unificazione del diritto privato fra i vari Paesi. Rappresentiamo gli Stati Uniti presso ciascuna di queste organizzazioni, e gli altri membri del team sono esperti nei vari settori; personalmente sono nell’executive board del WFP. La nostra squadra è composta da esperti in emergenza e sviluppo rurale. Gli Stati Uniti sono i sostenitori più rilevanti nelle tre organizzazioni principali. È importante che i fondi, che provengono dai contribuenti, siano utilizzati come previsto: qui ci occupiamo di questo, ci assicuriamo che il programma incontri determinati requisiti. Mi reco anche personalmente sul campo, osservando che i programmi disegnati qui a Roma siano di fatto sviluppati nei vari Paesi, e verifico l’impiego effettivo delle nostre risorse, perché il programma sia usato a beneficio reale del Paese in questione.

D. La sua esperienza in Italia le dà modo di comprendere differenze precipue con gli Stati Uniti. Quali in particolare?
R. Noto che l’America è spesso scollegata dal resto del mondo; in Europa, diversamente, vi sono connessioni naturali fra Paesi vicini, e in Italia è più facile sentirsi allievi del mondo. Mi accorgo qui di avere più responsabilità non solo per ciò che accade negli Stati Uniti ma per lo sviluppo dell’intero mondo, e sono molto orgogliosa di essere americana per la generosità che il nostro Paese usa nel sostenere i vari programmi. Con questo mandato ho l’opportunità di testimoniare l’impatto reale che i programmi umanitari, che ero abituata a conoscere da un diverso punto di osservazione, hanno sullo sviluppo mondiale, e non avrei potuto afferrarne l’importanza solo leggendo i documenti prodotti. Ovunque mi troverò dopo questa missione, resterò sempre legata al mondo. Mi rendo conto che la comunità globale è molto responsabile della salvaguardia dei Paesi sottosviluppati, ma i più vulnerabili non sono meno responsabili del proprio destino. Australia, Giappone, i Paesi del Bric – Brasile, Russia, India e Cina -, non c’è un Paese più responsabile di altri per ricchezza, e il maggiore sviluppo di alcuni rispetto ad altri rende i primi solo responsabili a un differente livello, non «più» responsabili.

D. In che modo i Paesi meno sviluppati possono collaborare in questa strada comune verso una crescita sostenibile?
R. Un programma molto interessante è quello che ha adottato l’Unione Africana, il Caadp (Comprehensive Africa Agricolture Development Program), e che tutti i Paesi dell’Unione europea stanno firmando. Con esso infatti si impegnano non solo ad investire nell’agricoltura, ma ad investirvi almeno il 10 per cento del proprio prodotto interno, in tal modo riconoscendo che la sostenibilità di ogni programma è direttamente legata alla proprietà del programma stesso. Meglio detto: ogni Paese deve porre le basi per il proprio destino. Non c’è nulla che gli Stati possano fare da soli, come partner di sviluppo, per garantire la sostenibilità dei programmi in Paesi in via di sviluppo. È sempre richiesta una partnership con questi ultimi, che devono impegnarsi al pari dei Paesi sviluppati e investire le loro stesse risorse, anche economiche, per migliorare le proprie condizioni.

D. Nei Paesi del Bric spicca la Cina. Considerando l’enorme crescita avuta negli ultimi anni, può essere ancora mantenuta al livello degli altri tre?
R. I Paesi facenti parte del Bric sono considerati meno sviluppati di altri, e sono ora definiti come di nuovo sviluppo. Ma la Cina costituisce senza dubbio l’esempio di cosa può accadere se il Paese si impegna per primo nella propria crescita sostenibile.

D. In che modo è presente il Vaticano negli aiuti alla comunità globale?
R. Il Vaticano ha numerosi programmi nel mondo nei quali investe significativamente, ed ha osservatori presso ogni organizzazione; esso è riconosciuto dall’Onu e partecipa al dibattito politico nella Fao e nei programmi del WFP. Lavoriamo con la Santa Sede come con altri colleghi, ovviamente non c’è alcun riferimento alla religione; a Roma ne avverto la presenza anche sul piano del cattolicesimo, ma nell’esercizio delle mie funzioni, così come negli Usa, il Vaticano corrisponde a uno Stato come un altro con cui collegarci nella nostra missione.

D. Quali sono i suoi rapporti con Roma e l’Italia?
R. Sono a Roma perché la missione si trova qui; il WFP iniziò all’interno della Fao, la cui sede è sempre stata qui, e quando se ne è distaccata è stato naturale mantenere la sede. A Roma nascono i programmi a beneficio di tutto il mondo . Amo questa città, i suoi abitanti sono genuini e generosi, ho conosciuto persone che rimarranno per sempre presenti nella mia vita, che mi hanno aperto le loro case sapendo che potevo trovare difficoltà di integrazione non avendo padronanza della lingua. Mi hanno reso una persona più aperta rispetto a prima, e non avrei mai pensato di ricevere da questa esperienza un tale ulteriore beneficio a favore del mio bagaglio culturale. Ho visto molti luoghi in Italia, l’Umbria ad esempio, la Toscana, il Nord, ho visitato alcuni Paesi del Nord Europa e programmo altri viaggi nel mio tempo libero. Ogni cosa qui è molto vicina, e non sono abituata a questo modo di viaggiare.

D. Cosa c’è nel suo futuro?
R. Dopo quest’esperienza non so cosa ci sarà, né dove. Gli ambasciatori tradizionalmente restano in carica per circa tre anni, e io sono a metà. Continuerò a lavorare su ciò che sto facendo qui. Sono stata sul campo molte volte, non mi opporrei ad essere trasferita permanentemente in un luogo specifico dove poter mettere a frutto, direttamente, la mia esperienza. Per il momento mi impegno completamente nel mio lavoro a Roma, poi sceglierò l’opportunità più consona alle mie esigenze di aiutare il prossimo.

D. In che modo l’America è stata presente nei luoghi di Haiti dopo il terremoto che l’ha colpita distruggendola?
R. Si è trattato di uno dei disastri naturali più devastanti mai visti. Gli Stati Uniti lavoravano per sostenere l’agricoltura di Haiti anche prima del terremoto; dopo il disastro, 900 mila persone si sono spostate verso le campagne. Questo ci ha dato modo di intervenire nello sviluppo rurale di quei luoghi attraverso i nostri strumenti. Abbiamo stretto un accordo con il Brasile per portare trattori ad Haiti; ci siamo impegnati a creare un mercato accessibile per acquistare semi e materiale agricolo. Dobbiamo continuare anche oltre il momento dell’emergenza, ed essere presenti in tutto il periodo della ricostruzione del Paese.

D. Per New Orleans, invece?
R. A New Orleans sono andata almeno venti volte e posso testimoniare tutti i cambiamenti dalla settimana successiva all’uragano Katrina ad ora, le differenze nella vita degli abitanti, la ricostruzione delle case e dei centri di commercio: è un caso di intervento privato a supporto di quello pubblico su un’area devastata. Proprio usando questo come modello abbiamo potuto lavorare per Haiti. Il punto è il ruolo del settore privato e degli investimenti nello sviluppo, essenziali per creare economia nei luoghi non sviluppati attraverso accordi equi. Il nostro obiettivo è individuare tante più opportunità possibili per ogni mercato e assistere, usando le organizzazioni di riferimento, nella sottoscrizione di accordi per lo sviluppo.

D. Nel summit del G-8 2009 tenutosi a L’Aquila, il presidente Obama annunciò l’investimento in tre anni di circa 3,5 miliardi di dollari per lo sviluppo agricolo e la sicurezza alimentare. Di che si tratta?
R. Il Governo Usa ha lanciato il programma «Feed the Future» per riaffermare l’impegno nei confronti della fame e della sicurezza alimentare a livello globale. Esso aggiunge risorse ai programmi già in atto, promuovendo la collaborazione tra gli interessati e investendo in produttività agricola, ricerca e mercati bonificati, per aumentare la fornitura di prodotti alimentari e ridurre i prezzi.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Aprile 2011