STEFANO MASTRUZZI: SAINT LOUIS, LA DOMUS ROMANA DELLA MUSICA DAL 1976, ANZI, DAL 123 D.C.

Stefano Mastruzzi è uno dei più geniali e riusciti (ma giovani) imprenditori italiani. Non ha visto crisi perché l’ha contrastata a suon di jazz che è, per definizione, improvvisazione: mentre altri chiudevano, lui ha rischiato, investito. Ciò che lo rende ancora più speciale è l’essere chitarrista e direttore d’orchestra e l’aver amato a tal punto la musica da renderla non solo emozionale, ma anche pragmatica. Anche laureato in Giurisprudenza ed editore di un giornale, «Music In», oggi apre la quarta sede del suo Saint Louis College of Music, nel cuore del Rione Monti di Roma, integrando le 3 già esistenti con 18 nuove aule per un totale di 50 aule e 3 studi di registrazione. Appartenente precedentemente a un artista, prima che Mastruzzi l’acquistasse, la nuova sede è ricca di disegni nelle pareti che la ristrutturazione volutamente non ha cancellato. Ma non è questa l’unica particolarità: durante il recupero degli ambienti sotterranei, nell’area delimitata da Via Baccina e Via del Grifone, sono state riportate alla luce strutture murarie antiche. È riemersa così un’antica Domus romana, risalente al 123 d.C., visibile anche dalle aule dove è stata valorizzata con vetri a vista e senza mai collidere con la storia.

Si apre in tal modo il quarantesimo anno accademico, nello slogan «40 ben suonati»: fondato nel 1976, il Saint Louis, prima e unica istituzione privata in Italia autorizzata dal Miur a rilasciare lauree di primo e di secondo livello, è fra le più rinomate realtà didattiche musicali di eccellenza di respiro europeo, con oltre 1.600 allievi ogni anno provenienti da tutta Italia e da molti Paesi europei ed extraeuropei, in crescita costante del 6-8 per cento annuo. Dal 1998 è diretto da Mastruzzi, che l’ha rilevato, e fino a oggi  l’evoluzione è stata straordinaria: dai 90 iscritti del 1998 ai 1.600 del 2015; dall’unica sede (quella storica ancora attiva in Via Cimarra) alle 4 sedi di oggi, site in Via Urbana (400 metri quadrati), Via del Boschetto (500 metri quadrati), Via Baccina (800 metri quadrati). Il corpo docente è cresciuto da 16 a 110 docenti professionisti. Sono stati prodotti 24 dischi dal 2004, anno di nascita della prima etichetta, la Jazz Collection, seguita da una seconda, Urban 49, e da una terza, Camilla Records. Sono stati pubblicati 10 libri didattico-divulgativi, e in stampa, entro la fine del 2015, ce ne sono altri 12. E ancora: Radio Jazz Saint Louis, web radio diretta da Adriano Mazzoletti, che propone 24 ore di jazz al giorno dal lunedì al venerdì con programmi che riguardano l’intero arco del jazz dalle origini ad oggi; un Centro di produzione artistica; un’agenzia, il Saint Louis Management; i nuovi corsi «Musica nel mio piccolo» per bambini dai 3 ai 5 anni, e molto altro.

Domanda. Cos’è il Saint Louis e come ha fatto a divenire la più grande scuola di musica e fucina di artisti d’Italia?
Risposta. Il Saint Louis non è una scuola di musica, c’è ben altro e non lo si può spiegare, ma solo cogliere e percepire; osservando gli allievi seduti nei corridoi con le chitarre in braccio e una progressione armonica da inseguire, sbirciando nelle aule dove prendono vita le orchestre, ascoltando le produzioni discografiche delle nostre etichette, guardando alle 100 band che ogni anno qui nascono e portano fuori la propria musica, partecipando alle decine di master class con personaggi straordinari, lasciandosi ipnotizzare dai suoni destrutturati di giovani votati alla musica elettronica e al sound design, vivendo un cortometraggio musicato, orchestrato e diretto da compositori in erba, scattando negli studi del Saint Louis un’istantanea di fonici con mani tentacolari su decine di potenziometri, ascoltando la radio del Saint Louis o semplicemente i suoni ovattati che dalle aule sfuggono con destrezza alle trappole acustiche e si diffondono nelle strade del rione Monti. Il Saint Louis è un progetto dinamico, spinto costantemente da un vento teso di rinnovamento, alla ricerca di un’impossibile perfezione, vissuta ora sistemando la punteggiatura di un programma didattico, ora stravolgendolo completamente, ogni qualvolta si ravvisino cambiamenti di rotta nel mondo del lavoro. Perché, per etica, non possiamo, non vogliamo e non dobbiamo formare professionisti di una professione che fu, ma di quella che sarà.

D. Come considera la formazione?
R. La formazione di un ragazzo esige una responsabilità immediata che travalichi logiche politiche, sindacali, imprenditoriali, di interesse pubblico o privato; non possiamo permettere che le legittime ambizioni artistiche di un giovane possano venire mortificate e compromesse da un insegnante demotivato, da un docente che vinca ai punti il proprio ruolo, da un musicista che abbia appeso le corde al chiodo il giorno dopo essere stato assunto. Tutti noi, che oggi siamo il Saint Louis, inconsapevolmente continuiamo a trasmettere ai nostri giovani allievi tutta l’energia, il coraggio e il sogno musicale che abbiamo condiviso con Maurizio Lazzaro e Alessandro Centofanti.

D. Quali sono i corsi Saint Louis?
R. I corsi accademici di primo livello autorizzati e attivati sono molteplici. È anche attivo il corso di secondo livello in Composizione e arrangiamento Jazz, che rappresenta il livello più alto di formazione accademica, equivalente alla laurea specialistica, il primo in Italia con combo e orchestra a disposizione per l’esecuzione e la pratica di direzione delle proprie partiture. I contenuti spaziano da tecniche armoniche a tecniche compositive e di strumentazione, arrangiamento per piccole formazioni, per big band, per archi e formazioni miste. A partire dal corrente anno, sono stati inoltre autorizzati 6 Master di primo livello in Big Band per musicisti d’orchestra; Music Management, ossia alta formazione per futuri manager dello spettacolo con i migliori promotori italiani e internazionali di ambito pop, jazz e indie; Film Scoring, una specializzazione in musica per film con i grandi compositori nazionali; Contemporary Jazz; Popular Music e Musica elettronica.

D. L’internazionalizzazione è la punta dell’iceberg Saint Louis?
R. Grazie alla sua posizione geografica e la centralità all’interno della Capitale, il Saint Louis costituisce una naturale meta d’interesse per allievi internazionali che vogliano svolgere parte dei propri studi in Italia ma anche per artisti in visita e docenti di musica dei vari Conservatori europei: hanno partecipato alle ultime selezioni per l’ammissione studenti provenienti da Italia, Spagna, Francia, Polonia, Romania, Russia, Bulgaria, Gran Bretagna, Iran, Messico, Azerbaijan, Georgia. Partendo da una ferma convinzione dell’importanza del processo di internazionalizzazione ai fini della valorizzazione e della qualificazione delle attività formative, artistiche e di ricerca, abbiamo intrapreso da lungo tempo una politica di apertura verso l’Europa ed il resto del mondo, promuovendo attivamente progetti di collaborazione con istituti internazionali di Alta formazione artistica, con programmi di scambio per studenti e docenti, master class e workshop intensivi tenuti da artisti in visita, ed anche un nostro concorso internazionale di jazz che coinvolge 15 diverse nazioni, il Jazz Contest. Dal 2011 il Saint Louis è membro attivo dell’Aec, l’Association Européenne des Conservatoires, credendo nell’importanza del confronto su base internazionale con istituzioni di formazione di pari livello e ambito, e nel 2014 gli è stata riconosciuta la Eche, ossia l’Erasmus Charter for Higher Education, venendo ufficialmente inserito nella partecipazione attiva al programma comunitario Erasmus+. Ciò ha consentito di intensificare i programmi di scambio per studio, tirocinio, docenza o formazione in altri istituti e in aziende del settore, cui siamo collegati anche attraverso il Consorzio Working With Music+, progetto interamente dedicato all’inserimento lavorativo post-lauream in aziende e istituti di formazione europei. L’anno accademico 2015/2016 poi si apre all’insegna di un nuovo importante progetto, l’Italian Jazz on the Road, festival europeo itinerante ideato e promosso da noi ed un supporto del MiBact, che porterà 40 giovani musicisti italiani selezionati fra i nostri migliori talenti in tour europeo, da Roma a Helsinki, Londra, Barcellona, Maastricht, Aalborg, per un totale di 30 concerti. Abbiamo inoltre inaugurato due nuove progetti rivolti agli studenti internazionali: il Richmond Program, in collaborazione con la Richmond University di Roma, per il completamento artistico della formazione degli studenti americani, e il Programa Conexão Cultura Brasil, in collaborazione con il Governo brasiliano per l’incentivazione della formazione di studenti brasiliani in condizioni socio-economiche svantaggiate. A proposito di Brasile: oltre alla presenza, da sempre tra i nostri docenti, del grande chitarrista samba-jazz Eddy Palermo, all’interno della scuola è stato attivato un coro di musica brasiliana, il Coro di Rioma, fondato da Romina Ciuffa e diretto dalla cantante soteropolitana Claudia Marss (www.riomabrasil.com).

D. Il Saint Louis è anche una grande agenzia che rappresenta i migliori artisti in circolazione da una parte, e i suoi allievi più brillanti dall’altra. Cosa fa esattamente il Saint Louis Management?
R. L’agenzia artistica si occupa di inserire i migliori diplomati nel mondo del lavoro attraverso produzioni, concerti, dischi e pubblicazioni, un raccordo fondamentale tra il momento formativo e quello lavorativo. Ogni anno il Saint Louis Management promuove i giovani talenti con più di 250 concerti in tutta Italia, li porta al Lab on the Road, salotto musicale romano che dà spazio a tutti i gruppi nati all’interno dei corsi, li inserisce nelle programmazioni di club e festival su territorio nazionale, organizza i Summer e Winter Gigs, vere e proprie maratone stagionali sui palchi più prestigiosi; fa partnership con i Conservatori europei attraverso molte iniziative; consente di compiere tirocini formativi all’estero, veri e propri inserimenti lavorativi in altri istituti di Alta formazione artistica per docenze, ricerche o assistenza; inserisce nel mondo del lavoro, da produzioni televisive o cinematografiche a studi di registrazione, club e scuole di musica. Il Saint Louis Management inoltre seleziona ogni anno all’interno del nostro vivaio artisti o gruppi da produrre tramite le 3 etichette indipendenti: Urban 49 per il pop e il rock, Jazz Collection e Camilla Records, quest’ultima che prende il nome da mia figlia e comprende un misto di generi.

D. E il Centro di produzione artistica?
R. Il Centro segue, produce e promuove i progetti più interessanti individuati all’interno della scuola stessa, affiancandoli in ogni singola fase di crescita. Entrato a far parte del Centro di produzione artistica, il giovane musicista viene assistito in tutte le fasi: dalla creazione di un gruppo che possa eseguirne i brani, all’affiancamento di un tutor con cui confrontarsi nella stesura del brano, nell’arrangiamento e nell’interpretazione, per proseguire con sedute in studio di registrazione che si trasformano infine nella realizzazione di un cd, pubblicato e promosso. Tutti gli studenti degli ultimi due anni di Alta formazione partecipano alla realizzazione delle proprie pubblicazioni editoriali, un cd o vinile che rappresenta il sunto del loro lavoro e un biglietto da visita per il futuro.

D. Nel prossimo febbraio 2016 sarà avviato anche il progetto di musicoterapia?
R. La musicoterapia rappresenta una delle nuove sfide per il Saint Louis, che userà parte dei nuovi spazi per l’attuazione di un progetto dalla forte ricaduta sociale. Il nuovo Dipartimento ospiterà sedute di musicoterapia, anche gratuita per fasce di reddito, per formare musico-terapisti, svolgere ricerca in collaborazione con le università italiane. Musicoterapeuti qualificati e di fama lavoreranno all’interno dell’Istituto, permettendo agli studenti di assistere alle terapie e di confrontarsi per creare nuovi spunti di riflessione e di contatto e tenendo corsi qualificanti per futuri musicoterapeuti. Il progetto prevederà l’attuazione di diverse terapie, molte a titolo gratuito per i pazienti perlopiù bambini e adolescenti, di cui copriremo interamente le spese annuali.

D. È pronto anche il progetto di recupero e diffusione del patrimonio musicale italiano del ‘900: come sarà attuato?
R. Sosterremo con nostri fondi 3 orchestre stabili, per un totale di 50 musicisti e 3 direttori d’orchestra che eseguiranno repertori tratti dalle colonne sonore di Mario Monicelli, le partiture originali di Enrico Pieranunzi, la musica tradizionale napoletana. Le orchestre, composte da giovanissimi talenti, si esibiranno nei Conservatori europei esportando un repertorio tratto dal patrimonio culturale musicale italiano, dai primi del ‘900 ai giorni nostri. Il progetto coinvolge anche 25 giovani arrangiatori che avranno il compito di recuperare e arrangiare questo vasto repertorio, un’occasione di studio applicato a situazioni lavorative reali.

D. La nuova sede è preziosa per tutto ciò che è il Saint Louis, ma è inestimabile per la Domus romana del I secolo che si cela sotto le sue mura: un pezzo della storia di Roma e una vera e propria responsabilità: qual è il suo progetto per il recupero e la valorizzazione di un bene storico di tale levatura?
R. Ho avviato il recupero della Domus romana al fine di renderla fruibile agli studiosi e al pubblico. È un grande patrimonio risalente al I secolo d.C. ricco di mosaici, mura ottimamente conservate e persino un affresco. Lungo Via del Grifone si susseguivano una serie di ambienti riconducibili a strutture commerciali e magazzini posti al pian terreno di un grande edificio, verosimilmente una delle insule che le fonti antiche ci ricordano caratterizzare quest’area della Suburra. Le stanze, che si sviluppavano parallele all’asse stradale di Via Baccina, presentano sulle pareti in opera laterizia tracce delle porte e delle finestre obliterate da interventi successivi. La copertura, con volte a botte, è scomparsa, ma le sue tracce si conservano sulle pareti più interne. Negli ambienti adiacenti si riconoscono invece strutture con funzione abitativa di un certo pregio, risalenti all’età antonina. Una grande stanza rettangolare, coperta con volta a botte e con ampie aperture sulle pareti lunghe, conserva ampi tratti della pavimentazione musiva originale ad esagoni bianchi e rombi neri alternati, mentre si conservano in situ alcune formelle. In un secondo ambiente, con pavimento a mosaico a scacchi in bianco e nero, risaltano partiture con motivi decorativi floreali e la figura di un piccolo uccello. Dall’analisi dei mattoni impiegati per la costruzione della rete fognaria originale, si è riscontrato una sorta di «marchio di fabbrica» indicante, oltre al produttore, anche il nome dei Consoli in carica, ossia Paetino e Aproniano. Questa indicazione consente di definire l’anno esatto di produzione: il Consolato del 123 d.C., ma ovviamente avremo certezze una volta terminati gli studi da parte della Soprintendenza archeologica.       (ROMINA CIUFFA)

Dario Franceschini, ministro dei Beni e delle Attività culturali e del turismo, è in prima linea rappresentando le istituzioni e inaugurando, con Stefano Mastruzzi, la quarta sede del Saint Louis College of Music di Via Baccina, a Roma, il 24 settembre 2015, un evento non classico nel quale tutte le aule si riempiono di concerti, jam session, improvvisazioni, in un trionfo di qualità. Tra i nuovi, tra i jazzisti, tra i moderni, tra i classici, anche Bobby Solo, che si ferma in una saletta e improvvisa con il chitarrista Marco Manusso un concerto che è apprezzato anche dalla direttrice del Maxxi Giovanna Melandri. Avuta a mente la fresca legge 13 luglio 2015, n. 107, «La Buona scuola», alcuni punti della quale riguardano specificamente l’alta formazione musicale (uno per tutti: i fondi per il funzionamento amministrativo e didattico delle istituzioni statali dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica sono incrementati di 7 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al 2022); e la generica raccomandazione legislativa al Governo di occuparsi dell’armonizzazione dei corsi formativi di tutta la filiera del settore artistico-musicale, l’incontro è stato anche un’occasione per ascoltare il ministro Franceschini descrivere le intenzioni proprie e del Governo.

«Ricordo i dischi jazz di mio padre. Sono a lui grato per avermi fatto conoscere il jazz da piccolo attraverso Radio Elle, quando andavo a fare un’ora di jazz a Ferrara con un mixer di latta costruito artigianalmente in casa. Si è perso molto tempo per capire che il jazz italiano è un punto di riferimento europeo fatto di grandi maestri e di tanti giovani talenti che combattono le difficoltà insite nella sfida di far diventare la propria vocazione un lavoro. Spesso ci riescono, ma fuori dai nostri confini nazionali. Dobbiamo compiere un grande investimento, che è insito anche in quella sfida su cui io insisterò giorno per giorno finché avrò questa responsabilità: riuscire ad affiancare la contemporaneità al ruolo primario che ci ha dato la storia, quello di tutelare e valorizzare il patrimonio materiale e immateriale delle generazioni che ci hanno preceduto. È importante aver centrato la prima occasione di riconoscimento da parte del Miur dell’equipollenza del titolo accademico nel settore del jazz e della musica moderna: per noi è stata una grande richiesta, difficile e faticosa, che ha necessitato di tempo, e il nostro percorso è servito anche al sottoscritto per portare all’approvazione del Parlamento una norma che riconosce un percorso per ottenere l’equipollenza delle scuole che fanno riferimento ai beni culturali. Con una visione burocratica si poteva immaginare che una scuola che si occupa di danza, musica o letteratura potesse avere gli stessi parametri che servono alle altre scuole; abbiamo così approvato una norma che legittima i Ministeri Miur e Mivar a stabilire per decreto i criteri per cui le scuole che fanno riferimento al vasto campo dei beni culturali possano ottenere agevolazioni per il titolo. Il Centro Sperimentale di Cinematografia ad esempio, che forma da decenni grandi eccellenze, non aveva il riconoscimento della laurea, e ciò creava molti problemi a coloro che poi, avendo quel diploma, non lo vedevano riconosciuto nel proprio percorso professionale italiano o internazionale. Il bando del jazz è stato un forte segnale. Certo le somme potrebbero essere più notevoli, e vedremo se miglioreranno le condizioni della finanza pubblica e della quota riservata al mio Ministero, si tratta comunque di un segnale che inverte una tendenza. Su suggerimento delle associazioni del jazz, incluso il Saint Louis, abbiamo cambiato una regola che precludeva la possibilità di accedere ai fondi ordinari; oggi anche per la musica contemporanea come per il jazz ci sono possibilità vantaggiose di accedervi, ripeteremo il bando cercando di non distribuire i fondi a pioggia perché è chiaro che dobbiamo imparare a puntare sulla qualità. Ho letto allibito del Fus, Fondo unico per lo spettacolo, che fonda l’attribuzione su base storica: la tecnica principale è che chi prendeva continua a prendere, chi non prendeva non riesce a prendere. Le regole sono cambiate introducendosi una percentuale di qualità, e sono state approvate da tutti i Comuni. I quarant’anni del Saint Louis e l’inaugurazione della nuova sede avvengono a pochi giorni da quell’evento straordinario che è stato la serata del jazz a L’Aquila, una grande platea di migliaia e migliaia di persone interessate al jazz, grandi maestri e giovani di talento insieme, e il volto gioioso degli aquilani che hanno una sfida da gestire che non è solo quella di restaurare i palazzi, ma anche di far tornar vivo il centro storico. Abbiamo deciso di farlo tutti gli anni e spero che questo diventi un appuntamento straordinario con i grandi nomi del jazz italiano e internazionale. Sono contento che con il finanziamento del Ministero si sia fatta quest’operazione internazionale».

(ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Ottobre 2015




LUCA MUCCI: MODENA TERZO MONDO, UN’ASSOCIAZIONE CHE AIUTA MIGLIAIA DI BRASILIANI A SPERARE

Modena Terzo Mondo (Mtm) è un’associazione di volontariato e solidarietà internazionale presente in Brasile da circa 25 anni, fondata da alcuni privati guidati da Luca Mucci, con l’obiettivo di tutelare i diritti e promuovere l’emancipazione dell’individuo in tutte le sue dimensioni attraverso la sensibilizzazione di persone e coscienze sulle grandi tematiche legate alla condizione di sottosviluppo e discriminazione sociale, economica, culturale e religiosa cui è soggetta buona parte della popolazione mondiale. Mtm si pone come punto di riferimento tra gli altri ed opera come associazione coltivando rapporti cordiali, collaborativi e fraterni, aiutando concretamente i più poveri e inducendo i più fortunati a vivere, pensare ed agire secondo la giustizia e la carità. Comunque esulando da un discorso cattolico.

Tutto comincia nel 1991 con il primo viaggio di Mucci, elettricista, insieme ad altri amici volontari nel Nord Est brasiliano, precisamente a Joaquim Nabuco, nello Stato del Pernambuco, dove da pochi mesi lavoravano tre suore dell’ordine del Divino Amore. Mucci scopre che a Modena sono molti coloro che condividono uno stile di vita improntato sulla solidarietà, lontano dagli affetti più cari; così fonda l’associazione che presiede, della quale oggi fanno parte Stefano Lugli, Andrea Di Paolo, Danilo Ferrari, Lidia Caruso, Enzo Mazzoli, Romina Buttini, Luca Caselli, Elisa Chierchia, Giulia Farinetti, Cristina Ioele.

I mezzi attraverso i quali Modena Terzo Mondo persegue i propri fini sono gruppi di studio, incontri, letture e dibattiti, collegamenti e collaborazioni con realtà esterne quali associazioni, movimenti religiosi, laici, diocesi, centri missionari ed istituzioni varie. Tutte le attività e i progetti sono svolti prevalentemente tramite le prestazioni fornite dai propri aderenti (non retribuite in alcun modo): mezzi finanziari derivanti dai contributi associativi, dalle oblazioni private e dagli eventuali contributi pubblici; mezzi culturali propri o derivanti dal collegamento con movimenti simili, con l’apparato scolastico, con le istituzioni, con i centri culturali e con i mass-media; mezzi civili propri o derivanti dal collegamento con esperienze di formazione civile e di volontariato nel servizio di rilievo sociale; mezzi formativi propri o derivanti dal collegamento con tutte le istituzioni pastorali e comunitarie impegnate nell’educazione. Il numero degli aderenti all’associazione è illimitato ed aperto a tutte le persone di buona volontà desiderose di impegnarsi nella solidarietà e nel volontariato.

Luca Mucci spiega i progetti che, in tale modo, ha portato avanti l’associazione. Non pochi, non piccoli.

Domanda. Perché ha voluto fondare questa associazione?
Risposta. Venticinque anni fa, compimmo un viaggio in Brasile per andare a trovare una suora che aveva aperto un centro per bambini a Recife, e in quell’occasione ci rendemmo conto che le notizie che ci arrivavamo e che ci venivano raccontate erano molto diverse dalla realtà: falsate e modificate a regola. Da lì è iniziata la nostra storia: tornati in Italia fondammo l’associazione perché avevamo visto e non potevamo dire che non conoscevamo, quindi dovevamo per forza fare qualcosa per cambiare: cominciammo ad occuparci dei bambini, poi ci siamo dedicati anche ad altri settori come agricoltura, salute, acqua.

D. In che modo l’associazione vi ha visto operativi nei primi anni?
R. Abbiamo innanzitutto subito cominciato a coinvolgere amici, parenti e conoscenti per costruire il primo centro per bambini a Pernambuco; da allora ne abbiamo costruiti 36.

D. Con quali finanziamenti?
R. Molto autofinanziamento: amici, soci e volontari. Adesso siamo in tutto 450, ogni mese ognuno mette quello che può, ma mettiamo in atto anche tantissime iniziative in tutta Italia, anche perché i nostri volontari sono sparsi un po’ dappertutto: di Modena c’è rimasto solo il nome. Nessuno di noi fa questo tipo di mestiere, siamo tutti privati, io personalmente trascorro 4-5 mesi all’anno in Brasile ormai da 20 anni. Sempre a mie spese. Ma in tutto questo tempo abbiamo fatto moltissima strada.

D. Quali sono le mete del vostro lavoro in Brasile?
R. Ogni viaggio è diverso dall’altro, faccio il giro di diversi centri ogni anno e mi occorrono una quindicina di giorni per ognuno di essi: c’è da sbrigare molto lavoro burocratico perché di questi centri ogni giorno usufruiscono circa 4 mila ragazzi e per mantenerli occorrono ogni mese tantissimi soldi. Così mi do da fare, insieme ad altri, per cercarli.

D. Il Governo brasiliano vi sostiene?
R. Ci sostiene molto, negli ultimi anni è cambiato molto in senso positivo, sui temi sociali è tutta un’altra cosa rispetto a 25 anni fa, quando eravamo più malvisti che benvisti.

D. È merito del nuovo Governo?
R. I Governi del PT, il Partito dei lavoratori, sono totalmente diversi rispetto ai Governi di destra, e per i brasiliani è meglio: si pensi solo al progetto «Luce per tutti». In un Paese che ha avuto più di 50 milioni di cittadini senza corrente elettrica in casa, con il lavoro del Governo almeno 30 milioni di persone ora la hanno.

D. Dove avete trovato le situazioni più gravi?
R. Ce ne sono diverse, nel Maranhão, nel Pernambuco, nel Ceará. Il Nord-Est era un bacino di schiavi, di donne delle pulizie, camerieri, muratori, un Paese completamente dimenticato dai Governi precedenti: ma se si tolgono i nordestini da San Paolo la città si ferma. Lavoriamo anche molto a San Paolo, nelle periferie come Guaianazes, dove abbiamo sostenuto la costruzione del centro «Casa Dos Meninos»; e a Mariana, nel Minas Gerais, dove abbiamo sostenuto il centro di integrazione familiare «Espaço Livre».

D. Lavorate anche con la Chiesa?
R. Siamo un’associazione d’ispirazione cristiana ma non di Chiesa, e siamo aperti a tutti anche in ragione del fatto che abbiamo obiettivi umanitari. Dal canto suo la Chiesa modenese è presente in Brasile da circa 50 anni e con essa lavoriamo per la causa, come con chiunque abbia a cuore i problemi delle persone a prescindere da tutto.

D. La politica italiana vi aiuta?
R. Lasciamo perdere. Ma abbiamo lavorato molto con gli enti locali dell’Emilia Romagna: nonostante la crisi, i terremoti, le sciagure che sono accadute dalle nostre parti, il sostegno c’è sempre.

D. Ha incontrato molti personaggi impegnati nei vari campi, tra cui Padre Luigi Ciotti, Gianni Minà, Marina Silva ed altri: chi il più significativo per l’associazione?
R. L’ex presidente brasiliano Lula, che a Modena è venuto tante volte prima che diventasse presidente e i suoi viaggi in Italia li organizzavamo noi. Siamo rimasti in ottimi rapporti e ci vediamo ogni 2-3 mesi, abbiamo portato avanti insieme numerose iniziative.

D. È migliorato il Brasile?
R. Sì. Ad esempio è il Paese che ha più studenti universitari all’estero, il Governo paga tutte le spese e dà la possibilità a tutti di poter fare questa esperienza. Fino a 12 anni fa, i ragazzi di colore non andavano all’università, mentre ora ci vanno. Si sono avuti passi in avanti incredibili. Indubbiamente ci sono dei problemi, però meno di quello che si fa intendere. Molte cose sono orchestrate da una minoranza che non accetta di aver perso per la terza volta consecutiva le elezioni, e fa di tutto e di più per cercare di invertire un risultato che è evidente.

D. Condivide le azioni compiute dal Governo per i Mondiali e le Olimpiadi?
R. Ci sono state azioni negative, come gli sgomberi delle favelas, che non condivido per come sono stati condotti, spostando persone per centinaia di chilometri senza fornire loro le condizioni di vita minime, e questa è stata una delle poche cose pessime che sono state compiute. Ma dall’altra parte ne hanno sistemate altre: il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, dipende dai punti di vista, ma il Brasile resta l’unico Paese che si è aggiudicato Mondiali di calcio ed Olimpiadi.

D. Per lei è un fatto positivo?
R. Se non ci fossero state problematiche molto grandi, sarebbe stato più che positivo. Un fatto che ha salvato tanta gente, ha portato soldi e creato molte infrastrutture le quali, oltre ad essere state impiegate per i Mondiali prima, per le Olimpiadi poi, resteranno.

D. Avrebbero potuto dare alfabetizzazione e sanità.
R. Ma non si può dimenticare che di alfabetizzazione ne è stata fatta tanta in questi anni, così come di progetti sociali.

D. E l’ambasciatore brasiliano in Italia, Ricardo Neiva Tavares, come si pone nei vostri confronti?
R. Anche lui è venuto a Modena diverse volte, ci sostiene e si dà da fare. Oggi con noi l’Ambasciata è aperta, dieci anni fa invece era molto chiusa.

D. Come funziona il volontariato?
R. Ci sono tantissimi ragazzi che chiedono di poter fare questo tipo di esperienza con i progetti, ognuno si paga le proprie spese, c’è un costo di mantenimento politico nelle strutture di 10 euro al giorno, e i volontari sono ospitati direttamente nelle case a ciò adibite o da famiglie che da molti anni mettono a disposizione alcune loro stanze.

D. Come si conosce la vostra attività?
R. Con un passa parola continuo. Non c’è bisogno di fare tanta pubblicità perché ogni anno quei 30-40 volontari che vanno via coinvolgono altre persone e ogni anno ci sono gli amici degli amici.

D. In Italia invece organizzate eventi e fate incontri?
R. Tutto quello che facciamo è sensibilizzare chiunque su quelle situazioni di ingiustizia che circolano nel mondo, e che purtroppo sono tante. Manca proprio la comunicazione dei mass media che è praticamente nulla, e si parla del Brasile solo per gli eventi sportivi, le favelas, o la corruzione o la foresta che sta per essere distrutta, ma non si parla del fatto che siamo noi che ordiniamo la legna, non si parla di queste contraddizioni.

D. Chi è che sceglie i progetti?
R. Nascono con i viaggi ma devono autosostenersi nel tempo: noi non andiamo a dire a casa degli altri cosa è giusto fare o meno, quello è colonialismo. Andiamo a vedere di cosa hanno bisogno. Siamo aperti alle proposte altrui e a valutarne la fattibilità che è prospettata.

D. Parliamo di alcuni progetti specifici. Aiutate le prostitute del Ceará?
R. Fortaleza è uno dei paradisi del turismo sessuale internazionale, ogni anno migliaia di minorenni vengono sfruttati approfittando della loro miseria. Come associazione, siamo impegnati a denunciare e contrastare questo fenomeno, a costruire due case di prevenzione dello sfruttamento con corsi di informatica, alfabetizzazione, sport, teatro, danza, capoeira, musica, un refettorio con cucina e molto altro, per dare loro la possibilità di un futuro migliore. Parte fondamentale sono le attività sportive: nel quartiere Bom Jardim e Farol di Fortaleza non esistono strutture aperte a tutti e i ragazzini chiedono un luogo dove trovarsi per fare attività di gruppo e non continuare a stare in strada. Un progetto del Governo brasiliano nel quale siamo impegnati, «Viravida», ossia «cambia vita», dà la possibilità di fare un corso professionale al termine del quale le aziende coinvolte garantiscono posti di lavoro: in questi ultimi anni sono stati assunti 25 mila ragazzi che hanno cambiato vita lasciando completamente la strada per svolgere una professione. Certo non abbiamo risolto il problema dello sfruttamento, ma coloro che entrano nel programma e ne colgono le opportunità fino in fondo possono cambiare vita. Esiste anche un’associazione delle prostitute del Ceará, l’Aproce, nata dopo il primo caso di Aids: riunite in assemblea prostitute, ex prostitute e volontarie il 13 novembre 1990 formalizzarono il desiderio di organizzare il gruppo, guidato da Rosarina Sampaio. Aproce è la prima associazione di prostitute che ha ottenuto la registrazione in Brasile senza usare un nome di fantasia. In seguito è stata creata la Federazione nazionale delle prostitute del Brasile.

D. Non è altrettanto importante sensibilizzare al fine di evitare a monte lo sfruttamento del turismo sessuale?
R. Abbiamo ottenuto dei servizi televisivi con «Le iene» di Italia Uno, anche perché gli italiani insieme ai tedeschi si contendono la palma d’oro per lo sfruttamento. Ci sono interessi economici legati al turismo sessuale, che non conosce crisi, e non solo in Brasile.

D. Cosa fate per i pernambucani?
R. Joaquim Nabuco è un paese rurale di 17 mila abitanti situato a 118 chilometri da Recife. È la prima città indipendente fondata alla fine dell’800 dagli schiavi. Il lavoro ruota attorno alle «usinas», fabbriche di lavorazione della canna da zucchero, che durante i sei mesi della raccolta danno impiego; nei restanti sei mesi il numero di personale impiegato viene ridotto dell’80 per cento. Ciò porta a condizioni di povertà estrema, molti finiscono in strada crescendo in una realtà di delinquenza, analfabetismo, prostituzione e droga. Dal 1991 le suore del Divino Amore svolgono una missione di solidarietà in quel comune e noi le abbiamo sostenute con affetto all’inizio della loro opera in Brasile. Per loro ha fatto tanto anche il gruppo di padre Luigi de Rocco di Belluno. Abbiamo quindi realizzato il primo progetto di solidarietà a distanza e dal 1992 ad ora sono state sviluppate diverse attività di sostegno umanitario, formazione personale e collettiva, creando fortissimi rapporti tra gli autoctoni e i volontari italiani. Attualmente la nostra associazione sostiene la Fondazione Giovani di Joaquim Nabuco per la vita con sede nella Casa dei giovani, acquistata nell’agosto 2004, resa abitabile e dotata di un computer con connessione a internet per dare modo a tutti i ragazzi di cercare lavoro e mantenere i contatti con amici e famigliari lontani. Oggi 450 bambini partecipano alle attività della casa.

D. Lo Stato del Piauì è uno dei più poveri (e sconosciuti) del Brasile. Le pessime condizioni di vita hanno portato alcune città, come Acaua e Guaribas ad avere il triste primato di città con la minor aspettativa di vita dell’ intero Brasile: 58 anni contro una media nazionale di ben 10 anni superiore. Come siete presenti?
R. Il Piauì, coprendo il 3 per cento del territorio nazionale, è il decimo Stato brasiliano in ordine di estensione, grande quasi quanto l’Italia. Il 70 per cento della popolazione fino a 10 anni fa era senza energia elettrica; i suoi abitanti, che sono circa 6-7 milioni, sono sparsi in tutto il Brasile. Abbiamo portato avanti un progetto di agricoltura per far sì che i ragazzi restino a vivere dove sono, nati senza dover migrare. Puntiamo al sostegno all’agricoltura familiare e alla scuola con formazione agricola della comunità di Tapera, alla realizzazione dell’orto comunitario, a programmi imperniati sull’autosufficienza e la sicurezza alimentare, sulla tutela e valorizzazione delle risorse umane, con un occhio di riguardo al ruolo delle donne e dell’infanzia. Altro progetto è quello del Centro di formazione Mandacarù, entità filantropica che aiuta le famiglie della zona del cosiddetto «Semi-árido» a migliorare la qualità di vita. Inoltre, problema ricorrente nel Piauí e principalmente nella regione di Pedro II, è recarsi in città, in media a 40 chilometri di distanza, senza nessun tipo di sicurezza, al sole e alla polvere: la creazione della scuola polivalente di Tapera, con l’appoggio delle istituzioni italiane, consente ai bambini della regione di studiare in una migliore struttura. E ancora: vogliamo rendere possibile e gratuito l’accesso all’acqua per migliaia di famiglie.

D. A Goiania, invece, che fate?
R. È una città che conta un milione e mezzo di abitanti: moderna, con eleganti grattacieli, che però è circondata da una popolosa periferia i cui abitanti vivono in povertà o in condizioni di vera miseria. Lì sosteniamo l’associazione Todos os Santos, ossia con tre asili-scuole che ospitano fino a circa 600 bambini compresi fra i tre e gli otto anni; abbiamo contribuito a costruire una scuola per il rinforzo scolare dei maggiori di 8 anni, che segue il P.E.T.I., programma di «sradicamento» del lavoro infantile, e supportiamo la scuola di informatica Bairro Capua.

D. Modena Terzo Mondo inoltre sostiene da anni moltissimi progetti in diverse città di Goiás. Può dircene alcuni?
R. Per la Radio Vila Boa Fm, con il sostegno di Modena Terzo Mondo, sono state costruite la sala d’incisione, la cabina di regia e sono state fornite le attrezzature per la trasmissione della musica: la radio oggi ha il 60 per cento degli ascolti. Il progetto Scuola Famiglia Agricola ha l’obiettivo di impedire che i giovani figli di contadini si sradichino della loro terra. Ancora: la Diocesi di Goiás, assieme alla Pastorale del Migrante, dopo aver assistito centinaia di persone povere costrette a un costante esodo, ha deciso di creare un centro di accoglienza, chiamato Casa del Migrante, che noi sosteniamo. Sulla spinta della richiesta di famiglie alla ricerca di trattamenti per alcolisti e tossicodipendenti con difficoltà ad entrare in centri di recupero, sono nati l’istituzione Chácara de Recuperação Paraíso e un progetto di reinserimento sociale per promuovere ricongiungimenti familiari e sociali. E molto altro. Ma, in genere, il lavoro non finisce mai.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Settembre 2015




BENEDETTO MARASÀ: ECCO COME L’ENAC STA RIFORMULANDO IL PRIMO REGOLAMENTO SUI DRONI

Il regolamento dell’Enac è a tutti gli effetti il primo in Europa e forse nel mondo ad occuparsi di «droni» o «Sapr» (che definisce mezzi aerei a pilotaggio remoto senza persone a bordo, non utilizzati per fini ricreativi e sportivi): veri e propri «robot telecomandati» come quelli che si vedevano nei cartoni animati in tempi non sospetti. Anche solo questo paragone rende chiara la complessità della materia che, oltreché nuova (dunque sconosciuta, dunque pericolosa), può chiamare in causa problematiche connesse all’uso improprio che di tali mezzi-strumenti può esser fatto in un continuum che va dalla negligenza, imprudenza, imperizia (colpa) al dolo vero e proprio del diritto penale. Tanto da essere coinvolte le Forze dell’Ordine. E richiama anche scenari fantascientifici di un futuro (ora quasi presente) in cui le strade sono dominate da velivoli.

E dai droni il regolamento Enac, emanato in attuazione dell’art. 743 del codice della navigazione, distingue immediatamente gli aeromodelli (specificando che questi ultimi non sono considerati aeromobili ai fini del loro assoggettamento alle previsioni del suddetto codice e possono essere utilizzati esclusivamente per impiego ricreazionale e sportivo). Il fatto di precisare sin da subito che siano due cose diverse (e diversamente regolate) rende conto del contrario: ossia della gran poca differenza che intercorre tra questi mezzi, entrambi pilotati remotamente, proprio come i robot della nostra infanzia. Ai sensi del regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 216/2008, sono di competenza dell’Enac i Sapr di massa massima al decollo non superiore a 150 chili e tutti quelli progettati o modificati per scopi di ricerca, sperimentazione o scientifici. Inoltre, non sono altresì assoggettati alle previsioni i Sapr Stato di cui agli articoli 744, 746 e 748 del codice della navigazione; i Sapr che hanno caratteristiche di progetto tali per cui il pilota non ha la possibilità di intervenire nel controllo del volo; i Sapr che svolgono attività in spazio chiuso; i Sapr costituiti da palloni utilizzati per osservazioni scientifiche o da palloni frenati.

Ne parla Benedetto Marasà, vicedirettore generale dell’Enac.

Domanda. L’uso dei droni è, nel primo regolamento, distinto rispetto alla sua criticità, ossia pericolosità: come?
Risposta. Questo regolamento, formalmente del novembre 2013, è in realtà entrato in vigore quattro mesi dopo. Esso costituisce una prima elaborazione rispetto al nulla che c’era prima, lo abbiamo chiaramente strutturato considerando le criticità legate non solo al tipo di operazioni che si effettuano, ma anche al tipo di macchina che si usa. Registriamo innanzitutto 2 categorie per peso: droni sotto i 25 chili, a loro volta distinti tra operazioni critiche e operazioni non critiche, e droni superiori ai 25 chili, che consideriamo sempre al pari di operazioni critiche perché le dimensioni, il peso, la velocità, sono caratteristiche che includono di per sé la criticità, a meno che non vengano usati in aperta campagna o in luoghi disabitati, nei quali possono essere impiegati per riprese cinematografiche o per controllare le condizioni delle montagne, delle slavine. Le operazioni critiche sono quelle che si svolgono in ambienti congestionati, cioè dove ci sono persone, installazioni, centri abitati; quelle non critiche si svolgono su luoghi poco frequentati o quantomeno dove non ci sono rischi per la sicurezza e per l’ambiente.

D. Il diverso impiego del drone rende differenti le formalità cui ottemperare?
R. Al di sotto dei 25 chili teniamo anche conto del fatto che si tratta di macchine abbastanza semplici, quindi non richiediamo un certificato di navigabilità né la licenza del pilota, ma un’attestazione di competenza in un regime semplificato. Se l’attività non è critica essa viene autodichiarata dall’utilizzatore del drone e noi ne prendiamo nota anche perché, potendo l’impiego di tale mezzo non essere pacifico, dobbiamo sapere chi lo sta usando e in quale area. Per i droni che operano in aree critiche o superiori ai 25 chili, ci vuole un’autorizzazione formale rilasciata da noi; nel primo regolamento in effetti non avevamo previsto una licenza di pilotaggio, ma solo un’attestazione di conoscenze del pilota rilasciata da una scuola autorizzata, quindi noi autorizziamo la scuola, la quale svolge un programma di addestramento che dobbiamo riconoscere e che rilascia l’attestazione di competenza.

D. Verificate la competenza delle scuole una per una?
R. Lo facciamo a livello preventivo. La scuola che si proponga come centro di addestramento per piloti od operatori ci presenta un programma di addestramento, noi ne valutiamo la congruità, quindi viene pubblicizzata sul nostro sito. Oggi ce ne sono già circa 80.

D. Come si fa a scegliere una scuola dato che ce ne sono tantissime?
R. Onestamente non so dire; noi in questi casi siamo sempre combattuti se stilare un elenco ufficiale dove chiaramente poi convoglierà il mercato, oppure no. In tale ultimo caso chiunque si presenti all’Enac con il proprio programma, che sia valutato da noi positivamente, si immetterà nel mercato senza comparire in una lista Enac, e starà all’operatore o al pilota scegliere dove andare. Non è una vera e propria certificazione quella che noi diamo alle scuole di pilotaggio, è più un riconoscimento basato sui programmi che intendono svolgere e sulla serietà delle persone che vi fanno parte. E se molte di queste scuole sono anche centro di addestramento per persone navigate con una certificazione riconosciuta a livello europeo, ci sono anche scuole private.

D. Da un certo punto di vista si tratta di aeromodelli, dei quali si parla anche nel regolamento in una sezione apposita. Quali le differenze dal vostro punto di vista?
R. Gli aeromodelli oggi possono raggiungere anche delle velocità notevoli, e sono repliche di aeroplani in scala ridotta. Sono da tenere sotto controllo, ma più in termini di obblighi che di verifiche, e infatti per essi noi abbiamo inserito, nella terza ed ultima parte del regolamento, dei requisiti da rispettare, e devono volare in ambienti riservati, fuori dal possibile impatto con le persone, ma non vi sono verifiche da parte nostra, né dichiarazioni da presentare. Ma ora le cose stanno evolvendo a livello europeo e mondiale, e cominciano a spuntare non solo i regolamenti degli altri Paesi.

D. Quale sarà l’impatto dell’Europa nel settore?
R. Noi siamo stati i primi in Europa, e forse anche nel mondo, a fare questo regolamento. Ma oggi ne sappiamo di più, ci sono molte iniziative, la Commissione europea si è anche espressa in una dichiarazione durante una conferenza internazionale nel mese di marzo, e l’Easa, l’Agenzia europea della sicurezza aeronautica, ha emesso delle linee guida. Anche se in questo momento sono dei «concetti» e non sono dei veri e propri regolamenti, è chiaro che in qualche modo ci dobbiamo avvicinare alle indicazioni internazionali, perciò abbiamo predisposto due modifiche essenziali al nostro regolamento: innanzitutto vogliamo distinguere i droni al di sotto dei 2 chili che, in caso di perdita di controllo o impatto, non creano, sempre che lo creino, un danno eccessivo, soprattutto se si adottano criteri di protezione. Per questi piccolissimi droni abbiamo in mente una sorta di liberalizzazione nel senso di non prevedere nemmeno un’autorizzazione, a meno che non vogliano essere utilizzati in aree abitate. Abbiamo anche una riserva delle Forze dell’Ordine, con le quali stiamo discutendo per cercare di evitare un regime estremamente restrittivo giustificato dai timori sull’uso improprio. Un’ipotesi che faceva la Polizia era che addirittura per ogni volo di un drone essa fosse avvisata, e questo ci sembra eccessivo, per il rischio di bloccare un settore che comunque non vogliamo appesantire dal punto di vista dell’innovazione. C’è una grande paura che queste cose possano diventare armi, soprattutto in questi tempi, ma dovremmo limitare di aprire le finestre quando passa un corteo. Certo che determinate precauzioni sono importanti, ma non dobbiamo far diventare il drone uno strumento «criminoso» per definizione. Il nuovo regolamento dovrebbe semplificare l’impiego dei droni fino a 2 chili, tra i 2 e i 25 chili mantenere le caratteristiche attuali, per i droni superiori ai 25 chili strutturare un vero e proprio regime di sorveglianza con certificazione di navigabilità individuale, licenza da rilasciare al pilota, un’attestazione di sicurezza, ed un regime che bene o male è quello degli aeromobili.

D. Come stanno reagendo le grandi società dell’aviazione generale italiana?
R. Cominciano ad esserci anche iniziative importanti, ad esempio abbiamo aperto un «test center» a Grottaglie, in provincia di Taranto; nella stessa area, infatti, l’Alenia produce le parti del Boeing 787 in uno stabilimento che impiega più di 1.500 persone. Abbiamo nominato l’aeroporto di Grottaglie come test center proprio per avere un posto dove fare la sperimentazione con i droni. L’Agusta a luglio vi porterà un elicottero a pilotaggio remoto, che viene costruito in Polonia, che è chiaramente un drone anche se all’interno dell’elicottero c’è il «pilota di sicurezza», un pilota che sta a bordo ma solo per intervenire in caso di perdita del controllo remoto; e l’intenzione dell’Agusta è avere un elicottero di più di 750 chili non pilotato. La Piaggio ha già prodotto il P180, velivolo da 9 posti che in ambito militare è già in fase di sperimentazione a Trapani, e che in ambito civile potrebbe diventare un drone con una capacità di carico notevole di quasi mille chili.

D. Il trasporto passeggeri su un drone, con il pilota da terra e da remoto, è futuribile?
R. In futuro sarà così, ma non è qualcosa che si realizzerà nei prossimi 10 anni. I droni militari, a titolo di esempio, effettuano controlli da remoto da 8 mila chilometri e anche più di distanza. Dobbiamo prevedere che tra 20 anni probabilmente questa diventi una realtà anche in ambito civile. Tutte le iniziative in tema di droni, soprattutto quelle fatte da grandi aziende, non hanno lo scopo di riprendere matrimoni o fare film, ma si orientano verso un trasporto industriale. Le regole cominciano ad esserci, ma il settore industriale è più avanti delle regole. Oggi abbiamo la pressione dell’industria grande e piccola, e giornalisti che vorrebbero essere autorizzati a utilizzare droni da un chilo con telecamera istallata per fare riprese e scoop. Ma il problema non è tanto il singolo, quanto un insieme di droni che, alzandosi per aria, possono scontrarsi e cadere.

D. Si corre anche il pericolo che tanti droni si scontrino tra di loro in situazioni più movimentate.
R. La sperimentazione si sta muovendo in quest’ottica e segue alcuni criteri tecnologici, il primo è quello di un controllo che limiti il raggio d’azione in modo da creare una specie di schermo intorno, ed è chiaro che questo si può fare solamente con un controllo di tipo computerizzato. Il secondo criterio è quello di operazioni fuori dal campo visivo dell’operatore, cosa che in ambito militare è una realtà, ma che nel civile risulta più complessa: bisogna affrontare il discorso della tecnologia e del controllo satellitare. È chiaro che in questa fase iniziale e sperimentale è importante che le condizioni siano quelle dichiarate dai costruttori, ma c’è anche il problema dei materiali: cioè molti dei droni che oggi sono sul mercato non hanno affidabilità aeronautica, la vita delle pale dell’elica o del rotore nei droni che si comprano al negozio di giocattoli è di 5 ore, dopo si rompono; l’elica deve compiere centinaia di giri al minuto, e se non è costruita con caratteristiche aeronautiche è inaffidabile. Se si compra un drone online non è certo che esso abbia le garanzie che noi riteniamo necessarie per il volo aeronautico.

D. Non si può semplicemente comprare un drone e «farlo volare»?
R. La tendenza è questa, lo compro e lo faccio volare; perciò dobbiamo provare a non essere invasivi nel senso di non richiedere il rispetto di requisiti impossibili o troppo restrittivi. Ci stiamo muovendo in un’ottica di valutazione del rischio, e il rischio è nella velocità, nell’ambiente in cui si opera, nelle caratteristiche di sicurezza del mezzo, nella privacy, tutti argomenti nuovi per noi e assenti in tema di aeroplani. Siamo in un momento di maggiore consapevolezza e chiarezza, guardando a un settore che sta esplodendo da un punto di vista industriale con centinaia di iniziative direi non difficili da regolare ma difficili nel bilanciamento tra regole e sviluppo.

D. Avete anche affrontato il tema dei droni legati a un cavo: in quali casi i droni sono «messi al guinzaglio»?
R. Il cavo è un elemento di garanzia soprattutto quando il drone viene utilizzato in ambienti congestionati. Ancora oggi non abbiamo la certezza che i dispositivi elettronici siano talmente affidabili da garantirne il controllo totale, quindi in certi casi prescriviamo le operazioni con il cavo, e tutto questo quando non è dimostrata l’affidabilità totale del controllo del drone. Si tratta soprattutto dei casi di riprese cinematografiche, oggetto di molte richieste che ci pervengono. Il cavo garantisce che, nel caso di perdita di controllo in zone critiche, come può essere una piazza del centro di Roma, si riporti a terra il drone senza problemi.

D. Come si può punire l’abuso di coloro che usano droni senza essere in possesso dei requisiti richiesti?
R. Con le Forze dell’Ordine abbiamo rapporti quotidiani sotto questo punto di vista, ma noi facciamo le regole, poi è chiaro che esse devono essere rispettate e che per farlo ci vuole la coscienza civile. Una delle cose che stiamo facendo è lavorare per identificare coloro che utilizzano il drone, apponendo ad esempio targhette con codice a barre così che tali mezzi possano essere rintracciabili, oppure più semplicemente tenere un registro degli utilizzatori tale che all’occorrenza si possa individuare chi è che ha fatto danno. Ovviamente le sanzioni non dobbiamo stabilirle noi.

D. Posso prendere un drone, portarlo in un altro Paese e farlo volare lì?
R. No, in questo momento ci sono le barriere, non c’è riconoscimento. Con gli altri Paesi ci sono scambi continui di notizie, informazioni e regolamenti, ma non c’è un riconoscimento. Ognuno ha le proprie regole di volo. Nelle proprietà private l’operatore si assume la responsabilità, ma noi stiamo sempre parlando di ambienti pubblici. Per un drone straniero in Italia il discorso è lo stesso, e la buona norma vuole che si capisca che tipo di autorizzazione ha e così convalidarne il volo se presenta caratteristiche simili a quelle richieste. In futuro ci saranno condizioni di reciprocità, una volta che sarà emanata la regolamentazione europea, già in fase di sviluppo; l’Easa sarebbe pronta, a fine anno, con una prima bozza per i droni di semplice costruzione, e presto potremmo avere regole internazionali.

D. Ci sono limiti di velocità e di tempo per il volo?
R. L’utilizzo del drone, almeno in attività quali osservazione, rilevamenti e fotografie, non è lunghissimo, parliamo di un tempo di 15-20 minuti, dopodiché il mezzo deve tornare, anche perché ha delle batterie che ne limitano l’autonomia. Certo è che quando cominceranno a volare i droni a combustibile il problema si porrà, oggi l’autonomia è limitata ad una mezz’ora e niente più, e costa poco farlo scendere e cambiare la batteria.

D. La telecamera deve essere verificata?
R. No, non ci occupiamo della telecamera, l’importante è che sia istallata in maniera sicura, poi la sua tipologia dipende dall’uso che se ne voglia fare. Oggi ci sono droni con telecamere notevoli o con più telecamere. Per quanto riguarda la privacy, quando abbiamo fatto il primo regolamento abbiamo interpellato anche l’Autorità che ci ha suggerito una frase che abbiamo riportato nel regolamento, che fondamentalmente dice che l’operatore è responsabile di utilizzare il drone nel rispetto di tutte le norme della privacy, quindi non può andare a fotografare delle persone o guardare dentro le case, quindi chiaramente la privacy impone delle regole ma poi dopo è la coscienza e la moralità dell’operatore che ne deve fare buon uso.

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Luglio/Agosto 2015

 




VITO RIGGIO: ALL’ENAC SPETTA REGOLAMENTARE IL FUTURO, E AL FUTURO NON SI PUÒ DIRE DI NO

Il codice della navigazione, all’articolo 743 come emendato dal decreto legislativo n. 96 del 9 maggio 2005, definisce aeromobile «ogni macchina destinata al trasporto per aria di persone o cose. Sono altresì considerati aeromobili i mezzi aerei a pilotaggio remoto, definiti come tali dalle leggi speciali, dai regolamenti dell’Enac e, per quelli militari, dai decreti del Ministero della Difesa. Le distinzioni degli aeromobili, secondo le loro caratteristiche tecniche e secondo il loro impiego, sono stabilite dall’Enac con propri regolamenti e, comunque, dalla normativa speciale in materia». È dunque all’Ente nazionale per l’aviazione civile che spetta l’arduo compito di regolamentare «il futuro», ciò che era nei film fino a poco fa, città prese d’assalto da mezzi volanti e privacy, sicurezza, libertà messe in discussione: i mezzi aerei a pilotaggio remoto (Sapr), comunemente noti come droni, sono aeromobili caratterizzati dall’assenza di un equipaggio a bordo. Tanto basta per capirne sia le potenzialità, sia i rischi connessi al fatto che il volo di un drone è governato da diverse tipologie di «flight control system», gestiti in remoto da piloti a terra. Ma al futuro non si può dire di no.

Così l’Enac ha accolto le richieste delle quattro associazioni di settore – Assorpas, UASIt, Fiapr e AIDroni – e sta oggi rivedendo la normativa dedicata ai velivoli comandati a distanza, rendendone pubblica una versione preliminare, e alleggerendo tensione e regole. L’interesse per l’impiego di questi aeromobili negli ultimi tempi sta crescendo esponenzialmente in diverse attività per le potenzialità di impiego che si intravedono tra cui sorveglianza del territorio, rilevamento delle condizioni ambientali, trasmissione dati, riprese aeree, impieghi agricoli, compiti di ordine pubblico; ma resta complesso e pericoloso l’impiego di un dispositivo che supera anche i 25 chili, che può cadere, attraverso il quale possono essere compiute azioni lecite ed illecite (tratto dalla stampa: di recente un ingegnere indiano ha inserito a distanza un virus nel software del velivolo e lo ha dirottato).

L’Enac (e con lui l’Italia) è stato tra i primi enti in Europa a dare formalità alla questione: il regolamento «Mezzi aerei a pilotaggio remoto» viene incontro alle esigenze espresse da costruttori e operatori del settore di avere un quadro regolamentare di riferimento in grado di garantire uno sviluppo ordinato e in sicurezza di questa nuova realtà. Non esiste ancora un unico standard di riferimento europeo, e l’Icao (International Civil Aviation Organization) è impegnata a sviluppare le modifiche agli allegati per ricomprendere nella loro applicabilità anche questi mezzi. I Sapr possono essere utilizzati anche per applicazioni in ambienti ostili come monitoraggio di incendi, ispezioni di infrastrutture e di impianti, sorveglianza del traffico stradale. In questo contesto rappresentano anche un’opportunità di sviluppo per l’industria nazionale dei costruttori di Sistemi aeromobili a pilotaggio remoto.

Ne parla Vito Riggio, presidente dell’Enac.

Domanda. Già verso il secondo regolamento. Cosa dobbiamo attenderci?
Risposta. Siamo stati tra i primi in Europa a fare un primo regolamento, adesso elaboriamo il secondo tenendo conto di una serie di osservazioni che sono emerse in questo primo periodo. Al momento ci concentriamo sull’uso dei droni, più avanti verificheremo se ci saranno garanzie di sicurezza anche per l’impiego nei trasporti.

D. Un drone che trasporterà merci e persone senza pilota, ossia un vero e proprio mezzo telecomandato?
R. Questo è ancora in fase sperimentale.

D. Quali sono i punti che l’Enac ritiene più rilevanti?
R. Ci confrontiamo con problemi molto grandi: se fuori e in campagna gli amatori possono godere di una relativa tranquillità, ma tenendo sempre sotto controllo il comando del drone, per quanto riguarda la città sono molto cauto perché capisco le esigenze connesse all’uso di tale strumento, ma capisco ancora di più la sicurezza. In città e nei centri abitati il drone può cadere e provocare lesioni gravi o la morte di chi è colpito; i mezzi superiori ai 25 chili sono dei veri e propri aerei, è necessaria un’autorizzazione con relativo corso.

D. Si sta assistendo alla proliferazione dei corsi per droni. Sono tutte sicure e certe e, soprattutto, l’esperienza di questi pochi anni di attività dei droni può essere sufficiente a lasciare il mercato libero per le scuole?
R. In questo periodo ci sono una sessantina di scuole, mi sembra esagerato. Diciamo che è la moda del momento, ci si illude del fatto che adesso si è aperto un nuovo campo di lavoro e che tutti possono diventare piloti di droni. Speriamo sia così, ma con cautela.

D. Però sicuramente può portare lavoro.
R. Da una parte sì, ma non so quanto. Spero che il mercato si sviluppi, porti lavoro e si investa soprattutto nella ricerca e nella sicurezza. È chiaro che si apre un campo su cui dobbiamo lavorare, anche d’intesa con gli americani e con la Commissione europea, per cercare di sviluppare tutte le applicazioni possibili ed avanzate.

D. La sicurezza come la si può monitorare, oltre che prevenire?
R. Impedendo l’uso dei droni in città e nei luoghi affollati. Per operazioni in tali contesti si dovrà chiamare un esperto certificato dall’Enac, non chiunque: non ci s’improvvisi pilota di droni. Il drone non è un giocattolo, è questo il messaggio che deve passare, e anche se di soli 5 chili può recare grandi danni. Bisogna essere in grado di pilotarlo.

D. Ci sono problemi anche connessi alla privacy.
R. Questo lasciamolo al Garante, a cui spetterà stabilire delle norme, noi ci occupiamo della parte tecnica. La privacy ormai è ridotta al minimo, e il Garante fa molto poco per tutelarla: lasciamogli almeno i droni.

D. Quali sono le linee principali del regolamento?
R. La prima è che sopra i 25 chili ci vuole un vero e proprio brevetto da pilota, mentre per quanto riguarda i droni sotto i 25 chili stiamo rivedendo le norme. Sarà comunque necessaria la certificazione e l’autodenuncia per l’impiego del drone, e si faranno indagini sull’attendibilità di chi opera.

D. Anche prescrivendo un patentino, questo si prende con sole poche ore di scuola: quanto è congeniale?
R. Poche ore di scuola sono già qualcosa, poi se c’è bisogno di fare di più si farà di più, però già il fatto d’identificare il drone come un vero e proprio oggetto volante, e quindi un aereo sia pure pilotato a distanza, è un’affermazione di principio importante. Il pilota di droni è un pilota vero e proprio.

D. Tranne per il fatto, non di poco conto, che non rischia la propria vita ma la fa rischiare solamente agli altri, questa è l’unica differenza con i piloti regolari che salgono a bordo, forse con più responsabilità.
R. Non è una differenza da sottovalutare, dobbiamo trovare l’equivalente, non possiamo impedire lo sviluppo tecnologico perché provoca un danno, si tratta invece di prevenirlo e di regolarlo, e a questo penseranno gli esperti a livello internazionale.

D. Quali sono le differenze con gli altri Paesi?
R. Si sta cercando di armonizzare il tutto a livello europeo, ognuno però è andato un po’ per conto suo. È un problema nella Commissione parlamentare europea fare un regolamento, che prima si fa e meglio è.

D. Perché in Italia è intervenuto l’Enac invece che il Parlamento?
R. Il Parlamento italiano non c’entrerà mai, anche perché l’Enac ha piena autonomia sul piano tecnico e non ha bisogno del Parlamento perché applica i regolamenti. Quando interviene il regolamento europeo il Parlamento italiano cessa di avere autorità. Noi abbiamo delegiferato tutta la materia tecnica dell’aeronautica, e quando non ci sono regolamenti c’è l’autonomia tecnica dell’Enac; il Parlamento non riesce a fare le leggi importanti, figuriamoci una legge sui droni.

D. Come siete giunti alla definizione di queste norme, chi avete interpellato?
R. C’è stata una consultazione nella bozza del regolamento con delle associazioni che si sono appena costituite con gli utilizzatori di questo mezzo, ma ci fidiamo molto del fatto che noi siamo presenti in tutti gli organismi internazionali, soprattutto con il nostro vicedirettore generale Benedetto Marasà che fa parte, insieme al direttore generale, di tutti i comitati sulla sicurezza e di tutti gli organismi internazionali con ruoli di rilievo. L’Italia è considerata al sesto posto nel campo dell’aviazione civile nel mondo.

D. Perché avete ritenuto non necessario un certificato acustico?
R. Perché questi strumenti non superano le soglie consentite di rumore. Il vero rumore in città lo fanno le macchine, il vero problema è il disastro urbano.

D. Il drone ha dei limiti di altezza?
R. È evidente che dipende dal peso perché quelli sopra i 25 chili hanno una propulsione maggiore, quelli sotto i stanno in uno spazio vigilato, devono esservi meccanismi anticollisione e devono poter essere tracciabili nello spazio, come tutto quello che si muove. Ci sono droni di oltre 300 chili.

D. Dove pensa ci porterà questa evoluzione?
R. Penso che noi, in generale e non solo nel pilotaggio remoto, avremo il chilometro zero in tutto il mondo: nel prossimo futuro si arriverà in qualunque parte del mondo in 2 ore e non più in 24, faccio riferimento al volo superorbitale. Per i droni nello specifico non so dire, di certo aiuterà a vedere cose che a terra non sono visibili, importantissime dal punto di vista della tutela del patrimonio dei beni culturali, della vigilanza antincendio, della vigilanza sulle linee elettriche; si potranno prevenire incendi, rotture, guasti. Il resto deve ancora venire, può darsi che nel settore dei trasporti si riesca a consegnare la merce in un centro di smistamento in modo più sicuro e veloce di quanto accada adesso. È come le applicazioni, il drone è una grande «App», ovviamente c’è bisogno di gente che ci metta cervello e soldi per svilupparla. L’interesse c’è, e come tutte le App che hanno un rendimento economico, stanno sul mercato e sono finanziabili, si trovano i soldi: il mondo è pieno di soldi, sono le idee che spesso mancano.

D. Il drone notturno invece, ci sarà?
R. Ci stanno lavorando. Non è difficile dal punto di vista della tecnologia.    (ROMINA CIUFFA)

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NEW YORK: ARRIVANO I FREAKS!

New York, febbraio 2006. Signori e signore, direttamente da Coney Island, New York, i Freaks! I mostri, quelli strani! Insectivora. Lei mangia insetti. Prende una manciata di vermi, li mette in una bustina di plastica, poi li divora. Ancora, scarafaggi. Ottimi. Completamente tatuata dalla testa ai piedi, sul polso spicca un ragno rosso. Quindi prende da una piccola gabbia un topolino, piccolo, bianco, uno di quelli che un bambino a volte fa ruotare ininterrottamente sulla sua ruota per un’intera vita (del topo). Il topetto le corre sul braccio, è bianchissimo, la coda rosa come la pancia di un bimbo. Lei per la coda lo prende e, come una Visitor della serie americana più famosa degli anni 80, piega il collo all’indietro, le si può vedere solo il mento ora, infila il topo dentro la bocca, riabbassa la testa e la coda è ancora lì fuori, che scodinzola un po’ mentre un po’ rallenta. Riapre la bocca, lo prende in mano, lo bacia, lo accarezza. Lei, che è una femmina, si chiama Matilde e si fa un altro giro sul braccio destro di Insectivora. Poi rientra nella gabbietta.  In un attimo Miss Hollyday si contorce all’indietro, con il busto arriva fino a terra e scruta, poi facendo un giro su se stessa lo porta sino ai reni e la testa ora è proprio a quell’altezza, prosegue e la pone in mezzo alle gambe.

Una passeggiata così e si sdraia dentro una scatola, i coltelli vengono piantati dappertutto, poi si rialza et voilà. Passeggia Snake Woman, e come Insectivora con la sua Matilde, ecco arrivare uno splendido boa bianco con striature arancioni e la lingua biforcuta. Qualche metro di serpente che la avvolge interamente, la contempla, la bacia tirando fuori la linguetta velocemente che con altrettanta velocità ripone in bocca, delicatamente la massaggia con il suo lungo e largo corpo. Un esemplare incantevole di animale domestico. La padroncina poi si siede su una sedia elettrica, che l’Uomo Tatuato le accende. Ora è in grado di accendere una lampadina con la lingua, che tira fuori come il suo serpente, velocemente, e fa una fiamma.  L’Uomo Tatuato dice che era talmente povero che ha cominciato a eseguire i lavori più strani, quindi si è fatto tatuare giorno per giorno tutto il corpo e sul viso e sulla testa rasata ha raffigurato tutto il sistema stellare. Nel bel mezzo della fronte ha un pianeta. Poi stelle, costellazioni. Chiede se qualcuno conosce un uomo che ha una maglietta come la sua, con la propria faccia disegnata sopra, e sostiene che i tatuaggi li ha proprio, ma proprio dappertutto. E che ha imparato talmente bene a sopportare il dolore, che si sdraia su un tappeto di aghi arrugginiti e un altro lo mette sul pancione, quindi un uomo di 100 chili e una ragazza di 70 gli montano sopra. Lui lo chiama il «panino umano».

L’altro amico mangia bicchieri di vetro, lamette, tovaglioli, accende sigarette e le ingoia. Un altro ancora si infila un cacciavite e un coltello nel naso mentre Miss Hollyday, la contorsionista, ne ingoia uno da selvaggina e a momenti se lo litigano, poi lo tira fuori dal manico. Insectivora, intanto, sale delle scale fatte di spade affilate che in un attimo tagliano carote. Lei, invece, dice che si è allenata sulla sabbia di Coney Island. Famosa per la sua sporcizia e per essere il ricettacolo di tutte le bottiglie di birra e i vetri delle spiagge newyorkesi.  La ruota delle giostre gira ancora a Coney Island, anche in inverno, mentre a Manhattan, Times Square, si apre il sipario. Il Miliardario! Un applauso. Limousine. Cipriani. Champagne. Première. Frack. Bruscolini. Gli ruba la scena il paralegale: occhiaie, nevrosi, non sa ancora se iscriversi a legge. Sta compilando la scheda del «billable», di ciò che va messo in conto al cliente, includendovi la macchina usata per portare a spasso la nuova ragazza. Sfruttato, non è nessuno. Gli tolgono giorni di ferie – e di vita – come fossero bruscolini, lo fanno lavorare 20 ore al giorno.  Siori e siore, ecco a voi la Personal Trainer! Quella che non deve chiedere, mai. Quella che guarda il cliente correre per un ora al prezzo di 120 dollari più la mancia. Quella che insegna un’ora di qualunque cosa in ogni palestra della City solo per avere tutte le membership (membership uguale potere) e incontrare l’Avvocato che l’inviterà a cena stasera e ai Caraibi il fine settimana. E crede di potere. Tutto. Che si sveglia alla cinque perché è alle sei che l’Avvocato va ad allenarsi, prima del meeting delle sette.

Ma la vera attrazione della serata, ecco qui, immancabile, imperdibile, unico, il broker! No, no, non quello di Wall Street, non titoli mobiliari ma immobili. Lui, l’agente, il padrone della città. Colui che può tutto. Che riesce a negare la tangibilità della cosiddetta «bolla» dell’inflazione. Tutto il mondo ne parla, lui no. Lui, invece, sostiene che «è il momento giusto per comprare a Manhattan». Perché? «Perché te lo dico io». Più preciso? Al dettaglio, testuale: «Perché comprare a New York è sempre un affare». Con enfasi sul «sempre» e sulla «e» lunga, che poi è la «a» di «always». Muove i fili e decide chi deve vivere dove.  Quindi, ladies and gentlemen, l’attrazione, quella che tutti stavano aspettando: l’attrice. Lei sì che ci sa fare. Ha un sito, mica bruscolini. Nel quale spiega cos’ha fatto (ma cos’ha fatto?), dove ha studiato (sì, ma cosa?), e una carreggiata di foto. La sera s’infila nei jet-set. È brava, altro che coltelli, altro che serpenti. Lei s’infila sul serio. E s’iscrive a un corso di regia. Coerente, no? Un attimo di suspence, perché ora sta per arrivare niente poco di meno che l’Amministratore del palazzo. Che con il broker se la intende. Che cambia appartamento nel palazzo a proprio piacimento, che riscuote i soldi e prende la «stecca», che fa rispettare il regolamento. Che si apre il ristorante al piano terra dello stabile.

Senza parlare di quando si mette pure a fare il PR e l’intero palazzo lo usa per fare feste a pagamento di migliaia di persone. Applausi, prego. «Give him love», ancora applausi. Sta per arrivare (applausi) la coppia più bella del mondo (e ci dispiace per gli altri): direttamente dal palcoscenico di Milano, con scalo a Parigi, ecco a voi il Fashion Designer e la Fashion PR, o meglio i «Sono nella moda». Cosa, precisamente? «Nella moda. Organizzo». Cioè, disegni? Come Ridge Forrester? Ma no, solo Forrest Gump. Lui non ha mai preso una matita in mano. E lei conosce tutti e vive nell’Upper East Side di Manhattan, proprio come quelle di Sex and the City, la serie più acclamata degli ultimi quattro anni. Samantha, però, vive nel Meatpacking District, Downtown, e anche quello fa molto tendenza: è infatti lì che si ritrovano l’Avvocato, la Personal Trainer, il Broker.  Non perché ci sia Samantha: Samantha, personaggio della serie, non c’entra, è solo lo specchio di quello che accade a New York. Ma è vero che nella prima pagina dei giornali c’è la foto di Angelina Jolie e di Brad Pitt, la nuova coppia hollywoodiana conosciutasi sul set di «Mr and Mrs Smith», e tutti sono preoccupatissimi per lo stato d’animo di Jennifer Aniston, poverina, lasciata così da Mr Smith e non solo: costretta anche a leggere, tutti i giorni, insieme al caffè, la crasi «Brangelina», grande creazione del Giornalista americano del Gossip (rullo di tamburi: il Giornalista! Quello che scrive in prima persona e nella recensione espressamente dichiara che quel film non è il suo genere), mentre prima Braniston o Jenniferad non l’aveva mai detto nessuno (probabilmente perché non suonava bene, non di certo per le labbra della Jolie).

Poi, nelle pagine successive, sfogliando per caso, en passant, l’omicidio intenzionale (ma, come per magia, è già diventato di secondo grado) della piccola sudamericana Nixmary Brown, 7 anni, trapiantata a Brooklyn, gonfiata di botte dalla madre e poi stuprata, torturata su una sedia di legno e uccisa dal patrigno. Ma via, di corsa ad altro. Signori e signore, ecco a voi il sindaco Michael Bloomberg! Con lo sketch più provato, quello che riesce sempre: «Bisogna fare qualcosa». Il bisogna-fare-qualcosa gli sorge spontaneo in seguito alle accuse rivolte agli ufficiali di zona che hanno ben più volte ascoltato le denuncie dei vicini di casa della famiglia senza fare nulla. Omissione. Bisogna fare qualcosa. Azione. Scavare la fossa alla bambina, questo sì. Dopo una camera ardente aperta due giorni che ha visto file di chilometri e nonne che pregavano e uomini in completo che gettavano fiori e signore che lanciavano baci al piccolo cadavere, e dopo una messa gremita di gente che ha preso il giorno di ferie per salutare la salma, bisogna-fare-qualcosa.

Ma questo è tra la seconda e la decima pagina, dipende. Prima Brangelina e le strazianti parole dell’agente della Aniston in risposta a una stampa troppo attiva che ha pubblicato la notizia della nuova fiamma di Brad Pitt senza che la consorte Jennifer (assicura la portavoce) ancora ne fosse a conoscenza e dopo che il furbetto aveva negato alcun approccio sul set con la Tomb Raider. Commovente, davvero. E, a proposito d’attori, stasera ce n’è uno vero con noi: ho l’onore di presentarvi il Governatore della California, Arnold Schwarzenneger! Proprio lui, siori, quello che ha negato la quarta clemenza per condanne a morte, e l’assassino Clarence Ray Allen, vecchio, cieco, è stato ucciso il 17 gennaio. L’Orso che corre, così era stato chiamato, l’ha scontata, il giorno dopo il suo settantacinquesimo compleanno. Terminator fa un inchino.  Bisogna-fare-qualcosa, bisogna-fare-qualcosa, suona il ritonello da un’armonica scordata. Jennifer Aniston va aiutata, e (spettatori, lorsignori, «the last but not the least», il Presidente degli Stati Uniti d’America!) New Orleans ha già abbastanza soldi dai fondi europei. Il palco ora è sporco, lo spettacolo sta per finire e come scenografia resta la sola sedia di Nixmary. Si chiude il sipario. Insectivora, insieme al topo Matilde, non ha più voglia di mangiare; Miss Hollyday, l’Uomo Tatuato, il Mangiatore di Vetro e quello di Coltelli si alzano. Nessun applauso questa volta.  Lo spettacolo dei Freaks non è piaciuto. Snake Woman si arresta, stenta, tentenna, non si alza ancora dalla sua sedia elettrica e il suo serpente arancione, che la guarda e aspetta un suo cenno per muoversi, capisce immediatamente che la sua padrona quella sedia non la vuole lasciare perché è più sicura della sedia di Nixmary. Arriva il Panino Umano, la solleva e la porta via ancora seduta. Tornano a Coney Island. Non valeva la pena arrivare fino alla città per vedere i Freaks, i mostri.  (ROMINA CIUFFA)

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NEW YORK. WELCOME BACK HOME, CARO DISADATTATO DI MAMMA TUA

New York, novembre 2005. Cosa succede a chi, dopo un periodo vissuto negli Stati Uniti, si ritrova per caso a passare per l’Italia? Numero uno: il primo impatto è meramente visivo, dove la storia e la bellezza si lanciano senza paracadute sugli occhi ormai disabituati dell’italiano e gli dedicano un suggestivo bentornato a casa con un odore di pini, foglie e griglia. In quel momento l’italiano sente di voler tornare il prima possibile e restare, perché l’America tutto ha fuorché questo, e non ha nemmeno l’autista del taxi accanto che ti strepita nelle orecchie e l’odore del cappuccino la mattina presto. Sente di voler tornare perché gli manca tutto, ora che ci pensa.

Ora che ci pensa gli manca la sua lurida palestra (niente a che vedere con quell’incredibile edificio aperto 24 ore su 24 che ospita campi da tennis, da golf, piscina, beach volley e ogni tipo di sport e di personal training); gli manca la sua vecchia macchina (niente a che vedere con i trasporti ineccepibili che permettono di trovarsi in un attimo nella zona opposta della città senza ricevere improperi, clacsonate o multe); gli manca anche la sua mamma (niente a che vedere con le madri americane che, sull’onda del vivi e lascia vivere, si occupano dei propri figli solo per organizzare il tacchino del ringraziamento). Ci pensa e ci ripensa, e intanto si ritrova a casa. Questo piccolo edificio (nulla a che vedere con il grande grattacielo che sovrasta la propria americana abitazione); un ascensore lento (nulla a che vedere con il rapporto un minuto-cinquanta piani); e un bagno con bidet (quello proprio mancava). Si sdraia un momento per riposare, ma è impossibile dormire.

Allora esce. Una passeggiata in centro, un aperitivo, qualche amico e conoscente, troppa vodka. Improvvisamente, numero due: non sa di cosa parlare. Si accorge, in un attimo, che gli argomenti di conversazione sono totalmente diversi. Era abituato a dire che gli americani sono insensibili e superficiali. È ancora vero (e lo sarà sempre): ma di cosa parlare, ora, con gli amici di sempre? Che sono sensibili, sì, e per niente superficiali, ma troppe cose sono cambiate dalla sua partenza, e ora si è abituato alla solitudine, all’isolamento, a pensare per sé con mille Dii diversi, a pensare per tutti, compreso quello Denaro. Non c’è nulla da dire. Incalliti, tutti gli italiani fumano le loro sigarette e lui, di passaggio, ha smesso. Gli andrebbe di fumarne una, insieme a quel whisky invecchiato, ma non ci dice proprio niente. E così la sua nevrosi la deve affondare con qualcos’altro che ancora gli sfugge. Per ora nulla, un po’ di pazienza e la cena è finita. Niente tassazione in più sul prezzo di base, né soprattutto alcuna mancia dovuta. Il prezzo è davvero quello scritto sul menù: stenta a crederci l’italiano ormai abituato a spendere, e con una sottile soddisfazione si alza e va via.

Il numero due non è stato piacevole, come impatto. Non sapere cosa dire a casa propria e trovare un mondo immutato non è il massimo per chi è abituato a vedere il mondo girare in miglia anziché in chilometri. Numero tre: dopo i due sorrisi e abbracci ricevuti, un po’ come fusa da gatti che devono ancora mangiare, è già normale riaverlo attorno e, in fondo, la vita deve continuare. Così le feste iniziali e le code scodinzolanti si trasformano nella pretesa di poterlo infilare in ogni ritaglio di tempo libero come se si trattasse di un dovere. Ma l’impatto numero quattro è ancora peggiore: qualcuno comincia ad avercela con lui, chi per un motivo, chi per un altro. Non è cambiato davvero nulla, ma in America lui ha appreso a badare a sé e a non dover dare spiegazioni relative alla propria vita. L’America l’ha cambiato cosí come ha cambiato milioni di immigrati. Non può piú stare a sentire altri consigliare e giudicare la sua vita, soprattutto quando sono spariti da tempo o non sanno nulla di come l’America funziona e influenza il carattere. Non ha più voglia di provincialismi, di visioni limitate, non ha più voglia di ripicche o sensi di colpa. Quel continente, a sole otto ore di distanza, insegna a vivere ognuno la propria vita senza voltarsi mai indietro, insegna l’individualismo e il valore delle responsabilità. L’Italia insegna solamente a coltivare patate, a vivere in casa dei genitori e mangiare pizza. L’America forse non insegna a suonare il mandolino, ma di certo a crescere.

Un italiano non avrà mai la stessa età di un americano che porta la macchina a sedici anni, cede la propria verginità al ballo di fine anno e può entrare nei locali e comprare sigarette a 21. Non l’avrà mai perché ha già avuto il motorino, sa di essere il più grande amatore del mondo e nessuno gli domanderà mai un documento di fronte a una birra. Non l’avrà mai, perché pranzerà sempre con gli spaghetti fatti da nonna, non metterà una lira che sia sudata nella propria macchina e nel proprio affitto, e non troverà mai lavoro perché il sistema non lo vorrà, o il pessimismo che gli sarà stato inculcato non glielo permetterà. L’americano è insensibile, gli rimbalzano come squash le emozioni e durano pochi secondi, ha imparato a non soffrire e non soffre perché è nato solo pochi anni fa, ma non si lamenta, non si piange addosso, non fa il vittimista e lavora senza interruzione per costruire il proprio futuro ma, soprattutto, il presente. Il quarto impatto, allora, è la pressione.

Il quinto è il crollo della comunicazione che, ormai, è divenuta fittizia, mendace. Litri di inchiostro buttati sui giornali per parlare di nulla, tutto è politica, tutto è Berlusconi ed elezioni, tutto sfida e potere ai danni del cittadino, con pochi canali e un abbonamento inutile da pagare. Spegne la tv, l’italiano, in questo momento, e comincia a rimirare il proprio biglietto di ritorno per accertarsi a che ora parte il suo volo, e mancano ancora alcuni giorni, troppe ore ancora senza dormire, in balia del provincialismo e degli scaricabarile. Tanto aveva atteso questa partenza perché sua nonna, i suoi genitori, la sua fidanzata gli mancavano, e il Colosseo, e fontane che danno vino, e il bel tempo del Bel Paese, e la pasta al dente e le trattorie e il ballo del mattone. Poi, in valigia qualche buon vino, arrivato all’aeroporto dove non c’è wireless per il suo computer, attende la chiamata dell’aereo. Sa che tornerà presto in Italia perché la sua palestra, comunque, gli manca ancora. Ma non appena monta sul suo volo, dorme fino a che non si ritrova di nuovo, finalmente, completamente, e felicemente solo. (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Novembre 2008

 




L’URAGANO JAZZ SPOSA L’URAGANO KATRINA: DALLA SOFFERENZA SI DIVENTA EROI

New York, ottobre 2005. Undici settembre trascorso più velocemente di quello del 2001, vigili del fuoco per le strade a celebrare con birre e barbeque, un’atmosfera calda e una bella giornata. Anziché stare a New Orleans, ora al suolo, stremata. New Orleans, anche detta The Big Easy, la facile, la rilassata, l’opposto delle frenetiche città americane del Nord. Si dice che il Mississipi, in indiano «grande padre delle acque», vi arrivi stanco e riposi formando un lago – magari ascoltando un po’ di jazz -, per poi infine gettarsi nel Golfo del Messico e culminare il proprio viaggio in mare.  Il prossimo 28 febbraio il più famoso Martedì Grasso del mondo – quello di New Orleans -, sarà, sicuramente, diverso. Indubbiamente i volti ricorderanno le maschere delle antiche tragedie greche in quello che ora è un teatro di morte. Il presidente George W. Bush ha dichiarato di assumersi ogni responsabilità per il «caos» verificatosi nei soccorsi: troppo tardi. Rapine, stupri e violenze sono il plusvalore aggiunto dell’opera umana all’opera naturale. Il sindaco Ray Nagin azzarda un’ipotesi di vittime in numero superiore a quelle dell’11 settembre.

La città del Carnevale, ora, è una città fantasma, per giorni capeggiata da boss che hanno dato vita alle più tremende torture: i sopravvissuti hanno dovuto procurarsi pistole, darsi i turni anche per dormire, comprare a peso d’oro medicine, cibo, armi e droga in cambio di gioielli e merci in aste di vendita notturne, i bagni divenuti l’incubo più grande, luogo di violenze e stupri; gli stessi poliziotti della città hanno rinunciato. Stanchi di aspettare i rinforzi, stanchi di aspettare «i nostri eroi», i cittadini si sono fatti giustizia da soli. Poi, i primi soldati e volontari giunti hanno fatto uso della legge marziale con licenza di uccidere.  Moltissimi sono morti per volontà umana, non per volontà di Katrina. Katrina non è colpa di nessuno, Katrina è solo un uragano accorso nella città del jazz ad ascoltare della buona musica. È a New Orleans, infatti, che il jazz ha trovato il suo primo baricentro alla fine dell’800, quando la città era un miscuglio di popoli, razze e colori originati dalle varie dominazioni. Jazz che nasce anche «grazie» alla restrizione: i diritti dei neri ebbero una buona estensione sotto gli spagnoli, vennero ristretti da Napoleone e aboliti dagli americani. Da quel momento in poi i neri cominciano a cantare le loro melodie in silenzio.  In onore del re Luigi XIV, il 9 aprile 1682 l’esploratore francese Robert Cavelier La Salle, giunto nel Golfo del Messico navigando lungo il Mississipi, dai territori del Nord (l’odierno Canadà), rivendica tutta la valle del Mississipi per la Francia e la chiama Louisiana. Poco prima, nel 1570, vi era morto l’esploratore spagnolo Hernando de Soto, in cerca d’oro.

Il finanziere scozzese John Law, delegato dal re francese, comincia a vendere azioni di enormi paludi infestate dalla malaria spacciandole per paradisi terrestri e porta alla rovina molti francesi nel 1720. Tra il 1762 e il 1763 la Francia, esausta per le guerre con gli indiani locali, cede alla Spagna il territorio ad ovest del Mississipi (Louisiana), e all’Inghilterra quello ad est (Mississipi). Segue la guerra d’indipendenza, quindi il territorio della Lousiana viene barattato con un trono in Etruria per gli spagnoli da Napoleone il quale, nel 1803, ne autorizza la vendita agli Stati Uniti. In quel mentre il Governo americano ha invero già stanziato 10 milioni di dollari per il solo acquisto di New Orleans e della Florida: la Louisiana viene così, quasi in segreto e in oltraggio ad alcuni trattati, venduta dalla Francia per 15 milioni di dollari, diviene uno Stato nel 1812 e New Orleans comincia ad ospitare uno dei porti più importanti del mondo e supera anche le successive guerre di secessione.

Esplode l’uragano Jazz: se durante la schiavitù – dal 1619 al 1865 – ai neri è proibito esibire la propria musica e molti sono costretti a imparare la musica bianca per continuare a suonare, in campagna le tradizioni africane sopravvivono trasformate in canti popolari in inglese. Nel 1830, il «minstrel show» diviene una moda: bianchi truccati da neri che mettono in scena grotteschi balli e canzoni. Su questa scia il bianco Stephen Collins Foster diviene famoso per le sue canzoni «negre» e le pagine di Luis M. Gottschalk contengono i prodromi del jazz. Dopo l’emancipazione del 1865, soffia forte il tifone che si trasforma in uragano: spirituals, corali, concertisti neri, blues, sia pure ancora al servizio dei bianchi, come giullari, nei bordelli, nelle bettole. L’indolenza climatica di New Orleans – un caldo umido intollerabile -, feconda un ragtime per banda con improvvisazioni e ne fa jazz, nei primi del ‘900 ne consacra i re, indiscussi, Louis Armstrong e Sidney Bechet, quindi ne sviluppa i ritmi.

Mentre le «jazz-belles», prostitute di New Orleans, permettono il mescolamento di culture, con la parola «jass» si incitano i clienti delle case di tolleranza a ballare sotto la musica dei «jasbo». È dunque nello Storyville, quartiere dei bordelli e della «Big Easy» della città, che s’incontrano le due comunità nere di New Orleans: i creoli, piccolo borghesi e integrati nella società, e i neri americani, che costituiscono la parte più povera del proletariato americano. Il blues accompagna il lavoro degli schiavi, lo spiritual e il gospel ne accompagnano le preghiere, le «bands» accompagnano i cortei funebri verso il cimitero e, tornando in città, suonano melodie vivaci e improvvisano su progressioni armoniche.  A seguito della chiusura dello Storyville, voluta dalle autorità militari statunitensi per non turbare i militari di leva nella città all’entrata in guerra degli Usa, i musicisti si rifugiano nel Southside di Chicago, quartiere nero, dove quello che è iniziato a New Orleans trova storica consacrazione in album e capolavori di intramontabili artisti. Lì si crea il Chicago Style, nel quale la cultura occidentale e bianca si mischia con il jazz nero e lo contamina, valorizzando l’elemento solistico, l’improvvisazione del singolo e la dominazione del sassofono. Di lì a poco, lo swing. Dalla schiavitù, dal dolore, dalla restrizione, i più estasianti ritmi del mondo.

Il jazzista Dizzy Gillespie ricordava che «jesi», in un dialetto africano, significa «vivere a un ritmo accelerato». Forse è per questo che Katrina ha scelto New Orleans per valorizzare tutta la propria espressività. Simile al jazz, simile al blues, un ciclone è un violento movimento rotatorio di masse d’aria, combinato con un moto di traslazione intorno a un centro di bassa pressione. Esso è provocato da un complesso di fenomeni atmosferici determinati dalle alte temperature equatoriali che, in certe zone, creano centri di minima pressione e di aspirazione verso cui convergono i venti, seguendo un moto a spirale che determina un vortice. I meteorologi chiamano uragano un vento di eccezionale intensità, di forza 12, la massima, nella scala di Beaufort, corrispondente a una velocità al suolo di oltre 120 chilometri orari.  Nell’articolo del mese scorso ho scritto che gli americani non temono la natura né gli uragani. L’ho scritto prima che Katrina venisse a cercare un albergo a New Orleans.

Ora che l’ha trovato e che si sta godendo la vista del Golfo e delle immoralità umane, è un Deus Ex Machina e un po’ Dioniso, dio dell’orgia e delle nefandezze e dio anche, paradossalmente, dell’ordine naturale, un dio che punisce per redimere e condanna a morte l’intera città di Tebe per non averlo ossequiato, dando a Cadmo un’unica motivazione: perché è giusto così. Perché dalla sofferenza si diventa eroi. L’impressione sull’attitudine americana è confermata: si è bloccata l’entrata negli States, sono stati posti infiniti controlli, le metropolitane e gli edifici sono letteralmente setacciati e all’ordine del giorno c’è ancora, per l’Amministrazione Bush, il proseguimento di una lotta contro il terrorista. Gli avversari di Bush fanno rilevare che l’ordine del giorno non è cambiato dall’arrivo di Katrina, che subito dopo la quale il presidente statunitense è volato a San Diego per «business», che l’Air Force One è poi passato da New Orleans, riportandolo a Washington, scendendo appena un po’ sotto le nuvole per dare una rapida occhiata dall’alto alla situazione. Qualche altra visita presidenziale, ma la presenza di questo come di qualunque altro presidente non serve quanto il suo intervento dall’alto e non di un elicottero.

I fondi sono richiesti alla popolazione in ogni forma, con una multimedialità da spavento, mentre quelli governativi sono stanziati per costruire una democrazia in Irak; e che i meteorologi avevano annunciato l’arrivo di questa grande ascoltatrice del jazz di scala 5 sin dalla settimana precedente, quando l’acqua del Golfo diveniva più calda, e più calda, e più calda ancora, proprio come musica. È facile dire tutto ciò, più difficile dire cosa avrebbe potuto fare perfino un presidente degli Usa per dirottare un uragano.

Purtroppo non suona più jazz la calda New Orleans, i suoi neri restano sempre neri e c’è chi è pronto a giurare che se la popolazione fosse stata bianca o l’uragano si fosse abbattuto su Kennebunkport sarebbe stato diverso; chi suggerisce a Bush di immaginare «cittadini bianchi lasciati sui tetti delle proprie case per oltre cinque giorni»; chi lo invita a «trovare pochi elicotteri da mandare lì facendo finta che la gente di New Orleans e il Golfo siano vicino Tikrit»; chi scopre la mancanza, a Washington, di una Casa Nera, e pensa al prossimo Mardi Gras a New Orleans senza sfilate. Ma Katrina ha permesso anche all’America di ricordare che gli tsunami stanno dappertutto e che, contro l’Irak forse sì, ma contro la natura non ci sono padri eterni.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – ottobre 2005




NEW YORK, UNA MATRIOSKA E TANTE BAMBOLE

New York, settembre 2005. Nonostante l’incredibile umidità che si è schiantata sulla City durante l’estate e gli uragani che hanno devastato il sud dell’America, si ricomincia daccapo. È strano dire «ricominciare» nella città che non si è mai fermata. Si usa parlare di «stile italiano» quando si fa riferimento a un agosto di vacanza. In America agosto è un mese come un altro. Ci sono ferie, non vacanze. Sono dovute, così come il barbecue. Intoccabile. I giorni di vacanza si «scontano» o si perdono – prendere o lasciare -, e si sommano ai giorni di malattia.  Quindi nessuno corre via dagli uffici durante l’estate, quando comunque il tempo permette di trascorrere incantevoli fine settimana fuori città (con poche ore, dalla Costa ovest si arriva ai Caraibi) e settimane caldo-umide dentro i refrigerati uffici cittadini. Viene da chiedersi perché sia nato l’italian style: perché gli italiani, ad agosto, non lavorano?Perché i Tribunali chiudono le porte, gli avvocati fanno baldoria, i negozi abbassano la serranda e non si trova un locale aperto nemmeno a pagarlo oro? Forse perché nessuno li paga, perché le ferie non saranno mai corrisposte, perché non ci sono mezzi pubblici né aria condizionata.

In America, invece, sembra andar tutto a gonfie vele. Belle vele gonfiate dai venti di uragani passeggeri in grado di muoverle senza, però, farle rovesciare. La natura non mette paura: neve, calura, tempeste, uragani o diversità, niente. Quello di cui gli americani hanno paura è solo il terrorismo. Non la natura. E così, subito dopo i secondi attacchi nelle metropolitane di Londra della scorsa estate, il sindaco Michael Bloomberg ha sguinzagliato poliziotti a controllare borse a campione nelle subways di New York.  A tempesta le polemiche: questo darà modo di compiere discriminazioni fondate sulla religione, sulle mode, sul Paese di appartenenza. Come dire: non si sorvegliano ragazze bianche con borse Louis Vuitton, ma uomini con barba lunga e turbante di diversa razza. Sbagliato? Discriminatorio? Non che una Louis Vuitton non possa contenere una bomba a orologeria messa a punto dai più grandi esperti – tanto più che ce ne sono di varia misura e colore -, ma sembra più facile, a prima vista, ritrovarla in un turbante.  La verità, pura e semplice, è che New York accoglie qualunque tipo di razza, colore, religione e orientamento sessuale. A New York non importa chi c’è a New York, sono tutti suoi figli, e fa bene farsi delle corse in metropolitana e guardare quanta integrazione ha raccolto la città più importante del mondo.

La City non discrimina, allatta tutti e trova lavoro e opportunità di ogni genere a chi ha la pazienza di stare ad ascoltarne le vibrazioni. Perché di vibrazioni si tratta: buttarsi per terra come un indiano ad ascoltare i binari, le ruote del prossimo treno stridere sui ferri, e prenderlo in corsa, ancora fumante, senza lasciarlo passare. Montarci sopra. Correre. Guardare tutte le nuove facce, le varie culture, apprezzare ogni tipo di colore, lingua, mondo, sessualità, razza, sedersi in mezzo a nuove e vecchie idee, mischiare, confondere, ubriacarsi di diversità. Non c’è più una verità perché ve ne sono tante, e nessuno si prende la bega di contraddirne altre: ve ne sarebbero troppe da contestare. Vederne tante fa rivalutare l’assolutezza della propria. Come indicare una sola strada quando ve ne sono così numerose? Quale sarà quella vera? Nessuna, proprio come nessuna è quella sbagliata. Guai ad arrivare da ingenui italiani e credere di poter interferire con l’intero mondo e con la sua splendida natura. 

Perdersi nel Queens è come ritrovarsi improvvisamente nella casbah, con segnali e scritte in arabo, un’indecisa parlata americana, molte signore con buste della spesa sul treno che porta da Jackson Heights a Manhattan – come dire, vivo nella City ma la spesa la faccio a casa mia -, un piccolo sobborgo oltre il quale c’è «l’America». Chinatown, la via brasiliana, Little Italy (solo due strade ormai e caffè pseudo-italiano), Harlem, Greenwich Village: quartieri che racchiudono comunità peculiari che vanno poi a vivere la City e a farne respirare il polmone.Una matrioska piena di bambolette, ognuna delle quali ha il proprio spillo, amuleto, idioma e peculiarità, e tutte insieme solo – nessuna esclusa – possono dar vita alla più grande matrioska, New York, la madre. Pare strano, forse, che proprio New York sia stata colpita in questa nuova lotta di religioni e culture, proprio la città che ospita tutto il mondo e offre opportunità non importa a che colore. New York odia il presidente Bush e non l’ha votato.  Più volte sono stata apostrofata, in rappresentanza di tutta l’Italia, con un «You italians, voi italiani, siete violenti e state appresso a Bush e a Blair», da newyorkesi di Manhattan e da «bridges and tunnels», come sono chiamati coloro che vivono nei quattro boroughs-quartieri – Brooklyn, Queens, Bronx e Long Island -, di New York perché devono attraversare ponti e tunnel per raggiungere il quinto quartiere, centrale, Manhattan. Una portoricana mi stava difendendo proprio pochi giorni fa dall’attacco di un inferocito bridge-and-tunnel di Brooklyn. In questo modo – considerazioni da fare a parte sulla fama degli italiani a New York, che è tutt’altro che buona se si escludono spaghetti e monumenti -, una portoricana ha salvato un’italiana da un americano. Tre realtà completamente diverse che si mischiano e si parlano addosso su un marciapiede qualunque davanti a un locale di Greenwich Village, dove il jazz cresce e impasta le culture.

Abbiamo fatto tanto per crescere, abbiamo anche buttato via la lira, ma ancora ci manca la mamma e mangiamo spaghetti, e non riusciremo mai a costruire una matrioska con capitale Bruxelles, perché la vera, unica, grande e ottava meraviglia del mondo è già qui, a New York, e ha una fiaccola che si riflette sull’Hudson River.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Settembre 2005