NO POTHO REPOSARE, PER IL GHETTO DI BAULENI IO NON DORMO

Innanzitutto, questo video. Confesso: si piange. Va ascoltato e visto come una delle canzoni d’amore più grandi di tutti i tempi e, nelle sue immagini, un significato ancora più forte, che descriverò qui sotto. Ma, innanzitutto:

 

PER DONARE RESTA MENO DI UN MESE:
https://www.musicraiser.com/it/projects/9415-africa-sarda-studio

Figlio di un contadino e di una casalinga, l’avvocato sardo Badore (Salvatore) Sini (Sarule, 1873 – Nuoro, 1954) il 23 luglio del 1915 – estate rovente fresca di una guerra iniziata da due mesi e destinata ad annidare tragedie e morte, il resto è storia – scrisse la poesia A Diosa, lettera di un innamorato che parte per il fronte. Con A Diosu, la risposta di lei, il puzzle si chiudeva in un poema di corrispondenza tra i due amanti lontani. Gli addii di quei giorni, quelli di chi non sarebbe mai tornato dalle trincee, mutatis mutandis erano già il “post” di un RIP attuale. Così si esprimeva: “E avessi avuto le ali per volare, sarei volato da te mille volte: sarei venuto almeno per salutarti o anche soltanto per vederti appena”. In dieci minuti – Sini non poteva sapere – aveva scritto quello che sarebbe a breve divenuto il testo di una delle canzoni più rappresentative e romantiche della Sardegna, l’O Sole mio napoletano: Giuseppe Rachel (Cagliari, 1858 – Nuoro, 1937) la musicò nel 1920 e ne face un valzer inglese, inserendola nel repertorio del Corpo musicale filarmonico di Nuoro da lui diretto. La si conobbe con il nome di No potho reposare. Riposo non trovo.

Ma chi l’avrebbe detto, chi, che oggi quel brano sarebbe stato interpretato da un gruppo di ragazzini africani intrappolati in un uno slum? Che avrebbe risuonato in un ghetto sporco, povero, invisibile quando non inesistente, nel bel mezzo dello Zambia? In un compound, quello di Bauleni, che la cantante sarda Carla Cocco – tra le cui collaborazioni altisuona il brasiliano Toquinho – ha preso talmente a cuore da creare Africa Sarda Studio, avente ad oggetto la realizzazione di uno studio di registrazione e di una scuola di musica all’interno del ghetto, per il quale non dorme più. No potho reposare, per l’appunto.


Toquinho e Carla Cocco, Auditorium Parco della Musica

Questo brano ne è (solo) uno dei risultati: africani che, con lei, cantano in sardo. Già questo, un miracolo. Sono Francisca, Alan, Florence, Ethel, Julia, Romance, Madaliso, Jaco e il fratello Jay, ed anche Daniela Schiavone, del servizio civile per In&Out of the Ghetto, associazione coinvolta nell’impresa. È Jaco ad aver prodotto il brano con due casse e un mixer arrangiatissimi, in quello che è solo l’abbozzo del futuro studio: una sedia ed un tavolo. Lavorando senza voler fare pause pranzo per due giorni di seguito, costruendo da sé le basi a partire da zero. Carla, intanto, istruiva in loco i ragazzi al brano e al canto. Poi, la produzione.

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Non è la guerra di Badore questa, non è la prima guerra mondiale, in un certo senso è peggio: il destino del Compound di Bauleni è segnato, non è legato alle sorti di un conflitto, di alleanze, di fughe, di comandi, di territori, di diplomazia. Esso è bensì segnato dalle stesse condizioni intrinseche che lo fondano. “No potho reposare” divenne patrimonio universale, oggi è qualcosa di più (non mi riferisco alla versione dei Tazenda o di Anna Oxa): entrare in uno dei ghetti più poveri dell’Africa e risuonare da lì – per essere portata nel mondo ed avere la capacità intrinseca di togliere dei ragazzi dalla strada, dar loro se non un futuro un presente fatto di talento e obiettivi – va oltre i riconoscimenti per l’arte e la commercializzazione. L’arte non è il delirio onnipotente di un futurismo che crede che un pennello possa portare al futuro, su parametri oppositivi quali modernità contro antico, velocità contro stasi, violenza contro quiete; né è un quadro tutto blu esposto al Moma-NYC di Manhattan , davanti al quale mi sedevo in tutte le mie pause pranzo – diverse da quelle di Jaco – lavorando da avvocato Corporate a Times Square: osservavo e riosservavo, segretamente agli antipodi di una sindrome di Sthendal, con l’intimo intento di cercare di capire il monocromatismo di Yves Klein che, con Blue Monochrome, rappresentava, secondo la sua idea, una “finestra aperta sulla libertà” ed evocava nelle intenzioni l’immaterialità e l’utopia, tanto che a quel blu veniva dato un nome, International Klein Blue. Lo ritengo alla stregua di “petaloso”. Arte non è questo:

Arte non è utopia. Come musica non è X-Factor o talent, non sono parolacce da parte di una giuria di incompetenti ed influencer, non è divismo né autografi in uno store. Musica ed arte, insieme, sono quelli dell’African Voice Band, l’opera prima di chi ha qualcosa da realizzare, quando non solo immaginare, quando non solo desiderare. A volte nemmeno “utopizzare”. Carla Cocco sta facendo tutto questo da sola, richiedendo solo piccoli contributi attraverso la piattaforma di Musicraiser, acceleratore di crowdfunding per trovare fondi online, vere e proprie donazioni alla causa in cambio di “ricompense” che vanno da cd a house-concerts, gadgets e quant’altro. Nel caso di Africa Sarda Studio, è possibile anche ricevere oggetti artigianali creati dagli abitanti del ghetto: direttamente dalle mani di Mary (anche lei cantante del disco in uscita Africa Sarda & is Amigus) e della sua mamma Delia: portamonete, zaini, borse, coperte patchwork made in Bauleni, realizzati con il kitenge, tessuto africano. QUI: https://www.musicraiser.com/it/projects/9415-africa-sarda-studio.

“No potho reposare” recita: (ROMINA CIUFFA)

IL TESTO ORIGINALE E LA SUA TRADUZIONE
Non potho reposare amore, coro,
nè in dispiaghere o pessamentu.
Non trovo riposo, cuore mio:
il pensiero è sempre rivolto a te.
Non essere triste, gioia d’oro,
non dispiacerti e non stare in pensiero per me.
Ti giuro di desiderare te soltanto perché ti amo, ti amo, ti amo.

pro venner nessi pro ti saludare,
Amore mio, tesoro da voler bene,
il mio affetto è riservato a te.
Se avessi avuto le ali per volare,
sarei volato da te mille volte:
sarei venuto almeno per salutarti
o anche soltanto per vederti appena.

sas formas e furavo dae chelu

unu mundu bellissimu pro tene
pro poder dispensare cada bene.

Se mi fosse possibile prendere
le forme spirituali di un angelo invisibile,
ruberei dal cielo sole e stelle per formare
un mondo bellissimo tutto tuo
cosi da poter dispensare ogni bene.

Amore meu, rosa profumada,
amore meu, gravellu olezzante,
amore, coro, immagine adorada.
Amore, coro, so ispasimante,
amore, ses su sole relughente,
Amore mio, rosa profumata; amore mio,
garofano odoroso; amore, cuore,
immagine venerata;
amore, cuore, io spasimo per te; amore.
Sei il sole lucente che spunta la mattina in oriente.

lizzu vroridu, candidu che nie,
semper in coro meu ses presente.
Amore meu, amore meu, amore,
Sei il sole che mi illumina
e mi esalta il cuore e la mente;
giglio in fiore, candido come la neve,
sei sempre presente al mio cuore.
Amore mio, amore mio, amore:
ti auguro di vivere senza amarezza e dolore.


in fundu de su mare a regalare
a tie vida, sole, terra e mare.

Se avessi potuto prendere tutto in una volta
la luce delle stelle e del sole
e il bene dell’universo,
mi sarei immerso come un palombaro
in fondo all’oceano per farti dono di vita,
sole, terra e mare.

s’essere istadu eccellente iscultore,
Ma non balen a nudda marmu e tela
Se fossi pittore ti farei un ritratto,
se sapessi scolpire degnamente ti dedicherei una statua di marmo.
Invece dico con dolore:
non so fare queste cose.
Ma il marmo e la tela nulla contano in confronto alla vela d’oro dell’amore.

Ti cherio abbrazzare egh’e basare
ma da lontanu ti deppo adorare.
chi de sa vida nostra tela e tramas
Vorrei abbracciarti e baciarti
per unire la mia anima al tuo cuore.
Ma debbo venerarti da lontano.
Il pensiero del tuo amore mi conforta,
tela e trame della nostra vita
hanno lo stesso destino in virtù del tuo amore.

sos profumos, sos cantos de veranu,
sos zeffiros, sa brezza relughente
sas menzus cosas dò a tie, anghèlu.

L’incanto dei tramonti, la prima alba.
L’aurora, il sole splendente, i profumi,
i canti della primavera, gli zefiri,
la brezza che fa splendere il mare.
L’azzurro del cielo sono tutti doni per te,
mio angelo.




USA: MA COME SI DICE, IN ITALIANO, “PICCIRIDDU”?

New York. Si lamenta perché, dice, in America non si parla che l’americano. Dice che le scuole, i media, i cervelli sono, monopolizzati. Si sente italiano più che americano e, a dirla tutta, in Italia c’è stato solo pochi giorni che, contati su 49 anni, non lo rendono proprio italiano. Ma dice «grazie assai» e «statte buono». Ascolta Lucio Battisti, Rita Pavone, Daniele Silvestri, Vasco Rossi. «Sonno» lo pronuncia «sono», e «gente» per lui è un plurale. Non è alto e in America questo non fa onore, soprattutto quando si tratta di giocare a basket. Ha occhi scuri, capelli scuri, cuore scuro. Suo padre è morto. Sua madre vive nell’America più profonda. Entrambi sono nati calabresi. I suoi nonni erano emigranti e così hanno dato alla famiglia una possibilità di crescere.

È tornato qualche anno fa al proprio paesino, arroccato sui monti dell’entroterra calabrese, per salutare un cugino. Ma l’avevano ucciso. Perché? Non lo sa. Dove? Non lo sa. Da chi? Non lo sa. Nessuno parla, come suo cugino. Mi vengono in mente «I cento passi» del regista Marco Tullio Giordana, e la storia di Peppino Impastato di Cinisi, che il padre aveva provato a mandare, ma guarda un po’, proprio in America, una meta a caso: non c’era riuscito, anche se l’idea di aprire una radio negli Stati Uniti l’aveva stuzzicato. Gli zii americani ce li aveva pure Peppino, ma era rimasto in Sicilia a fare propaganda contro Tano Badalamenti. Non che il cugino di «Grazie Assai» abbia avuto a che fare con Tano, ma «non lo so» hanno risposto pure a lui quando ha chiesto il perché. Un altro viaggio «Grazie Assai» se l’era fatto qualche anno prima, accompagnando suo nonno al cimitero, lo stesso. Li aveva aspettati tutto il paese all’aeroporto. È tornato! È tornato!

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità»: alza il volume della canzone di Daniele Silvestri mentre mi racconta che gli manca l’Italia e che suo cugino Gaetano l’aveva conosciuto solo negli ultimi anni, perché prima lui parlava poco l’italiano – s’interrompe e ripete: «Sempre perché qui non impariamo niente» -, e il cugino non una parola d’inglese. A dire il vero, poche pure di italiano: È tornato!

«È la solita vita, la solita rincorsa a una corriera già partita, perpetuo movimento sulla strada che all’andata, così come al ritorno, è sempre una salita». Sai, mi dice, era proprio un brav’uomo mio cugino Gaetano. Ha lasciato una moglie e tre figli. Andavo al paese e tutti mi volevano bene, mi facevano sentire di appartenere. «I belong», e stringe il pugno. Poi mi racconta che nell’Indiana, dove vive, ha tre amici napoletani. Sarebbero quattro fratelli, ma uno s’è perso per strada. Perché? Che è successo? Niente d’importante ma, mentre lo dice, ride, anzi ridacchia; ha rubato 50 mila dollari al fratello. E come? Un giorno è andato in banca, ha firmato i «segni» al posto del fratello e ha riscosso sull’unghia (ma sull’unghia non lo dice). Il giorno dopo la banca ha chiamato il fratello: perché avrebbe firmato assegni per una cifra non disponibile sul conto? Io non ho mai firmato assegni. Non ne sapeva niente, davvero. L’altro aveva da anni la delega in banca, anche in America questa volta la si è fatta franca. Chiedo: «E cosa è successo poi, fra i fratelli?», chiedo, perché m’interessa sapere più questo che non di come sia andata sul piano legale; più come una famiglia napoletana impiantata in America con varie Green Card e quattro ristoranti («Ma non sai quanto è buona quella pizza»), si mantenga nel tempo, se è vero che essere lontani dalla propria terra unisce.

Risposta? Sì, unisce. E perché allora, domando, un fratello avrebbe fatto questo all’altro? Perché aveva bisogno di soldi e la moglie, l’unica italiana tra le quattro spose per i quattro fratelli, qui non ci sapeva proprio stare, non ci voleva stare, non ce la faceva più. Mica è facile. «È la solita vita, è il solito miracolo che svolta la giornata, l’evento microcosmico di minima portata, una mancia ricevuta, una cena regalata; e con la dignità rimasta, volevo vederti arrivare vestita di seta, di festa, magari fare quattro salti in pista, ma forse è meglio se rimani là».

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità: una casettina di periferia, una mogliettina giovane e carina, tale e quale come te».

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Arrivato in Italia, lo arrestano per precedenti reati, e lui si guadagna il titolo: è ufficiale, è la pecora nera della famiglia. Che poi nera non è, ma solo impaurita, forse, come se qualcuno stesse tirando in aria colpi di fucile al gregge per farlo riagglomerare fuori dal suo rettangolo d’erba. Ed ora che è fuori – perché i reati commessi in Italia non erano poi così gravi -, attende che si prescriva quello americano, se già non è prescritto. Ppoi ci penserà. Più probabilmente non tornerà nemmeno, perché lui l’inglese, come pure i suoi fratelli che vivono da anni in America, non lo parla proprio. Non gli entra. È un bravo guaglione, lui e gli altri tre. Per fare la pizza la lingua non serve.

E, canta ancora Daniele Silvestri, «dovrò dosare la fatica, imparerò a parlare in questa lingua sconosciuta, sognando di riuscire, un giorno, a fare ricevuta tra gente compiaciuta e che di me si fida». Si fida? Chi si fida? «Grazie Assai» mi dice che «la gente italiana sono apprezzati in America», e qui viene il dubbio: ma se non ci fidiamo l’uno dell’altro in madrepatria? Ma se prima di firmare un contratto chiediamo pure di che quartiere uno è? Ma se siamo tutti cani con le museruole? No, forse qualcuno si salva.

«E non è piccola la sfida, querida, disperso in questo angolo d’Europa unita». Fidarsi pure in Europa, che ora ci è alle calcagna. Fidarsi della storia? Non ha insegnato nulla. Delle esperienze? Ma quelle di chi? Fidarsi di me? Questo mai. Quando anche una guerra decisa sei ore prima ha interferito nei rapporti umani e disumani, fidarsi? E di chi? Di lui. Lui quale? Indicalo meglio. Quello laggiù, con la cravatta? No, scusa, quello con il tatuaggio sul collo? Scusa, non so a chi ti riferisci. E poi si vede che quella cravatta è finta. Io direi più lei. Come lei, lei quale?

Dispersi in un angolo di vita, «ti metto la valuta in una busta, la spedirò per posta, ma poi non basta mica: se tu sapessi quanto costa la vita, sapessi quant’è faticoso riuscire a tenerla pulita». Dove sono le opportunità? Gli dico che è stato più fortunato lui di Gaetano, che non ha avuto nemmeno la possibilità di annusarla, l’America; di annusarla, l’Europa; di annusarla, l’Italia. Perché il lutto, dopo il suo funerale, è stato tenuto dalle donne per tre mesi. E poco prima, quando nel viaggio precedente il compaesano emigrato era tornato a casa orizzontale, gli uomini hanno allontanato le femmine, hanno aperto la bara e hanno controllato che la salma fosse dentro. Lui era lì, non capiva, perché allontanare le donne? Cosa succede ora?

La mia domanda era stata, inizialmente: cos’è una Funeral Home? E cosí chiude il capitolo e mi risponde: «Tutto questo per dirti che qui, in America, la Funeral Home ospita ed espone la salma, che poi viene portata al cimitero e sepolta». Ed io che credevo che si facesse festa davanti al morto, si mangiassero pasticcini, si bevesse vino e, sussurrando nella stessa o nelle stanze accanto, si spettegolasse su quante donne aveva avuto e sul vestito della figlia: «Che orletto mal fatto»! No, mi spiega, questa non è l’America. This is more British. La festa si fa in Europa. La festa, una cerimonia per commemorare il defunto.

Mi guarda, l’aria un po’ sognante, e mi dice: «Non vedo l’ora di tornare al mio paese». Il paesello su una rocca, lo sprofondo dell’Italia, è nascosto nel cuore di un grande americano. Opportunità, mi dice. Sì, è vero, sono nato fortunato. L’America è un Paese ricco di opportunità. Ma freddo. Ma duro. Ma conservatore. Ma schivo. Lo sa che è stato fortunato, perché è un Giano bifronte che conosce due realtà, una nel cuore e l’altra nel cervello. Racconta che suo padre, dopo i 18 anni, gli faceva pagare 20 dollari a settimana d’affitto e un dollaro ogni volta che non avesse sistemato la stanza. In America.

Dall’altro lato, sua madre cucinava, il padre tornava e leggeva il giornale, e i figli li hanno fatti perché Dio li ha voluti, secondo la tradizione cattolica: Italia. Lui sta bene, fa una bella vita, comoda, lavora duro e può permettersi i propri lussi, ma lo vedi che non è soddisfatto, lo senti che gli manca un pezzo, e te ne accorgi quando ti guarda e lucidamente ti dice che non si vuole legare, e poi ti domanda: «Ma come si dice, in italiano, picciriddu?» (ROMINA CIUFFA)




F.U.T.U.R.E.

F.U.T.U.R.E.
un racconto di Romina Ciuffa
Non c’è nulla all’interno della nave, assolutamente nulla. Nessuno la guida. F.U.T.U.R.E. è vuota.

In questo bar del Village il soffitto è coperto da animali a zigzag ritagliati da cartoni colorati e plastica. Volteggiano in aria come padroni. Qualche lesbica creativa ha tirato fuori le sue paure più grosse e le ha rappresentate, poi le ha appese tutte al Cubby Hole sulla Dodicesima Strada e quando non dorme, perché non vuole e perché i suoi mostri la inseguono nel letto, passa di qua, li guarda in faccia, dritti negli occhi e loro, danzando al suono di un jukebox vecchio modello, non fanno più paura. Non c’è niente di meglio che tirar fuori il mostro e guardarlo in faccia. Un whisky liscio aiuta e per questo intorno alle pareti colorate è sorto un locale, con la pretesa che sia solo per donne. I mostri della lesbica intimoriscono più, allora, qualsiasi avventore che non si troppo macho per entrare ed affrontarli. Amanda Moore mi siede accanto ed è bella. Non so chi sia, so solo che è bella. Mi ero alzata a prendere due birre ed ecco che si siede questa donna accanto alla mia amica, che per l’occasione ho lasciato sola fra le donne, beata tra di esse.

Si siede questa donna in tailleur dopo aver chiesto se la sedia fosse libera. No, in verità sono con un’amica, è a prendere da bere. Sei bella, davvero. Posso sedermi comunque? Sì, c’m’on, siediti, c’è comunque una sedia in più. E silenziosa fa un sacco di domande. Il suo silenzio chiede: sei gay? Sei davvero così bella? Ti piacciono molto gli uomini? Quella è la tua ragazza? E la mia amica, mentre mi attende, in silenzio altrettanto risponde, con due occhi verde imbarazzato: non sono gay. Non sono davvero così bella. Mi piacciono molto gli uomini. No, quella non è la mia ragazza. E il verde imbarazzato diviene azzurro mare quando Amanda la fissa e le fa un’altra domanda senza chiedere. E allora perché mi fissi cosí sin da quando son entrata? A questo la mia amica, che ho lasciato da sola al tavolo del Cubby Hole, non sa davvero cosa rispondere, perché l’ha fissata ininterrottamente da che Amanda ha messo piede nel locale. Questa modella di pochi anni, alta, con la cravatta e occhi predatori, questa maschietta con arte e parte, si fa guardare. Da tutte. E mentre butta giù tequila, io pure guardo la scena da lontano, e palpita il tavolo sotto di lei che lo sfiora con mani grandi, e la mia amica, alta quanto lei, si vede, non sa cosa si fa a una donna se sei una donna, e l’approccio va gustato come un Brownie quando fumi marihuana, senza sapore. Senza fame vera. Solo con quel desiderio di qualcosa che non vuoi davvero. Ma che ti piace l’idea di volere. È quello che sta accadendo ora, mentre ordino le birre e Amanda ordina una bionda confusa.

Torno al tavolo e Amanda, di cui non so il nome, si alza. La seguo e le chiedo d’accendere. La curiosità è donna e qui siamo tutte donne. Il sesso qua dentro non conta perché ce n’è uno solo. Finita la sigaretta, finita la birra, la mia amica continua a regalare occhi a questa mora incravattata, che finisce per essere più alta di lei – cosa che di solito non accade mai alle alte e le colpisce. Affondata mi guarda, e m’alzo quando Amanda viene al tavolo e dice di volermi parlare. Mi chiede cosa volevo da lei. Non voglio niente da te, come-ti-chiami. Si chiama Amanda, dice. E cosa fai, Amanda, e perché a New York ti metti a parlare italiano? Perché lavoro anche in Italia. Ha capito tutto quello che la mia amica mi ha detto di lei al tavolo, e sa che qualcuno ha ceduto, stanotte, sotto i mostri colorati di una lesbica impaurita dall’esserlo che li ha ritagliati in una domenica di neve. Che lavoro fai, se posso permettermi di chiedere? Sono una modella. Non faccio difficoltà a capire che non mente e che ha fatto copertine di Vogue. Il suo coming out è arrivato dopo ed ora è quasi un’icona gay, da quando ha deciso di tagliarsi i capelli alla maschio e di giocare coi motociclisti in bianco e nero e non più piume viola e raso sulle gambe lunghe. Mi dice no, la tua amica è bella, ma è etero. È straight. Basta con le straight: non più. Perché Amanda? Perché l’ultima mi ha fatto soffrire. Basta con le etero. Fanno soffrire più di tutto, come non potessi dar loro più che sesso, e nemmeno completamente a volte. Siamo solo fantasie per loro e restiamo in un mondo fantastico. Forse per questo atterra un Ufo nel Cubby Hole.

Atterra e tutti i mostri che ci sono dentro cominciano a danzare nel cielo e in terra, fra i piedi e fra le mani, e la lesbica che li ha disegnati si nasconde sotto il bancone del bar. Amanda non ha paura, anzi, la vedo a suo agio in mezzo ai mostri. La mia amica non si accorge di nulla ma io li vedo danzare e urlare al ritmo di un valzer solo violino. Li vediamo in poche. Io vedo fiamme arrossare il volto che ho riflesso nello specchio e ballerine con i piedi rotti. Vedo dolore e sensi di colpa. Gessi. Vedo menzogne, battute, vedo la società, vedo la famiglia di ciascuna di queste donne e la mia, vedo maschi mostrare i propri genitali, mandare fiori e fare pipì sul muro. Amanda fuma la sua sigaretta e la mia amica beve la sua birra. Trema la lesbica sotto al bancone ed io, che mi accorgo di ciò che sta accadendo, la vado a soccorrere. La musica là sotto cessa e in questo ritrovato silenzio le chiedo perché ha paura. Non vedi cosa sta accadendo? Sì. Tu puoi vedere? Sì, posso. E non hai paura anche tu? Molta. Un mostro giallo con due passi è davanti a noi e urla. Lei si ripara dietro di me, me lo trovo davanti e mi accorgo che assomiglia alla normalità. Mi accorgo che tutti questi mostri assomigliano alla mia amica ed hanno occhi verdi come i suoi. Cosa facciamo noi sotto al bancone mentre un gruppo di animali di cartone colorato balla valzer senza musica? L’Ufo che è atterrato apre le porte. La navicella ha una scritta cubitale che dice F.U.T.U.R.E.; una luce acceca me e l’altra in ginocchio dietro me, che si gira. Io preferisco guardare, coraggio, andiamo a fondo alla cosa, lascio un attimo la mano di questa sconosciuta terrorizzata che m’implora di restare e mi avvicino alla macchina. Appoggio lentamente il piede sulla piattaforma. Scivolo dentro.

Non c’è nulla all’interno della nave, assolutamente nulla. Nessuno la guida. F.U.T.U.R.E. è vuota. Posso ancora sentire tremare la lesbica da sotto al bancone e vedo tutti i suoi mostri danzarle accanto terrorizzandola. D’improvviso, una figura appare dentro la macchina. È la mia amica: da dov’è passata? Mi prende la mano, quella straight, quella “straight basta”, di repente mi bacia, mi bacia ancora, mi spoglia, sorride, si spoglia, mi bacia, mi prende, fa l’amore con me, dolcemente, senza saperlo fare ma comunque dolcemente mi fa, per un istante, sentire voluta e sorride ancora, mi fa per ore, o forse un secondo poi s’addormenta.

Ora che dorme fa meno freddo dentro la nave e sembra quasi che questa donna l’abbia riscaldata. Amanda aveva torto marcio, il mondo fantastico è reale, è tutto reale qui dentro. È proprio una stupida. Ma cosa vuoi che capisca una modella americana! Stupida. Cosa vuoi che capisca. Guardo lei accanto a me ma la luce della nave mi acceca e mi domando come non accechi lei, come possa addormentarsi così. Non riesco a dormire dentro F.U.T.U.R.E. e posso ancora vedere mostri ballerini, sebbene colorati, spaventare quella lesbica. A me non fanno un graffio ora: sono forte, sono meglio di Amanda Moore. Uno ora ha addirittura il viso di Amanda ed è nero, indossa una giacca e si fa beffa di me. Ma io non ho paura! Io ho il coraggio dalla mia. Io posso affrontare un’eterosessuale, e guardala, è qui che dorme accanto a me! Non si è pentita, non era un gioco. Non sono solo una fantasia: esisto e sono reale. Tu Amanda, invece? Sei reale o finta come una copertina di carta lucida? Hai piume viola addosso o cravatte? Tu che hai paura di tutto, tu che le straight basta, impara a campare! Stupida. Ma il mostro ride ancora, non risponde alle mie provocazioni e a sua volta provoca, chiudo gli occhi un istante per non guardarlo e quando li riapro mi ritrovo sola sulla navicella dentro al Cubby Hole. La mia amica non c’è qui accanto a me, quella che dormiva sotto le luci accecanti di F.U.T.U.R.E. non accecata. Il violino suona ancora e stride un po’, consumato senza accordatura perfetta o corde di valore. A fatica, perché non ho dormito davvero, m’alzo, mi avvicino alla porta della nave e faccio per uscire. Cerco la mia amante. Mi fermo sull’uscio e la intravedo, poi la vedo. È mano nella mano con un uomo. Non la amo, ma fa uno sbraco nel cuore. Amanda la guarda da lontano, poi guarda me come a dire: ti avevo detto cosa fa soffrire nella vita. Si aggiusta la cravatta, si accende una Merit e se ne va su un’altra copertina di Vogue.

Ma sono ancora sulla nave e un’alternativa la ho, i mostri sono ancora più ribelli ora e la mia nuova amica mi guarda. Posso salire anche io? Preferisce una vita lontano dai mostri che ha ritagliato in una domenica di neve, a costo di dover andare via su una navicella vuota. No, le faccio con gli occhi, non c’è niente su questa nave! È vuota! Non posso lasciarti entrare. Si soffre qua sopra, si soffre qua dentro. Ma da sotto al bancone, veloce fa uno scatto ed è a bordo. I motori si accendono. Non sta ascoltando me come io non ho ascoltato Amanda. Si soffre qua dentro. F.U.T.U.R.E. è una fantasia vuota, un gioco di luci, ma la realtà è anche peggio. Non so se scendere, non so se partire, devo decidere in fretta ma sulla nave ci sono solo io e questa sconosciuta piena di paure come me. Non voglio una vita vuota. Faccio un salto prima che le porte di F.U.T.U.R.E. si chiudano del tutto e sono di nuovo al Cubby Hole. La mia amica, quella che ha voluto fare l’amore con me come si pasteggia in preda alla follia post-marihuana, mi sorride, non si è accorta di niente e ancora attende la birra che le devo portare. I mostri ora sono solo pezzi di cartone ritagliati da qualcuno che non c’è più e che nessuno ha potuto più ritrovare, ma sono tutti là che fissano me. Non esce più alcun valzer dal jukebox. Mi racconta che ieri notte ha fatto l’amore con quell’uomo che, poco più in là, sta sfogliando Glamour: in copertina c’è Amanda che ride di gusto. Alzo gli occhi e vedo la luce di F.U.T.U.R.E. divenire più piccola, poi scomparire. La nave non è più vuota ora, non è vuota come lo sono io. C’è una ragazza là dentro, mentre qui dentro non c’è niente.  (ROMINA CIUFFA)

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EBBENE SÌ, IL CAR SHARING L’HO INVENTATO IO

C’è un pessimismo dilagante, il mondo va a rotoli. Ma ripassiamo la teoria dell’apprendimento sociale dello psicologo Albert Bandura, con una premessa: l’autoefficacia percepita si distingue dall’ottimismo e corrisponde alla convinzione di «sapere di saper fare». Un alto livello di autoefficacia percepita rende i compiti difficili occasioni per mettere alla prova le proprie capacità con forte aspirazione e impegno e agisce sui sistemi autonomico ed immunitario: aumenta la tolleranza della sofferenza, attiva difese nei confronti delle malattie, tiene le distanze da condotte e agenti patogeni ed integra il concetto di autostima. Dipende da attribuzioni causali: il «locus of control», la percezione che il controllo di determinate situazioni sia interno o esterno alla persona; la stabilità delle cause (la facilità del compito è stabile, la fortuna instabile); la controllabilità sui fattori in gioco. In un momento difficile come questo, è molto probabile che il «locus of control» della nostra vita sia collocato all’esterno: è lo Stato che non ci permette di, è la crisi che non rende possibile il, è la burocrazia, è l’America, sono i dem, sono i conservatori, è la corruzione…

È l’anticamera della depressione: attribuire un insuccesso a fattori esterni, instabili, incontrollabili, fa ritenere che i risultati negativi si verificheranno di nuovo, innescando una spirale di scarso impegno, sfiducia nelle proprie capacità e un senso di impotenza. Martin E. P. Seligman, descrivendo questo stile attributivo come caratterizzato da 4P – permanente, pervasivo, personale, pesante – elabora una vera e propria ricetta per il pessimismo. È invece caratterizzato dalla formula delle 4E l’ottimismo ottuso: sono le «e» che definiscono le situazioni dell’ottimista come estemporanee, esclusive, esterne, esigue, una predisposizione che conduce alla deresponsabilizzazione. Eppure un bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto nello stesso momento. È il «feel bullish», il sentirsi un toro, a predisporre al bicchiere mezzo pieno, ben rappresentato nella statua del «Charging Bull», toro di Wall Street, opera dell’italoamericano Arturo Di Modica che troneggia nel Bowling Green Park di New York. Ed è anche la locuzione «start up»: la scalabilità è il presupposto essenziale per lanciare sul mercato un’idea.

Era il 1986, avevo 10 anni quando inventai il «car sharing», mentre mio padre era intento a cercare posto per la macchina sotto il palazzo di Valentino: nessuno mi dette credito, ero troppo piccola. Mi trovavo a Piazza Mignanelli, a Roma, e ne parlai a mia sorella Giosetta, della mia stessa età. Internet non esisteva, i numeri di telefono di casa non avevano nemmeno il prefisso. Eppure elaborai un business plan sulla base delle domande che lei, sempre geniale, mi poneva. Avevo previsto la possibilità di installare, nelle vetture, un apparecchio che avesse registrato la carta prepagata dell’utente; che lo stesso sarebbe stato sanzionato per le infrazioni e responsabilizzato per eventuali incidenti; un’assicurazione completa; la possibilità di riparcheggiare le auto ovunque a Roma in modo che altri avrebbero potuto prelevarle nella medesima modalità. Avevo previsto tutto salvo una App, giacché non era tempo di App ed io non avevo ancora inventato Internet e smartphone. Non venni ascoltata se non da mia sorella, che dopo anni mi mandò un articolo sul bike sharing francese: avevamo, a quel punto, circa vent’anni. La vivemmo come una sconfitta personale. La mia intuizione avrebbe cambiato la modalità, l’approccio e la vita automobilistica del Paese. Ma, soprattutto, mi avrebbe resa miliardaria.

Il problema fu che non avevo inventato la start up. Ossia, troppo presa dai miei studi di scuola media, non avevo coscienza dell’esistenza di bandi e fondi per poter far progredire un’idea. E, soprattutto, nessuno mi avrebbe ascoltato, se non la mia gemella. Oggi la start up è il futuro del nostro ottimismo, unica possibilità per sentirsi un toro. Materassi sottovuoto sono quelli di Eve Sleep, prezzi competitivi e consegna a casa; ravioli cinesi con ingredienti italiani consegnati a domicilio quelli di Hujian Zhou, cinese residente in Italia da 20 anni, in società con un macellaio meneghino; cabine-letto per gli aeroporti, quelle notti infinite di scalo, ed ecco la ZzzleepandGo di tre ventenni, che ne hanno realizzato in casa il prototipo automatizzato completo di letto, wi-fi, sveglia, cromioterapia, luci a Led, contenuti multimediali e possibilità di prenotazione, ora presente negli aeroporti di Malpensa e Bergamo-Orio al Serio; ci sono i «supereroi» di Gabriele di Bella prenotabili online: colf, badanti, personal trainer, baby sitter, fisioterapisti, tuttofare.

Il figlio di Mogol, Francesco Rapetti, anziché cantare produce Nuvap, un dispositivo in grado di rilevare l’inquinamento negli spazi chiusi, che uno spedizioniere passerà a ritirare dopo una settimana per poi inviare un report al cliente con le soluzioni per eliminare gli agenti inquinanti. Per la salute c’è il rilevatore di ictus, Neuron Guard, start up di Mary Franzese, 30 anni; c’è Empatica, del trentaduenne Matteo Lai, per il rilevamento dei segnali fisiologici della vita quotidiana; c’è Eucardia, di Francesca Parravicini e del padre Roberto, cardiochirurgo di Milano; c’è D-Eye, prototipo dell’oculista Andrea Russo, che attraverso uno smartphone compie uno screening per una prima diagnostica sull’occhio del paziente. Flavio Lanese a 56 anni cambia vita e inventa SpeedyBrick, un mattone che si monta come i Lego; Solenica, del 24enne Mattia Di Stasi, produce Lucy, una lampada che insegue la luce del sole, idea nata dalla scomodità di un ufficio non luminoso e dall’illuminazione – è il caso di dire – che la luce della strada di fronte potesse essere ridirezionata nel punto giusto. Cinque sardi, riuniti a casa di nonna Elvira, inventano Sardex, una moneta che vale come l’euro, per far fronte alla crisi finanziaria (una sorta di Sardexit?) nella consapevolezza che la crisi della liquidità non corrisponda a una crisi di produttività: basta dare la possibilità di sostenersi a vicenda attraverso un mercato parallelo.

A chi si chiedesse come trovare i soldi per lanciare una start up (oltre trovare sponsor e finanziamenti), ovviamente, rispondono altre startup: Crowdbooks, del 42enne Stefano Bianchi, pubblica libri in crowfunding: chiunque può sostenere un progetto editoriale preacquistando una copia a prezzo scontato; DeRev, portale di raccolta di fondi del salernitano Roberto Esposito, ha trovato 1.463 milioni di euro per ricostruire a Napoli la Città della Scienza distrutta da un incendio; Iubenda, del 27enne Andrea Giannangelo, aiuta i clienti a costituire una start up innovativa in pochi passaggi online. Si può anche fare una colletta su Collettiamo, idea nata da tre giovani marsigliesi che si trovarono a raccogliere i soldi per organizzare la festa di Capodanno con parenti ed amici.

Personalmente, ho una soddisfazione: aver inventato il car sharing a 10 anni. Morale della favola: i bambini, ascoltiamoli. Il plagio, a volte, è telepatico.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – febbraio 2017