TRAUMA SENTIMENTALE: GIORGIO NARDONE LO SPIEGA BREVEMENTE E STRATEGICAMENTE

Trauma sentimentale: oggetto dei nostri giorni, del nostro divenire. Sempre più incerto, traghettato da uno spazio temporale in cui l’uomo era al centro della relazione ad uno in cui è la relazione ad essere al centro dell’uomo. Anche oggetto di un workshop tenuto dal fondatore del CTS, Centro di terapia strategica di Arezzo, Giorgio Nardone che, legatosi come psicologo e ricercatore alla Scuola americana di Palo Alto, è divenuto l’erede di un grande Paul Watzlawick, filosofo e psicologo, unico autore tradotto in ottanta edizioni differenti, avente la capacità di sintetizzare il lavoro di eminenti studiosi – da Gregory Bateson a Donald deAvila Jackson e Milton Erickson – in un unico e rigoroso modello teorico e applicativo. Finanche il padre del costruttivismo Heinz Von Förster amava dichiarare di essere lui stesso una invenzione di Watzlawick. È con quest’ultimo che nel 1987 Nardone fonda il suo centro aretino, dove applica il modello della terapia breve-strategica, particolarmente adatto alla risoluzione dei traumi, incluso quello sentimentale, per il suo approccio netto e veloce.

Nell’ambito del IV Congresso di psicologia della Società italiana di psicologia e psicoterapia relazionale (SIPPR) presieduta dal professor Camillo Loriedo, dal titolo «Psicologia in evoluzione. Progetti e soluzioni della psicoterapia per il futuro», tenutosi a Roma negli ultimi quattro giorni di settembre, anche d’amore s’è trattato. Con Nardone, sono intervenuti sul tema gli psicologi Piero Petrini, Luisa Martini e Giovanna De Maio. «Un ruolo ingrato, in quanto esponente maschile–afferma Nardone–quello di aprire il dibattito: e non è un caso, perché quando si parla di traumi sentimentali chiedono aiuto al 90 per cento le donne». Nel mondo egizio, tra i modelli più avanzati di società, spiega il fondatore del CTS, un editto prescriveva: se cogli una donna in flagranza di adulterio punisci il marito. «Erano già molto saggi. Possiamo anche rovesciare le cose. Smettiamola con la prosopopea del vittimismo. Il tradimento, da un punto di vista interazionale, non è mai un atto singolo, individuale, ma sempre di interazione».

Specifica che negli ultimi anni alcuni Paesi si stanno orientando verso una legislazione nuova: i matrimoni a termine, una profezia triennale che si autoavvera solo in quanto formulata. Il disturbo da iperattività sessuale, ora bandito dal DSM (il Manuale diagnostico dei disturbi elaborato dalla Società di psichiatria americana) definiva malato l’uomo che avesse più di due rapporti sessuali a settimana. Negli ultimi due decenni, per Nardone la ricerca scientifica ha subito la corruzione della misura quantitativa: calcoli da laboratori, non sul campo, e statistiche portano a deformazioni. Come dire che tutti al mondo mangiamo un pollo a testa a giorno, ma c’è chi ne mangia dieci e chi nessuno, e il problema dell’hypersex era emerso da una valutazione a livello mondiale della quantità media dei rapporti sessuali di una coppia dai 25 ai 50 anni, che dava un risultato di un rapporto e mezzo al mese. È la statistica.

«Grazie a questo–analizza Nardone–si era arrivati a ritenere rigorosamente scientifico, perché quantitativamente misurato, un disturbo completamente inventato da una deformazione di scientismo, di riduzionismo, non di scienza. Purtroppo di esempi come questo possono farsene anche riguardo psicopatologie molto più importanti e anche su ricerche che si danno il tono di scientificità, in questo ed altri campi». Cominciamo ad utilizzare il dialogo strategico con noi stessi, suggerisce il padre della breve-strategica. «Portiamo le persone di fronte alla condizione estrema del trauma sentimentale vissuto dal vivo, ossia la flagranza del tradimento, un’immagine che rimane con la densità di un disturbo post traumatico».

A proposito di tradimento Luisa Martini, psicoterapeuta e didatta dell’IIPR, l’Istituto italiano di psicoterapia relazionale, fa riferimento al romanzo «I giorni dell’abbandono» di Elena Ferrante, dove, tra i due partner sottoposti ad uno stress da tradimento, a morire è il cane Argo: la fedeltà. È il fedele che soccombe. In ogni fedeltà che non conosce il tradimento, e neppure ne ipotizza l’esistenza, c’è troppa infanzia, troppa ingenuità, per riprendere Umberto Galimberti. «Nelle relazioni con un altro significativo–spiega la Martini– è necessario mettere in conto il tradimento delle aspettative fantasmatiche di entrambi i partner, di ciò che ciascuno di essi si attende dall’altro ma, non di inferiore rilevanza, da se stesso in relazione con l’altro: ciò fa parte delle nostre possibilità di crescere nella conoscenza di noi stessi e di chi è con noi. La fiducia infantile rischia di divenire una prigione. Accade che il mondo del tradito perde tutti i suoi significati e che entrambi i partner devono riorientarsi. Il tradito vuole sapere tutto, il traditore si sottopone all’interrogatorio».

James Hillman arriva a postulare una verità fondamentale relativa al tradimento: non si danno amore e fiducia senza possibilità di tradimento. Hillmann parla, nei suoi lavori, delle reazioni disfunzionali al tradimento: vendetta, negazione dell’altro, cinismo («tutti gli uomini sono inaffidabili»), negazione di sé («non mi esporrò mai più»), scelte paranoiche (la persecuzione, ad esempio, valida soprattutto ai tempi del web e dei social network).

Nardone, in modo «breve-strategico», pone una domanda chiave: dopo un trauma sentimentale, non solo tradimento, cosa fare? Lasciare il partner o rimanere? Come si arriva a capire quale sarà la scelta migliore? «Ho affrontato questo argomento in un mio libro sul trauma nelle decisioni. Si arriva alla soluzione solo dialogando con se stessi, ma non con la parte razionale: con quella viscerale. Bisogna mettersi sul ciglio del precipizio e verificare quali sono i brividi, per citare la ballerina Sylvie Guillem». Essa sostiene che mantenersi sul precipizio sia l’unico modo per un artista di restare vivo.

La domanda fondamentale da farsi, per Nardone, non è «mi ama ancora?», perché questo è delegare mentre bisogna, invece, fare i conti solo con se stessi. Nemmeno domandandosi «amo ancora?», bensì «posso farne a meno?». L’interrogativo corretto apre scenari il più delle volte non contemplati, perché «quando si comincia ad immaginare in se stessi la vita senza quel partner, quindi a sperimentarla, ci si accorge di qualcosa che prima non si riusciva a vedere. Trovata la risposta, si ha già la strada da percorrere. Nel dialogo strategico–spiega–sono le domande che fanno le risposte. Il problema si pone se la risposta è: non si può fare a meno di quella persona. Ma in tal caso, è necessario evitare di fare la figura della vittima o del vendicatore: se non si può farne a meno, la risposta è chiara e si agisce di conseguenza, senza tornare indietro».

Parlare di traumi sentimentali è qualcosa di viscerale, è parlare del poter fare a meno di qualcuno o no. Da cui il percorso successivo. «Abbiamo bisogno di riduttori di complessità, ossia di stratagemmi che ci consentano di risolvere la complessità attraverso soluzioni semplici. È l’uovo di Colombo, sia pure sofferto: una sofferenza che non è attraversata si trasforma in una lenta agonia, la quale è ben peggiore. Il mio amico Emil Cioran diceva: il coraggio che manca ai più è il coraggio di soffrire per cessare di soffrire».

Se per Pietro Petrini il trauma sentimentale porta ad una dissociazione in grado di primitivizzare l’uomo, Giovanna De Maio spiega cosa evitare e come riprendersi da un trauma sentimentale: «Un abbandono è così devastante da essere paragonato a un vero e proprio lutto: si è sconfortati, inermi, si tratta di una perdita. Per Cesare Pavese un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra miseria, nullità, inermia, e così sintetizza la condizione di fine avvertita quando si entra in contatto con la parte più vulnerabile di se stessi».

Il terapeuta potrà accompagnare la persona che ha subito la perdita attraverso le cinque fasi di elaborazione del lutto descritte da Elisabeth Kübler-Ross: rifiuto («non può essere successo»), patteggiamento («torniamo insieme», «faccio tutto quello che non ho mai fatto prima», «prometto»), rabbia («mi ha ingannato»), depressione («ho sbagliato tutto», «non c’è futuro»), infine accettazione. Cercare di non pensare è già pensare, il tentativo vano di distrarsi non fa altro che allungare il tunnel dei sintomi; l’abbandonarsi è sicuramente la cosa più importante da fare, non come consigliano i familiari, gli amici, il cui dire non fa altro che intensificare il senso di inadeguatezza. Il terapeuta deve sintonizzarsi con il dolore e la sofferenza dell’altro, evidenziando come non ci sia nulla di patologico o sbagliato nel continuare a soffrire. Il dolore delle perdite sentimentali non sparisce: esso decanta. Per agevolare il processo bisogna immergersi come una bustina di tè nell’acqua bollente.

Per questi psicologi dunque, del trauma sentimentale non bisogna vergognarsi. Tutt’altro: esso va ascoltato, e attentamente. (ROMINA CIUFFA)

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LA ROMANIA È UN PESCE, MA SE QUELLO CHE HAI È UN MARTELLO TUTTO TI SEMBRERÀ UN CHIODO

 

LA PREFAZIONE AL MIO REPORTAGE IN ROMANIA. Se quello che hai è un martello, tutto ti sembrerà un chiodo. Se in Italia abbiamo romeni che si distinguono per criminalità – lo dichiarava in aprile anche l’esponente M5S Luigi Di Maio («L’Italia ha importato dalla Romania il 40 per cento dei loro criminali. Mentre la Romania sta importando dall’Italia le nostre imprese e i nostri capitali. Che affare questa UE!») – finiamo per dimenticare che siamo «figli della stessa lupa». Questo il titolo di un libro di Antonio Grego, che sottolinea i legami storici, politici e culturali tra le due nazioni, e ricorda come la Romania sia stata un’area di sbocco dell’emigrazione italiana, proveniente in particolare dal Veneto e dal Friuli Venezia Giulia a partire dalla fine dell’Ottocento, per lavorare nelle miniere, nei cantieri delle ferrovie, nell’edilizia. Migrazione: gliela dobbiamo.

Ma noi ricordiamo solo il pareggio Italia-Romania nei mondiali di calcio del 2006. Ricordiamo «Frankenstein junior», capolavoro in bianco e nero del regista Mel Brooks, che narra le vicende di Frederick Frankenstein, nipote del famoso dottor Victor von Frankenstein, recatosi in Transilvania a riscuotere l’eredità di un castello, parodia del «Frankenstein» di Mary Shelley. Ricordiamo la leggenda di Dracula, sulla quale Bran e i villaggi limitrofi hanno lucrato dopo che lo scrittore Bram Stoker (1897) ha ivi ambientato la storia del voivoda Vlad III di Valacchia (1431-1476), pur essendo altro il maniero del principe noto come l’Impalatore (figlio di Vlad II, investito dell’Ordine del Dragone, da ciò gli derivò il nome Draculea, figlio del Dragone o – «drac» – del demonio).

Il Bâlea Lac, la finestra della suite del Cabana Bâlea Lac

E ricordiamo, più di ogni altra cosa, Giovanna Reggiani, 47 anni, uccisa il 30 ottobre del 2007 dopo essere stata violentata e massacrata a Roma, nei pressi della stazione ferroviaria di Tor di Quinto, da Romulus Nicolae Mailat, muratore romeno di 24 anni alloggiato nel limitrofo campo rom, che sta scontando la pena dell’ergastolo in un carcere di Bucarest. Ellekappa (Laura Pellegrini) pubblicava una vignetta significativa, che si riassume nella questione: romeno, razza o aggravante? Se quello che abbiamo in Italia è un martello, tutto ci sembrerà un chiodo; così la Romania. Quello che vediamo, grazie agli onnipotenti media e alla questione migratoria, è una nazione criminale, di cui oltre un milione di cittadini risiedono in Italia (nel 2001 era solo 75 mila). Una Romania martello.

Ma che è, invece, un pesce: la sua conformazione, infatti, non dà scanso a equivoci interpretativi da macchie di Rorschach. E Costin Dumitru, che conosco nel mio viaggio in Romania e lavora come guida turistica a Sinaia, nel Museo nazionale del Castelul Peles, specifica: se giri la cartina, vedrai anche un mazzo di fiori. Considerando il Mar Nero, il mazzo di fiori è posto in un vaso d’acqua (me lo sottolinea Francu Virgil, di Turda). Nessun martello. E non lo vedo neanche io. Il mio viaggio in Romania è meglio di qualunque viaggio a Parigi, l’ospitalità perfetta, l’appagamento totale. Mi domando: come è possibile che un Paese tanto vicino e strabiliante non riceva le nostre attenzioni? Perché ci si riversa in Grecia, Spagna, Croazia, quando esiste un mazzo di fiori intero pronto ad essere colto ed offerto ad un’amante?

Sic: lo stesso Matteo Salvini, maggior esponente della Leg Nord, postando una foto su un social network, rilevava la crescita dell’economia romena a seguito del taglio delle aliquote Iva e l’aumento dei consumi, avendo a riferimento uno studio Ernst&Young del 2015 nel quale si sottolineava l’elevata crescita della Romania. Sì, è in Europa, per chi se lo stesse domandando o lo domandasse agli operatori di telefonia mobile ai fini di conoscere le tariffe del roaming applicabile. Il trucco c’è, ed è quello della moneta: il Paese romeno non avrebbe potuto reggere il confronto con i grandi pesci europei e si è tenuto il leu prima, il ron oggi, in uso dalla fondazione della sua Banca nazionale nel 1880; il 1º luglio del 2005 il leu veniva rivalutato al tasso di 10 mila dei vecchi lei per ron, portando il potere d’acquisto psicologico in linea con quello delle principali valute occidentali; al 2019 è fissato il passaggio all’euro e questo settembre il ministro degli Esteri Teodor Melescanu ha ribadito l’impegno nazionale in vista dell’ingresso nell’Ocse.

Sotto il post di Salvini, i commenti degli utenti (italiani) sulla Romania sono più che espliciti: si comincia da «È cresciuta grazie ai soldi che hanno guadagnato in Italia» a «Il marcio della Romania ce l’abbiamo in Italia», «Hai dimenticato le prostitute che non vedono mai crisi in Italia», «Perché, risulta che le badanti rumeni spendano soldi che prendono in Italia? Mandano tutto in Romania, tanto qui hanno tutto spesato!», e via dicendo. Il martello è pneumatico.

Così ho interrogato tutti i romeni che ho incontrato per il mio reportage in Transilvania, che hanno riferito, in sintesi, quanto segue. Vox populi. Dalla Romania scappano tutti perché il costo della vita è basso, sì, ma gli stipendi si aggirano intorno ai 200 euro. I criminali che noi conosciamo fuggono, è vero, dal Paese d’origine, perché lì le pene sono applicate, in Italia no. La gente di strada non si identifica con il romeno «italianizzato», piuttosto lo disconosce e se ne vergogna lampantemente; dispiaciuta, si sente vilipendiata da una fama che la precede e che non corrisponde alla verità come, per l’italiano, fa la mafia dei «Sopranos». Un luogo comune è sì rispettato: in Italia i romeni svolgono mansioni che gli italiani non accettano; la loro architettura come le loro doti artigiane sono superiori a quelle degli altri; il Paese è pulito, non ridotto a una discarica a cielo aperto come il nostro. Le qualità di un romeno non sono conteggiabili: non da un italiano. Il martello, in altre parole, è uno strumento di lavoro e non un affronto alla dignità. Per il romeno.

O rumeno? La questione semantica – se è corretto parlare di «romeni» o di «rumeni» – chiarirà molto. Luisa Valmarin, in un saggio del 1989 dal titolo «La guerra del ru- e del ro-», spiega che la differenza tra «român» e «rumân» è legata a specifici aspetti della storia sociale e politica del Paese, che vuole l’etnonimo «rumân» negli antichi documenti di Valacchia indicare non solo l’appartenenza ad un popolo, ma anche, nell’ambito della stessa unità etnica, quella alla condizione sociale di servo della gleba, invertendo quanto accaduto in Francia per il nome dei Franchi. Nonostante la servitù della gleba venne abolita nel 1746, la connotazione negativa assunta dal termine «è tanto forte e radicata che oltre un secolo più tardi essa designa ancora chi appartiene alle categorie più umili».

E i rom? Sottolinea l’Accademia della Crusca: il termine «rom» identifica una minoranza etnico-linguistica, cioè un insieme di gruppi che parlano, o parlavano, il romanés (o romaní). Originari dell’India del nord i rom, caratterizzati da nomadismo e arti, si sono diffusi in tutta l’Europa acquisendo le varie nazionalità (esistono anche i rom abruzzesi). In Romania la minoranza rom è numerosa, ma se è vero che tutti i rom romeni sono cittadini della Romania, non è vero che tutti i romeni sono rom. Non è poi avallabile l’ipotesi segregazionista che stigmatizza i rom sulla base di un generalizzante stereotipo. Zingari, non stupratori.

Questo è l’inizio del mio viaggio in Romania. Sempre tenendo a mente che, per la mia propensione a viaggiare e a conoscere gli altri, a casa mi hanno sempre chiamato «rom». Nomen homen?    (ROMINA CIUFFA)

Romina Ciuffa con Calin Stamatoiu, del Dominique Boutique a Cloasterf, e con il conduttore TV (anche di “Temptations Island”) ed attore nazionale Radu Valcan


 

Romina Ciuffa con Rozalia, residente nel villaggio di Viscri, di soli 7 km

 




ALIMENTAZIONE 2.0: GALLINA CHE NON BECCA HA GIÀ BECCATO

All’inizio era il darwinianesimo. Processi di selezione naturale basati sulla meritocrazia non solo di un vivente, ma delle sue stesse parti corporali: la coda serviva – restava. Non serviva, via. Così le abilità. Si può dire che Darwin fosse un meritocratico, sebbene avesse ricevuto una raccomandazione, quella del naturalista John Stevens Henslow, per salire a bordo del Beagle, brigantino britannico in partenza per una spedizione di ricognizione scientifica intorno al mondo, in qualità di naturalista non stipendiato, e sebbene la sua ipotesi, esposta per la prima volta nel 1858, fu presentata contemporaneamente da Alfred Russel Wallace, che era giunto indipendentemente alle medesime conclusioni.

Corrette o meno, o correggibili, le teorie della selezione naturale sono utili a rispondere a chi vuole convincere il mondo – a prescindere da qualsivoglia cultura, antropologia, credo, dunque bandendo il relativismo in favore di un’assolutismo ideologico – a non mangiare carne. Esse sono basate, infatti, sull’assunto di una specie più forte all’interno di un ecosistema perfettamente autonomo. Homo homini lupus, d’altronde. Oggi la carne fa male, le tossine che sprigiona l’animale, mentre muore soffrendo, sono quanto di peggio si possa ingerire. Non è sbagliato ma, per quanto ciò sia vero, si scontra con l’eccesso. Le nonne dicevano: «Allora non è vera fame», quando si chiedeva da mangiare insistentemente e poi non si gradiva il brodino, la carne. Non è vera fame, no. Si voleva il gelato, diciamolo.

Ed eccoli qui, i nuovi affamati: onnivori (i polifagi), locavori (mangiano cibi prodotti nel raggio di un centinaio di chilometri dal luogo del pasto), ecotariani (scelgono cibo la cui sparizione causi un impatto minore sull’ecosistema), macrobiotici (no carne), vegetariani (no carne, no pesce), flexitariani (vegetariani che mangiano solo a volte carne e pesce), vegani (no ai cibi di origine animale, come latticini, miele e uova), freegan (che rifiutano in blocco la società consumistica, non comprano nulla, recuperano gli scarti anche dai bidoni, si nutrono pure di carcasse di animali morti trovate per strada), crudisti (amano cibi crudi di cui non sia superata una certa temperatura per mantenerne le proprietà di attivazione enzimatiche), fruttaliani (solo frutta e verdura), fruttaliani crudisti (escludono frutta e verdura cotte), fruttariani (solo frutta cruda, meglio se dolce), fruttariani simbiotici (solo frutta cruda e mangiata dagli alberi curati in proprio), via via verso il trionfo della concezione biocentrico-igienista.

Nonne, non abbiamo finito. È un melodramma quello dei melariani, per i quali le piante soffrono, tutte tranne i meli: le mele si donano all’uomo con piacere, i melariani lo sanno. Una mela al giorno leva il medico di torno (se il medico mangia solo mela, un peccato originale). Più avanti ci sono i respiriani: loro respirano. Vivono di sola luce. Assorbono prana (energia vitale, spirito) dal naso. Possono concedersi di ingoiare qualcosa solo se ciò non li fa sentire in colpa, «perché stiamo mangiando per gusto, perché ci piace e non per necessità», spiega una di loro in un’intervista. Aggiungendo: «I cambiamenti fisici più rilevanti sono stati la crescita costante di energia e luminosità e la scomparsa del bisogno di defecare. A un livello di pulizia totale si smette anche di urinare, rimettendo i liquidi in circolo e attivando un processo autotrofo». Alcuni riescono a non dormire, a diventare immortali, assicura la respiriana. Oltre, ci sono i raeliani, che meriteranno la reincarnazione scientifica e vivranno per sempre sul pianeta degli Elohim, dove il cibo sarà portato loro senza dover fare il minimo sforzo.

Dopo, ci sono solo i morti.

L’estremizzazione è una componente essenziale della media. Bukowski scriveva: «Non mi fido delle statistiche: un uomo con la testa nel forno e i piedi nel congelatore ha una temperatura media». Così è garantito un livello di maturità e intelligenza al centro, che solleva dall’idea di dover scegliere per forza tra il congelatore ed il forno. Ma si stava meglio quando si stava peggio. Prima non era un problema mangiare; oggi l’attenzione cade sul cibo al punto tale da essersi sviluppati in senso più ampio disturbi alimentari di forte gravità. L’aver posato lo sguardo su di essi li ha fatti emergere, e così avanti l’anoressia, avanti la bulimia, il «binge eating», la pica etc. Che, infine, sono ricollegati all’accudimento materno. E si torna alla madre, comunque: l’alimentazione inizia con la suzione, non con il respiro. Il latte materno proviene da un animale, facente parte della catena alimentare, ma oggi si dice: il latte è la cosa più pericolosa che c’è. Seno buono e seno cattivo, li chiamava Melanie Klein, l’assenza di integrazione dei quali condurrebbe, nello sviluppo evolutivo umano, alla formazione della posizione schizo-paranoide, utilizzata come difesa. Per l’appunto.

Cosa è accaduto, cosa ha portato a vivere di sola aria? A far credere che l’astensione dal cibo sia l’alimentazione corretta? A nutrirsi con il naso, non con la bocca? Nell’epoca degli «apericena» poi. La disperazione individuale, la distruzione planetaria, due facce della stessa medaglia; la psicosi come malessere. L’oncologo Umberto Veronesi, scomparso di recente, direttore dell’Istituto europeo di Oncologia, ha studiato la relazione tra cibo e cancro elaborando una dieta per la prevenzione dei tumori, incentrata su un consumo più coscienzioso dei diversi alimenti; una dieta non lontana da quella mediterranea, vicina a quella vegetariana ma con correttivi. Ma la dieta migliore è la coerenza.

Esagerare nella scelta di un regime alimentare e renderlo ideologia conduce a disturbi mentali, ossessioni, fissazioni, carenze. Una convinzione – di qualunque tipo essa sia – può modificare gli schemi neuronali del cervello, a livello individuale e collettivo, al punto da generare un effetto Pigmalione, la «profezia autoavverantesi» di Robert K. Merton, il quale con William Thomas sosteneva che «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Anche definito effetto Rosenthal, il postulato sottolinea come una previsione possa realizzarsi per il solo fatto di essere stata espressa. Così una corretta disciplina nell’alimentazione supporta fisico e mente; un’eccessiva disciplina li distrugge, e pone in circolo premesse che condurranno all’adempimento della predizione che le ha generate. Accenderemmo un fuoco sapendo che il tronco dell’albero ne soffre? Come potremmo riscaldarci? Oggi, con l’energia solare. Ma poi, dove sedersi, su quali sedie? Per terra. «Per terra» acquisisce un significato talmente pregnante, a questo punto del ragionamento, da poter citare un altro gruppo, quello degli scalzisti o «barefooters», che vanno sempre in giro scalzi. E siamo noi a doverci fare il callo.

Si dice anche: “Gallina che non becca ha già beccato”. Si fa riferimento al fatto che si ha già la pancia piena. Ed, in un certo senso, è così: la reificazione della metafora conduce a dire che sì, si ha la pancia piena, di troppe cose. Abbiamo tutto. Non c’è più pane e patate, altro che guerra. Non c’è più l’istinto di sopravvivenza, è tutto a portata di mano, il grano è nel pollaio e non lo becchiamo. Galline restiamo.

Quella di oggi è vera fame? Nell’epoca del consumismo più sfrenato, dei click, dell’abuso, si può rispondere: no, non è vera fame. Tale nonna, ancora viva, non può più fare il ragù ai nipoti, non può sbattere un uovo per lo zabaione o la sua crema, le è inibito spadellare. Oltre a doversi abituare, con rassegnazione anziana, ad un mondo che svanisce, che lei non aveva distrutto ma che i suoi figli hanno massacrato senza esitare, ora non può che preparare, per il pranzo di Natale, un buon prana, e sapere che, nell’esalare l’ultimo respiro, almeno per quella volta ancora potrà tornare a dare da mangiare ai nipoti. Basterà per tutta la famiglia?   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – luglio/agosto 2017




BEMYEYE: OCCHI ED UNO SMARTPHONE PER GUADAGNARE COME IN UN GIOCO

Siamo in un videogioco e giochiamo. Ma la cosa interessante non è «partecipare» né, tantomeno «vincere», bensì «guadagnare». Abbiamo delle missioni da compiere e dei livelli da superare, per guadagnare di più; possiamo anche regredire (ma perdere le vite, mai). Non dobbiamo scalare montagne o uccidere i nemici: dobbiamo solo usare lo smartphone per inviare posizione e foto di ciò che vediamo. Siamo gli occhi. Noi, siamo «Eyes».

È questo BeMyEye, sii il mio occhio. L’occhio delle aziende che hanno necessità di controllare l’adempimento di certi contratti, di verificare che il loro cartellone sia affisso correttamente e, a maggior ragione, sia presente su un pannello della pensilina vicino casa di chi lo fotograferà, in conformità dei piani concordati con i distributori; o di accertarsi che una farmacia non abbia relegato il proprio prodotto in un cassetto; o che l’autoconcessionaria presenti la vettura in modo consono alla vendita. E così via.

«La tua missione consisterà nel raccogliere informazioni e immagini circa promozioni, prezzi ed esposizione dei prodotti. Alcuni dei nostri clienti richiedono anche attività di mystery shopping e pareri sulla tua esperienza d’acquisto. La maggior parte dei job richiede non più di 10 minuti del tuo tempo!», ed è fatta: ad ogni missione corrisponde un compenso, previa approvazione, ed è possibile guadagnare discrete somme impegnandosi da qualche minuto a qualche ora al giorno, o quando si vuole, in ogni città, in ogni luogo, in Italia e all’estero. Praticamente, oggi che si discute di Job’s Act e di disoccupazione, è una rivoluzione, o meglio: un faro.

Nel 2011, da Milano, Gian Luca Petrelli aveva bisogno di informazioni per se stesso, e immaginò BeMyEye, soluzione DaaS (Data as a Service) di «mobile crowdsourcing» per ottenere informazioni sulla vendita al dettaglio. Quindi, si rese conto che ciò potesse essere utile anche alle altre aziende, ed ecco altri manager – David Miller, Imran Khan, due anni fa anche Luca Pagano, attuale amministratore delegato -. Ecco i finanziamenti. Ed ecco le foto: più di 2 milioni raccolte da circa 400 mila «Eyes» che hanno scaricato l’App. Ed ecco i clienti: Mattel, Coca Cola, P&G, Nestlè, Samsung, Lavazza, Universal, Barilla, Nespresso, Tim, Heineken, Twentieth Century Fox, e moltissimi altri che hanno scelto BeMyEye per ottenere informazioni affidabili e processabili, potendo così osservare migliaia di location in pochi giorni, offrendo «insight» per identificare nuove fonti di business, per rafforzare l’identità del marchio, per monitorare gli accordi commerciali. Voilà.

BeMyEye ha la sede centrale in Gran Bretagna e uffici in Italia, Francia e Spagna, è una compagnia partecipata da grandi venture capital europei. Nauta Capital, p101 e 360 Capital Partners nel 2016 hanno conferito un finanziamento di 6,5 milioni di euro con cui la compagnia ha accelerato lo sviluppo del prodotto ingrandendo il team. Il finanziamento è stato utile anche a rafforzare la divisione vendite e marketing e supportare l’espansione internazionale dell’azienda. Così, sia la sede sociale che il quartier generale sono stati spostati a Londra, ed ora la società è a tutti gli effetti una società di diritto inglese. Ed ha anche acquisito LocalEyes, una delle maggiori compagnie di «crowdsourcing» in Francia, per superare i 400 mila collaboratori on-demand e posizionarsi come la più importante realtà europea nel crescente mercato della raccolta dati e immagini dal mondo reale tramite l’impiego di cellulari da parte degli utenti sottoscrittori.

BeMyEye si fonda, infatti, sull’impiego di un’App gratuita che utilizza tecniche di «gamification», ossia «come in un gioco», e consente di accumulare in maniera anche divertente piccole somme di denaro in cambio di micro-lavori da svolgere su base volontaria nei luoghi scelti attraverso la localizzazione. In tal modo sta costruendo un grande network europeo di rilevatori on-demand, occhi delle imprese che si rivolgono all’azienda di Petrelli necessitando di informazioni dai punti vendita o dal livello strada. Con questo metodo, le aziende richiedenti possono vedere, con gli occhi degli Eyes, migliaia di luoghi diversi in pochi giorni. Pagano (nella foto qui sotto) precisa come.

Domanda. Una delle principali e più innovative «start up» italiane, ma già è «adulta», sebbene guidata da giovani. Come definisce, allora, BeMyEye?
Risposta. Tengo a definirla non più come una start up, poiché la nostra ormai è un’azienda che ha 6 anni di vita, copre 10 Paesi, ha uffici a Milano, Parigi, Londra, Madrid, ha raccolto 10 milioni di capitali. Siamo 50 persone con un’infrastruttura dei processi e un’organizzazione che ci fa somigliare più a una giovane azienda in crescita che non ad una start up.

D. Come è sorta l’idea di canalizzare i singoli intorno a missioni a pagamento per soddisfare le esigenze di grandi compagnie?
R. BeMyEye nasce da un’idea geniale del fondatore, Gian Luca Petrelli, che ha creato il business da una sua esigenza personale: quella di controllare se l’olio prodotto dalla sua azienda di famiglia veniva correttamente promosso nei negozi di Whole Food negli Stati Uniti, cosa che lui non riusciva a fare attraverso le agenzie tradizionali a prezzi ragionevoli. Così si rivolse al fondo più importante d’Italia, il 360 Capital Partners, ed ottenne il finanziamento per concretizzare il prodotto. Successivamente, nel 2013, BeMyEye ha cominciato a commercializzarlo e si è visto che effettivamente funzionava.

D. Perché funziona?
R. Perché è un modo totalmente innovativo che «bypassa» completamente il modello tradizionale di rilevamento dei dati sul territorio o in un punto di vendita, mettendo direttamente in connessione i «brand» e i «retailer», che hanno bisogno di ottenere dati relativi ad una specifica location, con persone che si trovano in prossimità di quella location e hanno uno smartphone in tasca, dando loro un compenso: noi li abbiamo chiamati «Eyes», occhi. A loro diamo missioni da svolgere come se fossero in un gioco.

D. Le chiamate «missioni»: cosa sono?
R. Un esempio: l’Eye, che prenota dal cellulare una missione a sua scelta, deve entrare nel negozio e trovare un prodotto o una certa promozione, verificarne la presenza e il corretto posizionamento, fare delle fotografie o scansionare il codice a barre. Se l’Eye ha successo viene ricompensato con denaro. Ci sono missioni più veloci, compibili in meno di un minuto, come quella riguardante l’adempimento degli accordi relativi alle affissioni pubblicitarie: queste sono le missioni più semplici e più amate dal nostro «crowd». Poi ci sono missioni molto più complicate. Quest’anno abbiamo lavorato molto in giro per l’Europa con un grande gruppo automobilistico per seguire il lancio di un nuovo modello di macchina: si doveva andare nella concessionaria e avere un’interazione abbastanza prolungata e intensa con il venditore, domandandogli prezzi e disponibilità per quel modello specifico o aggiungendo una serie di optional, per vedere se l’auto era venduta bene. La stessa cosa è stata fatta anche su auto di marchi diversi.

D. Le missioni sono in incognito?
R. Per la verità la maggior parte sono in incognito, perché comunque si tratta sempre di verificare la corretta implementazione di un accordo che è stato preso dall’azienda committente della missione e quella che invece è in qualche modo oggetto della missione. Però a volte c’è anche piena apertura e trasparenza, anche perché sostanzialmente si può trattare di dati utilizzati nell’interesse del brand in questione senza che vi siano conflitti tra chi monitora e chi viene monitorato.

D. A quanto possono ammontare i guadagni che un Eye può fare attraverso l’App?
R. Per prima cosa tendiamo sempre a spiegare perché BeMyEye esiste: per noi è importante avere un impatto a livello globale su tutto quel segmento di persone che non ha necessariamente delle qualifiche, il cosiddetto «unskilled labour». Poi ci sono diversi livelli ed elementi di complessità nelle varie missioni, quindi bisogna impegnarsi e saperci fare, e ci teniamo in contatto attraverso un cammino che si svolge in progressione come all’interno di un videogioco – per questo lo chiamiamo «gamification» – il quale consente di salire a livelli più avanzati secondo il livello di impegno, l’ammontare delle missioni e la qualità con cui sono svolte. Le missioni possono progredire oppure ad un Eye possono essere riservate delle possibilità, come ad esempio le missioni multiple. Abbiamo notato che ci sono persone, in Francia e in Inghilterra, che si organizzano la giornata guardando quello che è possibile fare, creando un giro che permette in circa tre ore di compiere 15-20 missioni e di portarsi a casa anche 150 euro. Il nostro obiettivo principale è massimizzare le capacità di guadagno di queste persone e minimizzare l’ammontare delle ore che devono lavorare perché secondo noi, vedendo quello che è la capacità di guadagno dei nostri Eyes, è possibile essere maggiormente gratificati con un lavoro di 2-3 ore che non con un lavoro malpagato di una giornata intera.

D. Si può parlare di «lavoro»? In che modo sono collocati gli Eyes sul piano fiscale?
R. Chi fa queste missioni non «lavora» per noi, non è un nostro dipendente, l’attività è basata sulla volontarietà ed il nostro è un «marketplace» a tutti gli effetti dove noi postiamo missioni specifiche e chi vuole le riserva senza nessun obbligo di svolgerle, pur se, per il concetto della «gamification», è previsto l’abbassamento di punti e la regressione ad un livello inferiore nel caso di missioni prenotate e non svolte. Non c’è una relazione di dipendenza dal punto di vista giuslavoristico, c’è invece un’elevata possibilità di guadagnare molto di più di quello che è il minimo salariale. Si tratta, a livello fiscale, di una prestazione occasionale, con la ritenuta d’acconto che tratteniamo alla fonte, pagando al netto.

D. Quindi voi pagate le tasse.
R. Assolutamente sì.

D. Gli «Eyes» devono dichiarare le entrate?
R. Possono, ma sostanzialmente sono già stati pagati al netto della ritenuta d’acconto. Il mio obiettivo è di essere assolutamente in linea con quelle che sono le legislazioni giuslavoristiche a livello nazionale. Quello che ci preme sottolineare è come questa forma di guadagno possa essere significativa, e questa per noi è una motivazione molto forte perché effettivamente possiamo incrementare l’introito di molte persone.

D. Cosa accade se, nel corso della missione, l’applicazione non funziona o ha dei problemi, come già è capitato e stato segnalato da alcuni utenti?
R. La policy è di pagare la missione svolta se anche ne caso in cui vi sia stato un problema tecnico di cui noi siamo a conoscenza o che possiamo tracciare in qualche modo dai nostri logs. Cerchiamo il più possibile di andare incontro ai nostri Eyes, soprattutto perché sappiamo che hanno impiegato del tempo; è chiaro che ciò, nella pratica, non è semplice, se non riusciamo ad avere una tracciatura di quello che realmente è successo, sapere se poi la missione può essere effettivamente pagata o meno. Quindi ciò alla fine dipende da quello che riusciamo a vedere attraverso i nostri sistemi. A fronte di una missione compiuta c’è un processo di approvazione dopo il quale è possibile effettuare il pagamento, e ci sono situazioni in cui non possiamo corrispondere la quota della missione se essa non è documentata.

D. Una contestazione di un utente su un forum online riguardava l’abbassamento del compenso nel caso di una missione in cui a lui spettava di cercare surgelati in un supermercato ed essi non fossero presenti sul banco. Se, in effetti, lo scopo ultimo della missione è quello di verificarne la presenza, e dunque l’eventuale assenza, non è una contraddizione penalizzare l’Eye?
R. Questo, in realtà, è un modo che noi usiamo per incentivare lo stesso Eye a trovare il prodotto e quindi a fare uno sforzo. A lui è concesso di inviare foto multiple di un’intera area del supermercato che ne dimostrino l’assenza, e più recentemente abbiamo sviluppato la possibilità di farlo fotografando lo scaffale su cui il prodotto dovrebbe essere presente. Se esso, invece, non è presente sullo scaffale giusto, è come se non esistesse, e costituisce un mancato adempimento del supermercato.

D. Una potenziale missione potrebbe essere quella di mettere il prodotto giusto nello scaffale giusto.
R. In verità questa potrebbe essere l’evoluzione di una missione: ad oggi ancora non lo facciamo, però sempre di più ci viene richiesto dai nostri clienti.

D. Chi sono i vostri clienti e come le trovate?
R. Sono aziende di ogni tipo, soprattutto «retail», del «consumer electronics», del settore farmaceutico, del «fast moving consumer goods» e del «personal care». Si sta intensificando la competizione delle farmacie soprattutto nei Paesi dove sono state liberalizzate e sono state acquisite le logiche del merchandising tipiche di un supermercato. Essendo lo spazio nelle farmacie limitato, è ancora più importante la corretta ubicazione dei prodotti e questo sta diventando un mercato importante per noi.

D. Dove funziona l’applicazione?
R. Sostanzialmente copre tutta l’Europa, ma recentemente abbiamo aperto in Polonia e Svezia e ci stiamo espandendo nel mercato del nord e dell’est. Essa non si limita soltanto alle grandi metropoli, ma copre ogni luogo di un Paese.

D. È possibile che in un determinato territorio non vi siano Eyes disponibili?
R. Abbiamo un modello abbastanza efficace di reclutamento di Eyes, che avviene in maniera ipergeolocalizzata sfruttando i canali di acquisizione online. Nei Paesi più avanzati dove siamo presenti da più di due anni, come l’Italia e la Francia, ormai spendiamo poco o niente in «recruiting» anche perché abbiamo un passaparola molto attivo. Oltre a ciò impieghiamo tecniche di «members-get-members», chi porta un conoscente guadagna lo stesso importo della prima missione svolta dall’amico coinvolto per suo tramite. Nei Paesi dove abbiamo appena aperto, per esempio la Polonia, facciamo un po’ di fatica ma attivando delle campagne di acquisizione e reclutamento il problema si risolve. Uno dei canali più importanti per le acquisizioni è sia il passaparola, sia Facebook.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Giugno 2017




HA LA MENTE DI DONALD MA TUTTO IL RESTO FA DA SÉ

Chi ha paura di Donald Trump? Da italiana, mi dà un non so che di certezze, come guidasse un robot di quei manga giapponesi, che a noi bambini dava sicurezze a prescindere da chi fosse l’umano che lo pilotasse: Mazinga, ad esempio, condotto da Tetsuya, ragazzo insicuro, dal carattere inquieto e solitario, una personalità difficile minata da un complesso di inferiorità derivantegli dall’essere orfano e dall’esigere dagli altri la stessa preparazione maniacale a cui lo aveva abituato il dottor Kabuto, costruttore del robot. Ma Mazinga era un porto franco di certezze e di vittorie, le paure erano solo umane, dunque giuste.

Un robot è necessario per ripristinare l’ordine. Ma che ci sia un uomo, dentro. Non temo Trump, temo la guerra. E temo per la salute degli americani, non solo quella psicologica. La cura Obama è stata un’esperienza di democrazia e respiro, soprattutto per i più ceti più bassi, ma non poteva durare a lungo, subito spazzata via da una «Trumpcare» che non piace nemmeno ai rappresentanti (la Camera statunitense ha approvato la riforma con 217 voti a favore e 213 contrari dopo averla sospesa per mancanza di voti, prima sconfitta del nuovo presidente, ed ora il Senato si prepara per una strada in salita di emendamenti ed accordi «aum-aum»). Sarà costosa principalmente per i contraenti che presentano già una malattia e per coloro che, in nome del diritto di scegliere se assicurarsi, andranno impavidi verso l’alea della libertà sanitaria. Fondi federali, gli «high-risk pools», per i malati gravi, manterranno bassi i costi delle assicurazioni della fascia media della popolazione (che Obama aveva contribuito ad alzare a favore della classi più povere) prestandosi al rischio di lunghi periodi di attesa per i pazienti prima che le spese sanitarie siano pagate dallo Stato.

Intanto, procedono i lavori di costruzione del muro di Trump, 3.220 chilometri di confinamento e 9 metri di altezza, dove gli operai lavorano con giubbotti antiproiettile e solo una piccola parte di circa mezzo milione di imprese edili di proprietà ispanica ha preso in considerazione l’appalto; se lo ha fatto, è stato (si giustificano) perché il lavoro è lavoro. Secondo la National Autonomous University of Mexico, inoltre, la costruzione del muro metterebbe a repentaglio la vita di 800 specie animali autoctone, 180 delle quali già a serio rischio di estinzione. L’Italia sta a guardare indignata, ma la situazione, mutatis mutandis, non è migliore. Il muro è un muro psicologico, fondamentalmente. Lampedusa, porto di scarico degli scafisti mediterranei et altera. Al sindaco del piccolo comune siculo, Giusy Nicolini, è stato conferito il Premio Unesco Houphouet-Boigny sulla ricerca della pace «per aver salvato la vita a numerosi rifugiati e migranti e averli accolti con dignità».

L’accoglienza, come quella in un villaggio turistico, è una cosa; la vacanza un’altra. Gli immigrati giungono in Italia e sono raccolti con quello che in un villaggio vacanze è un calice di prosecco. Poi resta solo il secco: è l’inizio di una vacanza tormentata, in un Paese ostile, perso, disorganizzato. Si configurano tutti gli estremi per un danno da vacanza rovinata. L’italiano li detesta perché vendono rose e cartine la sera, spacciano, lavano forzatamente i vetri al semaforo, chiedono soldi sotto forma di ricatto nei parcheggi e, quando va bene, dietro le quinte muovono le fila delle cucine di ristoranti italiani, giapponesi, francesi, pur non sapendo dove siano il Giappone dei manga e la Francia della nouvelle cuisine. Il «bangla» va anche di moda quando può, e nei quartieri è spesso accettato, considerato come un vecchio conoscente, per due chiacchiere e una liquidazione veloce; pezzo di arredamento del rione, conduce una vita oscura di cui nessuno sa nulla. Risuona il sempreverde luogo comune: «Se ancora vendono rose dei cimiteri, qualcuno che le compra ci sarà», e non sono i morti. Io, quella degli italiani, la chiamo ipocrisia.

Il procuratore della repubblica Carmelo Zuccaro dà intanto indicazioni per consentire un miglior controllo dell’attività della navi Ong, mosso anche dall’evidenza che alcune di esse spengono il transponder per non farsi localizzare, e propone la presenza di ufficiali di polizia giudiziaria su tali navi (non per controllarle, bensì per fare quei rilievi che il personale delle Ong non è autorizzato a compiere), aggiungendo: le navi Ong non dovrebbero battere la bandiera dello Stato in cui sono varate e acquistate, ma quella dello Stato in cui la Ong ha sede. Si muovono gli attivisti a difesa dei rifugiati; spesso sono gli stessi che pretendono il crocefisso appeso con il Cristo morto nelle aule di scuola dei propri figli. Ma Dio è morto, per l’appunto.

Non è più una questione di destra o di sinistra, di cattolicesimo o burka, ammettiamolo: siamo terrorizzati dagli extracomunitari. Dio è morto, Mazinga è morto. Ed è morto l’ambulante senegalese Maguette Niang, causa un infarto durante una corsa con la busta piena di borse per sfuggire al blitz anti-abusivi dei vigili romani, indagati poi per omicidio colposo in un contesto politico che non tutela le zone di pregio. E mentre il Governo parla di una legittima difesa notturna, secondo cui è possibile utilizzare un’arma da fuoco «di notte» e non di giorno; mentre Renzi, appena rinominato segretario del suo partito, fa un passo indietro viste le reazioni scaturite dall’approvazione alla Camera di una norma illogica; mentre Matteo Salvini grida «vergogna!» e Silvio Berlusconi si oppone all’emendamento; mentre il capoverdiano Edson Tavares, già denunciato per maltrattamenti, a Rimini sfregia per sempre con l’acido la fidanzata ventottenne Gessica Notaro, ex Miss Romagna; mentre in centro a Roma si consuma un amplesso in pieno giorno davanti la sede del celebre palazzo occupato dell’ex Federconsorzi, che attende lo sgombero da oltre tre anni e il cui proprietario continua, suo malgrado, a pagare le tasse; mentre accade questo ed altro, si guarda al presidente Usa come a un detestevole marziano, perché ha elevato due muri, uno fisico, l’altro sanitario. Ed altri ne eleverà.

Continuo a credere ai cartoni animati anni 80. L’ordine può essere ripristinato solo dai vecchi robot. I nuovi sono fallaci: i social network non contengono un pilota, ma milioni di parole al vento. Papa Bergoglio sprona all’accoglienza, e riceverà Trump in Vaticano il 24 maggio, poco prima del G7 di Taormina; sarà quindi atteso da Sergio Mattarella. Dichiara il tycoon: «La tolleranza è la pietra miliare della pace. Per questo sono orgoglioso di fare uno storico annuncio questa mattina, e condividere con voi che il mio primo viaggio all’estero come presidente sarà in Arabia Saudita, poi in Israele e poi in Vaticano a Roma». Le origini tedesche possono metter paura, come anche la sua ricchezza (autoprodotta attraverso i suoi stessi sforzi, quelli del padre Fred, quelli del nonno Friedrich, semplice barbiere immigrato negli States).

Sarà l’età, ma a me piace immaginare Donald guidare Mazinga come faceva Tetsuya, rinchiuso in un robot di artiglieria pesante, pericolosa, ma che spesso salva la vita di un pilota insicuro. Il punto è: vogliamo essere un cavallo di Troia o un robot? Vogliamo aiutare o essere aiutati? Perché non si può avere tutto: Mazinga ha la mente di Tetsuya ma tutto il resto fa da sé.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – maggio 2017




IL TUO CORPO MI CHIAMA A TRASGRESSIONI VOLGARI

IL TUO CORPO MI CHIAMA A TRASGRESSIONI VOLGARI

Il tuo corpo mi chiama a trasgressioni volgari
ma la tua mente mi riporta
alla consapevolezza
che ogni liquido scambiato
consti di uno schema
che non cambia fra di noi,
dimostrazione
che l’integrità salubre della nostra
affettività,
anche volendo,
non lascia modo alla volgarità di intaccare
la pulizia.

Romina Ciuffa, in “Rassognazione”, edito da Booksprint, aprile 2017
(COMPRA IL LIBRO IN LIBRERIA, O SUL MIO STORE www.mementoromi.com/product-page/rassognazione-cartaceo anche in versione ebook, su ogni digital store ufficiale, o perché no sul sito dell’editore: www.booksprintedizioni.it/libro/poesia/rassognazione)

(foto di Roberto Franciotti)




USA: MA COME SI DICE, IN ITALIANO, “PICCIRIDDU”?

New York. Si lamenta perché, dice, in America non si parla che l’americano. Dice che le scuole, i media, i cervelli sono, monopolizzati. Si sente italiano più che americano e, a dirla tutta, in Italia c’è stato solo pochi giorni che, contati su 49 anni, non lo rendono proprio italiano. Ma dice «grazie assai» e «statte buono». Ascolta Lucio Battisti, Rita Pavone, Daniele Silvestri, Vasco Rossi. «Sonno» lo pronuncia «sono», e «gente» per lui è un plurale. Non è alto e in America questo non fa onore, soprattutto quando si tratta di giocare a basket. Ha occhi scuri, capelli scuri, cuore scuro. Suo padre è morto. Sua madre vive nell’America più profonda. Entrambi sono nati calabresi. I suoi nonni erano emigranti e così hanno dato alla famiglia una possibilità di crescere.

È tornato qualche anno fa al proprio paesino, arroccato sui monti dell’entroterra calabrese, per salutare un cugino. Ma l’avevano ucciso. Perché? Non lo sa. Dove? Non lo sa. Da chi? Non lo sa. Nessuno parla, come suo cugino. Mi vengono in mente «I cento passi» del regista Marco Tullio Giordana, e la storia di Peppino Impastato di Cinisi, che il padre aveva provato a mandare, ma guarda un po’, proprio in America, una meta a caso: non c’era riuscito, anche se l’idea di aprire una radio negli Stati Uniti l’aveva stuzzicato. Gli zii americani ce li aveva pure Peppino, ma era rimasto in Sicilia a fare propaganda contro Tano Badalamenti. Non che il cugino di «Grazie Assai» abbia avuto a che fare con Tano, ma «non lo so» hanno risposto pure a lui quando ha chiesto il perché. Un altro viaggio «Grazie Assai» se l’era fatto qualche anno prima, accompagnando suo nonno al cimitero, lo stesso. Li aveva aspettati tutto il paese all’aeroporto. È tornato! È tornato!

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità»: alza il volume della canzone di Daniele Silvestri mentre mi racconta che gli manca l’Italia e che suo cugino Gaetano l’aveva conosciuto solo negli ultimi anni, perché prima lui parlava poco l’italiano – s’interrompe e ripete: «Sempre perché qui non impariamo niente» -, e il cugino non una parola d’inglese. A dire il vero, poche pure di italiano: È tornato!

«È la solita vita, la solita rincorsa a una corriera già partita, perpetuo movimento sulla strada che all’andata, così come al ritorno, è sempre una salita». Sai, mi dice, era proprio un brav’uomo mio cugino Gaetano. Ha lasciato una moglie e tre figli. Andavo al paese e tutti mi volevano bene, mi facevano sentire di appartenere. «I belong», e stringe il pugno. Poi mi racconta che nell’Indiana, dove vive, ha tre amici napoletani. Sarebbero quattro fratelli, ma uno s’è perso per strada. Perché? Che è successo? Niente d’importante ma, mentre lo dice, ride, anzi ridacchia; ha rubato 50 mila dollari al fratello. E come? Un giorno è andato in banca, ha firmato i «segni» al posto del fratello e ha riscosso sull’unghia (ma sull’unghia non lo dice). Il giorno dopo la banca ha chiamato il fratello: perché avrebbe firmato assegni per una cifra non disponibile sul conto? Io non ho mai firmato assegni. Non ne sapeva niente, davvero. L’altro aveva da anni la delega in banca, anche in America questa volta la si è fatta franca. Chiedo: «E cosa è successo poi, fra i fratelli?», chiedo, perché m’interessa sapere più questo che non di come sia andata sul piano legale; più come una famiglia napoletana impiantata in America con varie Green Card e quattro ristoranti («Ma non sai quanto è buona quella pizza»), si mantenga nel tempo, se è vero che essere lontani dalla propria terra unisce.

Risposta? Sì, unisce. E perché allora, domando, un fratello avrebbe fatto questo all’altro? Perché aveva bisogno di soldi e la moglie, l’unica italiana tra le quattro spose per i quattro fratelli, qui non ci sapeva proprio stare, non ci voleva stare, non ce la faceva più. Mica è facile. «È la solita vita, è il solito miracolo che svolta la giornata, l’evento microcosmico di minima portata, una mancia ricevuta, una cena regalata; e con la dignità rimasta, volevo vederti arrivare vestita di seta, di festa, magari fare quattro salti in pista, ma forse è meglio se rimani là».

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità: una casettina di periferia, una mogliettina giovane e carina, tale e quale come te».

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Arrivato in Italia, lo arrestano per precedenti reati, e lui si guadagna il titolo: è ufficiale, è la pecora nera della famiglia. Che poi nera non è, ma solo impaurita, forse, come se qualcuno stesse tirando in aria colpi di fucile al gregge per farlo riagglomerare fuori dal suo rettangolo d’erba. Ed ora che è fuori – perché i reati commessi in Italia non erano poi così gravi -, attende che si prescriva quello americano, se già non è prescritto. Ppoi ci penserà. Più probabilmente non tornerà nemmeno, perché lui l’inglese, come pure i suoi fratelli che vivono da anni in America, non lo parla proprio. Non gli entra. È un bravo guaglione, lui e gli altri tre. Per fare la pizza la lingua non serve.

E, canta ancora Daniele Silvestri, «dovrò dosare la fatica, imparerò a parlare in questa lingua sconosciuta, sognando di riuscire, un giorno, a fare ricevuta tra gente compiaciuta e che di me si fida». Si fida? Chi si fida? «Grazie Assai» mi dice che «la gente italiana sono apprezzati in America», e qui viene il dubbio: ma se non ci fidiamo l’uno dell’altro in madrepatria? Ma se prima di firmare un contratto chiediamo pure di che quartiere uno è? Ma se siamo tutti cani con le museruole? No, forse qualcuno si salva.

«E non è piccola la sfida, querida, disperso in questo angolo d’Europa unita». Fidarsi pure in Europa, che ora ci è alle calcagna. Fidarsi della storia? Non ha insegnato nulla. Delle esperienze? Ma quelle di chi? Fidarsi di me? Questo mai. Quando anche una guerra decisa sei ore prima ha interferito nei rapporti umani e disumani, fidarsi? E di chi? Di lui. Lui quale? Indicalo meglio. Quello laggiù, con la cravatta? No, scusa, quello con il tatuaggio sul collo? Scusa, non so a chi ti riferisci. E poi si vede che quella cravatta è finta. Io direi più lei. Come lei, lei quale?

Dispersi in un angolo di vita, «ti metto la valuta in una busta, la spedirò per posta, ma poi non basta mica: se tu sapessi quanto costa la vita, sapessi quant’è faticoso riuscire a tenerla pulita». Dove sono le opportunità? Gli dico che è stato più fortunato lui di Gaetano, che non ha avuto nemmeno la possibilità di annusarla, l’America; di annusarla, l’Europa; di annusarla, l’Italia. Perché il lutto, dopo il suo funerale, è stato tenuto dalle donne per tre mesi. E poco prima, quando nel viaggio precedente il compaesano emigrato era tornato a casa orizzontale, gli uomini hanno allontanato le femmine, hanno aperto la bara e hanno controllato che la salma fosse dentro. Lui era lì, non capiva, perché allontanare le donne? Cosa succede ora?

La mia domanda era stata, inizialmente: cos’è una Funeral Home? E cosí chiude il capitolo e mi risponde: «Tutto questo per dirti che qui, in America, la Funeral Home ospita ed espone la salma, che poi viene portata al cimitero e sepolta». Ed io che credevo che si facesse festa davanti al morto, si mangiassero pasticcini, si bevesse vino e, sussurrando nella stessa o nelle stanze accanto, si spettegolasse su quante donne aveva avuto e sul vestito della figlia: «Che orletto mal fatto»! No, mi spiega, questa non è l’America. This is more British. La festa si fa in Europa. La festa, una cerimonia per commemorare il defunto.

Mi guarda, l’aria un po’ sognante, e mi dice: «Non vedo l’ora di tornare al mio paese». Il paesello su una rocca, lo sprofondo dell’Italia, è nascosto nel cuore di un grande americano. Opportunità, mi dice. Sì, è vero, sono nato fortunato. L’America è un Paese ricco di opportunità. Ma freddo. Ma duro. Ma conservatore. Ma schivo. Lo sa che è stato fortunato, perché è un Giano bifronte che conosce due realtà, una nel cuore e l’altra nel cervello. Racconta che suo padre, dopo i 18 anni, gli faceva pagare 20 dollari a settimana d’affitto e un dollaro ogni volta che non avesse sistemato la stanza. In America.

Dall’altro lato, sua madre cucinava, il padre tornava e leggeva il giornale, e i figli li hanno fatti perché Dio li ha voluti, secondo la tradizione cattolica: Italia. Lui sta bene, fa una bella vita, comoda, lavora duro e può permettersi i propri lussi, ma lo vedi che non è soddisfatto, lo senti che gli manca un pezzo, e te ne accorgi quando ti guarda e lucidamente ti dice che non si vuole legare, e poi ti domanda: «Ma come si dice, in italiano, picciriddu?» (ROMINA CIUFFA)




CONFSAL: MARCO PAOLO NIGI, VOUCHER O NON VOUCHER SI “VUOLE” EVADERE

Per lui, il sindacato è una scuola di vita. Scuola anche perché è dalla scuola che proviene, come professore. Segretario generale della Confsal, principale Confederazione dei sindacati autonomi, e dello Snals, storico rappresentante dei lavoratori della scuola, spiega la sua visione tout court sullo stato generale del mondo del lavoro, a partire dai famigerati «voucher».

Domanda. Cosa pensa dei voucher?
Risposta. Il voucher poteva servire a diminuire il lavoro nero ma per come è stato proposto ha dimostrato il contrario, e cioè il suo stesso aumento, un paradosso.

D. In che modo ciò è accaduto?
R. Il primo errore commesso dal Governo è stato quello di non distinguere le categorie: non si può assolutamente pensare di abbracciarle tutte sostituendo la retribuzione con i voucher. Dovevano essere esclusi innanzitutto i lavoratori dipendenti che non possono accedere ai voucher perché hanno i contratti che li tutelano sotto il piano fiscale, retributivo e contributivo; dovevano invece essere incluse altre categorie quali i lavori cosiddetti domestici, a cominciare da giardinieri, casalinghe, elettricisti, falegnami, donne delle pulizie, perché non si possono tutelare con contratti di lavoro occasionale. Eppure i voucher sono stati estesi dal settore «domestico» a quello professionale. La paura nei riguardi di una Confederazione come la Confsal – che aveva detto che avrebbe raccolto le firme per il referendum e, di fatto, le ha raccolte -, più in generale la paura di perdere il referendum, ha portato il Governo a fare un altro errore: non a modificare lo strumento ma a toglierlo di mezzo. E questo è stato un secondo errore, perché il voucher costituisce di base un’idea valida.

D. In che modo i voucher hanno inciso o inciderebbero sulla pensione?
R. Le pensioni sono un sistema che si regge in piedi su un equilibrio finanziario entrate=uscite, è così che garantiamo a tutti le pensioni. Ma nel momento in cui si presenti un disavanzo esso va coperto, altrimenti non è possibile pagare le pensioni, sperando inoltre che i più anziani muoiano, e si dà una reversibilità a una percentuale più bassa. Se si aggravano le uscite bisogna agire sulle entrate e ciò lo fa lo Stato con l’aumento del debito pubblico. I problemi del mondo d’oggi che interagiscono con le pensioni sono anche le coppie di fatto, le unioni civili, i matrimoni con le donne dell’est che si lasciano sposare e ottengono la pensione di reversibilità. Così, a forza di aumentare l’età pensionabile, arriveremo a cento anni. Noi riteniamo che sia necessario aumentare il numero dei contribuenti, per questo eravamo favorevoli ai voucher, concettualmente utili alla lotta all’evasione fiscale e al sommerso. Il voucher è stato creato dal Governo Berlusconi, poi cambiato dai premier successivi Monti e Renzi; prima erano lotta all’evasione, poi si sono trasformati in un incentivo perché invece di assumere, al datore è proposto il voucher, e il resto è dato al nero.

D. Può essere anche considerato come un ricatto al dipendente?
R. Certo, il datore di lavoro cerca di risparmiare sempre mentre il lavoratore è una categoria debole che pur di guadagnare, soprattutto in tempi di crisi, accetta qualunque compromesso. In realtà l’evasione non si risolve perché non ce n’è la volontà, non perché non ce ne siano le possibilità.

D. Secondo la sua esperienza, nel referendum chi avrebbe vinto?
R. Avrebbe vinto chi proponeva il referendum, ossia chi ne voleva l’eliminazione, perché anche i lavoratori si sono resi conto che questi bonus per il lavoro accessorio non andavano a loro vantaggio, peraltro non garantendo nemmeno i diritti classici come in caso di incidente sul luogo di lavoro o i mesi dedicati alla maternità. Dai voucher il «piacere» lo hanno avuto solo i datori di lavoro e questo molti lavoratori lo sanno.

D. I voucher vengono usati negli altri Paesi, ma funzionano?
R. Funzionano e ci sono, come in Germania e nei Paesi del nord.

D. Manca la dignità del lavoro: come si spiega che all’estero le cose funzionino, mentre da noi è un’epopea?
R. In atto ci sono tanti contrasti; il primo è quello di un fisco europeo diverso da nazione a nazione. La paga oraria di un operaio tedesco è uguale alla paga di un operaio italiano, 19 euro l’ora, però il netto che percepisce il lavoratore tedesco è il doppio di quello che percepisce il lavoratore italiano perché il 53-55 per cento glielo porta via la tassazione. Si ha una moneta unica, una politica unica, ma un fisco diverso, quindi la prima cosa che dovrebbe farsi è unificare il fisco in modo che la paga netta di un operaio sia uguale per tutti.

D. E i giovani come faranno?
R. Vorrei fare un discorso partendo più da lontano: è la scuola che mette nelle condizioni di non essere meritevoli. Oggi sono usati solo due voti, il 9 e il 10, e il 5 non lo da più nessuno altrimenti i genitori divengono subito i sindacalisti dei propri figli. Quindi c’è un diritto allo studio ma non c’è un dovere di studiare: in Italia bisogna cambiare la scuola perché se non c’è istruzione non c’è futuro, bisogna rivalutare il ruolo sociale degli insegnanti. I giovani devono fare un percorso di istruzione, educazione e formazione, ci vorrebbe una scuola diversa, dove si studia, dove ci si impegna e dove va avanti il merito. Bisognerebbe aumentare gli anni per la preparazione di base e diminuire gli anni universitari, invece si sta facendo il contrario. L’ho definita umoristicamente la «teoria dell’uovo sodo»: se si mette un uovo a sodare per oltre 6 minuti l’uovo diventa verde ed è da buttare. I giovani di oggi sono diventati verdi. Ho cominciato a insegnare nel 1968 e guadagnavo 107 mila lire al mese, ora gli insegnanti prendono circa 1.200 euro, ma non c’è né paragone né proporzione perché se prima una stanza costava qualche milione di lire, adesso ci vogliono migliaia di euro, per cui un giovane non può neppure comprarsi casa. C’è da dire un’altra cosa; allora era poca la retribuzione ma era alta la considerazione sociale, ora un giovane insegnante viene definito non all’altezza. Bisogna ripartire dall’investimento nella scuola, non considerarlo un costo: non va tagliato bensì considerato un investimento redditizio. Stanno cercando di massificare tutti i cervelli in modo che non abbiano elementi di criticità e che siano manovrabili.

D. Credete ancora nel potere dello sciopero?
R. Lo sciopero è un’arma obsoleta cui un sindacato moderno non dovrebbe neanche pensare, andava bene una volta quando ci si credeva e quando c’era un padrone, una controparte; oggi questa figura non esiste più, non esistono più né l’operaio né il padrone. Se persiste l’attuale situazione di crisi, si possono determinare proteste non controllabili o l’utilizzo estremo dello sciopero. Ultimamente si sono visti gli orrori da parte della Pubblica Amministrazione e del potere politico, che farebbero arrabbiare anche le persone più pacifiche. La storia degli 80 euro introdotta dal Governo Renzi, ad esempio: hanno calcolato questi 80 euro andandoli a sommare al reddito e quindi chi ne usufruisce deve pagare ulteriori tasse, portando i contribuenti all’esasperazione. Inoltre, così facendo hanno parificato colui che prendeva uno stipendio di non oltre 1.300 euro con colui che aveva ottenuto, per scelta del datore, uno stipendio da 1.380, in un certo senso colpendo la meritocrazia anche qui. Altra cosa grave accaduta di recente è stata quella di consentire a Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle di mettere treni sulla nostra linea ferroviaria, causando una congestione del traffico con spaventosi ritardi e non dando alcun vantaggio ai contribuenti nonché viaggiatori, perché i binari si sono «intasati» e si corre sempre il rischio che un treno si fermi e blocchi gli altri. Tutto questo si è fatto per liberalizzare, perché quegli stessi che volevano nazionalizzare sono gli stessi che ora vogliono privatizzare; coloro che hanno rovinato l’agricoltura sono gli stessi che oggi danno gli incentivi per tornare a coltivare la terra. Possono permettersi di farci qualsiasi cosa.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2017

 




AMERICAN EXPRESS: MELISSA PERETTI, DIVERSIFICAZIONE DEI PRODOTTI MA ANCHE DELLE DIVERSITÀ UMANE

American Express viene fondata a Buffalo nel 1850 da Henry Wells e William Fargo come società di trasporto valori. Il logo, un cane poggiato sopra un baule, è già un forte richiamo alla sicurezza e alla protezione. Di strada questo cane ne avrebbe fatta molta. Intanto, il marchio nel 1891 inventa il «travel cheque», primo strumento prepagato della storia che contribuisce al rapido processo di internazionalizzazione dell’azienda. È nel 1958 che viene creata la prima carta di credito, che già prima del suo lancio riceve oltre 250 mila richieste e a soli tre mesi dalla comparsa conta già 500 mila titolari negli Usa. In Italia, le carte di credito personali sono lanciate nel 1971, quelle dedicate alle aziende nel 1979, e risale agli anni 90 il programma di fidelizzazione «Club Membership Rewards». A fine 2003 l’Amex raggiunge una quota di oltre un milione di titolari di carta in Italia. Nel tempo American Express è diventata «più di una semplice carta», offrendo valore aggiunto per il semplice uso della stessa: dal programma di fidelizzazione al «cash back» per il prodotto più giovane, dalle miglia e i punti accumulabili ai benefici esclusivi offerti dai partners. Oggi in Italia la società sta beneficiando di grandi cambiamenti: innanzitutto un trasferimento della sede romana principale di Cinecittà a quella di Via Eiffel, tutta trasparente, che ha consentito un cambio epocale. È l’introduzione dello «smart working», ma non solo: è l’avvio di specifiche attività di «Diversity & Inclusion», come il programma «Women in the Pipeline and at the Top», per incrementare il numero di dirigenti donne, o il «Pride Network», per promuovere i temi di inclusione della comunità LGBT. Infatti la diversità è sempre stato uno degli elementi più forti dell’American Express. Quindi, la nomina di Melissa Ferretti Peretti, già in azienda da molti anni, come direttore generale per l’Italia, anche riconosciuta dal Premio Bellisario per la sua eccellenza. Specchio Economico lo conferma. I lettori di Specchio Economico potranno farlo attraverso questa intervista, che dà conto dell’importanza di chiamarsi American Express.

Domanda. Iniziamo proprio dalla sua nomina e dalla femminilità in questo ruolo: l’American Express è molto attiva nell’attenzione alla parità di genere. Cosa ci può dire?
Risposta. La cosa più interessante in realtà non è stata solo la nomina di una donna, ma la nomina di una persona giovane e italiana: le tre componenti insieme rendono tale nomina particolare, ma credo che se anche fosse stato nominato un giovane adulto italiano sarebbe stato altrettanto importante, ciò avrebbe costituito una novità positiva per il mondo della finanza, soprattutto avvenendo nell’ambito di un marchio già forte, non una start up bensì un’azienda che lavora in Italia dal 1901 e che è nata, in America, 166 anni fa, nel 1850, facendo cose ben diverse da quelle che facciamo oggi: trasportando i valori con le carovane dall’est all’ovest e già rappresentando i valori della sicurezza, della security, del trust, dell’affidabilità. Infatti era un cane poggiato sopra un baule a rappresentare il brand, ossia proprio il valore della protezione, che ci siamo portati dietro in tutti questi anni di storia. Il fatto che un’azienda con un ruolo così rilevante nella finanza da cent’anni scelga, alla guida di un mercato importante come l’Italia – fra i primi tre europei e fra i primi otto nel mondo per Amex – una persona cresciuta in azienda e italiana secondo me è un segno importante. Che io sia donna non lo trovo altrettanto interessante, sebbene ciò comunque avvenga in un momento in cui si discute tanto del ruolo della donna dopo l’entrata in vigore della legge sulle Pari opportunità. Ma questo ci fa parlare, per l’appunto, di un tema a noi molto caro, quello più generale della «diversity». Oggi come oggi non può esistere nessun ambiente che funzioni e che sia in grado di competere in maniera efficace ed efficiente in un contesto competitivo complesso, in continuo mutamento, globale, senza non soltanto accogliere, ma valorizzare ogni tipo di diversità.

D. Il 17 novembre l’American Express a Roma ha tenuto un evento specifico per la comunità LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender). Di cosa si è trattato?
R. È stato un evento interno all’azienda molto sentito, che non abbiamo fatto per avere visibilità sui giornali proprio perché la diversità è nel dna di American Express. Siamo un’azienda globale, presente in 130 Paesi con 166 mila dipendenti che, come è ovvio, sono tutti diversi tra loro, così come lo sono i nostri clienti, circa 130 milioni nel mondo. Già dall’inizio del 2013 in Italia abbiamo esteso tutti quanti i benefici del dipendente al partner dello stesso sesso, quindi ben prima della legge sulle unioni civili. È chiaro che un’azienda del genere non può non fare della diversità e dell’inclusione uno dei valori chiave. Ci siamo dedicati molto negli ultimi anni al tema del genere; personalmente, prima di diventare Country Manager, sono stata sponsor, all’interno di American Express, di un programma volto ad aumentare il numero delle donne nelle posizioni dirigenziali, con l’obiettivo di raggiungere in Italia il 50 per cento dell’impiego femminile. Siamo ora al 43 per cento, con una media italiana assestata attorno al 18 per cento.

D. Nella vostra nuova sede la disabilità è finalmente tutelata. Può parlarci di questo?
R. Ci stiamo dedicando molto alla disabilità soprattutto dopo il cambio di sede, da quella di Cinecittà a questa di Via Eiffel, che grazie alla conformazione dell’edificio ci ha permesso di creare un «work and talk», parlare e agire, e di avere finalmente un «building friendly» da ogni punto di vista. A Cinecittà erano presenti delle barriere architettoniche, trattandosi di un edificio costruito negli anni 70. Bisogna però pensare che il «private network», una rete interna per i dipendenti, in America esiste da vent’anni, essendo nato in Amex nel 1995, e l’impegno nel «Diversity & Inclusion» è iniziato nel 1985, quindi da 30 anni. I due network che si occupano di «diversity» – il Women’s Interest Network (Win) per le donne, e il Pride per l’orientamento sessuale, che in America esiste dal 1995 – adesso hanno il 40 per cento di dipendenti iscritti. Ho chiesto a tutti di iscriversi, LGBT e non LGBT, per attivare un’alleanza utile a portare avanti la parità dei diritti e la sensibilizzazione su tali temi, e ci saranno una serie di iniziative non soltanto interne all’azienda per facilitare l’inclusione da ogni punto di vista: sessuale, della disabilità, del genere. Questo tema è per noi più forte perché in Italia siamo indietro. La legge grazie al cielo è stata votata ma con trent’anni di ritardo, tanto che prima di essa a livello europeo l’Italia aveva un bollino rosso di «discriminazione». Se oggi è più facile parlare delle donne e della disabilità, ciò non accade in tema di orientamento sessuale, tanto da aver ricevuto attacchi su alcuni canali Twitter personali per aver pubblicato foto dell’evento LGBT, ma questo vuol dire solo che stiamo facendo qualcosa di giusto.

D. Nuova sede nuova vita? Cos’è il vostro «smart working»?
R. In quest’area abbiamo cercato innanzitutto di implementare lo «smart working». L’Italia è stato il primo Paese europeo di American Express a promuovere il lavoro «smart» dopo la Gran Bretagna così come per il Pride, quindi siamo un Paese all’interno dei mercati europei che si sta dimostrando estremamente innovativo, abbiamo vinto come prima azienda il premio «Smart working» del Politecnico di Milano nel 2014 proprio perché erano ancora pochissime le aziende ad occuparsene. Di fatto significa andare oltre la logica della presenza in ufficio e riuscire a gestire le persone attraverso gli obiettivi. Ciò avviene attraverso investimenti in spazi e tecnologia, in un ripensamento dei ruoli e dei luoghi aziendali. Oggi nessun dipendente ha una postazione fissa, solo alcuni ruoli la hanno, coloro che devono stare sempre in ufficio, che sono la minoranza: il 75 per cento delle persone deve prenotare sul sistema online la propria postazione sulla base dei suoi impegni in ufficio, e le scrivanie sono divenute «clean desk». Abbiamo eliminato anche tutta la carta. In linea di massima le persone lavorano da casa fino a due giorni a settimana, quindi il 30 per cento di esse non sono in ufficio e su mille dipendenti non ce ne sono mai più di 700: questa è un’ottima cosa da una parte perché siamo lontani dalla vecchie sede, dall’altra anche in funzione dell’impatto ambientale dei trasferimenti in una città come Roma. Inoltre abbiamo calcolato che, con questo sistema, si risparmiano alcuni giorni l’anno che altrimenti si trascorrerebbero solo effettuando gli spostamenti.

D. Cosa prevale nello «smart»?
R. Il concetto è quello della flessibilità: il leader deve essere in grado di stabilire una relazione con i propri collaboratori e di gestirli a seconda degli obiettivi, valutare così la loro prestazione in base alla stessa e non sul mero calcolo della presenza in ufficio. Questo rappresenta un cambiamento culturale molto forte, che porta a stabilire anche un rapporto di fiducia con il collaboratore, una maggiore responsabilizzazione, una partecipazione più sentita alle esigenze dell’azienda, in quanto senza controlli. Serve ovviamente la tecnologia che oggi come oggi consente di essere sempre connesso. Tutti hanno ovviamente il proprio computer aziendale e il telefono integrato. Anche la socialità, con gli spazi aziendali, è cambiata: le persone non hanno postazione fissa e ciò aiuta molto la collaborazione e la conoscenza, cadendo le barriere del quotidiano. Inoltre abbiamo ampliato tantissimo le aree comuni, creando salottini per le riunioni spontanee, cucine, e dando connessione wifi in ogni spazio, una grande rivoluzione che è stata estremamente facile e veloce. Non sarebbe ora più possibile tornare indietro. Questo è solo l’inizio, fra 10/15 anni da noi nessuno lavorerà più in ufficio, esisteranno però spazi dove sarà possibile fare riunioni con il proprio team, gli uffici tra l’altro costituiscono puntuali costi che non vengono tradotti in produttività. Lo «smart working» ha prodotto una serie di risultati positivi anche dal punto di vista della produttività stessa, l’assenteismo per malattia è diminuito del 6 per cento, i permessi del 20 per cento e così via solo a distanza di un anno. L’obiettivo è continuare a migliorare, e un team si dedica alla valutazione dello «smart working» per trovare modalità di ottimizzazione costante. Abbiamo anche messo a disposizione dei nostri impiegati una palestra, facendo un accordo con la One on One, società del Gruppo Tecnogym che ha creato lo spazio per noi e lo ha dotato di personal trainer e di tutto ciò che serve; infine, abbiamo inserito un parrucchiere e un centro benessere nella struttura. Stiamo cercando di realizzare spazi per bambini, un club dove i genitori possano portarli mentre lavorano.

D. Come vi occupate di formazione?
R. Abbiamo creato la Amex Academy per rispondere alle esigenze formative, integrando i corsi esterni con quelli interni, direttamente condotti dai nostri manager, di fatto anche arricchendo i curriculum dei nostri dipendenti che, attraverso le lezioni, possono imparare e proporsi per nuovi ruoli. Abbiamo anche lanciato un Master degree per senior talentuosi, una classe di 15 persone cui sono assegnati progetti da svolgere nel corso dei 6 mesi.

D. In questo anno e mezzo come Country Manager, cos’ha fatto?
R. Sono in American Express da 13 anni. Questo ruolo è la naturale prosecuzione del mio ruolo precedente, in questo sono stata molto facilitata, conoscendo già le persone e le attività. Venivamo da una situazione di stasi per una serie di ragioni legate soprattutto al contesto esterno economico. Ora siamo in forte ascesa anche grazie alla focalizzazione sul digitale e gli investimenti sul mercato: quest’anno stiamo investendo il 45 per cento in più rispetto all’anno scorso per acquisire nuovi clienti. Il portafoglio sta di nuovo crescendo mentre era stato statico per 7 anni, con una crescita di circa il 4 per cento, e il fatturato, che per noi corrisponde al «transato», è già cresciuto lo scorso anno del 3,5 per cento, mentre quest’anno stiamo raddoppiando. Sul digitale ci stiamo focalizzando nel migliorare la «customer experience» dei clienti.

D. In che modo affrontate la digitalizzazione?
R. American Express è il più grande network integrato di pagamenti nel mondo, processiamo milioni e milioni di transazioni al giorno, abbiamo milioni di dati da utilizzare in maniera intelligente per personalizzare sempre di più l’esperienza del cliente, dandogli un valore aggiunto, ad esempio inviando offerte sempre più in linea con le sue scelte. L’analisi dei dati ci consente di sapere cosa preferisce, così come la geolocalizzazione. Chiaro che la rivoluzione digitale sta facendo venir meno sempre di più il confine tra acquisto e pagamento, e il mobile sta estremizzando questo fenomeno. Un’azienda come la nostra non può e non vuole farsi identificare solo come mezzo di pagamento, altrimenti diventerebbe una «commodity» di semplice transazione, ma vuole essere vicina al cliente in tutto il processo di acquisto anche attraverso applicazioni mobili. Abbiamo lanciato anche in Italia una app per la fedeltà: la «loyalty» per noi è un elemento essenziale e per mantenerla dobbiamo costantemente essere nella direzione dei bisogni del cliente. Non innoviamo tanto per innovare, ma perché siamo convinti che in questo momento di grande evoluzione dell’industria dei pagamenti sopravviverà chi alla fine sarà in grado di dare un’esperienza diversa. Bisogna garantire un’esperienza facile, veloce, sicura, ma in più offrire credito con un apparato che sia in grado di valutare effettivamente la possibilità di concederlo. L’elemento che ci differenzia dagli altri è dunque il servizio: siamo riusciti ad arrivare ad un livello di sistematicità e di assoluta eccellenza. Gli stessi dipendenti Amex in tutto il mondo e indipendentemente dal ruolo sono valutati ai fini di un bonus del 25 per cento che dipende dai risultati in termini di soddisfazione sul servizio «refer to friend», ossia in che percentuale il cliente raccomanderebbe American Express ad un amico.

D. Tanta tecnologia, altrettanta sicurezza?
R. Abbiamo un servizio antifrode di nostra proprietà, e nostre persone che monitorano costantemente eventuali rischi di frode con sistemi evoluti, e credo che in questo siamo «best in class». Partiamo dalla buona fede del nostro cliente e immediatamente lo rimborsiamo di una perdita dovuta alla dichiarata clonazione della carta, al suo furto o altro. Questo ci contraddistingue da altri concorrenti: per noi il cliente non è assolutamente responsabile di nessuna frode effettuata sulla sua carta e all’istante, nel momento in cui il cliente ci chiama, riaccreditiamo la spesa fraudolenta sul suo conto. Ovviamente poi facciamo le verifiche idonee.

D. Perché la carta American Express è nella media è più costosa di altre carte? Questo non disincentiva i clienti?
R. Per tutti i servizi che diamo, ma non soltanto per questo. Va sottolineato in proposito: in Italia negli ultimi tre anni abbiamo investito circa 9 milioni di dollari per ridurre le commissioni soprattutto per i piccoli esercenti che hanno maggiormente risentito della crisi. Effettuiamo negoziazioni individuali e non collettive come fanno gli altri circuiti, e le commissioni vengono fissate sul tipo di business dei clienti. Il nostro obiettivo è quello di estendere l’uso della carta, quindi abbiamo agito coscientemente così aumentando il numero di clienti che quest’anno sono il 30 per cento in più rispetto a quelli acquisiti l’anno scorso. Cresciamo in maniera molto accelerata grazie agli investimenti, che misuriamo in dollari ma parliamo solo dell’Italia. Vogliamo mettere i nostri nuovi clienti nella condizioni di usare sempre la carta.

D. Quali sono i nuovi clienti tipici?
R. Abbiamo un’ampia fascia di prodotti, che partono dalle classi più alte con carte di un certo spessore e costo, fino a un target più giovane, dalle diverse esigenze, per i quali è stata coniata ad esempio una carta bianca dal costo di soli 35 euro ma che dà i medesimi benefici di ogni carta Amex, le protezioni assicurative, lo stesso servizio del programma «Membership Reward», la possibilità di scegliere cinque esercenti preferiti d cui poter accumulare tripli punti etc. Abbiamo poi le carte con i marchi storici per il target dei «frequent flyer» che viaggiano spesso e quindi sono interessati alle miglia; abbiamo lanciato anche la carta Italo proprio perché abbiamo visto che all’interno del territorio italiano molti si spostano con il treno e diamo la possibilità di trarne benefici; abbiamo la carta «Cash Back» che invece dei punti restituisce una percentuale dell’un per cento delle spese annuali, unica in Italia. Inoltre le carte possono essere usate «Revolving», ossia rateizzando la spesa per alcuni mesi o sulla base di una somma prestabilita dal cliente stesso. Non abbiamo quindi un cliente tipo, abbiamo un portafoglio di prodotti in grado di rispondere ai bisogni di qualsiasi tipologia di clientela. Abbiamo anche tanti altri servizi che si focalizzano nel risolvere le esigenze degli imprenditori, delle aziende, del mondo «corporate». In questo settore siamo leader del mercato. Siamo molto ottimisti e le opportunità in Italia sono ancora molte, il contante è ancora il re dei pagamenti, il 55 per cento di tutte le transazioni effettuate avviene in «cash», ma questo significa anche che c’è una grande opportunità di crescita.

D. Eppure, a differenza che in altre parti del mondo, gli esercenti si rifiutano di accettare la carta di credito per cifre piccole.
R. C’è una nuova normativa approvata da qualche mese, nell’ambito anche dell’implementazione della direttiva dei pagamenti europei, che obbliga gli esercenti e i professionisti a ricevere pagamenti con carta o bancomat per importi superiori a 5 euro. Sotto tale limite invece, l’accettazione della carta è a discrezione. Saranno fissate anche delle sanzioni.

D. Come influisce l’impiego delle carte di credito sulla crescita di un Paese?
R. La politica, il Governo, tutti sanno quanto in Italia sia importante colmare questo grande gap, che è a tutti gli effetti un gap alla crescita. Di fatto oggi la penetrazione bassa della plastica favorisce il nero, l’economia sommersa, costituisce punti di Pil perso. È un vincolo, un grande blocco che rallenta lo sviluppo economico del nostro Paese. In questo senso anche tante iniziative legislative che si stanno muovendo vanno in questa direzione.

D. A livello politico cosa potrebbe essere utile fare in questo settore?
R. Proseguire sulla strada delle riforme che favoriscano e impongano agli esercenti, ove necessario, di accettare pagamenti con plastica, anche finalizzando un sistema legato alle sanzioni, considerato che una legge senza sanzioni serve a poco, per poi consentire alle persone di poter utilizzare la carta di credito per qualsiasi pagamento. È fondamentale continuare con gli investimenti sulla banda larga ed ultra larga perché ci sono pezzi del Paese che ancora non sono collegati: è ovvio che per la diffusione dei pagamenti elettronici sia necessario un collegamento ad internet. Inoltre il «mobile commerce» e l’e-commerce saranno nei prossimi anni fondamentali per la crescita dell’impiego della plastica nei pagamenti.

D. Alfabetizzazione finanziaria: come stiamo messi?
R. È importante l’aspetto di una educazione in tal senso, il nostro Paese è estremamente indietro e si trova in una situazione angosciante; ci sono vari studi che lo confermano, in particolare lo studio del 2015, fatto da Standar&Poor’s insieme a Bank of Washington, ha intervistato gli italiani su alcuni elementi basici dell’educazione finanziaria, con domande molto semplici relative, ad esempio, alle modalità di valutazione della convenienza di un mutuo o su cos’è un interesse. L’Italia è uscita sessantatreesima, prima di noi Zambia, Benin, Senegal, Madagascar: questo è davvero molto grave. Siamo forse l’unico Paese europeo a non avere una strategia nazionale sull’educazione finanziaria, è un elemento di debolezza enorme, perché poi si verificano fatti come come la vendita di titoli tossici ed altro. Ma soprattutto perché la non conoscenza genera paura.

D. E cosa fa l’American Express per educare alla cultura finanziaria basica?
R. Abbiamo un team interno che richiama tutti i clienti nuovi per essere sicuri che abbiano capito i benefici di un prodotto, in alcuni casi lo vendiamo indirettamente ed il cliente non ha perfettamente chiara l’offerta. Ci capita chi pensa che ci sia un costo nel mero uso della carta, che si debba pagare una commissione, e questo è solo un esempio. In realtà la commissione la pagano gli esercenti. Il problema dell’alfabetizzazione finanziaria genera paura, come ho detto; in proposito ci sono una serie di progetti di legge in corso. Bisogna velocizzare tale processo, fare una legge e sviluppare una strategia per il nostro Paese che coltivi l’educazione finanziaria: solo con la conoscenza si potrà realmente crescere. Abbiamo finanziato un progetto per i bambini nelle scuole e i risultati di alcuni test somministrati ai genitori hanno portato a risultati imbarazzanti. Usare la carta oggi significa avere maggiori sicurezze, credito, vantaggi, valore aggiunto, offerte. Senza considerare che il contante ha un costo che è stato valutato dalla Banca d’Italia in circa 8/10 miliardi di euro ogni anno, per stamparlo, proteggerlo, trasportarlo etc. Senza pensare ai rischi che derivano dal suo uso.     (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Dicembre 2016




TURISMO INTELLIGENTE E CULTURALE: LE NUOVE SFIDE E PROSPETTIVE PER IL BRASILE E L’ITALIA SECONDO GEOGRAFI ED ACCADEMICI

Brasile e Italia, quale politica turistica? Glaucio José Marafon, Marcelo Antonio Sotratti e Marina Faccioli, nel libro «Turismo e território no Brasil e na Itália-Novas perspectivas, novos desafios», raccolgono gli interventi di geografi ed universitari: è questo il risultato di un lavoro di cooperazione tra l’Istituto di Geografia Igeog della Uerj, l’Università dello Stato di Rio de Janeiro, e il Dipartimento del Turismo dell’Università di Roma Tor Vergata. Cinque testi brasiliani e cinque italiani.

Nuove prospettive e nuove sfide al centro anche del convegno del 2 febbraio 2016, ospitato a Palazzo Pamphilj, sede dell’Ambasciata del Brasile in Italia. Presenti i geografi Marafon, dall’Università Uerj di Rio de Janeiro, e Faccioli, dall’Università di Roma Tor Vergata, il professor Aniello Angelo Avella, che del libro ha scritto la prefazione e si presenta a nome dell’Istituto italiano di cultura di Rio de Janeiro; con essi dibattono André Cortez per l’Ufficio Promozione commerciale, Investimenti e Turismo dell’Ambasciata, segretario del settore politico e dei rapporti con il Parlamento (sono con lui Flaminia Mantegazza e Ana Paula Torres), Ottavia Ricci per il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Giuseppe Imbesi dalla Sapienza di Roma, Stefano Landi dalla Luiss-Guido Carli, Stefano Sassi, giornalista ed economista, e Maurizio Vanni, dall’Università del Museo sociale argentino di Buenos Aires. L’incontro è arricchito dalla presentazione del video speciale della Rai «I 450 anni di Rio de Janeiro e il contributo degli italiani».

Contribuiscono al testo alcuni professori dell’Igeog: Amanda Danelli Costa, Clara Carvalho de Lemos, Marcelo Antonio Sotratti, Rafael Angelo Fortunato, Vanina Heidy Matos Silva; da Tor Vergata Alessandro Macchia, dalla Sapienza e la Politecnica marchigiana Paola Nicoletta Imbesi, le ricercatrici Anna Tanzarella e Francesca Spagnuolo; e Christovam Barcellos per la Fundação Oswaldo Cruz. Il libro è edito dalla stessa Uerj.

ANIELLO ANGELO AVELLA. «Navegar é preciso», bisogna navigare. Così Avella introduce il volume, citando Fernando Pessoa. E specifica: viaggiare sì, ma intelligentemente. Il turismo culturale, fenomeno di grande attualità («espressione resa problematica dalla difficoltà di definire e conciliare i termini turismo e cultura», specifica), merita di essere studiato nei suoi diversi aspetti, tra i quali hanno rilievo i «motivi legati alla tradizione del viaggio culturale e alle sue implicazioni socioeconomiche, utili a mostrare i meccanismi per mezzo dei quali è possibile usufruire della cultura come momento di ozio».

È altresì necessario ricordare la peculiarità del «nuovo» a cui porta il viaggio, creando relazioni tra persone e popolazioni differenti e situazioni di socialità che producono trasformazioni delle identità sociali. Ciò causa, secondo il professore filobrasiliano, la messa in discussione del proprio stile di vita e dell’immagine di sé agli occhi degli altri.

Del Brasile Avella è un grande esperto: professore di Storia della cultura dei Paesi di lingua portoghese nella Facoltà di Lettere e filosofia di Roma Tor Vergata, responsabile scientifico della cattedra Agustina Bessa-Luís istituita presso la stessa facoltà dall’Instituto Camões (Ministeri della Cultura e degli Affari esteri del Portogallo), «visiting professor» nella Universidade do Estado do Rio de Janeiro (Uerj), coordinatore degli accordi di cooperazione scientifica di Roma Tor Vergata con le università brasiliane. Oltre a ciò, è associato al Consiglio Nazionale delle Ricerche e fondatore dell’Associazione eurolinguistica Sud; è socio della più antica istituzione culturale del Brasile, l’Instituto histórico e geográfico brasileiro, fondato nel 1838; è membro dei consigli scientifici ed editoriali di riviste internazionali; ha ricevuto nel 2004 il riconoscimento della «Medaglia Tiradentes» dall’Assemblea legislativa dello Stato di Rio de Janeiro. È autore di numerose pubblicazioni nell’ambito delle relazioni culturali fra l’Italia e i Paesi di lingua portoghese, in particolare il Brasile. Per il quale consiglia, al «visitatore intelligente», una guida speciale: la collezione che Don Pedro donò al Brasile stesso subito dopo la morte della moglie napoletana, Teresa Cristina di Borbone, dalla quale prende il nome. 20 mila pezzi, da libri rari a fotografie d’epoca e quadri di grandi autori italiani (ci sono anche Tiziano, Annibale Carracci e Salvator Rosa), collocati a Rio de Janeiro tra la Biblioteca nazionale, il Museo storico nazionale e l’Istituto storico e geografico brasiliano (IHGB).

Riporta Avella che, grazie all’imperatrice napoletana, in Brasile si rinvengono anche elementi di arte etrusca e pompeiana, che lei portò con sé nel bagaglio sulla nave che la condusse a Rio nel 1843. Oltre a ciò, la statua del greco Antinoo, che lei donò, nel 1880, all’Accademia di Belle Arti di Rio, oggi trasferita nel Museo nazionale delle Belle Arti. Per l’esperto è proprio la borbonica Teresa Cristina uno dei principali punti di giuntura per la cultura italo-brasiliana, e fu lei a rendere Rio de Janeiro punto di partenza e di arrivo delle escursioni oltreoceaniche nei campi della musica, della letteratura, del teatro, delle arti plastiche, con implicazioni politiche e sociali. Per questo il Secondo Impero fu, secondo lo studioso, un momento decisivo (l’espressione è di Antonio Candido) nella costruzione del sistema di relazioni politiche, sociali e culturali tra Brasile e Italia, quando queste da episodiche divennero sistemiche.

Ricorda anche Nísia Floresta (1810-1885), educatrice e poetessa brasiliana pioniera del femminismo in Brasile, direttrice di un collegio a Rio de Janeiro e autrice di numerose pubblicazioni in difesa di donne, indios e schiavi. Nata nel Rio Grande do Sul, avendo abitato anche nel Pernambuco e a Rio de Janeiro, si trasferì nel 1849 in Europa (Portogallo, Inghilterra, Italia, Grecia ed altro) fino addirittura a morire a Rouen, in Francia.

Primo forte collegamento: è il 1859 quando a Firenze pubblica «Scintille d’un’anima brasiliana», cinque saggi («Il Brasile», «L’abisso sotto i fiori della civiltà», «La donna», «Viaggio magnetico» e «Una passeggiata al giardino di Lussemburgo»); ed è il 1864 quando a Parigi è dato alle stampe il primo volume di «Trois ans en Italie, suivis d’un voyage en Grèce», dove la scrittrice affronta i problemi politici e sociali italiani e riflette sulla storia e le manifestazioni culturali locali. Per il prefattore del libro curato da Marafon, Sotratti e Faccioli, quello di Floresta costituisce un diario di viaggio valido per lo studio della storia italiana dal punto di vista dei dominati.

Anche Carlos Magalhães de Azeredo, fondatore dell’Accademia brasiliana di Lettere, parla della «divina Roma» nelle sue memorie ricordando gli anni in cui vi abitò nell’ultima decade dell’800, mentre Cecília Meireles ne contempla le rovine tra i suoi «Poemas italianos» del 1953: per lei Roma è il principio di tutto. Quindi Murilo Mendes, Haroldo de Campos, Antonio Callado, Silvano Santiago etc. Senza dimenticare Sérgio Buarque de Holanda, che insegnò a Roma tra il 1952 e il 1954, padre di Chico. Sì, proprio quel Chico Buarque destinato a divenire, da vivo, la leggenda non postuma del Brasile nel mondo, patrono di una nuova spiritualità basata sulle parole: esiliato nella capitale italiana nel 1969, ci conobbe per vie «di traverso». Rientrato in Brasile, questo tropicalista non avrebbe più dimenticato l’Italia, e il ristorante «Il Moro» a Fontana di Trevi.

MARINA FACCIOLI. Stereotipi. Affronta questo tema la geografa Marina Faccioli, tra i coordinatori del libro italo-brasiliano. Laureata in Geografia alla Sapienza di Roma con una tesi sullo sviluppo dell’area metropolitana romana, dottorato di ricerca in Geografia urbana e regionale, ricercatrice per l’Istituto di Geografia economica a Verona, professore associato di Geografia nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Tor Vergata, ha studiato le relazioni fra trasformazioni del processo produttivo e forme di riqualificazione delle risorse culturali localizzate, con specifico interesse per un’analisi in chiave regionalista. Filo conduttore della sua attività di ricerca è il tema della valenza culturale che il sistema territoriale locale è in grado di esprimere quale soggetto di forte coesione socio-economica, con particolare riguardo alla definizione e alla qualificazione di una cultura urbana di carattere postindustriale.

«Non credo che i nostri giovani vadano in Brasile in cerca di stereotipi. Dico sempre che non si conosce una città guardando i monumenti ma girando per le strade, e sono convinta che i giovani siano intelligenti, formati, attenti e sensibili a questo». Aggiunge: «Facendo lezione ai ragazzi brasiliani ho trovato delle differenze con i nostri». Innanzitutto disponibilità e fidelizzazione nei confronti degli italiani, da una parte insita nella storia, dall’altra data dall’eco dell’industria italiana, che «ha insegnato molto in Brasile». Altre diversità riscontrate sono nel «senso della terra, che noi non conosciamo: non abbiamo una storia agricola come quella dei brasiliani, appartenenti a un modello istituzionale di agricoltura familiare».

L’attaccamento alla terra, secondo la geografa, ha condizionato e orientato le modalità di politica turistica accolte dai brasiliani, ossia un turismo nelle campagne diverso da quello agrituristico tipico dell’Italia. Questa differente attitudine raccoglie la domanda dei visitatori che vogliono conoscere qualcosa di più degli stereotipi. Da anni, riferisce, sono attive esperienze di turismo etico in campagna, dove si va a conoscere lo stile di vita a partire da una formula di turismo solidale. «Il loro attaccamento alla terra mi ha stupito, perché sta nella capacità di autopromuoversi».

Rio non esisterebbe se non ci fossero le favelas, sostiene la relatrice. «Sulle favelas si è costruita la città», non si tratta di insediamenti, e lì «le persone oggi si autopromuovono e partecipano al gioco collettivo della valorizzazione turistica della favela stessa. Molti studenti vi si trasferiscono per studiare, proprio perché l’Italia non offre prospettive nel settore, i turisti a Roma continuano a diminuire, e non per gli attacchi terroristici. Dovremmo imparare anche noi a fare politica turistica. Intanto i ragazzi hanno cominciato a lavorare nelle favelas aprendo ristoranti e portando italianità».

Riguardo al mare, «dovremmo imparare dai brasiliani, noi che non riusciamo a valorizzare Ostia e rendiamo il litorale romano un pezzo staccato dalla città». Il mare «non basta più come spiaggia, sole, acqua» ma deve divenire il «pezzo di una grande città». Ciò porta oltre le diversità, è un processo identitario che si costruisce in tanti luoghi diversi. «Ho faticato a far capire ai brasiliani la nostra passione per il localismo, poiché hanno dimensioni tali che si parla di natura, foreste, terra e parchi». E di disponibilità culturale, conclude.

CLAUDIO JOSÈ MARAFON. Ricardo Vieiralves, rettore della Uerj, ha incentivato il lavoro congiunto con l’Università di Tor Vergata e, a partire dal 2010, è stata frequente la presenza di professori italiani nei corsi carioca in Geografia e in Turismo, spiega a Specchio Economico il professor Marafon. Questo ha portato comunque a una riflessione: il Brasile è un Paese che riceve ancora pochi turisti stranieri. «La politica del Ministero brasiliano va nel senso di ampliare i numeri dando maggiore visibilità al territorio brasiliano, per renderlo più attrattivo. Detto obiettivo–specifica Marafon–passa per una politica di sicurezza e divulgazione, giacché spesso l’immagine del Brasile è associata a violenza». E ciò non è necessariamente vero, sottolinea il professore.

Turismo sociale, turismo di avventura, natura: questi ed altri elementi garantiscono al Brasile «di poter ricevere sempre più visitatori da tutto il mondo». Ma la politica deve adeguarsi, ed è ciò che l’incontro di questi esperti mira a evidenziare. Infatti, il Brasile è noto solo per alcune delle innumerevoli attrattive.
Però il costo della vita sale anche per il turista: dopo i grandi eventi, e in prossimità del successivo, i Giochi olimpici 2016 che si terranno a partire da giugno, esso è cresciuto senza compassione.

Cosa pensa Marafon di questo? Costituisce un problema? «Stiamo vivendo una crisi molto forte che ha svalorizzato la nostra moneta, il reale: oggi infatti, un euro corrisponde a circa 5 reali. Per il brasiliano la vita è senza dubbio più cara, ma ciò torna a favore del nostro turismo–spiega–. Per il turista internazionale, infatti, è ora più economico recarsi in Brasile, e questo va visto come un vantaggio che abbiamo».

FLAMINIA MANTEGAZZA. Flaminia Mantegazza, responsabile dell’Ufficio Turismo dell’Ambasciata del Brasile, guidato da André Cortes, parla del «Brasile diverso», del Brasile come «esplosione della natura». Così: «Sono solita dire che l’Italia è un museo culturale a cielo aperto, il Brasile è invece un museo naturale. Nel miscuglio di razze presenti, 30 milioni sono gli italiani. Abbiamo ammirazione per la natura–prosegue–e insieme la necessità di valorizzare ciò che è nostro». Una tradizione che «chi è già stato in Brasile percepisce: quello che c’è fuori lo prendiamo e lo trasformiamo».

Si sofferma, quindi, sulla geografia. «Il Brasile è a 12 ore di volo dall’Italia, che racchiude 28 volte. L’influsso turistico brasiliano in Italia è il settimo, mentre gli italiani che visitano il Brasile sono terzi, superati da Francia e Germania. Il Brasile–prosegue Mantegazza–occupa la prima posizione per le risorse naturali, ma solo la ventottesima nell’indice di competitività internazionale. E siamo qui in Italia anche per imparare questo».

Non si può dire di conoscere tutto il Brasile, per estensione il quinto nel mondo con 8,5 milioni di chilometri quadrati, diviso in 5 regioni e sei bioma: Amazzonia, Cerrado, Pantanal, Caatinga, Pampa e Mata Atlântica. Ne fa un quadro veloce la responsabile dell’Ufficio Turismo: «L’Amazzonia è enorme, il fiume ha una dimensione di 6200 chilometri quadrati e da una sponda non si vede l’altra; esso va dai 3 ai 15 chilometri, ha 1100 affluenti e racchiude ogni specie di pesci. In tutto il Brasile si trovano ancora riserve indigene, non solo in Amazzonia ma anche nel Sud-Est e nella zona di Rio dove abitano le tribù». Queste sono, per la relatrice, le giuste esperienze da fare per un turismo sostenibile, con la possibilità di pernottare in palafitte immerse nella natura. Nel bioma amazzonico la spiaggia è visibile con la bassa marea del fiume, e i suoi alberi altissimi creano l’umidità necessaria a far sì che l’ecosistema si riproduca.

Il Cerrado è un bioma che «rappresenta il 23 per cento del territorio e attraversa 15 dei 27 Stati. Caratterizzato da arbusti bassi con una buccia dura e rami contorti e sparsi, ricco di animali e piante, ha una produzione e un’economia delle quali vivono 30 milioni di persone».

Della Foresta Atlantica fanno parte, tra l’altro, il Corcovado e Rio de Janeiro, infatti «al loro interno si trova la foresta che separa la parte Sud dalla parte Nord. Nel percorso di questo bioma vivono 120 milioni di persone e 10 tribù indigene, e da qui proviene il 70 per cento del Pil brasiliano. Cerchiamo di proteggere la foresta, ma essa è molto diminuita: oggi le istituzioni sono impegnate a preservarla. La Foresta Atlantica scorre e taglia tutto il litorale di Bahia».

La Caatinga è «una zona di cactus e piante grasse di foresta non molto fitta, che rappresenta il Nord-Est sconosciuto; comprende 10 Stati e il 10 per cento del territorio popolato da 27 milioni di persone. I cactus fanno parte di un ecosistema particolare perché si possono mangiare o bere». Invece in un altro bioma, quello della Pampa, ultimo Stato nella frontiera con Paraguay e Argentina comprendente il Rio Grande do Sul, «si trova una vegetazione diversa, con piante al di sopra dei 500-800 metri dal livello del mare, ottima per l’allevamento di bestiame. Qui sono le Cascate di Iguazù e molte altre belezze».

«Il bioma del Pantanal, invece–spiega ancora–comprende entrambi i biomi dell’Amazzonia e della Foresta Atlantica, i quali si contagiano a vicenda, creando un’esuberanza di territorio vergine piena di grotte e fiumi incontaminati con 263 specie di pesci e 2 mila specie di piante acquatiche. Dal 2 all’11 aprile 2016 ospiterà l’Adventure Week, frutto della grande tendenza brasiliana per il turismo di avventura e il turismo naturale».
E, ricorda, nel 2018 il Brasile ospiterà la Conferenza mondiale sull’acqua: esso, pur nei suoi problemi di siccità, raccoglie circa il 12 per cento di tutta l’acqua dolce del pianeta. «Certo che l’ecosistema è devastato. Sebbene riusciamo a mantenere tutto ancora in vita, non sappiamo fino a quando. C’è una grande coscienza delle autorità e del popolo, ma sappiamo anche che l’interesse economico, purtroppo, va oltre».

STEFANO SASSI. «Parlo sempre volentieri del Brasile anche se ritengo che sia una delle cose più difficili da fare». Così introduce il suo intervento il giornalista ed economista Stefano Sassi. «Non dobbiamo dimenticarci che stiamo parlando di un continente e non di uno Stato. Non si può parlare del Brasile pensando solo a Rio de Janeiro, anzi: forse la cosa meno brasiliana del Brasile è proprio Rio de Janeiro, che ritengo la più bella città dopo Roma. Non per i monumenti ma per la natura: quando i portoghesi arrivarono, videro questo fiume che brillava oro e capirono la bellezza del posto. È l’unica città nel mondo che ha all’interno un parco nazionale, scimmie e serpenti e, fino alla metà degli anni Ottanta, anche otto giaguari che sono stati spostati perché, affamati, scendevano nelle favelas».

Oggi si parla di cambiare l’immagine del Brasile, prosegue il giornalista. «Ho letto che i brasiliani cercano di dare l’appellativo di ‘viaggio intelligente’ alla visita in Brasile. Ma quando parliamo di cultura del Brasile dobbiamo decidere che cosa intendiamo per cultura. I 500 mila brasiliani che ogni anno vengono in Italia sanno esattamente che cosa vengono a vedere, i 200 mila italiani che vanno in Brasile non lo sanno. Al di là della fotografia particolare che tutti conosciamo, quella delle spiagge, le palme, le belle ragazze: ma il Brasile non è questo, o non è solo questo. Fino a qualche tempo fa non sapevo che vi sono reperti etruschi portati da una borbona, come non sapevo per esempio che in Brasile c’è la più grossa isola idromarina del mondo, più grande della Svizzera, con oltre 1 milione e 100 mila capi di bufali allo stato brado».

Sassi si sofferma a descrivere ciò che in Italia si sa meno del Brasile, dal genere musicale del Forrò (ben oltre il Toquinho che tutti sono abituati a conoscere), località che sono patrimonio dell’umanità (cita Minas Gerais), completamente conservate, indios, conventi francescani, alligatori. «C’è un problema di informazione. La lacuna è di voi brasiliani, che dovete far conoscere il vostro Paese, dire che cosa avete, perché il turista sceglie sulla base di quello che sa. Il Brasile andrebbe visitato in lungo e largo, ma ci vuole una vita».    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Febbraio 2016