USA: MA COME SI DICE, IN ITALIANO, “PICCIRIDDU”?

New York. Si lamenta perché, dice, in America non si parla che l’americano. Dice che le scuole, i media, i cervelli sono, monopolizzati. Si sente italiano più che americano e, a dirla tutta, in Italia c’è stato solo pochi giorni che, contati su 49 anni, non lo rendono proprio italiano. Ma dice «grazie assai» e «statte buono». Ascolta Lucio Battisti, Rita Pavone, Daniele Silvestri, Vasco Rossi. «Sonno» lo pronuncia «sono», e «gente» per lui è un plurale. Non è alto e in America questo non fa onore, soprattutto quando si tratta di giocare a basket. Ha occhi scuri, capelli scuri, cuore scuro. Suo padre è morto. Sua madre vive nell’America più profonda. Entrambi sono nati calabresi. I suoi nonni erano emigranti e così hanno dato alla famiglia una possibilità di crescere.

È tornato qualche anno fa al proprio paesino, arroccato sui monti dell’entroterra calabrese, per salutare un cugino. Ma l’avevano ucciso. Perché? Non lo sa. Dove? Non lo sa. Da chi? Non lo sa. Nessuno parla, come suo cugino. Mi vengono in mente «I cento passi» del regista Marco Tullio Giordana, e la storia di Peppino Impastato di Cinisi, che il padre aveva provato a mandare, ma guarda un po’, proprio in America, una meta a caso: non c’era riuscito, anche se l’idea di aprire una radio negli Stati Uniti l’aveva stuzzicato. Gli zii americani ce li aveva pure Peppino, ma era rimasto in Sicilia a fare propaganda contro Tano Badalamenti. Non che il cugino di «Grazie Assai» abbia avuto a che fare con Tano, ma «non lo so» hanno risposto pure a lui quando ha chiesto il perché. Un altro viaggio «Grazie Assai» se l’era fatto qualche anno prima, accompagnando suo nonno al cimitero, lo stesso. Li aveva aspettati tutto il paese all’aeroporto. È tornato! È tornato!

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità»: alza il volume della canzone di Daniele Silvestri mentre mi racconta che gli manca l’Italia e che suo cugino Gaetano l’aveva conosciuto solo negli ultimi anni, perché prima lui parlava poco l’italiano – s’interrompe e ripete: «Sempre perché qui non impariamo niente» -, e il cugino non una parola d’inglese. A dire il vero, poche pure di italiano: È tornato!

«È la solita vita, la solita rincorsa a una corriera già partita, perpetuo movimento sulla strada che all’andata, così come al ritorno, è sempre una salita». Sai, mi dice, era proprio un brav’uomo mio cugino Gaetano. Ha lasciato una moglie e tre figli. Andavo al paese e tutti mi volevano bene, mi facevano sentire di appartenere. «I belong», e stringe il pugno. Poi mi racconta che nell’Indiana, dove vive, ha tre amici napoletani. Sarebbero quattro fratelli, ma uno s’è perso per strada. Perché? Che è successo? Niente d’importante ma, mentre lo dice, ride, anzi ridacchia; ha rubato 50 mila dollari al fratello. E come? Un giorno è andato in banca, ha firmato i «segni» al posto del fratello e ha riscosso sull’unghia (ma sull’unghia non lo dice). Il giorno dopo la banca ha chiamato il fratello: perché avrebbe firmato assegni per una cifra non disponibile sul conto? Io non ho mai firmato assegni. Non ne sapeva niente, davvero. L’altro aveva da anni la delega in banca, anche in America questa volta la si è fatta franca. Chiedo: «E cosa è successo poi, fra i fratelli?», chiedo, perché m’interessa sapere più questo che non di come sia andata sul piano legale; più come una famiglia napoletana impiantata in America con varie Green Card e quattro ristoranti («Ma non sai quanto è buona quella pizza»), si mantenga nel tempo, se è vero che essere lontani dalla propria terra unisce.

Risposta? Sì, unisce. E perché allora, domando, un fratello avrebbe fatto questo all’altro? Perché aveva bisogno di soldi e la moglie, l’unica italiana tra le quattro spose per i quattro fratelli, qui non ci sapeva proprio stare, non ci voleva stare, non ce la faceva più. Mica è facile. «È la solita vita, è il solito miracolo che svolta la giornata, l’evento microcosmico di minima portata, una mancia ricevuta, una cena regalata; e con la dignità rimasta, volevo vederti arrivare vestita di seta, di festa, magari fare quattro salti in pista, ma forse è meglio se rimani là».

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità: una casettina di periferia, una mogliettina giovane e carina, tale e quale come te».

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Arrivato in Italia, lo arrestano per precedenti reati, e lui si guadagna il titolo: è ufficiale, è la pecora nera della famiglia. Che poi nera non è, ma solo impaurita, forse, come se qualcuno stesse tirando in aria colpi di fucile al gregge per farlo riagglomerare fuori dal suo rettangolo d’erba. Ed ora che è fuori – perché i reati commessi in Italia non erano poi così gravi -, attende che si prescriva quello americano, se già non è prescritto. Ppoi ci penserà. Più probabilmente non tornerà nemmeno, perché lui l’inglese, come pure i suoi fratelli che vivono da anni in America, non lo parla proprio. Non gli entra. È un bravo guaglione, lui e gli altri tre. Per fare la pizza la lingua non serve.

E, canta ancora Daniele Silvestri, «dovrò dosare la fatica, imparerò a parlare in questa lingua sconosciuta, sognando di riuscire, un giorno, a fare ricevuta tra gente compiaciuta e che di me si fida». Si fida? Chi si fida? «Grazie Assai» mi dice che «la gente italiana sono apprezzati in America», e qui viene il dubbio: ma se non ci fidiamo l’uno dell’altro in madrepatria? Ma se prima di firmare un contratto chiediamo pure di che quartiere uno è? Ma se siamo tutti cani con le museruole? No, forse qualcuno si salva.

«E non è piccola la sfida, querida, disperso in questo angolo d’Europa unita». Fidarsi pure in Europa, che ora ci è alle calcagna. Fidarsi della storia? Non ha insegnato nulla. Delle esperienze? Ma quelle di chi? Fidarsi di me? Questo mai. Quando anche una guerra decisa sei ore prima ha interferito nei rapporti umani e disumani, fidarsi? E di chi? Di lui. Lui quale? Indicalo meglio. Quello laggiù, con la cravatta? No, scusa, quello con il tatuaggio sul collo? Scusa, non so a chi ti riferisci. E poi si vede che quella cravatta è finta. Io direi più lei. Come lei, lei quale?

Dispersi in un angolo di vita, «ti metto la valuta in una busta, la spedirò per posta, ma poi non basta mica: se tu sapessi quanto costa la vita, sapessi quant’è faticoso riuscire a tenerla pulita». Dove sono le opportunità? Gli dico che è stato più fortunato lui di Gaetano, che non ha avuto nemmeno la possibilità di annusarla, l’America; di annusarla, l’Europa; di annusarla, l’Italia. Perché il lutto, dopo il suo funerale, è stato tenuto dalle donne per tre mesi. E poco prima, quando nel viaggio precedente il compaesano emigrato era tornato a casa orizzontale, gli uomini hanno allontanato le femmine, hanno aperto la bara e hanno controllato che la salma fosse dentro. Lui era lì, non capiva, perché allontanare le donne? Cosa succede ora?

La mia domanda era stata, inizialmente: cos’è una Funeral Home? E cosí chiude il capitolo e mi risponde: «Tutto questo per dirti che qui, in America, la Funeral Home ospita ed espone la salma, che poi viene portata al cimitero e sepolta». Ed io che credevo che si facesse festa davanti al morto, si mangiassero pasticcini, si bevesse vino e, sussurrando nella stessa o nelle stanze accanto, si spettegolasse su quante donne aveva avuto e sul vestito della figlia: «Che orletto mal fatto»! No, mi spiega, questa non è l’America. This is more British. La festa si fa in Europa. La festa, una cerimonia per commemorare il defunto.

Mi guarda, l’aria un po’ sognante, e mi dice: «Non vedo l’ora di tornare al mio paese». Il paesello su una rocca, lo sprofondo dell’Italia, è nascosto nel cuore di un grande americano. Opportunità, mi dice. Sì, è vero, sono nato fortunato. L’America è un Paese ricco di opportunità. Ma freddo. Ma duro. Ma conservatore. Ma schivo. Lo sa che è stato fortunato, perché è un Giano bifronte che conosce due realtà, una nel cuore e l’altra nel cervello. Racconta che suo padre, dopo i 18 anni, gli faceva pagare 20 dollari a settimana d’affitto e un dollaro ogni volta che non avesse sistemato la stanza. In America.

Dall’altro lato, sua madre cucinava, il padre tornava e leggeva il giornale, e i figli li hanno fatti perché Dio li ha voluti, secondo la tradizione cattolica: Italia. Lui sta bene, fa una bella vita, comoda, lavora duro e può permettersi i propri lussi, ma lo vedi che non è soddisfatto, lo senti che gli manca un pezzo, e te ne accorgi quando ti guarda e lucidamente ti dice che non si vuole legare, e poi ti domanda: «Ma come si dice, in italiano, picciriddu?» (ROMINA CIUFFA)




F.U.T.U.R.E.

F.U.T.U.R.E.
un racconto di Romina Ciuffa
Non c’è nulla all’interno della nave, assolutamente nulla. Nessuno la guida. F.U.T.U.R.E. è vuota.

In questo bar del Village il soffitto è coperto da animali a zigzag ritagliati da cartoni colorati e plastica. Volteggiano in aria come padroni. Qualche lesbica creativa ha tirato fuori le sue paure più grosse e le ha rappresentate, poi le ha appese tutte al Cubby Hole sulla Dodicesima Strada e quando non dorme, perché non vuole e perché i suoi mostri la inseguono nel letto, passa di qua, li guarda in faccia, dritti negli occhi e loro, danzando al suono di un jukebox vecchio modello, non fanno più paura. Non c’è niente di meglio che tirar fuori il mostro e guardarlo in faccia. Un whisky liscio aiuta e per questo intorno alle pareti colorate è sorto un locale, con la pretesa che sia solo per donne. I mostri della lesbica intimoriscono più, allora, qualsiasi avventore che non si troppo macho per entrare ed affrontarli. Amanda Moore mi siede accanto ed è bella. Non so chi sia, so solo che è bella. Mi ero alzata a prendere due birre ed ecco che si siede questa donna accanto alla mia amica, che per l’occasione ho lasciato sola fra le donne, beata tra di esse.

Si siede questa donna in tailleur dopo aver chiesto se la sedia fosse libera. No, in verità sono con un’amica, è a prendere da bere. Sei bella, davvero. Posso sedermi comunque? Sì, c’m’on, siediti, c’è comunque una sedia in più. E silenziosa fa un sacco di domande. Il suo silenzio chiede: sei gay? Sei davvero così bella? Ti piacciono molto gli uomini? Quella è la tua ragazza? E la mia amica, mentre mi attende, in silenzio altrettanto risponde, con due occhi verde imbarazzato: non sono gay. Non sono davvero così bella. Mi piacciono molto gli uomini. No, quella non è la mia ragazza. E il verde imbarazzato diviene azzurro mare quando Amanda la fissa e le fa un’altra domanda senza chiedere. E allora perché mi fissi cosí sin da quando son entrata? A questo la mia amica, che ho lasciato da sola al tavolo del Cubby Hole, non sa davvero cosa rispondere, perché l’ha fissata ininterrottamente da che Amanda ha messo piede nel locale. Questa modella di pochi anni, alta, con la cravatta e occhi predatori, questa maschietta con arte e parte, si fa guardare. Da tutte. E mentre butta giù tequila, io pure guardo la scena da lontano, e palpita il tavolo sotto di lei che lo sfiora con mani grandi, e la mia amica, alta quanto lei, si vede, non sa cosa si fa a una donna se sei una donna, e l’approccio va gustato come un Brownie quando fumi marihuana, senza sapore. Senza fame vera. Solo con quel desiderio di qualcosa che non vuoi davvero. Ma che ti piace l’idea di volere. È quello che sta accadendo ora, mentre ordino le birre e Amanda ordina una bionda confusa.

Torno al tavolo e Amanda, di cui non so il nome, si alza. La seguo e le chiedo d’accendere. La curiosità è donna e qui siamo tutte donne. Il sesso qua dentro non conta perché ce n’è uno solo. Finita la sigaretta, finita la birra, la mia amica continua a regalare occhi a questa mora incravattata, che finisce per essere più alta di lei – cosa che di solito non accade mai alle alte e le colpisce. Affondata mi guarda, e m’alzo quando Amanda viene al tavolo e dice di volermi parlare. Mi chiede cosa volevo da lei. Non voglio niente da te, come-ti-chiami. Si chiama Amanda, dice. E cosa fai, Amanda, e perché a New York ti metti a parlare italiano? Perché lavoro anche in Italia. Ha capito tutto quello che la mia amica mi ha detto di lei al tavolo, e sa che qualcuno ha ceduto, stanotte, sotto i mostri colorati di una lesbica impaurita dall’esserlo che li ha ritagliati in una domenica di neve. Che lavoro fai, se posso permettermi di chiedere? Sono una modella. Non faccio difficoltà a capire che non mente e che ha fatto copertine di Vogue. Il suo coming out è arrivato dopo ed ora è quasi un’icona gay, da quando ha deciso di tagliarsi i capelli alla maschio e di giocare coi motociclisti in bianco e nero e non più piume viola e raso sulle gambe lunghe. Mi dice no, la tua amica è bella, ma è etero. È straight. Basta con le straight: non più. Perché Amanda? Perché l’ultima mi ha fatto soffrire. Basta con le etero. Fanno soffrire più di tutto, come non potessi dar loro più che sesso, e nemmeno completamente a volte. Siamo solo fantasie per loro e restiamo in un mondo fantastico. Forse per questo atterra un Ufo nel Cubby Hole.

Atterra e tutti i mostri che ci sono dentro cominciano a danzare nel cielo e in terra, fra i piedi e fra le mani, e la lesbica che li ha disegnati si nasconde sotto il bancone del bar. Amanda non ha paura, anzi, la vedo a suo agio in mezzo ai mostri. La mia amica non si accorge di nulla ma io li vedo danzare e urlare al ritmo di un valzer solo violino. Li vediamo in poche. Io vedo fiamme arrossare il volto che ho riflesso nello specchio e ballerine con i piedi rotti. Vedo dolore e sensi di colpa. Gessi. Vedo menzogne, battute, vedo la società, vedo la famiglia di ciascuna di queste donne e la mia, vedo maschi mostrare i propri genitali, mandare fiori e fare pipì sul muro. Amanda fuma la sua sigaretta e la mia amica beve la sua birra. Trema la lesbica sotto al bancone ed io, che mi accorgo di ciò che sta accadendo, la vado a soccorrere. La musica là sotto cessa e in questo ritrovato silenzio le chiedo perché ha paura. Non vedi cosa sta accadendo? Sì. Tu puoi vedere? Sì, posso. E non hai paura anche tu? Molta. Un mostro giallo con due passi è davanti a noi e urla. Lei si ripara dietro di me, me lo trovo davanti e mi accorgo che assomiglia alla normalità. Mi accorgo che tutti questi mostri assomigliano alla mia amica ed hanno occhi verdi come i suoi. Cosa facciamo noi sotto al bancone mentre un gruppo di animali di cartone colorato balla valzer senza musica? L’Ufo che è atterrato apre le porte. La navicella ha una scritta cubitale che dice F.U.T.U.R.E.; una luce acceca me e l’altra in ginocchio dietro me, che si gira. Io preferisco guardare, coraggio, andiamo a fondo alla cosa, lascio un attimo la mano di questa sconosciuta terrorizzata che m’implora di restare e mi avvicino alla macchina. Appoggio lentamente il piede sulla piattaforma. Scivolo dentro.

Non c’è nulla all’interno della nave, assolutamente nulla. Nessuno la guida. F.U.T.U.R.E. è vuota. Posso ancora sentire tremare la lesbica da sotto al bancone e vedo tutti i suoi mostri danzarle accanto terrorizzandola. D’improvviso, una figura appare dentro la macchina. È la mia amica: da dov’è passata? Mi prende la mano, quella straight, quella “straight basta”, di repente mi bacia, mi bacia ancora, mi spoglia, sorride, si spoglia, mi bacia, mi prende, fa l’amore con me, dolcemente, senza saperlo fare ma comunque dolcemente mi fa, per un istante, sentire voluta e sorride ancora, mi fa per ore, o forse un secondo poi s’addormenta.

Ora che dorme fa meno freddo dentro la nave e sembra quasi che questa donna l’abbia riscaldata. Amanda aveva torto marcio, il mondo fantastico è reale, è tutto reale qui dentro. È proprio una stupida. Ma cosa vuoi che capisca una modella americana! Stupida. Cosa vuoi che capisca. Guardo lei accanto a me ma la luce della nave mi acceca e mi domando come non accechi lei, come possa addormentarsi così. Non riesco a dormire dentro F.U.T.U.R.E. e posso ancora vedere mostri ballerini, sebbene colorati, spaventare quella lesbica. A me non fanno un graffio ora: sono forte, sono meglio di Amanda Moore. Uno ora ha addirittura il viso di Amanda ed è nero, indossa una giacca e si fa beffa di me. Ma io non ho paura! Io ho il coraggio dalla mia. Io posso affrontare un’eterosessuale, e guardala, è qui che dorme accanto a me! Non si è pentita, non era un gioco. Non sono solo una fantasia: esisto e sono reale. Tu Amanda, invece? Sei reale o finta come una copertina di carta lucida? Hai piume viola addosso o cravatte? Tu che hai paura di tutto, tu che le straight basta, impara a campare! Stupida. Ma il mostro ride ancora, non risponde alle mie provocazioni e a sua volta provoca, chiudo gli occhi un istante per non guardarlo e quando li riapro mi ritrovo sola sulla navicella dentro al Cubby Hole. La mia amica non c’è qui accanto a me, quella che dormiva sotto le luci accecanti di F.U.T.U.R.E. non accecata. Il violino suona ancora e stride un po’, consumato senza accordatura perfetta o corde di valore. A fatica, perché non ho dormito davvero, m’alzo, mi avvicino alla porta della nave e faccio per uscire. Cerco la mia amante. Mi fermo sull’uscio e la intravedo, poi la vedo. È mano nella mano con un uomo. Non la amo, ma fa uno sbraco nel cuore. Amanda la guarda da lontano, poi guarda me come a dire: ti avevo detto cosa fa soffrire nella vita. Si aggiusta la cravatta, si accende una Merit e se ne va su un’altra copertina di Vogue.

Ma sono ancora sulla nave e un’alternativa la ho, i mostri sono ancora più ribelli ora e la mia nuova amica mi guarda. Posso salire anche io? Preferisce una vita lontano dai mostri che ha ritagliato in una domenica di neve, a costo di dover andare via su una navicella vuota. No, le faccio con gli occhi, non c’è niente su questa nave! È vuota! Non posso lasciarti entrare. Si soffre qua sopra, si soffre qua dentro. Ma da sotto al bancone, veloce fa uno scatto ed è a bordo. I motori si accendono. Non sta ascoltando me come io non ho ascoltato Amanda. Si soffre qua dentro. F.U.T.U.R.E. è una fantasia vuota, un gioco di luci, ma la realtà è anche peggio. Non so se scendere, non so se partire, devo decidere in fretta ma sulla nave ci sono solo io e questa sconosciuta piena di paure come me. Non voglio una vita vuota. Faccio un salto prima che le porte di F.U.T.U.R.E. si chiudano del tutto e sono di nuovo al Cubby Hole. La mia amica, quella che ha voluto fare l’amore con me come si pasteggia in preda alla follia post-marihuana, mi sorride, non si è accorta di niente e ancora attende la birra che le devo portare. I mostri ora sono solo pezzi di cartone ritagliati da qualcuno che non c’è più e che nessuno ha potuto più ritrovare, ma sono tutti là che fissano me. Non esce più alcun valzer dal jukebox. Mi racconta che ieri notte ha fatto l’amore con quell’uomo che, poco più in là, sta sfogliando Glamour: in copertina c’è Amanda che ride di gusto. Alzo gli occhi e vedo la luce di F.U.T.U.R.E. divenire più piccola, poi scomparire. La nave non è più vuota ora, non è vuota come lo sono io. C’è una ragazza là dentro, mentre qui dentro non c’è niente.  (ROMINA CIUFFA)

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NEW YORK: ARRIVANO I FREAKS!

New York, febbraio 2006. Signori e signore, direttamente da Coney Island, New York, i Freaks! I mostri, quelli strani! Insectivora. Lei mangia insetti. Prende una manciata di vermi, li mette in una bustina di plastica, poi li divora. Ancora, scarafaggi. Ottimi. Completamente tatuata dalla testa ai piedi, sul polso spicca un ragno rosso. Quindi prende da una piccola gabbia un topolino, piccolo, bianco, uno di quelli che un bambino a volte fa ruotare ininterrottamente sulla sua ruota per un’intera vita (del topo). Il topetto le corre sul braccio, è bianchissimo, la coda rosa come la pancia di un bimbo. Lei per la coda lo prende e, come una Visitor della serie americana più famosa degli anni 80, piega il collo all’indietro, le si può vedere solo il mento ora, infila il topo dentro la bocca, riabbassa la testa e la coda è ancora lì fuori, che scodinzola un po’ mentre un po’ rallenta. Riapre la bocca, lo prende in mano, lo bacia, lo accarezza. Lei, che è una femmina, si chiama Matilde e si fa un altro giro sul braccio destro di Insectivora. Poi rientra nella gabbietta.  In un attimo Miss Hollyday si contorce all’indietro, con il busto arriva fino a terra e scruta, poi facendo un giro su se stessa lo porta sino ai reni e la testa ora è proprio a quell’altezza, prosegue e la pone in mezzo alle gambe.

Una passeggiata così e si sdraia dentro una scatola, i coltelli vengono piantati dappertutto, poi si rialza et voilà. Passeggia Snake Woman, e come Insectivora con la sua Matilde, ecco arrivare uno splendido boa bianco con striature arancioni e la lingua biforcuta. Qualche metro di serpente che la avvolge interamente, la contempla, la bacia tirando fuori la linguetta velocemente che con altrettanta velocità ripone in bocca, delicatamente la massaggia con il suo lungo e largo corpo. Un esemplare incantevole di animale domestico. La padroncina poi si siede su una sedia elettrica, che l’Uomo Tatuato le accende. Ora è in grado di accendere una lampadina con la lingua, che tira fuori come il suo serpente, velocemente, e fa una fiamma.  L’Uomo Tatuato dice che era talmente povero che ha cominciato a eseguire i lavori più strani, quindi si è fatto tatuare giorno per giorno tutto il corpo e sul viso e sulla testa rasata ha raffigurato tutto il sistema stellare. Nel bel mezzo della fronte ha un pianeta. Poi stelle, costellazioni. Chiede se qualcuno conosce un uomo che ha una maglietta come la sua, con la propria faccia disegnata sopra, e sostiene che i tatuaggi li ha proprio, ma proprio dappertutto. E che ha imparato talmente bene a sopportare il dolore, che si sdraia su un tappeto di aghi arrugginiti e un altro lo mette sul pancione, quindi un uomo di 100 chili e una ragazza di 70 gli montano sopra. Lui lo chiama il «panino umano».

L’altro amico mangia bicchieri di vetro, lamette, tovaglioli, accende sigarette e le ingoia. Un altro ancora si infila un cacciavite e un coltello nel naso mentre Miss Hollyday, la contorsionista, ne ingoia uno da selvaggina e a momenti se lo litigano, poi lo tira fuori dal manico. Insectivora, intanto, sale delle scale fatte di spade affilate che in un attimo tagliano carote. Lei, invece, dice che si è allenata sulla sabbia di Coney Island. Famosa per la sua sporcizia e per essere il ricettacolo di tutte le bottiglie di birra e i vetri delle spiagge newyorkesi.  La ruota delle giostre gira ancora a Coney Island, anche in inverno, mentre a Manhattan, Times Square, si apre il sipario. Il Miliardario! Un applauso. Limousine. Cipriani. Champagne. Première. Frack. Bruscolini. Gli ruba la scena il paralegale: occhiaie, nevrosi, non sa ancora se iscriversi a legge. Sta compilando la scheda del «billable», di ciò che va messo in conto al cliente, includendovi la macchina usata per portare a spasso la nuova ragazza. Sfruttato, non è nessuno. Gli tolgono giorni di ferie – e di vita – come fossero bruscolini, lo fanno lavorare 20 ore al giorno.  Siori e siore, ecco a voi la Personal Trainer! Quella che non deve chiedere, mai. Quella che guarda il cliente correre per un ora al prezzo di 120 dollari più la mancia. Quella che insegna un’ora di qualunque cosa in ogni palestra della City solo per avere tutte le membership (membership uguale potere) e incontrare l’Avvocato che l’inviterà a cena stasera e ai Caraibi il fine settimana. E crede di potere. Tutto. Che si sveglia alla cinque perché è alle sei che l’Avvocato va ad allenarsi, prima del meeting delle sette.

Ma la vera attrazione della serata, ecco qui, immancabile, imperdibile, unico, il broker! No, no, non quello di Wall Street, non titoli mobiliari ma immobili. Lui, l’agente, il padrone della città. Colui che può tutto. Che riesce a negare la tangibilità della cosiddetta «bolla» dell’inflazione. Tutto il mondo ne parla, lui no. Lui, invece, sostiene che «è il momento giusto per comprare a Manhattan». Perché? «Perché te lo dico io». Più preciso? Al dettaglio, testuale: «Perché comprare a New York è sempre un affare». Con enfasi sul «sempre» e sulla «e» lunga, che poi è la «a» di «always». Muove i fili e decide chi deve vivere dove.  Quindi, ladies and gentlemen, l’attrazione, quella che tutti stavano aspettando: l’attrice. Lei sì che ci sa fare. Ha un sito, mica bruscolini. Nel quale spiega cos’ha fatto (ma cos’ha fatto?), dove ha studiato (sì, ma cosa?), e una carreggiata di foto. La sera s’infila nei jet-set. È brava, altro che coltelli, altro che serpenti. Lei s’infila sul serio. E s’iscrive a un corso di regia. Coerente, no? Un attimo di suspence, perché ora sta per arrivare niente poco di meno che l’Amministratore del palazzo. Che con il broker se la intende. Che cambia appartamento nel palazzo a proprio piacimento, che riscuote i soldi e prende la «stecca», che fa rispettare il regolamento. Che si apre il ristorante al piano terra dello stabile.

Senza parlare di quando si mette pure a fare il PR e l’intero palazzo lo usa per fare feste a pagamento di migliaia di persone. Applausi, prego. «Give him love», ancora applausi. Sta per arrivare (applausi) la coppia più bella del mondo (e ci dispiace per gli altri): direttamente dal palcoscenico di Milano, con scalo a Parigi, ecco a voi il Fashion Designer e la Fashion PR, o meglio i «Sono nella moda». Cosa, precisamente? «Nella moda. Organizzo». Cioè, disegni? Come Ridge Forrester? Ma no, solo Forrest Gump. Lui non ha mai preso una matita in mano. E lei conosce tutti e vive nell’Upper East Side di Manhattan, proprio come quelle di Sex and the City, la serie più acclamata degli ultimi quattro anni. Samantha, però, vive nel Meatpacking District, Downtown, e anche quello fa molto tendenza: è infatti lì che si ritrovano l’Avvocato, la Personal Trainer, il Broker.  Non perché ci sia Samantha: Samantha, personaggio della serie, non c’entra, è solo lo specchio di quello che accade a New York. Ma è vero che nella prima pagina dei giornali c’è la foto di Angelina Jolie e di Brad Pitt, la nuova coppia hollywoodiana conosciutasi sul set di «Mr and Mrs Smith», e tutti sono preoccupatissimi per lo stato d’animo di Jennifer Aniston, poverina, lasciata così da Mr Smith e non solo: costretta anche a leggere, tutti i giorni, insieme al caffè, la crasi «Brangelina», grande creazione del Giornalista americano del Gossip (rullo di tamburi: il Giornalista! Quello che scrive in prima persona e nella recensione espressamente dichiara che quel film non è il suo genere), mentre prima Braniston o Jenniferad non l’aveva mai detto nessuno (probabilmente perché non suonava bene, non di certo per le labbra della Jolie).

Poi, nelle pagine successive, sfogliando per caso, en passant, l’omicidio intenzionale (ma, come per magia, è già diventato di secondo grado) della piccola sudamericana Nixmary Brown, 7 anni, trapiantata a Brooklyn, gonfiata di botte dalla madre e poi stuprata, torturata su una sedia di legno e uccisa dal patrigno. Ma via, di corsa ad altro. Signori e signore, ecco a voi il sindaco Michael Bloomberg! Con lo sketch più provato, quello che riesce sempre: «Bisogna fare qualcosa». Il bisogna-fare-qualcosa gli sorge spontaneo in seguito alle accuse rivolte agli ufficiali di zona che hanno ben più volte ascoltato le denuncie dei vicini di casa della famiglia senza fare nulla. Omissione. Bisogna fare qualcosa. Azione. Scavare la fossa alla bambina, questo sì. Dopo una camera ardente aperta due giorni che ha visto file di chilometri e nonne che pregavano e uomini in completo che gettavano fiori e signore che lanciavano baci al piccolo cadavere, e dopo una messa gremita di gente che ha preso il giorno di ferie per salutare la salma, bisogna-fare-qualcosa.

Ma questo è tra la seconda e la decima pagina, dipende. Prima Brangelina e le strazianti parole dell’agente della Aniston in risposta a una stampa troppo attiva che ha pubblicato la notizia della nuova fiamma di Brad Pitt senza che la consorte Jennifer (assicura la portavoce) ancora ne fosse a conoscenza e dopo che il furbetto aveva negato alcun approccio sul set con la Tomb Raider. Commovente, davvero. E, a proposito d’attori, stasera ce n’è uno vero con noi: ho l’onore di presentarvi il Governatore della California, Arnold Schwarzenneger! Proprio lui, siori, quello che ha negato la quarta clemenza per condanne a morte, e l’assassino Clarence Ray Allen, vecchio, cieco, è stato ucciso il 17 gennaio. L’Orso che corre, così era stato chiamato, l’ha scontata, il giorno dopo il suo settantacinquesimo compleanno. Terminator fa un inchino.  Bisogna-fare-qualcosa, bisogna-fare-qualcosa, suona il ritonello da un’armonica scordata. Jennifer Aniston va aiutata, e (spettatori, lorsignori, «the last but not the least», il Presidente degli Stati Uniti d’America!) New Orleans ha già abbastanza soldi dai fondi europei. Il palco ora è sporco, lo spettacolo sta per finire e come scenografia resta la sola sedia di Nixmary. Si chiude il sipario. Insectivora, insieme al topo Matilde, non ha più voglia di mangiare; Miss Hollyday, l’Uomo Tatuato, il Mangiatore di Vetro e quello di Coltelli si alzano. Nessun applauso questa volta.  Lo spettacolo dei Freaks non è piaciuto. Snake Woman si arresta, stenta, tentenna, non si alza ancora dalla sua sedia elettrica e il suo serpente arancione, che la guarda e aspetta un suo cenno per muoversi, capisce immediatamente che la sua padrona quella sedia non la vuole lasciare perché è più sicura della sedia di Nixmary. Arriva il Panino Umano, la solleva e la porta via ancora seduta. Tornano a Coney Island. Non valeva la pena arrivare fino alla città per vedere i Freaks, i mostri.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Febbraio 2006