HO INTERVISTATO UNA GATTA PIANISTA: NORA, THE PIANO CAT

Ho intervistato un gatto. Ma, cosa ancora più importante, ho intervistato l’unico musicista, in tutta la mia vita, che ho stimato anche come persona.

Gioacchino Rossini aveva scritto un Duetto buffo di due gatti, brano per piano e due voci femminili che interpretano il miagolio suadente e lamentoso di due mici. Il testo faceva proprio «miao». Un pezzo ironico composto per ricordare quei due gatti che lo svegliavano tutte le mattine nella sua residenza di Padua e che appartenevano alla padrona di casa, alla quale lo dedicava. Oggi in Pennsylvania c’è Nora, una gatta che sa suonare il piano da quando aveva un anno: sa scegliersi le note, cerca quelle nere, conosce il ritmo e lo segue, sa cambiare il volume. Appoggia anche la testolina sulla tastiera mentre suona, come faceva Beethoven da che divenne sordo. Non sarà un caso, allora, che ha ottenuto milioni di visite su Youtube questa micia. Vive con altri cinque gatti e due umani, Betsy Alexander e Burnell Yow, che la presero per caso in un negozio di animali del New Jersey, il Cherry Hill.

Nora the Piano Cat

Betsy, diplomata in Composizione, suona e canta dal 1978, a 15 anni scrisse il suo primo musical, su Caino e Abele, si trasferì a New York, scrisse i musical Stakin’ My Claim, Another Kind Of Hero, poi un musical su Anna Frank, un altro basato sulla commedia I Never Saw Another Butterfly e molti altri per bambini. Per la sua gatta ha scritto duetti, che ha pubblicato perché i suoi allievi potessero studiarli: Nora the Piano Cat’s Easy Piano Duets (because not everything in life should be hard) e Nora The Piano Cat’s Impressive Sounding Duets (because sometimes you just want to impress other people). Burnell è un pittore e un musicista autodidatta. Insieme a Betsy ha creato il Raven Wings Studio (www.ravenswingstudio.com).

Domanda. Nora, come hai imparato a suonare il pianoforte?
Risposta.
Ho vissuto con Betsy e Burnell per circa un anno prima di cominciare a suonare. Mentre i miei fratelli sonnecchiavano al piano di sopra, io trascorrevo tutto il mio tempo sotto, nello studio con Betsy e i suoi allievi. Ballavo – specchiandomi nel riflesso delle mie zampe – sopra la coda del pianoforte formando circoli mentre loro suonavano, e dalla coda del piano osservavo dall’alto i libri di musica sul leggio e le loro dita; altre volte mi sedevo accanto agli allievi sulla panca o sulla poltrona e guardavo Betsy fare lezione. Mi piaceva soprattutto infilarmi nel fodero della chitarra. Vedevo l’attenzione che Betsy dava ai suoi allievi mentre suonavano ed io adoro essere al centro dell’ attenzione.

Di solito non faccio follie per essere coccolata o tenuta in braccio, ma mi piacciono gli applausi e i complimenti: un giorno semplicemente sono saltata sulla panca e mi sono seduta proprio come gli altri allievi, ho usato i cuscinetti delle zampe per premere sulle note e mi sono compiaciuta di ascoltare i suoni che ne uscivano. Betsy e Burnell mi hanno sentito e sono corsi giù per le scale esultanti: è lì che ho deciso di continuare a studiare pianoforte. È stato come un viaggio premio: ricevo mail da tutto il mondo e i fans mi vengono a trovare per sentirmi suonare. Sono felice di ispirare gli altri a raggiungere il proprio potenziale e scoprire la gioia di suonare uno strumento.

D. Ti viene mai da cacciare una mosca che ti ronza intorno mentre suoni? O meglio: i tuoi istinti animali prevalgono mai sui tuoi talenti umani privandoli di razionalità?
R. Come ho scritto sul mio libro, Nora The Piano Cat’s Guide to Becoming a Good Musician (or How To Get Good At Anything Hard), Betsy è umana e ha l’attenzione di un umano; io sono un gatto e, per natura ho l’attenzione di un felino. Il rumore più sottile, il movimento più fine mi distraggono, ahimé, così procedo a intervalli, ma riesco molto perché sono molto concentrata durante le lezioni di pratica e lavoro duramente sulle parti più difficili. Tuttavia, se un insetto mi vola davanti, devo smettere di fare ciò che sto facendo e vado a cacciarlo. Sono un predatore, dopo tutto. E se uno dei miei fratelli si avvicina al piano mentre sto suonando, devo interrompermi e dirgli di andar via: è il mio pianoforte e non mi piace dividerlo con nessuno, nemmeno con Betsy. È importante non doversi comparare agli altri mentre s’impara a suonare uno strumento. Naturalmente traggo ispirazione dai musicisti talentuosi, ma accetto chi sono e faccio il meglio con ciò che ho. Betsy ha dieci dita ma io ho solo due zampe e la mia testa da usare, e suono con passione ed entusiasmo a prescindere da questi limiti. Credo di essere come il primo astronauta che ha camminato sulla luna: sono un pioniere, un esempio per tutti gli altri gatti del pianeta, e ispiro tutti a esaudire i proprio sogni.

D. Chi è il tuo musicista preferito? Chi ti fa fare più fusa, chi ti esalta, chi ti fa venir voglia di suonare di più?
R.
Facile: Betsy è la mia musicita preferita! L’ascolto ogni giorno. Faccio rumorose fusa anche mentre sono io a suonare il piano (le faccio a volte anche quando dormo e mi accarezzano la pancia). Il solo fare musica è in grado di eccitare ogni parte di me, come accade ad ogni altro musicista professionista.

Ho anche degli artisti preferiti: innanzitutto Johann Sebastian Bach, un genio. Tutte le volte che ascolto suonare il suo Minuetto in Sol, dal libro di Anna Magdalina, o il dolcissimo, delirante Preludio in Do, o qualunque altra sua brillante composizione, devo correre al piano e suonare, anche se stavo riposando. Sono anche una grande fan di Beethoven, in particolare di Per Elisa. E sono stranamente colpita da Mary Had A Little Lamb.

D. Qual è il tuo genere preferito?
R. Sono una musicista classica. Essendo un’intellettuale, non posso che immergermi nella perfezione matematica ed emotiva di questo genere, ma sono aperta a tutti i tipi di musica e di strumenti. Se solo potessi tenere un flauto, proverei a suonarlo: grazie al cielo sono stata adottata in una casa con un pianoforte!

Mi dicono sempre che sembra che suoni del jazz, e sono d’accordo: è facile per me suonare il tritono perché tra il si e il do o tra il mi e il fa non ci sono tasti neri. Per questo mi ascolterete spesso suonare un si e un fa insieme: è un intervallo buonissimo per la mia zampetta. Ma posso anche raggiungere i tasti neri, che aggiungono molto sapore al suono. Preferisco le note sopra il do: sono sempre stata attratta dalle note alte poiché posso ascoltarle molto meglio di quanto non facciate voi umani. Eh già, tutti abbiamo dei limiti da superare nella vita.

D. Sai davvero cosa stai facendo mentre suoni il pianoforte, o suoni a caso?
R. Mi prendi in giro? Certo che so quello che faccio. Se guardi i miei video, noterai che spesso nei duetti suono nella medesima chiave in cui suonano gli allievi. Non è un caso: decido davanti a quali note sedermi prima di suonare. Suono anche ritmi diversi e ripeto note da pianissimo a forte e al contrario. Quando l’allievo smette di suonare, anche io termino nel duetto. Ogni volta. Sempre. Quando lui smette, io smetto. Come potrebbe essere un caso?

Una volta, sotto Natale, Betsy insegnava usando il mio piano, così mi sono seduta all’altro e ho suonato: la la la, la la la, la do fa sol la in ritmo perfetto, l’esatta introduzione di Jingle Bells. Quando sono da sola, improvviso. Se Betsy e Burnell entrano per riprendermi, io mi interrompo e salto giù – non mi piace essere interrotta durante momenti di intensa creatività -. A volte utilizzo una zampa per tenere una nota e uso l’ altra per suonarne un’altra, così posso produrre un suono uniforme.

D. Cantare è un’ipotesi?
R.
Una volta Betsy e Burnell stavano rilasciando un’intervista al piano di sopra, ed io ho cominciato a suonare furiosamente e a cantare (mi piace essere sempre nello «spotlight») miagolando più forte che potevo: nel futuro proverò anche a cantare mentre suono.

D. Ti senti un gatto differente, o un umano differente?
R. Mi sento un gatto. Ultimamente mi hanno detto che sono ingrassata: perché la gente comune ha queste aspettative rispetto a una celebrità? Perché bada solo alle apparenze? Noi siamo come tutti. Come Oprah, mi piace mangiare e ho un metabolismo lento. Mi piace stare da sola, o con Betsy. Il mio unico amico è mio fratello Ronnie, i miei fan mi adorano e per me è un piacere essere intervistata da te. Saluto tutti i miei ammiratori italiani e auguro che i loro sogni di tonno divengano realtà. (a cura di Romina Ciuffa)

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IPNOSI: CHI È CHE VA IN GALERA? PARTE 1: SOGGETTI ABILITATI ALL’IPNOSI

IPNOSI. ASPETTI GIURIDICI
di Romina Ciuffa*
psicologa ipnotista
avvocato

PARTE 1. SOGGETTI ABILITATI ALL’IPNOSI. TUTTI?
(segue in PARTE DUE: https://www.rominaciuffa.com/ipnosi-alzati-e-uccidi/)

Introduzione alla prima parte

Il presente lavoro intende dare un inquadramento prima facie della normativa applicabile all’ipnosi, meglio detto delle sue contraddizioni giuridiche sia nell’inserimento ad opera del legislatore (nazionale e comunitario), sia nell’interpretazione ad opera della giurisprudenza, della dottrina e degli stessi interessati. Infatti, avallare l’una o l’altra lettura delle norme implica la possibilità di impiegare lo strumento dell’ipnosi in maniera più o meno ampia e in settori distinti; per questo, sono soliti darne una lettura aperta coloro che non esercitano una professione sanitaria e che praticano l’ipnosi in quanto abilitati da un titolo straniero che l’ammette ovvero dopo aver frequentato una scuola in Italia differente da quella di specializzazione. La lettura restrittiva, che ne fa la scrivente, delega l’esercizio dell’ipnosi alle categorie sanitarie – iscritte ai rispettivi Albi – del medico, nei limiti delle finalità curative, dello psicologo e dello psicoterapeuta, nei limiti delle loro competenze di cui alla legge n. 56 del 18 febbraio 1989. L’ipnosi da “intrattenimento”, sebbene non giovi alla categoria, è comunque legittima se fuori tali ambiti; mentre l’ipnologo esperto, non medico e non psicologo, può utilizzarla liberamente in qualità di libero professionista solo ai fini della crescita personale del cliente, per il suo sviluppo e la presa di coscienza, per la riscoperta di risorse e l’insegnamento di tecniche atte al dissolvere disagi e per il miglioramento personale e relazionale.

Non gioverà però a tali ultimi soggetti la condizione obiettiva di non punibilità data dall’art. 728 del Codice penale, che punisce chi ponga taluno, col suo consenso, in stato d’ipnotismo (…), o esegue su lui un trattamento che ne sopprima la coscienza o la volontà, se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità della persona, esentandolo invece dalla pena se il fatto è commesso, a scopo scientifico o di cura, da chi esercita una professione sanitaria. Nel medesimo Codice si rinviene anche la norma dell’art. 613, che punisce chiunque, mediante suggestione ipnotica (…), pone una persona, senza il consenso di lei, in stato d’incapacità d’intendere o di volere, e aggrava la pena se il colpevole ha agito col fine di far commettere un reato o se la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla legge come delitto. In relazione alle due norme sopracitate, si analizza in questo testo anche la configurabilità del reato impossibile di cui all’art. 49, comma 2, c.p., attraverso l’analisi della concreta possibilità che lo strumento ipnotico sia in grado di produrre tali gravi conseguenze, rispondendo alle domande: è possibile indurre in stato di trance qualcuno senza la sua volontà? È possibile far compiere atti criminosi all’ipnotizzato?

Si tratterà anche della materia civilistica, valutando le teorie che vedono nell’atto negoziale compiuto da chi è stato indotto in trance un atto annullabile, nullo od inesistente; in questo senso partendo dalla norma dell’art. 428 del Codice civile e assimilando la condizione dell’ipnotizzato a quella dell’incapace naturale (nel testo si descriverà meglio la questione anche sul piano definitorio), per giungere all’opposta teoria secondo cui il soggetto in trance è sottoposto ad una vis ablativa, la stessa presente nella violenza fisica che esclude del tutto la riferibilità dell’atto al soggetto coartato (ma escludendo comunque si tratti di vis compulsiva, per il diritto intesa come quella violenza psichica integrata dalla prospettazione di un male ingiusto).

Infine, con riferimento al Codice di procedura penale, si analizzeranno le ipotesi in cui l’ipnosi possa essere impiegata a fini processuali nell’interrogatorio dell’indiziato o nell’escussione probatoria dell’imputato, e di altri soggetti quali i testimoni o la vittima. Si tratterebbe comunque di una prova innominata, atipica, che il giudice ha la facoltà di ammettere ex art. 189 c.p.p. se idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudicante la libertà morale della persona. Si risponderà, così, a questa domanda: la prova assunta attraverso ipnosi coarta tale libertà, anche nel caso di soggetto consenziente o richiedente un’escussione attraverso ipnosi? E si valuteranno le varie ipotesi in cui tale procedura possa essere considerata ottimale (come nel caso della vittimologia), utile (come nel caso delle amnesie e del ricordo di avvenimenti passati), oppure fuorviante (come nel caso di soggetto riluttante).

SOGGETTI ABILITATI ALL’IPNOSI – QUESTIONI

 Il fatto che vi sia una questione aperta sull’ipnosi allo stato giuridico della letteratura non fa che definire l’ipnosi in senso positivo, ossia darle legittimità. Invero, essa è presente direttamente solo in due articoli del Codice penale italiano (l’art. 603 e l’art. 728) e indirettamente nell’art. 188 del Codice di procedura penale. Ciò, da una parte rende giustizia alla sua identificazione, dall’altra – per genericità e incompletezza, nonché sinteticità nel suo inserimento – la declassa tra istituti non chiari, sui quali è dovuta (e deve) intervenire la giurisprudenza al fine di dare una spiegazione attuale all’ipotesi del legislatore penale del 1930 (che modificava il precedente Codice Zanardelli, datato 1889) e a quella del legislatore procedurale del 1988 (successiva alle codificazioni del 1865, del 1913 e del 1930). Anni in cui, certamente, non solo l’ipnosi, ma tutta la materia psicologica era considerata al di fuori di una struttura scientifica: questa constatazione di cronologia storica non fa che confermare la necessità che all’ipnosi sia data una definizione più certa e adeguata ai tempi che l’hanno vista evolvere e riconoscere quale possibile metodologia a supporto del medico e dello psicologo nelle materie di loro competenza.

Materie che non hanno avuto facile convivenza prima, collocazione dopo. Con l’entrata dell’Italia nell’Unione europea (definitivo fu il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1º novembre 1993, al quale gli Stati aderenti giunsero dopo un lungo percorso intrapreso dalle Comunità europee precedentemente esistenti e attraverso la stipulazione di numerosi trattati di integrazione). Un primo, rilevante punto è quello relativo alla libera circolazione delle persone nei Paesi membri, che include la possibilità di esportare il proprio titolo conseguito nello Stato di provenienza. in attuazione dell’art. 117, comma 3, della Costituzione e nel rispetto dei principi dell’Unione europea in materia di concorrenza e di libertà di circolazione. Integrando la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio COM n. 119 del 2002, relativa al riconoscimento reciproco delle qualifiche professionali tra i Paesi membri, approvata l’11 febbraio 2004, la legge n. 4 del 14 gennaio 2013 – emanata in attuazione dell’art. 117, comma 3, della Costituzione (potestà legislativa concorrente) – disciplina le professioni non organizzate in ordini o collegi, e in esse può esser fatta rientrare quella dell’ipnologo, se assimilata a quella del libero professionista intellettuale. Assimilazione che è compiuta con leggerezza e forzatura, oltre che scarsa quando non assente cognizione di causa, da chi ha interesse ai suoi effetti giuridici.

La tesi per cui la professione di “ipnotista” debba essere garantita sic et simpliciter senza necessità di essere inserita in un ambito più ampio e declinato (come quello della professione medica o psicoterapeutica) è sostenuta informalmente da molti, formalmente solo da alcuni Paesi, la Svizzera o la Gran Bretagna ad esempio. Con riferimento a quest’ultima, la British Medical Association nel 1955 riabilitava ufficialmente l’ipnosi; la Commissione di studi designata si ispirò per molto tempo al rapporto presentato da Husson[1] all’Académie Royale de Medécine nel 1831 (comunque non accolto dal plauso dei suoi tempi), e dichiarò che le conclusioni di suddetto rapporto erano “fortemente anticipatrici e per la maggior parte ancora valide”. Ciò, però, non avveniva in altri Paesi, tra i quali spicca la Francia, nonostante gli studi compiuti da Jean-Martin Charcot (fondatore della clinica psichiatrica presso l’Ospedale della Salpêtrière di Parigi, il primo a utilizzare l’ipnosi come cura nel fenomeno del “grand hypnotisme” negli isterici) ed i lavori compiuti dal suo allievo Pierre Janet (“La Médecine Psychologique”), e nonostante l’alternativa versione di Hippolyte Bernheim, fondatore della Scuola di Nancy (che intendeva l’ipnosi come una sorta di sonno o stato alterato di coscienza prodotto dalla suggestione, con implicazioni terapeutiche ed un fondamento più psicologico che neurologico).

Né tale riabilitazione avveniva altrove, salvo rare eccezioni tra cui spiccano gli Stati Uniti (nel 1958 l’American Medical Association inserì l’ipnosi nella terapia medica, precisandone le condizioni d’impiego), che riconoscono la professione indipendente di ipnoterapista dal 1979, e la cui American Medical Association ha recentemente deciso che, dal 1° gennaio 2004, anche gli ipnotisti non terapeuti (non-licensed) possano operare nella Sanità[2].

Tornando in Europa, il principio della libera circolazione delle persone negli Stati membri farebbe dedurne la constatazione che – in mancanza di una regolamentazione italiana della professione di ipnoterapista e di una previsione che la vincoli al conseguimento di un diploma o all’appartenenza ad un determinato ordine professionale – si sia ottenuto un lasciapassare per gli “ipnotisti” inglesi e svizzeri (o altri aventi simile riconoscimento) ad esercitare in Italia, senz’aggiuntivo titolo se non quello conseguito nello Stato di provenienza. Così anche affermava (5 gennaio 2005) l’ufficio legale europeo, motivando: “Se la professione di cui si tratta non è regolamentata nello Stato di accoglienza, allora non è necessario richiedere il riconoscimento delle qualifiche; è possibile cominciare a svolgere tale professione in questo Stato alle stesse condizioni che si applicano ai cittadini nazionali e con gli stessi diritti e gli stessi obblighi”.

È oltremodo evidente come il mancato riconoscimento nel nostro ed in altri Paesi europei del titolo riconosciuto di ipnologo/ipnoterapista – conseguibile (in Gran Bretagna ad esempio) previa frequentazione di corsi aperti anche ai non laureati, e con la correlata possibilità di stipulare la relativa assicurazione di indennità professionale – produca presso di noi una confusione foriera di gravi effetti giuridici, a partire da quelli drastici di cui all’art. 348 del Codice penale italiano che prevede, per chiunque abusivamente eserciti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, una pena della reclusione fino a sei mesi o una multa da 103 a 516 euro. La Corte di cassazione ha chiarito che incorre in tale reato “chi è sfornito del titolo richiesto (laurea, diploma) o non ha adempiuto alle formalità prescritte come condizione per l’esercizio della professione (ad esempio, l’iscrizione all’albo) o ne è stato sospeso o interdetto”. Lo stesso giudice ha chiarito, con sentenza n. 34200 del 6 settembre 2007, che non ha importanza ai fini della configurabilità del reato che il paziente sia più o meno cosciente della carenza del titolo abilitativo. La vexata quaestio è: si tratta, nel caso dell’ipnotista riconosciuto altrove, di esercitare abusivamente in Italia la professione ex art. 348 c.p., ovvero è applicabile la copertura UE?

La risposta è duplice e contraddittoria, sempre fondata su considerazioni di parte e interpretazioni disfunzionali, ricordando come lo stesso “concetto” di ipnosi, oltre che il metodo, sia soggetto a valutazioni differenziate a seconda che esso si contestualizzi in un ambito curativo-terapeutico, ovvero con finalità spettacolari, o infine volte al solo miglioramento delle condizioni della persona senza chiamare in causa i presupposti di diagnosi e guarigione. Non da ultima la questione del proliferare di “professionisti” in ipnologia e scuole ad uopo costituite, un intero sistema alias un giro d’affari che, prima di chiamare in causa il paziente, punta al lucro di chi lo costituisce: in Italia potrebbe essere integrata la fattispecie del reato di abuso della credulità popolare di cui all’art. 661 c.p. nel caso di coloro che istigano all’esercizio della professione medica e dell’ipnosi persone non qualificate, ossia scuole, corsi, meeting, organizzati con l’intento di abilitare alla pratica clinica dell’ipnosi. Niente di molto diverso di quanto avvenga nella polemica sul coaching, così come in molti altri campi nei quali lo strumento è impiegato. Senza considerare l’assenza, per costoro, di un codice deontologico e di un Albo ad uopo.

Analogicamente, in tema di investigazioni, l’International Society of Hypnosis allarmisticamente sottolineava in due risoluzioni (ottobre 1978 ed agosto del 1979) la tendenza degli agenti di Polizia, con un training minimo in ipnosi e senza una vasta competenza professionale, ad usare l’ipnosi per facilitare presumibilmente il ricordo di testimoni e vittime circa gli accadimenti in relazione a qualche crimine. La Società si oppone all’uso da parte della Polizia di questa tecnica, suggerendo che tali attività debbano eventualmente essere effettuate con l’aiuto di psichiatri e psicologi, esperti nell’uso forense dell’ipnosi, che costoro siano sempre presenti durante l’interrogatorio e che delle sedute sia sempre fatta una completa videoregistrazione. Direttive anche imposte all’FBI dal Dipartimento della Giustizia,.

Tornando all’Italia, la premessa necessaria la fanno l’art. 1 e l’art. 3 della legge n. 56 del 18 febbraio 1989 sull’ordinamento della professione di psicologo. Il primo definisce la professione di psicologo, e lo legittima all’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità, oltre che alle attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito, ma solo dopo aver conseguito l’abilitazione in psicologia mediante l’esame di Stato ed essere iscritto nell’apposito albo professionale (art. 2). In virtù dell’art. 3, invece, l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del D.P.R. n. 162 del 10 marzo 1982, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti: questa norma non è sormontabile. L’affermazione che l’ipnosi sia competenza dello psicologo o dello psicoterapeuta, per la giustizia della rappresentazione della normativa, è legata alla finalità per cui tale strumento è impiegato. Una volta espresso il vincolo tra ipnosi e psicoterapia, la prima assumerà il ruolo che le spetta: quello di un metodo specifico avente finalità terapeutica.

Nel caso del medico, egli potrà utilizzare l’ipnosi senza aver conseguito la specializzazione da psicoterapeuta, ma solo nell’ambito curativo che è proprio della sua professione e per il quale ha conseguito l’abilitazione, come è nei casi di analgesia o anestesia; gliene sarà invece inibito l’uso nel senso di sollevare il paziente da problemi psicologici. Esattamente come costituirebbe abuso quello dell’ostetrica che inducesse la trance ipnotica nella partoriente, o dell’infermiere che lo facesse per calmare il paziente ospedalizzato. Tale abuso potrà cioè perpetrarsi nel caso in cui il medico improntasse un intervento ipnotico con finalità psicoterapeutiche, psichiche e non fisiche. Il Codice di deontologia medica del 1978 imponeva ai medici di ispirarsi alle conoscenze scientifiche (art. 4) e di non favorire in qualsiasi modo chi esercita abusivamente un’attività sanitaria ivi compresa l’ipnosi-terapia (art. 93), con un espresso riferimento, dunque, alla materia oggetto del presente lavoro.

Riferimento contenuto anche nell’art. 128 del Regolamento del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, che consente al medico provinciale di autorizzare chi non eserciti la professione sanitaria a trattenimenti di ipnotismo, con ciò affermando la liceità dell’ipnosi solo a titolo di intrattenimento pubblico (spettacolarizzazione) ma non nel caso di fini scientifico-terapeutici. Infatti, tale norma non si riferisce ai medici (“a chi non eserciti la professione sanitaria”); e se il medico provinciale può accordare l’autorizzazione a trattamenti di ipnotismo nei casi “non sanitari”, non potendosi consentire ciò che è vietato dalla legge, se ne deduce che – per il principio di non contraddittorietà dell’ordinamento giuridico – è ammessa in nuce l’ipnosi quando utilizzata per finalità scientifiche.

Proprio attraverso tale norma Guglielmo Gulotta risponde alle seguenti domande: “(…) Può un non medico utilizzare l’ipnosi senza finalità curative? Può un non medico ipnotizzare con finalità curative? Lo psicologo a questi riguardi può considerarsi differentemente da tutti gli altri non medici ed essergli consentito ciò che agli altri non medici non è consentito?”[3]. Nessun dubbio, per lui, di una risposta affermativa nel caso del mero esercizio dell’ipnosi senza finalità terapeutiche anche da parte di chi non sia medico (anche se è sempre sconsigliabile–aggiunge–che una persona non preparata utilizzi questo mezzo a scopo dimostrativo o di divertimento).

Risponde a tali domande anche attraverso l’analisi della sentenza della IV Sezione della Corte di cassazione del 10 luglio 1969, per cui “non può contestarsi che la terapia ipnotica sia riservata agli esercenti la professione sanitaria regolarmente iscritti all’albo professionale: è sufficiente in proposito ricordare l’art. 728 comma 2, c.p., il quale consente, a scopo scientifico e curativo, il trattamento idoneo a sopprimere la coscienza e la volontà altrui, mediante narcosi o ipnosi, soltanto agli esercenti la professione sanitaria, vietandola a chi ad essa non è abilitato” (dell’art. 728 c.p. e degli altri che richiamano l’ipnosi in ambito penalistico, che tratterò nel capitolo seguente). A ben vedere, ed oppositivamente a tale pronuncia del giudice supremo, la norma di cui all’art. 728 c.p. – volta a punire chiunque ponga taluno, col suo consenso, in stato di narcosi o di ipnotismo, o esegua su di lui un trattamento che ne sopprima la coscienza o la volontà se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità della persona – è costruita dal legislatore non al fine di vietare al non medico l’attività di ipnotismo, bensì per escludere, in suo capo, la causa di giustificazione che invece applica all’esercente una professione sanitaria che abbia commesso il medesimo fatto a scopo scientifico o di cura. In sintesi, il non medico non potrà fruire dell’esenzione, ma non gli è per ciò solo vietata la pratica dell’ipnotismo. L’esempio lampante è quello della “suggestologia” bulgara, che utilizza tecniche di tipo ipnotico a scopi di insegnamento delle lingue straniere.

Resta fermo il fatto che un non medico non possa utilizzare l’ipnosi a scopo terapeutico, e sono imputabili del reato di cui all’art. 348 c.p. il “guaritore” e chi esprime giudizi diagnostici e, valendosi del metodo della psicoterapia suggestiva, consigli cure ai malati che si rechino a consultarlo: è, infatti, necessario il controllo medico per evitare i pericoli di mancanza di diagnosi o del mancato accertamento dell’eventuale guarigione o peggioramento. Ossia: non esiste divieto di ipnotizzare a scopi non terapeutici, ma resta ferma la responsabilità dell’agente se ciò possa procurare pericolo all’incolumità della persona[4].

E lo psicologo può? Gulotta risponde così, con una spiegazione concreta e razionale: “Soprattutto nell’ipnosi è da dire che la differenza tra l’aspetto sperimentale e quello clinico rende indispensabile la funzione dell’ipnotista psicologo, dato che nelle facoltà mediche non si insegna la sperimentazione del comportamento umano. E poiché come sempre la clinica e la sperimentazione sono strettamente legate, anche lo psicologo ipnotista rigorosamente diretto alla sperimentalità deve avere pratica dell’ipnoterapia. Ciò soprattutto perché il clinico poi possa avvantaggiarsi di ciò che lo sperimentalista gli mette a disposizione. Non a caso la Società internazionale d’ipnosi è chiamata d’ipnosi clinica e sperimentale[5]. La psicoterapia non è di pertinenza medica: in entrambi i casi del medico e dello psicologo dev’esservi un’adeguata preparazione (Freud sosteneva fermamente questo). Lo psicologo specializzato ha però compiuto, rispetto al medico, studi che attengono direttamente alla diagnosi e alla terapia dei disturbi psicopatologici, salvo che il medico non abbia approfondito adeguatamente la materia. Se ne deduce la possibilità di impiegare l’ipnosi come strumento alternativo, tra i vari in possesso dello psicologo.

In conclusione, l’ipnologo esperto, non medico o psicologo, non può praticare l’ipnosi per finalità cliniche, diagnostiche o terapeutiche, ma può utilizzarla liberamente, in qualità di libero professionista, ai fini della crescita personale del proprio cliente, per il suo sviluppo e la presa di coscienza, oltre che per la riscoperta di risorse e l’insegnamento di tecniche atte al dissolvere disagi e per il miglioramento personale e relazionale. (ROMINA CIUFFA) (…)

*Romina Ciuffa, psicologa, riceve in centro storico a Roma, ai Castelli Romani (Monte Compatri) e, su appuntamento, a Milano (info@rominaciuffa.com) 

 

NOTE

[1] Nel 1831 Husson presentò all’Accademia un dettagliato resoconto finale, volto a sottolineare da un lato la realtà dei fenomeni di magnetizzazione e la loro applicazione clinica, dall’altro la necessità di un intervento dell’Accademia per garantire l’impiego esclusivamente medico della magnetizzazione. Il resoconto finale nonostante le pressioni di Husson non venne discusso dall’Accademia, che si trincerò su posizioni di chiusura, opponendosi alla pubblicazione del rapporto.
[2] Tra gli Stati americani che ammettono l’uso delle tecniche ipnotiche a scopo investigativo o giuridico: California, Texas, Alabama, California, Pennsylvania, Alaska, Michigan, Utah, Arizona, Minnesota, Virginia, Connecticut, Missouri, Washington, Delaware, Nebraska, West Virginia, Florida, New York, Indiana, Hawaii, North Carolina, Iowa, Illinois, Oklahoma, Kansas. Codici deontologici e rigide linee guida governano l’uso dell’ipnosi a scopi forensi, e non è ammesso l’uso della trance ipnotica nei confronti degli imputati o dei sospettati. In altri Stati come Georgia, South Dakota, Wyoming, Mississippi, Louisiana, Colorado, Nevad,a North Dakota, Idaho, New Mexico, Oregon, Ohio, New Jersey, Tennessee, Texas, sono richieste procedure di salvaguardia e verifica incrociata affinché le testimonianze rese in stato ipnotico siano ammissibili.
[3] GULOTTA G., Ipnosi. Aspetti psicologici, clinici, legali, criminologici, 1980, Giuffré, 425.
[4] GULOTTA G., cit., 435.
[5] GULOTTA G., cit., 436.

 




OGGI SONO NUDA

OGGI SONO NUDA

Oggi sono nuda,
nuda come una donna
che non si vergogna e cruda
come la nudità
di chi mi guarda e sa
di appartenere come
nessuno
mi appartiene.

Romina Ciuffa
in prelusione alla mia prossima pubblicazione
Photo: GIORGIO GUGLIELMINI IbizaLuxeMagazine




AFRICA SARDA STUDIO: DA CARLA COCCO AL GHETTO DI BAULENI, IL NOSTRO “WE ARE THE WORLD”

Qui esplicitamente a chiedere di collaborare per la realizzazione di un progetto di solidarietà con il compound zambiano di Bauleni, in cambio di “ricompense” come indicato al link: https://www.musicraiser.com/it/projects/9415-africa-sarda-studio

Il punto è che fare musica non basta. Come non basta scrivere e nemmeno costruire i palazzi. C’è una sorta di meta-trasformazione di ciò che si fa in ciò che si è che va valutata (e sviluppata) ogni qualvolta si intenda rendere il proprio talento concretezza. Che un album sia pubblicato non significa, per me, nulla. Oggi ancor di più, potendolo scrivere e produrre in casa anche con l’apporto dei più grandi artisti globali che dalla loro abitazione non hanno mosso un passo, se non fatto click per l’invio del file audio come partecipazione al disco. Non serve a nulla, salvo considerare l’ascolto e, in questo millennio, le visualizzazioni, le quali certo non corrispondono a un “la so”. Il “la so” è per chi la sa, ossia la ha ascoltata, interiorizzata, ne conosce il testo e, mi spingo oltre, anche il video, considerando che personalmente so rifare per intero tutto il videoclip di Faith nella persona di George Michael e il moonwalker di Michael Jackson, nonché il balletto di Thriller. Sto dicendo una cosa: tutto deve avere una funzione. Come dire: l’atto sessuale provoca piacere intrinseco, sì, ma si può anche usare per la riproduzione.

Carla Cocco provoca piacere, prima, poi genera. Figli. Neri. Ecco come. Un progetto, quello di Africa Sarda Studio, che sto seguendo e che ascolto in anteprima mentre lo si registra in Africa, nel compound di Bauleni, in Zambia. Qui, esattamente:


Mutatis mutandis, parte una campagna di crowfunding per un ghetto africano, su https://www.musicraiser.com/it/projects/9415-africa-sarda-studio. Classe 78, cantante sarda di origine greca che vive a Roma da 20 anni, Carla Cocco ha scelto, per il suo quarto album, di finalizzare il proprio impegno in qualcosa di ri-produttivo. Non riproduzione solo musicale, una vera e propria gravi-danza. Nel 2015, quando rappresenta musicalmente l’Italia a Lusaka (Zambia) per la XV edizione della Settimana della lingua italiana nel mondo, ha l’occasione di visitare il compound di Bauleni e conoscere gli African Voice Band, una band di adolescenti nata nei cortili del ghetto. È lì che nasce l’idea, il sogno: Africa Sarda Studio, uno studio di registrazione e insieme una scuola di musica all’interno del ghetto, per permettere ai ragazzi di studiare, esercitarsi, incidere autonomamente la propria musica e portarla fuori dal ghetto stesso, anche attraverso l’organizzazione di una serie di concerti, lontano da una realtà che è ben nota. In tal modo i ragazzi sarebbero (saranno) i protagonisti attivi dello sviluppo della comunità in cui vivono e verrebbero (verranno) sottratti al loro inevitabile destino di povertà, analfabetismo, delinquenza e tossicodipendenza. Si darebbe (darà) loro la possibilità di costruirsi un futuro diverso, nuovo, positivo. Ed una stanza nel ghetto è stata già predisposta e pensata solo per lo studio (50 mq circa).

Con In&Out of the Ghetto (www.africass.it), associazione zambiana guidata dall’educatore Diego Cassinelli, la cui filosofia è: “C’è posto per il bello e il brutto ma non più per il pietismo. Basta bambini con le mosche in faccia e il pancione”. Azione.


Diego Mwanza Cassinelli

A Natale 2017 Carla torna a Bauleni, da sola, per iniziare la produzione del disco e condividere la vita del ghetto. Sono prodotti così i primi brani, creata la base della nuova struttura.

Cos’è Bauleni? Il compound, nato come insediamento non autorizzato, è fuori dalla responsabilità e dall’interesse dell’amministrazione della città; vi è, in Bauleni come negli altri slum, una strumentalizzazione di numeri da parte di terzi per trarne vantaggio, per esempio l’aumento di cifre inerenti la popolazione del compound stesso, il numero di persone particolarmente vulnerabili e altri dati sensibili ai fini di ottenere fondi. Questo insediamento ha origine nel 1945, e prende il nome dal vecchio proprietario della terra, Mr. Boulen, ex soldato tedesco in pensione o fuggito dopo la sconfitta dalla Germania nel conflitto mondiale. Successivamente il suo cuoco, proveniente dal Malawi, con l’aiuto di altri braccianti si incaricò del funzionamento dell’intera farm.

“Dall’inizio della formazione del compound di Bauleni la popolazione cresce anno dopo anno in maniera preoccupante”. Spiega Cassinelli“Il conteggio della popolazione è un aspetto problematico, abbiamo dati poco credibili e gonfiati di alcune agenzie, che stimano una cifra di 90 mila abitanti su 8 mila abitazioni; questo vorrebbe dire una media di 11 abitanti per casa, cosa che non corrisponde a ciò che ho potuto osservare nei miei 2 anni di frequentazione del compound. Altre fonti non ufficiali abbassano il numero a 30/35/40 mila. Una delle azioni prioritarie è la quantificazione in modo più puntuale e neutro attraverso ricerche sul campo, attraverso l’aiuto dei giovani del compound: questo può diventare un progetto per i giovani dei bar”. 

Altro? L’accesso all’acqua potabile è garantita da 3 pozzi, da 3 cisterne in differenti zone e un numero non precisato di rubinetti sparsi nel compound (da ricercare). All’interno e nelle vicinanze non ci sono ospedali, bensì una clinica fondata dalla collaborazione dei Governi dello Zambia e della Danimarca, con un reparto maternità, “struttura non sufficientemente preparata a far fronte alla ingente quantità di persone affette da diverse malattie che si riversano ogni giorno per cure, terapie o per semplice consulenza”. Vi sono inoltre una clinica privata di dimensioni notevolmente più contenuta e meno attrezzata, e un dottore locale che esercita legalmente.

La campagna di crowdfunding AFRICA SARDA STUDIO, lanciata da Carla Cocco, serve a coprire in parte i costi per la realizzazione dello studio di registrazione nel ghetto; le spese per un corso di formazione di fonia per i ragazzi e i costi per la realizzazione del disco al quale parteciperanno in tanti, che si sono offerti di dare il loro contributo. Più avanti, l’organizzazione di concerti per far muovere il ghetto dal ghetto e farlo tornare, più deciso, nel ghetto. Più pronto. Più forte. Con spalle più grosse.

“Musica vuol dire condivisione, vuol dire empatia, vuol dire amore–dichiara la cantante–, ecco perché ho pensato al crowdfunding: una famiglia, la nostra, quella che costruiremo insieme, che permetterà la realizzazione di un sogno che potrebbe cambiare per sempre la vita di questi ragazzi e la nostra, perché ne saremmo gli artefici. Abbiamo tanto da imparare da loro, dalle loro risate, dai loro sorrisi. Se riusciremo a raggiungere e superare la cifra per ora fissata su Musicraiser, quella di 5 mila euro, saremo stati capaci di creare insieme una nuova sinfonia, degna dei più grandi compositori”.  

Personalmente credo che fare gli auguri di Natale da Cortina serva a ben poco. A livello globale, intesi. Per chi mastica social condividendo link senz’anima come un “adesso spogliati”. Che sia più utile un’esperienza in cui i vestiti di cui adesso spogliarsi non ci sono nemmeno, quale quella vissuta dalla Cocco in Africa, in quei giorni e nei giorni che verranno, per funzionalizzare il concetto del “la so” ed integrarlo con quello di “la do”, ossia donare i propri sforzi ad un impegno superiore. La causa può essere diversa, sono molte le cose da fare oltre allo scroll sui social. In questo caso si possono acquistare cd, concerti in casa di Carla, ed anche una settimana di “soggiorno” nel Compound di Bauleni: sono le ricompense per i donatori, tutte ben esplicitate nella piattaforma di Musicraiser. È il vero “like”, il mi piace dell’attivo. Non c’è bisogno di fare uno sforzo filosofico sul “c’è chi sta peggio” né di muoversi a compassione. Tali emozioni non servono, sciare non è vietato; ciò che è utile è l’azione. La funzionalizzazione. L’oltre. Cantare con Toquinho va bene, essere scelta per rappresentare i 100 anni di Vinicius de Moraes all’Auditorium Parco della Musica di Roma va bene, affiancare Ornella Vanoni va bene, ma scegliere come partner ufficiale del prossimo disco il Compound di Bauleni fa bene. Tutti possiamo, a nostra misura, riscrivere “We are the World”. (ROMINA CIUFFA)

GALLERY

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FURIO HONSELL: DA UDINE ALLA REGIONE, I DIRITTI CIVILI NEL PATRIMONIO FRIULIANO

LA VIDEOINTERVISTA

A circa 20 chilometri dalla Slovenia, 100 dall’Austria, 150 dalla Croazia, di certo Udine è più vicina all’est europeo che non all’Italia. In molti sensi. E nonostante potrebbe fregiarsi di un senso quasi «padano», nordico, per la sua altitudine, ricchezza, posizione, e rivendicare più di altre Regioni italiane la distanza da Roma, in senso politico, è una città di integrazione e di diritti civili. Per definizione. Sarà, il fatto che il Friuli-Venezia Giulia ha già uno Statuto speciale, dunque autonomia ed esperienza; sarà che in questi ultimi 10 anni è stata retta da un sindaco di centro-sinistra; sarà che l’identità friuliana non si misura sulla carta ma sul campo, e che esiste una lunga storia di emigrazione ed immigrazione che vede Udine attiva (ne sono testimoni i «fogolâr furlans», associazioni di friuliani nel mondo); sarà la coabitazione con l’Europa, quella del nord e dell’est.

Sarà tutto questo, ma di certo Udine risulta – anche dopo il terremoto del 1976 (scosse a maggio e a settembre) che vide lì proprio il suo epicentro – florida. La ricostruzione fu rapida e completa e subito, a due giorni dal sisma, il Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia stanziò con effetto immediato 10 miliardi di lire. Il modo in cui venne gestito il dramma è ancora alto esempio di efficienza.

I dieci anni per il doppio mandato dell’attuale sindaco Furio Honsell stanno per terminare: dal 28 aprile 2008 al 31 dicembre 2017 la città, che ha appena ospitato al Festival Mimesis i più grandi filosofi e pensatori italiani, è uno dei capoluoghi italiani dei diritti civili anche grazie a lui. Il caso di Eluana Englaro, costretta 17 anni in stato vegetativo per accanimento terapeutico; le unioni civili (è di Honsell la trascrizione del matrimonio di Adele Palmieri e Ingrid Owen prima che ci fosse una legge ad hoc), la protesta dei quattro dipendenti della Gros Market di Pradamano (sul tetto è salito anche il sindaco), l’accoglienza dei rifugiati e dei vicini di casa. Honsell, nato a Genova, già rettore dell’Università di Udine, matematico e rigoroso scientifico, ora è pronto per la sfida alle regionali.

D. Da Genova a Udine: che percorso l’ha portata in Friuli?
R. Sono arrivato la prima volta a Udine da studente universitario in autostop, poi da professore con un concorso nazionale. La mia prima lezione si è svolta nel lontano anno accademico 1988-1989. All’epoca era un’università molto giovane, e per non disturbare quelle limitrofe l’avevano obbligata ad avere dei corsi allora considerati secondari: Informatica, Conservazione dei beni culturali, Agraria. Questo la dice lunga su quanto sia difficile prevedere il mondo. Sono stato rettore dal 2001 al 2008, anno in cui mi sono dimesso; solo dopo mi sono candidato come sindaco. Da rettore ho conosciuto molto del territorio sotto tantissimi profili. Sono stato il propugnatore, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo millennio, di quella che è stata chiamata la terza missione dell’università: il servizio al territorio, posto che la prima fu quella meramente didattica, e la seconda, con Friedrich Wilhelm Von Humboldt agli inizi dell’Ottocento, di ricerca. Quando mi sono candidato, l’ho fatto con la lista civica di sinistra Innovare con Honsell.

D. Due mandati, questo giunge al termine. Quali i suoi riferimenti in questi 10 anni?
R. Innanzitutto ho firmato il patto dei sindaci 202020 nel 2009. Esso prevede l’abbattimento del 20 per cento delle emissioni di CO2 da fonti fossili, l’aumento della percentuale energetica da fonti rinnovabili e l’efficientamento, quindi la riduzione dei consumi energetici del 20 per cento. Mi sono ispirato molto alla sostenibilità ambientale. I 17 SDG, «sustainable development goals» delle Nazioni Unite, prima ancora che li facessero, erano nella mia visione. Una delle cose delle quali sono più orgoglioso è che da rettore si progettò un grande sistema di cogenerazione di energia elettrica e calore in ospedale, con un sistema di raccolta e di ritrasferimento, attraverso un sistema di teleriscaldamento, a tutta la città: sono dovuto diventare sindaco per varare questo tipo di servizio pubblico. Oggi abbiamo diversi edifici, tra cui il Palamostre, riscaldati con calore che altrimenti andrebbe sprecato.

D. Udine è più «sostenibile» ora?
R. C’è tutto uno spettro di iniziative, inclusa l’illuminazione a led di tutta Udine. Quindi, una cosa che poche città hanno è il regolamento edilizio obbligatorio, che io ho varato per far sì che l’involucro di un edificio non abbia dispersione termica. Altra stella polare è l’essere parte della rete europea «healthy cities», città sane, dell’Organizzazione mondiale della sanità; siamo sempre stati la città di riferimento nella promozione degli stili di vita sani e della salute, intesa come benessere dei cittadini non solo fisico ma anche emotivo e relazionale.

D. È stato (ed è) anche un sindaco innovativo, non senza ricevere polemiche. Dalle unioni civili all’eutanasia.
R. Una delle cose che deve fare un sindaco è dare forza a chi ha buone idee. In città ci sono 100 mila abitanti e con l’unione dei Comuni stiamo arrivando a 150 mila. Pensi ad esempio ai matrimoni: ci sono quelli in fin di vita, quelli in carcere, ci sono le unioni civili per le quali mi sono battuto molto avendo avuto anche conflitti con il prefetto. Ho registrato una delle prime, e quando è passata la legge abbiamo fatto sì che non ci fosse discriminazione. Molte sono state le situazioni anche non previste dove si è dovuto fermamente difendere i diritti civili, ad esempio quando nella casa di riposo «La Quiete» abbiamo reso giustizia a Beppino Englaro, padre di Eluana, sottoposta per anni ad alimentazione forzata.

D. Un suo commento sull’eutanasia?
R. Parlo di diritto alla giustizia. Se legge la sentenza della Corte di appello avrà le lacrime agli occhi, ma non dubbi: non di eutanasia si è trattato, ossia procurare la morte in modo razionale o socratico, né di accanimento terapeutico, ma dell’articolo della Costituzione che dice che si possono rifiutare le cure. Chiamai il presidente Napolitano per chiedergli di non firmare la legge che gli stava passando Berlusconi perché illegittima, e mi disse che non lo avrebbe fatto.


Beppino Englaro con una foto della figlia Eluana

D. In Friuli è molto vivo il tema dell’immigrazione e dei richiedenti asilo, considerato anche il territorio. Come lo ha affrontato?
R. Abbiamo vissuto negli ultimi 5 anni un arrivo massiccio di coloro che il sud Italia ha mandato al nord e di quelli provenienti da altri luoghi, come Pakistan o Afghanistan, con picchi di duemila persone; ora siamo a circa mille. Non ho mai rifiutato: abbiamo mantenuto un alto livello di civiltà dando ospitalità a tutti in modo anche autonomo, considerato che il Governo di allora li lasciava in giro nel periodo in cui dovevano fare i documenti. Non solo li ho ospitati nelle palestre, nelle tende, nei parchi, ora 350 vivono in appartamenti e con la Croce Rossa abbiamo avviato l’apertura a tali fini di alcune caserme chiuse. Ad Udine spiccano ora romeni in primis, poi albanesi, quindi ghanesi. Questi ultimi sono stati sostituiti dalle ucraine, per via del lavoro da badanti: abbiamo un indice di vecchiaia di 218, ossia ogni 100 under 14 abbiamo 218 over 65. Udine conta 100 mila abitanti e degli 800 bambini nati lo scorso anno la metà ha genitori stranieri. L’età media degli udinesi è di 47 anni, ma se togliamo gli stranieri va ben oltre i 50. Ecco perché bisogna integrare gli stranieri, è questa la grande sfida. Abbiamo in Friuli 110 chilometri quadrati di aree militari dismesse, su 400 siti. L’intera superficie di Udine copre 56 chilometri quadrati. Perciò alcune caserme, come la Cavarzerani, sono state recuperate per i richiedenti asilo. Quando è in gioco questo tema, si fa appello ad aspetti umorali e superficiali; bisognerebbe invece pianificare in che modo promuovere l’inclusione sociale. Noi l’abbiamo fatto perché è tra i valori della città, e correlato c’è quello dell’equità. Quarto degli obiettivi europei di sviluppo sostenibile e uno degli aspetti più delicati dell’attuale coesistenza civile è proprio quello della disparità economica e sociale.

D. Un decennio di cambiamento, dunque, e accrescimento?
R. Ho fatto piantare in città anche il «ginkgo biloba», un albero importante: pochi sanno che è il primo che crebbe, spontaneamente, ad Hiroshima, quando tutto era stato raso al suolo. Questo è il significato del mio mandato. Non so se Udine è cresciuta con me, senz’altro mi auguro di non averla danneggiata. Quando incontro qualcuno che mi dice che sono il peggior sindaco dal dopoguerra – ogni tanto capita – rispondo sempre: «Aspetti di vedere il prossimo». La critica c’è sempre. Una delle sindromi psicologiche più comune è quella dell’availability bias: i cittadini ritengono più importante ciò che è più disponibile, quindi chiedono di chiudere le buche nelle strade. Ma quando l’ho fatto, mi hanno nuovamente interpellato perché, senza buche, le auto correvano troppo ed erano divenute pericolose. In compenso, ho rifatto le palestre nelle scuole perché bambini e atleti non abbiano cemento sotto ai piedi ma una superficie assorbente atta a non creare lesioni.

D. Udine e l’Europa: cosa c’è?
R. Innanzitutto ci sono la reputazione ed il prestigio che i friulani hanno nel mondo; inoltre ci sono i «fogolâr furlans» che consentono di trovare friulani ovunque. C’è anche l’Udinese, un forte veicolo dell’identità friulana (una delle più antiche d’Italia essendo nata nel 1896, ndr): ho rifatto lo stadio vendendolo, sa che mi costava più di un milione l’anno per tenerlo ai vertici richiesti dalla Uefa? Ora è dell’Udinese per 99 anni.

D. E gli udinesi si sono lamentati del cambio di nome, non più Stadio Friuli ma Dacia Arena: l’Udinese Calcio spa ha imposto la denominazione commerciale cedendo il «naming right» alla casa automobilistica rumena.
R. Avrei fatto un contratto di «naming», i consiglieri comunali non l’hanno voluto fare. E pazienza.

D. Si è sentita la crisi ad Udine e, più in generale, in Friuli?
R. Sono divenuto sindaco quando in Italia è iniziata la recessione economica, ma con certe operazioni siamo riusciti a compensare le minori entrate. Per esempio, con il led la spesa per l’illuminazione pubblica è scesa da 3 a 1,8 milioni, così come la spesa per il riscaldamento degli edifici pubblici è scesa da 3 a 1,2 milioni l’anno. La recessione ha colpito soprattutto i settori maturi e quelle aziende che non controllavano la filiera ma erano subfornitori per qualcun altro. Chi aveva una forte internazionalizzazione e il controllo della filiera produttiva è andato molto bene, chi vendeva il made in Italy all’estero non ne ha sofferto, chi faceva componentistica in molti casi è fallito. Deve pensare che in Friuli abbiamo avuto sempre diaspora e immigrazione, fino ad un fatto che si pensava fosse la fine di tutto e invece non lo è stato, il terremoto: poteva essere il colpo di grazia, ma è stata una scintilla. Abbiamo avuto un rinascimento e siamo diventati terra di immigrazione, fino al 2008. La stessa università è nata per il terremoto. Si diceva che il Friuli dovesse uscir fuori dal terremoto con la testa, ossia con l’università, alla maniera dei vivi, che sono tirati fuori dalle macerie dal capo, e non dai piedi, ossia con una nuova emigrazione, alla maniera dei morti. (ROMINA CIUFFA)


Romina Ciuffa, Loggia del Lionello (Udine)

GALLERY (photo ROMINA CIUFFA)

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MA STATTE ZITTA

MA STATTE ZITTA

Ma statte zitta tu,
che te sei data
quanno eri innamorata,
statte zitta e nun fiata’
che si fiati parlo io
e lo sai che poi è ’n casino
sta’ a spiega’ che quelle notti
tu con me facevi i botti,
sta’ a spiega’ che le bucie
più so’ grandi più so’ vere
e so’ bianche fino ar punto
delle corna. So’ dinamiche,
so’ serie, nun so’ le bucie sincere,
e me pari quell’arietta
de quer tale, “Nessun dorma”,
che la canti e se trasforma
in un canto de sirene.
Pore barche, pore noi,
pori quei catamarani
su cui tu posi le mani
e poi soffi, soffi, soffi,
e più soffi più ce soffri.
Ma lo sai cosa te dico?
Nun me importa più un bel fico
secco, da lubrificare,
con cui alcuni fanno nozze
senza avere le carozze.
Perch’è vero, tu sei il mare:
sei bagnata, scostumata,
sei l’amor der passeggero
ma so’ io che so’ er veliero.

Romina Ciuffa, in “Rassognazione”, edito da Booksprint, aprile 2017
(COMPRA IL LIBRO SU www.booksprintedizioni.it/libro/poesia/rassognazione
o via mail richiedendolo a info@rominaciuffa.com)




VERONA: FLAVIO TOSI, DA SINDACO A SINDACO, ECCO LA QUARTA GAMBA DEL CENTRODESTRA

VIA COL VENETO – di Romina CiuffaCapuleti e Montecchi, il clima a Verona è simile. L’amore non c’entra. Un nuovo sindaco da giugno, Federico Sboarina, e qui con me l’uscito, Flavio Tosi, che è stato primo cittadino per 10 anni rendendo la città una capitale d’Europa. I temi che affrontiamo con chi ha governato la città degli innamorati, della lirica, del marmo, dello Spritz, sono quelli dell’agognata (ma quanto?) autonomia del Veneto, degli scontri politici in seno alle divisioni del centrodestra, delle opere da realizzare o realizzate a Verona, della crisi dell’Arena (è del 16 ottobre l’incontro tra il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e Sboarina che ha sancito la fine del commissariamento. Tosi riassume l’accaduto degli ultimi anni: «Una pessima figura internazionale), della revoca del project financing per risollevare l’ex Arsenale austriaco «Franz Josef I» che da tempo attende una riqualificazione, del tema del degrado e dell’insicurezza balzato di recente alle cronache.

Espulso dalla Lega di Matteo Salvini nel 2015 durante il suo secondo mandato scaligero, Tosi – capogruppo per la lista Tosi all’opposizione, presidente dell’Autostrada A4 Brescia-Padova, segretario di Fare!, ed anche presidente di Federcaccia Veneto – è definito, insieme al suo movimento, la «quarta gamba del centrodestra»: l’alternativa a Salvini in un progetto che vuole raggruppare tutte le forze di centrodestra che attualmente non si riconoscono nei partiti tradizionali quali Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega Nord, caratterizzata da un pragmatismo «che va oltre i classici schemi ideologici».

Ecco come Tosi aborre il «periodo ipotetico dell’impossibile».

Domanda. Il Veneto è risultato in prima linea nella richiesta di autonomia dallo Stato centrale, grazie agli sforzi condotti dal suo leader Luca Zaia. A cosa porterà questo percorso, dal suo punto di vista di politico e di cittadino?
Risposta. Porterà a quello che è previsto dalla Costituzione, né più né meno di quello che immagino otterranno le altre Regioni che hanno avviato lo stesso percorso. È una trattativa tutto sommato neanche tanto complessa, aldilà dei proclami, che ha il seguente contenuto: lo Stato passa delle competenze e gira le risorse che spende per esse alla Regione di riferimento perché ne disponga autonomamente. Su questa base credo che il Veneto, la Lombardia, l’Emilia Romagna e chi altri decidesse di procedere in tal senso possano avere un gioco semplice, non ostacolato dal Governo, purché si resti in questo binario. È chiaro che se per fare campagna elettorale si immettono contenuti non praticabili, come la richiesta di trattenere il 90 per cento delle tasse nella Regione e diventare speciali come il Trentino Alto Adige, si rende tale percorso inutile e, a quel punto, non c’è via d’uscita perché la trattativa è impostata male a monte, non essendo in linea con la Costituzione.

D. A chi si riferisce in particolare?
R. Al Veneto. Mentre la Lombardia e l’Emilia Romagna hanno chiesto alcune deleghe, il Veneto oltre ad esse ha chiesto il 90 per cento delle tasse così come avviene in Trentino Alto Adige. Se segue questa impostazione, la nostra Regione non approderà da nessuna parte: lo Stato, su queste basi, neanche comincerà a trattare.

D. Perché è accaduto questo?
R. Il tema è elettorale: pur essendo Roberto Maroni dello stesso partito di Luca Zaia, mentre gli altri governatori mirano a portare a casa il risutato a Zaia interessa fare campagna elettorale. È un dato di fatto oggettivo: la prima uscita che ha fatto dopo l’esito referendario – poi rimangiata in un solo giorno in quanto bocciata da Forza Italia – è stata la richiesta di Statuto speciale. Così il governatore ha abbassato il tiro chiedendo comunque il 90 per cento delle tasse, anche questo impossibile per buon senso: lo Stato non può dare più risorse di quelle che spende, è una partita di giro e non può andare in difficoltà con i suoi conti. Glielo ha detto anche il deputato e vicesegretario della Lega Nord Giancarlo Giorgetti.

D. Ragionando sui temi specifici del Veneto, sarebbe giusto in effetti che si prendesse la specialità dello Statuto?
R. Se la ottenesse il Veneto, la pretenderebbero anche la Lombardia, il Piemonte, l’Emilia Romagna e quelle altre Regioni che avrebbero da guadagnarci, ma lo Stato fallirebbe poiché si regge sul residuo fiscale attivo di alcune Regioni – in particolare la Lombardia con circa 54 miliardi, il Veneto e l’Emilia Romagna con circa 15 – mentre altre come Sicilia, Calabria, Lazio, Campania, Trentino, drenano i soldi dallo Stato centrale. Porre una simile ipotesi equivale a formulare un periodo ipotetico dell’impossibile.

D. Lei a cosa punterebbe?
R. A portare a casa quello che è possibile portare. Al referendum ho votato sì. Lo Statuto speciale magari averlo, ma sono realista e so che è impossibile ottenerlo, inutile chiederlo.

D. Un commento veloce sulla situazione catalana?
R. L’autonomia di cui gode la Catalogna è già straordinaria, un grado altissimo, tranquillamente paragonabile a quella del Trentino Alto Adige, e non capisco per cosa protestino. Sono un federalista, non un secessionista. È chiaro che il Governo spagnolo gli abbia impedito di secedere.

D. A Verona in particolare, quali sono stati gli esiti referendari?
R. C’è stata un’affluenza non alta – il 46 per cento per la città in sé – rispetto alla media regionale che ha sfiorato il 60 per cento, per vari motivi. Come anche in altre votazioni, ad esempio la Brexit che ha avuto connotazioni diverse nelle grandi città e nei piccoli Comuni, l’affluenza è stata mediamente inferiore rispetto alla provincia. Siamo sempre stati considerati, e un po’ ci riteniamo, una «periferia dell’Impero»: Verona ha un rapporto di minore «affetto» rispetto al resto del Veneto, siamo «un po’ lombardi», ossia diversi come tutte le realtà di confine, e abbiamo anche una storia che è diversa: la Repubblica Serenissima è passata anche da Verona, ma per un periodo più breve e meno intenso.

D. Come si è verificato il passaggio dal suo mandato (doppio) al nuovo sindaco scaligero?
R. Il centrodestra si è presentato diviso. Sommando i voti che ha preso la mia coalizione – al primo turno il 24 per cento – a quelli del nuovo sindaco Sboarina – al primo turno il 29 per cento – e a quelli delle altre liste civiche, si arriva ai voti che normalmente prende il centrodestra a Verona, ossia circa il 60 per cento. Al ballottaggio sono andate le due coalizioni del centrodestra, rimanendo escluso il centrosinistra, e quelli che sono rimasti fuori dal ballottaggio hanno votato prevalentemente per il centrodestra tradizionale.

D. Oltre alla vittoria del nuovo sindaco, ci sono stati altri motivi che hanno portato «l’altro centrodestra» a vincere queste elezioni?
R. Sicuramente hanno inciso i miei rapporti con la Lega, da cui nel 2015 sono stato espulso da Salvini. Questo ha cambiato le prospettive sulla città. Già nel mio ultimo mandato avevo all’opposizione Forza Italia, il PDL, più in generale il centrodestra tradizionale, così come il centrosinistra e il M5S. L’unica forza in maggioranza con me negli ultimi 5 anni è stata la Lega. Ciò che è cambiato questa volta è che anche la Lega è passata dall’altra parte.

D. Perché è stato espulso da Salvini?
R. Un modo di vedere profondamente diverso, gli atteggiamenti rispetto all’uscita dall’euro, alla flat tax, alla secessione ed altro. Ci sono stati periodi in cui per Salvini chi stava nella Lega obbligatoriamente doveva sostenere l’uscita dall’euro o essere secessionista, cosa che non sono mai stato. Affrontiamo i temi politici con differenti approcci: io sono pragmatico, lui cavalca anche l’impraticabile. È la differenza che passa tra Salvini e Zaia da una parte, più populisti, e Maroni dall’altra, più pragmatico. Il populismo elettoralmente paga: Maroni ha fatto una campagna referendaria molto istituzionale, sui contenuti, non caricandola con tematiche indipendentiste, e in Lombardia è andato a votare il 40 per cento degli aventi diritto; da noi la campagna di Zaia ha portato a votare quasi il 60 per cento dei veneti.


Flavio Tosi e Matteo Salvini

D. In cosa si distingue principalmente la sua decennale gestione scaligera da quella che Verona si aspetta ora da Sboarina?
R. Verona, nei 10 anni della mia gestione, è passata dall’essere una città provinciale semisconosciuta all’essere una città europea, con un flusso turistico che è aumentato in maniera straordinaria e con grandi investimenti, rendendosi quello che oggi è il motore economico del Veneto rispetto a città, come Padova o Venezia, con le quali Verona si è sempre confrontata. Oggi è lei quella più dinamica, più attrattiva di investimenti, più ricca di potenzialità. Abbiamo fatto un salto di qualità. Sboarina nelle sue prime mosse ha cercato di bloccare alcune iniziative imprenditoriali già avviate, rischiando di portarle indietro. Dal mio punto di vista un sindaco deve favorire gli investimenti, non bloccarli.

D. Può essere più specifico?
R. Per esempio, per l’ex Arsenale austriaco, complesso in centro, avevamo completato la procedura per un project financing pubblico e privato di recupero, e il nuovo sindaco l’ha affossata a settembre con una delibera del Consiglio comunale. Avevo chiuso la gara, avevo assegnato il progetto; alla fine del mandato la nuova amministrazione starà ancora parlando di come risolvere la questione. La grande contraddizione è che il mio operato è stato votato a suo tempo dallo stesso Sboarina, che componeva la mia coalizione. Un altro esempio: avevamo previsto la trasformazione commerciale di una serie di immobili, la nuova Giunta ha dichiarato che la impedirà.


Federico Sboarina e Flavio Tosi

D. Questo avviene per dinamiche politiche, ossia di passaggio da un sindaco all’altro , o perché effettivamente ci sono divergenze nella visione della città che lui ha reso note in campagna elettorale, e per questo è stato scelto rispetto alla coalizione che lei rappresenta?
R. La cosa paradossale è che gran parte di coloro che sono ora nell’amministrazione attuale mi appoggiavano in uno dei miei due mandati, appartenevano alla mia maggioranza, erano d’accordo con il mio operato. Hanno fatto una campagna elettorale di contrapposizione: essendo loro la naturale omogeneità della mia squadra, in quanto la componevano – il sindaco è stato mio assessore nel primo mandato così come parte della sua Giunta, e alcuni attuali consiglieri comunali sono stati miei consiglieri comunali -, si sono dovuti differenziare in tutto e per tutto nonostante avessero votato in precedenza quanto ora stanno bloccando. Aspettiamo però la parte propositiva, è ancora troppo presto per parlare a quattro mesi dall’insediamento. Come avvenuto per l’ex Arsenale, pur proveniendo dalla stessa parte politica e avendo condiviso una serie di provvedimenti, i nuovi insediati hanno dovuto smentirli per non diventare solo una brutta copia della mia amministrazione. Il loro maggior sostenitore, oggi, è l’estrema sinistra, che ne elogia le scelte. È una cosa singolare, ma per me è normale rispetto a ciò che è stata la campagna elettorale, tanto è che l’estrema sinistra al ballottaggio li ha votati.

D. Rispetto all’Arena di Verona, lei l’ha seguita negli ultimi dieci anni fino al recente commissariamento. Come è possibile che un così importante e riconosciuto bene pubblico entri in crisi?
R. Il sold out dell’Arena è dovuto alle attività dell’extra-lirica, ossia a quelle che fanno i privati noleggiando di fatto il monumento; con la lirica viene venduta la metà dei biglietti. È un problema italiano, non veronese: il pubblico della lirica è generalmente in calo mentre il pubblico dell’extra-lirica è generalmente in crescita. Quando mi sono insediato, si facevano non oltre tre eventi l’anno di extra-lirica, oggi siamo a quasi 50. Ho differenziato il prodotto, portando l’extra-lirica in Arena. Ma oggi tutte le fondazioni liriche in Italia, a parte Milano e Venezia, sono in difficoltà: questo perché il modello di gestione è sbagliato, bisogna puntare su un modello più privatistico. Dopo aver fatto un lungo braccio di ferro con i sindacati, avevamo chiesto di mettere in liquidazione l’ente pubblico per trasformarlo in privato; con il commissariamento, invece, c’è da aspettarsi che nel giro di qualche anno le difficoltà finanziarie torneranno tante quante prima. Questo è il destino dell’Arena di Verona e di tutte le fondazioni liriche in Italia, che oggi hanno complessivamente 400 milioni di euro di debito, di cui 25 milioni sono veronesi. Alla fine dei conti, siamo tra quelli che stanno «meno peggio». Infatti le entrate, che prima erano migliori anche per la contribuzione pubblica, sono costantemente in calo.

D. Si attende un «Central Park» veronese, grande, immensa area che Rfi, Rete ferroviaria italiana, dovrebbe auspicabilmente passare al Comune. L’AD Maurizio Gentile ha rassicurato Verona. Cosa accadrà?
R. Questa amministrazione non rientra coi tempi nel compimento del programma perché le Ferrovie, proprietarie dell’area, hanno già dichiarato che non potranno liberarla prima del 2024, ossia oltre il mandato dell’attuale sindaco. Inoltre, sperare che le Ferrovie – le quali hanno valorizzato molte aree simili in altre città, come ad esempio Bologna – regalino al Comune mezzo milione di metri quadri, che frutta loro una voce in bilancio di circa 90 milioni, mi sembra sia una pia illusione. Anche da un punto di vista contabile il progetto è di difficile realizzazione, in quanto l’area è in parte di proprietà di Mercitalia Logistics, controllata delle Ferrovie dello Stato Italiane. Il mio predecessore Paolo Zanotto aveva proposto che metà dell’area – edificabile – restasse alle Ferrovie, e metà – il parco – venisse ceduta al Comune di Verona: questo, probabilmente, era un progetto più realistico.

D. La polemica sui tema sicurezza e degrado in città a Verona, esplosa poco dopo il nuovo insediamento, da cosa è stata generata?
R. Lo ha detto lo stesso segretario provinciale della Lega Paolo Paternoster in una conferenza stampa alla stazione: a Verona è peggio di prima. La sicurezza dipende da come si gestiscono le Forze dell’Ordine, in particolare la Polizia municipale. Vediamo cosa succederà. Stiamo documentando il problema sicurezza monitorando la presenza di senza fissa dimora e quant’altro, e lo facciamo andando in giro per le piazze, ai semafori, nei parchi, a filmare la situazione. Il coordinamento con le Forze dell’Ordine c’era già durante il mio mandato. Ma saranno i veronesi a valutare se le cose andranno meglio in questi anni. (ROMINA CIUFFA)




SEBASTIANO ZANOLLI: ECCO COME FARE, CON (MOTIV)AZIONE, LA GRANDE DIFFERENZA

«Io sono un manager, uno di quegli odiati o invidiati personaggi che passano la vita tra meeting e target, tra down-sizing e market share, tra presentazioni in power point e key account arrabbiati». Si presenta così, nel suo primo libro del 2003 («La grande differenza», Franco Angeli), Sebastiano Zanolli. Da allora sono cambiate molte cose. E infatti già scriveva: «La capacità di prevedere è senza dubbio una caratteristica dei grandi realizzatori», e specificava: «Non sto parlando di indovini o di lettura delle carte. Sto parlando dell’attitudine ad agire nel presente, avendo in mente il futuro». Citando Charles F. Kettering: «Tutti dovremmo preoccuparci del futuro, perché là dobbiamo passare il resto della nostra vita», personalmente scriverei: «Tutti dovremmo preoccuparci del futuro, perché là dobbiamo passare il resto del nostro presente».

Questo ha fatto Zanolli: si è talmente impegnato a comprendere come da un’azione oggi derivino le azioni di domani, come dall’autodisciplina scaturiscano risultati significativi, come dal benessere di un solo individuo derivi il benessere dell’azienda che lo impiega prima, dell’intera società dopo, che è divenuto uno «speaker motivazionale». Ante litteram: quando cominciò ad occuparsi di «motivare» (lui ci dirà, in questa intervista, che il suo obiettivo è «ispirare»), non esisteva la figura del «coach» o «counsellor», che tanto va di moda oggi. Ha precorso i tempi ed ora ispira gli ispiratori, motiva anche i motivatori. Lo paragonerei al suggeritore che è nascosto nel «gobbo» del palco, durante uno spettacolo in teatro. Colui che dice le battute giuste a chi le pronuncia dinnanzi alla platea.

Zanolli è colui che spiega alle aziende – non alla persona giuridica ma alle persone fisiche che la compongono – «perché» e non «come» raggiungere gli obiettivi. E nella crisi che il mondo sta vivendo, la depressione economica affianca quella patologica a tal punto da non distinguersi più quale, tra le due, sia la causa e quale sia l’effetto. Così l’azienda chiama Zanolli, che da Bassano del Grappa arriva, intriso di energia veneta, e spiega come sviluppare il sistema reticolare attivante, meccanismo che scatta quando si decida a darsi un ordine attraverso la sua continua ripetizione nella nostra testa, in modo che il subconscio si programmi per realizzarlo, attivandosi ed accrescendo la sensibilità e la consapevolezza verso le idee e le persone.

Convinzione e connessioni, ecco la chiave, l’effetto leva della nostra motivazione. Zanolli lo sa.

LA VIDEOINTERVISTA

L’INTERVISTA

Domanda. Manager, scrittore e speaker motivazionale. Qual è stato il suo percorso di vita?
Risposta. Dopo aver preso la laurea in Economia e commercio ho cominciato a lavorare da subito come venditore, avendo per caso incontrato il titolare di un’azienda di tessuti che cercava un assistente che lo seguisse in giro per il mondo. Mi piaceva viaggiare, e dovevo imparare a proporre merce, cosa che io, essendo figlio di un artigiano, non avevo imparato. Avevo imparato però che funzione del benessere nella vita è il lavoro, e più si vuole più si deve lavorare. Entrato nel mondo delle vendite, mi resi conto che non era così, che il venditore non ha diritti, li ha il cliente, e a quel punto viene a mancare la connessione logica tra lavoro e risultati che è invece presente nel lavoro di un operaio. Cominciai così a confrontarmi con gli addetti ai lavori, rendendomi conto che la maggior parte di essi non sapeva darmi risposte, così decisi di scriverle io: nel 2003 uscì «La grande differenza», che ebbi la fortuna di pubblicare con la Franco Angeli attraverso un amico che mandò il mio manoscritto alla redazione. Il libro ha cominciato a vendere, quindi vendere bene, ed è ora un «long seller» da 24 ristampe. Ne sono nati argomenti di approfondimento.

D. Dove nasce l’azione?
R. C’è chi attende di far qualcosa che dia significato e che renda significativa la propria esistenza, ma non si mette in moto. Si deve muovere se stessi e muovere gli altri in relazione a risultati economici. Non a tutti interessa la connessione tra le azioni ed il risultato che devono ottenere. Ho riflettutto sulle galassie degli obiettivi personali: la paura, la presenza di altri che possono essere di supporto, la possibilità di essere a sua volta di aiuto, le reti di direzione, tutti temi relativi al «marchio personale», non alla persona ma al personaggio. Avevo notato che, mentre nell’aspetto esistenziale si è persone ed è importante essere significativi per se stessi, nel gioco sociale di mercato e liberista vale il personaggio, la sovrastruttura che si crea attorno alla propria persona. Mi sono accorto che ci sono personaggi che possono portare a casa risultati senza essere persone, e persone che non essendo personaggi non riescono a portare a casa risultati. Vincent Van Gogh e Pablo Picasso sono due esempi speculari: uno muore povero, l’altro riesce a sfondare in vita. Non voglio soffermarmi troppo sul tema della ricchezza, ma come manager l’aspetto del risultato economico resta importante: negare che il benessere materiale sia una cosa cui ambiamo, non fosse altro che per mantenere i genitori anziani, è impossibile. Ho scritto molti altri libri, ed hanno ampliato la mia superficie di contatto con il pubblico non aziendale mentre continuavo a fare il manager in azienda. I miei libri mi hanno fatto promozione e le aziende hanno cominciato a chiamarmi per fare delle consulenze. Così è nato questo lavoro. Ed ho la fortuna di avere grande passione per una materia per cui il mercato è disponibile a pagare.

D. Chi la cerca?
R. Mi chiamano per la formazione in aula o all’interno di kermesse. In quest’ultimo caso, è richiesto un intervento più mirato che è racchiuso in un tempo breve, teso a motivare istantaneamente.

D. In cosa consiste il suo lavoro da manager, e come si affianca alla strada parallela dello «speech» aziendale?
R. Il mio lavoro consiste nel fare «employer branding», quelle attività utili a tenere lucido il marchio dell’azienda non tanto nei confronti dei consumatori, cui pensa il reparto del marketing, bensì nei confronti degli attori che hanno a che fare con il marchio da fuori, quindi università, organizzazioni, enti politici, Comuni, ossia coloro che devono avere una buona idea del marchio, inclusi i dipendenti, i talenti e le persone che escono dalle università ed aspirano ad un luogo di lavoro come quello che l’azienda offre. Mi occupo dell’aspetto qualitativo dell’organizzazione, non tanto per i consumatori quando dal punto di vista del benessere dei lavoratori, coinvolgendo il tema dell’attrattività dell’azienda per uno studente che vuole crescere. Al di là del fattore economico, lo studente che si affaccia sul mercato si pone questa domanda: qual’è l’azienda in cui si sta meglio, che mi farà crescere di più, che mi arricchirà? Tale lavoro si sposa molto bene con i temi del facilitatore, anche se spesso mi definiscono un «motivatore» o un «coach»; non che io mi ribelli a queste definizioni, sono solo più semplici.

D. È davvero possibile «motivare» con un discorso o con un libro?
R. Il motivatore presume di entrare in un posto ed uscirne dopo aver motivato le persone che lo hanno ascoltato. Nella mia esperienza non ho mai visto nessuno motivare qualcun altro: ho visto qualcuno «ispirare» qualcun altro. La motivazione è sempre frutto di ragionamento, di un sentimento interno. Si può preparare la tavola, sistemare il fiore, poi è il meccanismo che si sviluppa all’interno della persona che deve mangiarvi a farle apprezzare il contesto e scegliere tra un ristorante e l’altro. Una motivazione sorta per il solo fatto di aver ascoltato uno «speech» è una motivazione di breve durata, come camminare sui carboni ardenti. Possiamo lasciarci ispirare, ma la motivazione è più sofisticata.

D. La sua storia da «ispiratore» è iniziata in un momento in cui non era troppo in uso del resto, e figure simili non esistevano. Ora può essere l’ispiratore degli ispiratori, mentre prima non aveva qualcuno cui ispirarsi e da cui, in seconda facie, essere motivato.
R. Vero. Questo è importante. Mi citano nelle tesi, mi cercano. Il fatto di essere partito in un momento in cui il mercato non presentava tale offerta mi ha consentito di fare quello che faccio e di dedicarmi ad entità plurime, creando relazioni costruttive: infatti, lavorando con le persone sulla loro motivazione e in modo accorto ed onesto, è difficile che non si sviluppino buoni rapporti. Questo fattore apre un altro ventaglio di possibilità. Anche l’online si avvale delle raccomandazioni degli altri; il «feedback», che è frutto di un’esperienza e di una relazione, è sempre più importante. Credo molto nello strumento delle relazioni, e va trattato con cura perché la linea che c’è tra il raccomandare chi è meritevole e la malversazione è sottile, e la fa da padrona la morale che ciascuno di noi sposa.

D. La democrazia di internet dà più manforte alla lealtà di queste relazioni, contrastando una forma di favoritismo verso amici attraverso il «feedback»?
R. C’è assolutamente più trasparenza.

D. In un momento di economia stagnante e di «low profile», come «ispirerebbe» un’azienda depressa, in senso economico ed in senso psicologico, che deve trovare delle basi in un mondo di altre aziende che si trovano nella medesima condizione?
R. Per me non esiste l’azienda, mi riferisco sempre alle persone all’interno della stessa. Quando mi chiamiamo a fare interventi di tipo motivazionale, ossia che serva a cambiare stato alle persone, suggerisco di valutare l’obiettivo: crearne uno interessante fa nascere spontaneamente una motivazione. Il problema sorge quando l’azienda ha un obiettivo che il lavoratore non avverte come proprio, o non capisce. La prima dice al secondo come deve cambiare per spostarsi da un punto A ad un punto B; cambiare, per la base aziendale coincide con un maggior carico di lavoro, una maggiore flessibilità, velocità aumentata, non sempre un aumento di stipendio. Il «motivatore» deve dimostrare come l’obiettivo che l’azienda si pone in un dato momento costituisca una tappa fondamentale per arrivare all’obiettivo specifico dei singoli individui. Ossia: perché il lavoratore sia soddisfatto, si deve per forza passare per la soddisfazione aziendale. In questo modo e con tale consapevolezza si crea motivazione nel singolo.

D. Nella maggior parte dei casi, però, l’obiettivo che motiva il lavoratore si semplifica in un solo elemento: la retribuzione.
R. Questo, in un’economia stagnante, è molto limitante. Per qualche motivo l’azienda potrebbe non avere la capacità di pagare di più, ma a conti fatti quello che diciamo è una mezza verità: la gente non è motivata dallo stipendio. O meglio, il congruo stipendio è senza dubbio un fattore igienico, ma dopo alcuni mesi dall’aumento della remunerazione, questo non fornisce già più la motivazione che ne era alla base. Ciò non vuol dire che non si debba pagare i dipendenti, tutt’altro; ma se si pensa di poter motivare i singoli solamente con i soldi si sbaglia. Senza considerare che a volte l’azienda non può nemmeno farlo, e spesso deve addirittura tagliare in quanto carente di risorse adeguate. Il lavoro da fare in questo caso verte sempre sul significato: domandare il senso di ciò che il lavoratore sta facendo. In che modo sarà differente? Come sarà migliore una volta entrato nel percorso di cambiamento proposto dall’azienda? Questo passaggio, che non è affatto semplice, avviene attraverso un ragionamento che va fatto con i singoli, riflettendo sui loro obiettivi, mettendo poi sullo stesso tavolo la direzione dell’azienda e la direzione individuale. Quando, attraverso ragionamenti che in parte sono di pancia e in parte di testa, si riesce ad allineare i due cerchi azienda-individuo e a creare un’intersezione sempre maggiore, è lì che scatta la motivazione: esattamente là dove il cerchio della testa (fare qualcosa perché conviene) e il cerchio della pancia (fare qualcosa perché piace) sono il più sovapposti possibile. Grazie a questa congruenza, il sacrificio non è più tale e vissuto negativamente. Questo capita a pochi, fortunati personaggi. Possiamo sperare che una piccola intersezione tra i due cerchi ci sia. Il mio lavoro è quello di cercare di allargarla il più possibile soprattutto dove emozione e pensiero non coincidono: per uno stilista è più probabile che ciò che piace coincida con ciò che conviene, per chi produce bulloni tale congruenza non è tanto immediata, se tutta la giornata lavora sulla pressa. Ci sono impieghi in cui tutto ciò che vale è: «Dammi i miei mille, prendi le mie 8 ore», ma non sono quelli che auspichiamo per i nostri figli, auguriandoci per loro un lavoro che riempia anche il cuore oltre alla tasca e alla testa. Vengo di solito chiamato, in realtà, a parlare in ambiti nei quali le mansioni non sono così acri: per pulire degli uffici non si chiede motivazione di solito.

D. Per chi zappa la terra, paradossalmente, potrebbe esserci molto più cuore. Più è grande la struttura, meno è motivante la mansione – mi viene in mente la rivoluzione industriale, ancor di più il film di Charlie Chaplin «Tempi moderni».
R. La sfida che hanno strutture aziendali è proprio quella di tenere motivate le persone, e sono imprescindibili alcuni meccanismi fondamentali, primo tra tutti l’ascolto delle persone, che sempre dicono cosa vorrebbero essere o vorrebbero avere. È evidente che una economicità è richiesta e non dico che bisogna ascoltare tutti, ma non dico nemmeno che non bisogna ascoltare nessuno. Questo dipende dalla volontà di chi ha in mano le leve organizzative: se è in grado di allineare gli interessi aziendali con quelli individuali, l’azienda ha vinto.

D. Diverso è il caso delle strutture pubbliche?
R. Sì. Quando lo statale ha una totale assenza di motivazione, come è noto, è perché è troppo grande la distanza tra il senso del lavoro ed il suo svolgimento: nessuno capisce più perché sta apponendo un timbro su un foglio, e nessuno chiede più nemmeno se sia stato fatto, con conseguente deresponsabilizzazione e demotivazione. Quando non c’è un perché, nessuna cosa è motivante, ma questo è un problema del sistema. Nel pubblico, essendo storicamente mancati i controlli necessari, tale problematica si è diffusa di più.

D. Com’è cambiato, negli anni, il senso di apartenenza ad un’azienda?
R. Il più grande cambiamento è stato quello provocato da internet, con l’accesso alla conoscenza generale in qualunque momento. Ciò vuol dire anche che qualunque cosa si conosca in un dato momento è irrilevante, motivo per cui i giovani non danno più peso alle competenze del professore e, di riflesso, al professore stesso. Cosa resta? Bisogna investire nella capacità di fare connessioni, che è ancora appannaggio degli umani e non delle macchine. Se si ha un lavoro che non ha bisogno di connessioni, il livello minimo di salario è in effetti determinato dalla disperazione degli operatori; in un lavoro di tipo euristico-creativo, la capacità fondamentale è quella di inventare cose e connessioni per creare, attraverso una sintesi, qualcosa di importante.

D. In realtà la motivazione serve non solo per fare il lavoro del «bullone», ma anche per il creativo che, a maggior ragione, ha bisogno di ispirazione e non di meccanicità.
R. Dipende sempre dall’intelligenza con cui si affronta la vita. Non è strano che si sia demotivati se si adotta un approccio statico, ossia si rinuncia alla curiosità.

D. Il punto è che la curiosità, a volte, è come la bellezza: o si è belli o si è brutti. È nel Dna. Poi, e solo in seguito, diviene una questione soggettiva, per cui ad alcuni sembra bello qualcosa che per altri non lo è. Ma alla base si hanno categorie che possono applicarsi sin dalla genesi. La curiosità non fa parte di queste?
R. È vero che la bellezza va comunque aiutata e mantenuta, ed è così anche per la curiosità.

D. Ma in questo caso, quello della curiosità, c’è anche una sorta di «metapensiero»: bisognerebbe avere la curiosità di essere curiosi per divenirlo.
R. C’è un motivo fondamentale per cui dovremmo comunque dare significato: il mondo funziona a partire dai nostri bisogni base, che crediamo di aver colmato, e in quanto già soddisfatti in via generale pensiamo di dover partire da questo livello superiore senza far più riferimento ai bisogni base. Tanti si sono dati da fare, ma se domattina il mondo smettesse di produrre energia elettrica, saremmo da capo.

D. Ossia, bisognerebbe far capire che se siamo demotivati tutti, ci fermiamo tutti. E che non possiamo demotivarci a turno, per far proseguire il mondo.
R. Esattamente. Alla fine, il punto chiave è quello degli esistenzialisti: che senso ha la vita? Da un punto di vista tecnico nessuno: si viene al mondo, poi si muore.

D. Il motivatore non è il primo esistenzialista, che si è dovuto motivare?
R. Lo è per forza di cose. Si deve piantare un chiodo e dire: questo è. Chi è interessato alla motivazione dice: io sono contento per il fatto che sono. Non c’è niente da spiegare. Sono, e quindi sono contento. E da lì si parte a dare un continuo significato in una storia che è la nostra e che noi stessi ci raccontiamo. Ma essa è vera? Non ha rilevanza che lo sia: gli avvenimenti di una storia sono oggettivi, il significato lo assumono nel momento in cui vengono messi all’interno di una relazione da parte del narratore. È proprio lì il lavoro: dare senso a qualcosa che senso non ha. (ROMINA CIUFFA)

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SOLETERRE (DAMIANO RIZZI): PSICO-ONCOLOGIA, IL CANCRO NON DEVE ESSERE UNA «TERRA SOLA»

Il cancro è una malattia a base somatica, che colpisce il corpo. Ma non risparmia la mente: l’abbattimento psicologico che si verifica a causa delle difficili cure e dell’aspettativa di vita, spesso declinata in negativo, ha una componente molto forte sulle possibilità di guarigione, a partire dall’influenza sullo stile di vita cui il paziente oncologico aderisce. La famiglia è coinvolta integralmente nel processo psicologico. La Sipo, Società italiana di psico-oncologia, ne prende atto sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1985: sorta come associazione integrante le figure professionali (psicologi, oncologi, psichiatri e altri operatori sanitari) che lavorano nell’ambito dell’oncologia e dell’assistenza alle persone malate di cancro e alle loro famiglie, promuove la conoscenza, il progresso e la diffusione della psico-oncologia in campo clinico, formativo, sociale e di ricerca.

Iniziativa di rilievo l’indizione di una giornata nazionale di psico-oncologia, quest’anno (22 settembre) alla sua seconda edizione. Vi ha partecipato la Fondazione Soleterre-Strategie di pace onlus, organizzazione umanitaria che opera per garantire i diritti inviolabili degli individui nelle «terre sole», con progetti e attività a favore di soggetti vulnerabili in ambito sanitario, psico-sociale, educativo e del lavoro, per l’affermazione di una cultura di solidarietà. Oltre che in Italia (a Pavia), è attiva in Ucraina, Costa d’Avorio, Marocco, El Salvador, Congo e Uganda, dove adotta metodologie di partenariato e di co-sviluppo per promuovere la partecipazione dei beneficiari degli interventi nei Paesi di origine e in terra di migrazione, e garantire la loro efficacia e sostenibilità nel tempo.

È presieduta da Damiano Rizzi che, dopo aver collaborato con organizzazioni umanitarie internazionali, nel 2001 ha, con altre 5 persone, creato Soleterre. Ha così lavorato e coordinato progetti di sviluppo umano in Bosnia Erzegovina, Kosovo, Costa d’Avorio, Albania, Romania, Marocco, Moldavia, Ucraina e Italia. Per le iniziative a favore di bambini poveri e malati di cancro in Ucraina ha ottenuto la targa d’argento della Presidenza della Repubblica italiana.

Domanda. La seconda giornata nazionale della psico-oncologia: chi coinvolge?
Risposta. Coinvolge a livello nazionale, regionale e provinciale diversi professionisti e associazioni che garantiscono ai pazienti malati di tumore e ai loro familiari sostegno e supporto psicologico e sociale, con una visione che considera le dimensioni complesse della malattia oncologica.

D. Quali sono i suoi obiettivi?
R. L’intenzione è quella di offrire un’assistenza attenta a una migliore qualità di vita durante tutto il percorso di malattia. Una caratteristica fondamentale del modello dell’oncologia pediatrica, sviluppato in Italia all’interno dei centri Aieop, Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica, è proprio quella della gestione multidisciplinare della cura. In particolare, l’avere indetto una giornata su questo tema significa impegnarsi a diffondere e sostenere ruolo e funzioni nella psico-oncologia fra i cittadini, per diffondere un approccio integrato alla conoscenza e alla cura delle malattie neoplastiche.

D. In che modo Soleterre ha partecipato al progetto?
R. Soleterre è impegnata fin dalla sua nascita, nel 2002, in progetti e interventi in difesa del diritto alla salute intesa, come indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità fin dal 1948, come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattia o infermità». Dal 2010 ha attivato il Piop, Programma internazionale per l’oncologia pediatrica, per garantire accesso alle cure in Paesi a basso e medio reddito e cure di qualità in Italia. La Fondazione aderisce alle principali società scientifiche internazionali che si occupano di oncologia, quali la Uicc, Union for international cancer control, o la Cci, Childhood cancer international. In occasione della seconda giornata nazionale della psico-oncologia, Soleterre è intervenuta a Brescia al convegno «I bisogni psico-sociali del malato e del caregiver. Esperienze sul campo in Lombardia», presentando i dati di una ricerca realizzata sui principali bisogni dei bambini malati e dei loro genitori, condotta in Costa d’Avorio, India, Marocco e Ucraina comparandoli con i dati italiani. Abbiamo anche presentato la Carta dei servizi di psico-oncologia realizzata presso l’oncologia pediatrica dell’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico San Matteo di Pavia.

D. Quali sono i bisogni psicosociali del malato e del caregiver?
R. I dati sono stati raccolti nel corso del 2013 da una ricerca finalizzata alla creazione di un confronto internazionale di bisogni e necessità dichiarate da medici, psicologi e familiari di pazienti affetti da tumore infantile. In linea con gli studi in letteratura focalizzati sulla costruzione di rappresentazioni mentali di malattia (RM) e con la teoria dell’autoregolazione di Leventhal, il principale bisogno psicologico espresso attiene alla sfera delle conoscenze e delle aspettative circa la malattia. Dalla nostra indagine risulta che per definire il percorso di senso occorre avere maggiori informazioni utili alla possibilità di rielaborazione personale, oltre ad un atteggiamento empatico dei medici e del personale. Tale tipo di bisogno espresso, in termini più generali, atterrebbe alla sfera della psico-educazione nella sua componente cognitiva, e dell’educazione socio-affettiva nella sua componente emotiva, che se considerate correttamente possono migliorare la capacità di contenimento emotivo dei genitori e dei bambini migliorando anche la compliance terapeutica, ossia la componente comportamentale. Per quanto attiene alla sfera sociale, dalla ricerca emerge che i principali bisogni espressi riguardano le complesse condizioni del contesto socio-economico e della difficoltà di accesso ai sistemi sanitari e alle cure, «difficoltà finanziarie e costi troppo elevati» in Costa d’Avorio, «un luogo migliore in cui ricevere cure» in India, «costo degli esami e delle medicine troppo elevato» in Marocco e «cure troppo care e trasfusioni a pagamento» in Ucraina.

D. Come nasce e in cosa consiste, esattamente, la Carta dei servizi di psico-oncologia della Provincia di Pavia?
R. Nasce dal bisogno di pubblicizzare i tanti servizi attivi nel territorio pavese, dentro e fuori gli ospedali, allo scopo di far sapere all’utente che esistono e che sono a sua disposizione. Lo scopo è diffondere tali materiali in collaborazione con ospedali e università al fine di fare incontrare la domanda di servizi e la sua offerta.

D. Siete operativi, come Soleterre e Sipo, solo in Lombardia, o anche nel resto del territorio?
R. Soleterre è attiva in campo oncologico pediatrico in Italia a Pavia e nel mondo in Costa d’Avorio, Marocco, Ucraina e Uganda. La Sipo è attiva in tutta Italia e a livello internazionale attraverso l’Ipos, ossia International psycho-oncology society.

D. Quali sono le vostre iniziative specifiche? Che impatto hanno?
R. Le nostre iniziative specifiche di supporto psicologico riguardano 10 ospedali, 29 associazioni e 18 enti pubblici in 5 Paesi di 2 continenti. Aiutiamo 1395 nuclei familiari che oltre al sostegno psicologico ricevono anche aiuti in termini economici per accedere a diagnosi, medicinali, materiale sanitario ecc. attraverso un fondo d’emergenza creato per fornire aiuto economico diretto alle famiglie meno abbienti. Il sostegno psicologico riguarda anche 347 tra medici e medici specialistici, infermieri e altre figure socio-sanitarie per cui è a disposizione il servizio e che ricevono formazione continua sul tema dell’oncologia pediatrica. Inoltre, la Fondazione Soleterre in ogni casa-famiglia ha attivato un servizio di psico-oncologia. Le case-famiglia in Ucraina, Costa d’Avorio e Uganda hanno accolto 293 famiglie garantendo vitto e alloggio, supporto psicologico e attività ricreative.

D. Qual è l’attuale stato delle ricerca oncologica prima, e psico-oncologica poi, in Italia e nel mondo? E quale lo stato delle strutture ospedaliere e cliniche private nel nostro Paese, anche in confronto con la situazione globale?
R. In Italia e nel mondo occidentale la ricerca oncologica è sempre in evoluzione. Grazie all’immunoterapia, alle terapie target, a chemioterapia, chirurgia e radioterapia, i pazienti oncologici vivono più a lungo. In Italia il vero problema resta quello del finanziamento pubblico alla ricerca, che è presente in una logica «emergenziale». Per fortuna esistono tante organizzazioni private che la finanziano. Le condizioni degli ospedali sono molto eterogenee tra loro con una difficoltà evidente in alcune aree del sud del Paese. Nei Paesi a basso e medio reddito, oltre a non fare ricerca, spesso non si ha accesso nemmeno a quella del mondo occidentale. Le condizioni degli ospedali pubblici sono troppo spesso insufficienti nei servizi di base, dalla diagnostica ai protocolli di cura.

D. In che modo la psicologia può aiutare il paziente oncologico e le sue famiglie?
R. Le evidenze scientifiche indicano che gli interventi psico-oncologici comportano una significativa riduzione del dolore, dell’ansia e della depressione, un miglioramento della qualità di vita e un’azione positiva su diversi parametri biologici indicatori di stress, quali il cortisolo. Il supporto psico-oncologico è considerato «l’altra metà della cura» e influisce positivamente sui risultati delle terapie.

D. Siete attivi anche nella psico-oncologia pediatrica: come?
R. Lo siamo quasi esclusivamente in ambito di oncologia pediatrica attraverso attività di educazione alla salute, diagnosi precoce, accoglienza, cure mediche, sostegno psico-socio-educativo, networking, sensibilizzazione e advocacy.

D. Il cancro è una «terra sola»?
R. Il cancro è una malattia che va curata e per fortuna i bambini, se ben curati, possono avere alti tassi di sopravvivenza. Purtroppo in molte aree della terra i bambini malati di tumore non vengono curati, e allora il cancro diviene una «terra sola».

D. Fondazione Soleterre: come nasce, cos’è, di cosa si occupa, com’è strutturata, come si regge, in che modo è supportata: una descrizione generale della Fondazione.
R. Soleterre è una fondazione partecipata nata circa 15 anni fa con l’intenzione di affermare per tutti gli individui il diritto ad essere curati. Lo abbiamo sempre fatto con tutte le nostre forze grazie all’aiuto di tanti donatori italiani e non solo. Soleterre è anche una concreta possibilità di cambiare davvero con tenacia e pazienza le cose che non vanno, poco a poco ma con tanta speranza e fiducia. Siamo circa 100 professionisti con competenze in diversi ambiti – medicina, psicologia, gestione e sviluppo dei progetti umanitari, comunicazione, raccolta fondi – che credono nel dovere di applicare veramente i diritti umani scritti nelle diverse costituzioni e leggi.

D. Lei di cosa si occupa?
R. Mi occupo, come psicologo, della supervisione nell’ambito del supporto psicologico e sociale del Programma internazionale per l’oncologia pediatrica. Ho personalmente contribuito ad avviare i progetti nelle aree di intervento e, come presidente della Fondazione Soleterre, curo i rapporti istituzionali e una parte della raccolta fondi. Cerco ogni giorno di dare speranza e futuro per poterne regalare una parte consistente alle altre persone. Sono sposato e ho due figli a cui vorrei dire un giorno di avere fatto al meglio la mia parte per migliorare le cose che non vanno. (ROMINA CIUFFA)

 

 




RICCARDO VITANZA (PAROLE & DINTORNI): COMUNICARE NON SOLO MUSICA, NON SOLO PAROLE, MA ANCHE I LORO DINTORNI

Dintorni. Ossia tutto ciò che c’è intorno alle parole, e non solo. Questo è Riccardo Vitanza, numero uno della comunicazione musicale in Italia che rappresenta, quale ufficio stampa, artisti del calibro di Francesco De Gregori, Zucchero, Claudio Baglioni, Francesco Guccini, Luciano Ligabue, Elisa, Renato Zero, Charles Aznavour, Vinicio Capossela, Umberto Tozzi, Piero Pelù, e infiniti altri simboli musicali, come anche artisti emergenti. Lui li individua, li scopre, li sceglie, li produce attraverso la sua società, Bollettino Edizioni Musicali, e ne fa, attraverso Parole & Dintorni, oggetto dell’interesse della stampa italiana.

Con lui un team di giovani, sul suo imprinting formati ed educati alla cultura giornalistica e alla deontologia dal 1990 ad oggi, così immessi nel mercato anche a partire dalle sue lezioni all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove è docente nel corso di «Ufficio stampa e comunicazione» del master in Comunicazione musicale. Con Parole & Dintorni è anche consulente per la comunicazione di associazioni, società, locali, manifestazioni, progetti, nonché di attori e personaggi dello spettacolo.

Vitanza nasce a Massaua, in Eritrea, l’8 ottobre 1965, con la passione per il mondo dei giornali, che si manifesta sin dalla tenera età. Di umile famiglia, trasferitosi in Italia, dopo aver interrotto gli studi di Giurisprudenza con cinque esami sul libretto nel 1987 comincia a lavorare nel campo della comunicazione come copywriter, e nel 1988 entra nel mondo dello spettacolo come autore di testi, curatore di un periodico e addetto stampa per conto del primo locale afro-latino in Italia, lo Zimba. Nel 1990 inizia l’attività di freelance e si specializza come ufficio stampa nell’ambito musicale, costituendo la ditta individuale Parole & Dintorni. I suoi primi clienti sono Jovanotti, Pino Daniele e Giorgia. Nel 1997, Parole & Dintorni diventa una srl.

Per conoscere il mercato musicale in Italia, bisogna parlare con Vitanza.

Domanda. Riccardo Vitanza e dintorni: qual’è la sua storia?
Risposta. Nel 1987 ho iniziato, a Milano, come copywriter in un’agenzia di pubblicità, quindi ho lavorato per un locale di musica afro-latina e, dopo aver digerito tutti i libri di pubblicità e di giornalismo, mi sono occupato di ufficio stampa esordendo con il tour di Ziggy Marley, su proposta del proprietario del locale con cui collaboravo. È nel 1989 che nasce «Riccardo Vitanza» come ditta individuale, per divenire successivamente «Parole e Dintorni di Riccardo Vitanza». Ero solo e lavoravo in una casa-ufficio di 20 metri quadrati fino al 1994, quando presi il primo collaboratore. Nel 2000 mi trasferii nell’attuale sede di Via Stradivari, con circa 15 persone tra esterni ed interni. Con Trident, che organizzava la gran parte dei tour italiani, cominciai subito ad occuparmi in maniera concreta di artisti importanti, in un rapporto mediato dal capo della società con cui dialogavo. Lavoravo molto con gli stranieri, per conto di varie società, come per l’ultima tournée italiana dei Ramones nonché per i primi rapper d’oltreoceano: Public Enemy, Beastie Boys, Ice Cube, Ice-T, tanto rock e britpop prima ancora che arrivassero Oasis e Blur. Ho lavorato anche con questi ultimi, in particolare il leader Damon Albarn, all’inizio della loro carriera: facemmo 98 paganti in un locale a San Colombano al Lambro, vicino a Lodi. Ho curato l’ufficio stampa del primo concerto dei Cranberries, con 400 persone, e il primo concerto in Italia di Jamiroquai. Ho dunque seguito la comunicazione per i primi esponenti dell’easy jazz. Intorno al 1997 Pino Daniele, Jovanotti e Giorgia mi chiesero di occuparmi di loro come ufficio stampa personale. Nel 2005 mi sono ricongiunto con Ferdinando Salzano, che aveva lasciato Trident per guidare F&P Group e che ora gestisce l’80 per cento della musica italiana per la produzione e l’organizzazione di concerti, e dal 2005 sono il suo comunicatore di fiducia.

D. Come sceglie i componenti del suo team di Parole & Dintorni?
R. Quando appenderò il comunicato al chiodo, ricorderò di aver formato e valorizzato tante persone: è questo il principio da cui parto. Nell’ambiente discografico ne ho cresciute moltissime: di alcune ho trovato un curriculum in cassetta postale, altre le ho conosciute in situazioni differenti, spesso sono miei allievi provenienti dai corsi che tengo all’Università Cattolica di Milano. C’è chi rimane, c’è chi va via. Sono un sostenitore della «quota rosa» in quanto considero la donna lavoratrice superiore all’uomo: attualmente, un ragazzo e 12 donne lavorano per me. Alcuni di loro volano via dopo la formazione, assumo tutti e, rispetto al modus operandi dilagante, dopo che mi è stato dimostrato il valore, dallo stage ai piccoli contributi passo all’assunzione a tempo indeterminato. Mio padre, umile benzinaio, mi ha sempre detto: dai valore al lavoro. Ho un team favoloso che lavora oltre gli orari d’ufficio, e se loro mi danno io do anche di più. Molti datori pagano in nero, a partita Iva, con rimborso: io preferisco assumere. Sebbene ciò mi dia più oneri, ho la sensazione che la persona lavori solo per me e la considero un socio di fatto. La precarietà è un aspetto che non condivido, è deleteria. Più si rende precario il lavoro per un giovane, più lo si destabilizza, in quanto perde fiducia in se stesso e nelle istituzioni, nel Paese e nella vita.

D. Lei ha i più grandi musicisti affiliati al suo ufficio stampa: come avviene la procedura di scelta?
R. Non scelgo, sono sempre scelto. Sono molto bravo a fare il PR per gli altri, ma non lo sono per me stesso anche perché, essendo un capo operativo in ufficio, controllo i miei delegati e sono a stretto contatto con tutti, così è difficile trovare il tempo per fare promozione al mio business. Sono più sulla riva del fiume e attendo che il cliente passi. C’è posto per tutti gli artisti, importanti ed emergenti, è chiaro che l’aspetto economico è modulato.

D. Non solo Parole & Dintorni: lei ha anche la Bollettino Edizioni Musicali. Di cosa si occupa?
R. Di produzioni ed edizioni musicali. Con essa ho lanciato Giovanni Allevi e due cantautori che si sono rivelati anche due grandi autori, Pacifico e Niccolò Agliardi. Due esempi su tutti: «Sei nell’anima» di Gianna Nannini, che ha scritto Pacifico, e l’ultimo album di Laura Pausini, che in parte ha scritto Agliardi. Lavorando su di loro anche come ufficio stampa, li ho aiutati a farsi conoscere, sono stato il volano della loro carriera. Ora sto lanciando Ylenia Lucisano, cantautrice pop folk, al cui nuovo album, in uscita in primavera, sta lavorando il produttore Taketo Gohara. Altri artisti che seguo sono la cantautrice Roberta Giallo; Giulia Mazzoni, pianista molto brava con base a Firenze che ho ceduto alla Sony pur rimanendone editore e comunicatore; due chitarristi classici, solo strumentisti, Roberto Fabbri di Roma e Renato Caruso di Milano. Sto seguendo anche un rapper, Peligro, che adesso sta lavorando al suo nuovo album prodotto da Marco Zangirolami, in uscita il prossimo anno. Ho coperto tutti i vari ambiti con i miei emergenti. Sono io poi che per loro tengo i rapporti e cerco di trovare il partner discografico adatto per la distribuzione. La cosa migliore a quel punto è non pretendere soldi dalla casa discografica ma darle la possibilità di investirli sull’artista. Io mantengo le edizioni e le royalties, ma dopo di me entra in campo una struttura che lavora molto anche sul marketing, attraverso iniezioni di denaro. Cerco sempre di mantenere un low profile, anche personalmente.

D. Su quale base sceglie gli emergenti da seguire?
R. Gli emergenti bussano alla porta, vado loro incontro, vedo se c’è una fattibilità. Li scelgo per la qualità. Il comunicatore è comunque un valore aggiunto, la conditio sine qua non è il prodotto: se è buono, è esaltato e messo in evidenza. A volte prendo anche prodotti non eccelsi ma interessanti dal punto di vista del progetto o del personaggio che lo propone. È anche il carattere dell’artista a fare la sua parte: non deve essere necessariamente il disco a funzionare, conta anche il personaggio. Progetti di questo tipo non ne seguo molti, ovviamente il criterio di scelta è quello della qualità. Ma l’attenzione deve essere rivolta a chiunque, altrimenti non esisterebbero un’etica e una deontologia.

D. L’ufficio stampa è un’obbligazione di mezzi, non di risultato, ma ciò spesso non è chiaro. Non si può garantire la prima pagina del quotidiano ma molti la pretendono: come reagisce?
R. Rispondo: noi operiamo nell’ambi- to dell’informazione, non nella pubblicità. Per quest’ultima, che spesso coincide con la pretesa degli artisti, possono acquistarsi spazi pubblicitari. C’è un rapporto fra ufficio stampa e giornalista fatto di complicità, malizia, alleanze, ma sempre nell’ambito di un’etica e deontologia professionale. L’ufficio stampa fa il proprio lavoro e lo fa bene, tanto che sottolineo sempre ai miei collaboratori di non impiegare superlativi assoluti, perché non siamo noi a dover dire che il disco è bellissimo: noi avvisiamo che il disco esce. L’informazione deve essere presente nel comunicato stampa, e questo è ciò che è richiesto a noi. Non possiamo etichettare il nostro artista, è un errore gravissimo.

D. I tempi sono cambiati. Ora artisti che hanno milioni di visualizzazioni su YouTube sono spesso stonati, mentre la musica di qualità è quasi bistrattata. Dove stiamo andando?
R. Sono cambiati gli scenari. Innazitutto negli strumenti mediatici, dal fax ad internet, fino alle foto, che prima erano diapositive. Prima si collezionavano vinili, ora si è passati allo streaming e al downloading. Nel mondo digitale lo streaming sta mandando in pensione il downloading, che a sua volta ha mandato in pensione il cd. In questo regime di «pensioni anticipate», per i corsi e ricorsi vichiani sta tornando in auge il vinile, che sta ridando vitalità all’industria che da Napster e pirateria ha ricevuto solo grandi danni. Il problema è che con lo streaming, attraverso Spotify ed altri aggregatori, non ci si accorge più che dietro tutto questo c’è un processo duro ed articolato, c’è un’industria che lavora. L’acquirente non lo capisce e non lo riconosce, così pretende musica gratis. Il successo di un artista ormai viene certificato sulla base dei like, delle visualizzazioni, dei followers. Parliamo di «plastica»: quello che conta in realtà è l’acquisto del disco o del biglietto di un concerto, non il like. Gli utenti scorrono e cliccano «mi piace» senza dare peso e importanza, su internet vale tutto e si vuole perpetuare ad ogni costo il quarto d’ora di celebrità. È così che si sono creati anche gli haters, coloro che seminano odio in quanto hanno la possibilità, attraverso i post sui vari social, di interagire con i loro artisti che, sebbene «amici», poiché collegati su un determinato network, non possono rispondere personalmente a tutti quei messaggi, avere un rapporto vero con i fan. Anche la mania del selfie è imbarazzante. Nel villaggio globale, quello che aveva ipotizzato Marshall McLuhan, il veleno è iniettato semplicemente con un tweet, gli insulti arrivano con semplicità. Un tempo c’erano i fan club, che facevano da tramite per inviare la lettera al proprio idolo; oggi tutti, dietro ad un computer, sono in grado di parlare e scrivono direttamente a chi vogliono senza mediazione. Ma ognuno è coevo del proprio tempo, è più facile che un giovane non conosca Bob Dylan non avendo la cultura adeguata, storica o musicale, quindi le storture diventano evidenti. È l’esercito dei selfie, come raccontato dalla famosa canzone di Takagi & Ketra di cui abbiamo curato proprio noi l’ufficio stampa. Il fisico ha lasciato il posto al digitale, e ora c’è lo streaming: il lettore cd in effetti non c’è più nemmeno nelle macchine e nei computer. Ma prediligo la cultura del possesso alla cultura dell’accesso. Siamo figli dei mutamenti tecnologici, dove ci portano non lo sappiamo.

D. Il parallelo è con la psicoterapia: se non la paghi, non funziona. Così la musica. Come tornare ad una musica di qualità e ad un’industria musicale che giri nuovamente?
R. Ascoltare un brano è un’educazione, e la parte educativa deve arrivare dalle istituzioni. L’ascolto «virtuale» non è un ascolto consapevole. Il suono è compresso, perciò diverso, e questo deve essere oggetto di una formazione musicale che dobbiamo fornire, combattendo il disinteresse verso la ricerca di una sonorità pulita. Vivendo con e nella cultura del consumo e dell’usa e getta, ai giovani d’oggi non interessa più la qualità musicale. Noi amavamo la puntina sul vinile, ma nell’attuale cultura dell’accesso, dove ciò che conta è il presente, non c’è pianificazione, e così non c’è ottica di conservazione. Tolte alcune eccezioni, nessuno programma più il futuro: perché comprare un cd?

D. La Siae è molto criticata, e sorgono nuovi mercati «free», della musica libera. Anche i musicisti odiano la Siae. Ha ancora ragione d’essere un ente come questo, in un mondo «mordi e fuggi»? Qual’è la sua opinione?
R. La Siae ha sempre ragione d’essere perché tutela e protegge il diritto d’autore, e questo è fondamentale. Chi ascolta la musica tanto maldestramente deve sapere che essa ha un lavoro dietro, che una canzone non cade dal cielo e la filiera ha dei costi. La musica va pagata perché non si crea gratis. C’è una proprietà intellettuale da preservare, c’è una creatività da tutelare, ci sono dei costi da sostenere in un lungo processo. Una volta che è stato inventato il masterizzatore, la gente ha cominciato a copiare dischi e rivenderli; così in seguito con lo streaming e tutto il resto. Questo è frutto della cultura musicale di oggi, ma la musica deve essere, comunque, pagata.

D. In questo «villaggio globale», come fidarsi dei nuovi artisti che, in realtà, sono per la gran parte esponenti di una musica scadente, anche grazie alle dinamiche dei realities? Perché acquistare un album «fisico» se la qualità non è più garantita?
R. Di questo la colpa è proprio delle case discografiche, che hanno aumentato indiscriminatamente il prezzo dei cd, uniformando tutti, sbagliando. Imperver- savano e imperavano in un momento, disinteressandosi del mercato e di altri rivoli di guadagno, per loro era importante solo vendere il disco a prescindere da come esso fosse e da chi fosse l’artista, purché produttivo in termini di guadagni. In realtà sugli artisti giovani incentivare l’acquisto con prezzi più popolari sarebbe stato ideale, mentre paradossalmente oggi sono i grandi artisti storici ad essere economicamente svalutati, in quanto i loro album sono ormai di catalogo. Ora che le case discografiche da «record company» si sono trasformate in «entertainment company», la sola vendita del disco non produce più il fatturato di una volta, ed esse cercano di guadagnare anche su altri comparti dell’artista: live, sponsorizzazioni, merchandising e simili. Ancora: ci vuole cultura.  (ROMINA CIUFFA)