TRATTAMENTI NEGLI ISTITUTI PENITENZIARI (PARTE DUE): L’EDUCAZIONE FORMALE IN CARCERE

La prima parte dell’articolo è contenuta al link: www.rominaciuffa.com/carcere-funzione-rieducativa

 

 

 

 

L’ISTRUZIONE IN CARCERE. Il verbo «educare» deriva dal latino e-duco, ossia «porto fuori». Si «portano fuori» norme, principi, valori, regole di comportamento. Anche nel caso di condanne molto lunghe, l’educazione formale è necessaria all’apprendimento di regole di civiltà da impiegare nei rapporti con gli altri detenuti, con gli operatori, nelle attività svolte all’interno del penitenziario, comunqhttps://www.rominaciuffa.com/wp-admin/post-new.phpue e sempre per valorizzare aspetti del sé non curati in precedenza. L’alfabetizzazione risulta essere carente all’interno dei luoghi di pena tanto per il basso livello sociale da cui provengono spesso i rei quanto per l’elevata presenza di extracomunitari; e, a monte, la sua assenza è tra le cause – fatte risalire a una più generale mancanza di educazione – che spesso conducono al reato. Un’istruzione formale è dovuta al carcerato secondo il senso più pregnante e diretto dell’articolo 27, comma 3 della Costituzione: rieducare vuol dire, prima di tutto, educare. Dunque, istruire.

Educare in carcere significa, prima di tutto, educare alla libertà: non solo quella del mondo libero, ma del mondo mentale. Il pensiero dev’essere costruito per divenire costruttivo, per capire il nesso eziologico di un’azione con la sua conseguenza. È necessaria un’educazione alla moralità, non intesa come valori di un ceto, di una classe politica o di una religione, bensì valori d’umanità, diritti dell’uomo, civiltà e regole, per la crescita del detenuto e la sua responsabilizzazione. Sulla religione, che è anche rieducazione ma che non va confusa con «moralità», sono sollevati problemi relativi alla multirazzialità e alla soggettività della scelta religiosa, anche in senso ateo.

La Costituzione del 1948, oltre a dettare la norma dell’articolo 27, statuisce nell’articolo 34: «1. La scuola è aperta a tutti. 2. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. 3. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. 4. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». La norma fissata dal Costituente impone al Legislatore di creare le condizioni per garantire l’istruzione in carcere, non più da intendersi come coercizione ma alla stregua di un’opportunità per i singoli detenuti.

Il termine «trattamento» era stato usato anche nella legislazione precedente, ma l’Ordinamento penitenziario ha provveduto ad una formale esplicazione. Questa visione più ampia rende necessaria la previsione di nuove figure di operatori, quali educatori, assistenti sociali, insegnanti, volontari (articoli 17 e 78 dell’Ordinamento stesso), psicologi, pedagoghi e psichiatri criminologi che, sotto il controllo interno del direttore dell’istituto e quello esterno del Magistrato di Sorveglianza, prestano la propria opera attraverso interventi singoli o di gruppo.

L’istruzione in carcere, oltre che un diritto costituzionale, è più che altro elemento del trattamento rieducativo del condannato: l’andamento e gli esiti influiscono sull’eventuale adozione di misure come permessi-premio o riduzioni di pena. Da cui se ne capisce l’importanza di un’attuazione a fianco della predisposizione di nuovi progetti: uno per tutti, quello di educazione ambientale del Centro di Educazione ambientale di Ferrara. Eppure, se nella quasi totalità delle carceri italiane viene garantito il diritto all’istruzione mediante corsi istituzionalizzati o gestiti da volontari, è di fatto impossibile consentire l’accesso alle lezioni di tutti coloro che ne fanno richiesta, i locali non sono idonei o non sono presenti, lo svolgimento delle attività è legato solo al senso di responsabilità e alla sensibilità dei singoli docenti.

L’ALFABETIZZAZIONE IN CARCERE. Il detenuto è un minore, un adulto, un extra-comunitario: richiede alfabetizzazione. Un’educazione permanente implica che se ne ripensi il contenuto in modo da tener conto di fattori quali età, differenze di sesso, lingua, cultura e status economico, handicap. È indispensabile che le procedure adottate in materia di educazione degli adulti siano fondate su eredità, cultura, valori ed esperienze pregresse degli interessati, e condotte per facilitare e stimolare la partecipazione attiva e l’espressione dei cittadini. Ma si è ancora lontani da una visione dell’educazione come sinonimo di scolarizzazione. Alfabetizzazione in carcere significa, dopo l’abc, informatica e biblioteca. Le prigioni devono esser dotate di tecnologia e personale, i mezzi garantiti da un elevato livello di sicurezza informatica per evitare manomissioni o «evasioni virtuali».

Si tratta, soprattutto, dell’apprendimento dei più comuni programmi informatici per l’avvio di una professione futura. La biblioteca carceraria deve offrire risorse documentarie e servizi paragonabili alle biblioteche del mondo libero e sviluppare una collezione «bilanciata» che rappresenti un’ampia gamma di punti di vista a disposizione degli utenti detenuti per una lettura senza vincoli ideologici. Ciò che la persona in stato di reclusione legge, dipende dalla qualità e dalla pertinenza della raccolta bibliotecaria. Con personale qualificato, una raccolta di opere che rispondono ai bisogni educativi, ricreativi e di riabilitazione dei detenuti e con uno spazio fisico invitante, la biblioteca può costituire una parte importante della vita carceraria e dei programmi per i detenuti e rappresentare una rilevante «linea di comunicazione vitale» con il mondo esterno, essere uno strumento di gestione efficace per l’amministrazione del carcere perché riduce l’ozio e incoraggia un uso costruttivo del tempo, e costituire la risorsa informativa vitale che fa la differenza tra il fallimento e la riuscita all’esterno del carcere per un ex detenuto appena scarcerato.

L’International Federation of Library Associations, Sezione Libraries Serving Disadvantaged Persons, ha stilato un documento allo scopo di fornire uno strumento per la pianificazione, l’implementazione e la valutazione di servizi bibliotecari rivolti ai detenuti, che riflettano un livello accettabile di servizio bibliotecario, raggiungibile in buona parte dei Paesi in cui le politiche nazionali e locali sostengano l’esistenza di biblioteche carcerarie. Oltre a costituire uno strumento pratico per la fondazione, il funzionamento e la valutazione delle biblioteche carcerarie, il documento funge da affermazione di principio del diritto fondamentale dei detenuti a leggere, apprendere ed accedere all’informazione.
In buona parte dei Paesi del mondo gli individui che costituiscono le popolazioni carcerarie hanno un limitato bagaglio sia di istruzione che di competenze sociali e non provengono da ambienti in cui la lettura è un’occupazione frequente o popolare; i detenuti e il personale non sono necessariamente utenti di biblioteca auto-motivati, perciò «dovrebbe essere prestata grande attenzione all’atteggiamento amichevole della biblioteca verso gli utenti». La cooperazione è un ingrediente necessario per garantire che i bibliotecari carcerari siano in grado di dispensare un buon servizio; e l’isolamento, si indica, può essere diminuito stringendo relazioni con altre biblioteche carcerarie in tutto il mondo.

IL LAVORO INFRAMURARIO E IL LAVORO EXTRAMURARIO. Il lavoro penitenziario mantiene la funzione di cardine del trattamento rieducativo: infatti, a norma dell’articolo 15, comma 2 dell’ordinamento penitenziario, a tali fini, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è addirittura assicurato il lavoro. Le forme di lavoro penitenziario e le modalità di esecuzione dello stesso sono classificabili in due grandi categorie: lavoro inframurario ed extramurario.

Il lavoro inframurario si caratterizza per la figura del datore di lavoro e il carattere poco produttivo dell’attività prestata. Anche detto dei «lavori domestici», è strutturato in attività solitamente non imprenditoriali, che si esplicano in servizi destinati all’istituzione stessa, come il servizio di cucina per detenuti e per operatori penitenziari o quello di pulizia dei locali comuni. La trilateralità di rapporti che caratterizza le altre forme di lavoro penitenziario – detenuto lavoratore, amministrazione penitenziaria e datore di lavoro – è qui assente, finendo questi ultimi due per essere inglobati nel medesimo ruolo, cosicché le esigenze rieducative del condannato risultano strettamente collegate ad elementi appartenenti alla normale disciplina del lavoro subordinato o autonomo.

Si differenzia da esso il lavoro inframurario alle dipendenze di terzi, anche detto delle «lavorazioni» – ad esempio, produzione di coperte, confezionamento del vestiario e della biancheria per gli agenti di custodia e per i detenuti, attività di falegnameria – caratterizzato da una maggiore produttività organizzata su base industriale e modellata sul prototipo dell’ambiente libero. Riguardo al lavoro extramurario, l’articolo 21, come novellato dalla legge n. 663 del 1986, e l’articolo 48 del decreto presidenziale 230/2000 (Reg. Es. O.P.) consentono al detenuto di avere accesso ad una normale organizzazione produttiva alle dipendenze di un imprenditore, con provvedimento discrezionale del direttore dell’istituto opportunamente motivato.

Negli ultimi anni il lavoro penitenziario ha perso l’originario carattere afflittivo e si è visto assegnare una remunerazione dagli articoli 22 e 23 dell’O.P., ha ottenuto il diritto agli assegni familiari e si è applicata la disciplina sul collocamento. Nonostante i passi in avanti, le attività di lavoro riguardano un numero di soggetti trascurabile, mentre resta rilevante il lavoro domestico intramurario, includendovi l’ordinaria manutenzione degli immobili penitenziari, con la sua scarsa imprenditorializzazione. Tranne poche eccezioni, l’Amministrazione penitenziaria è rimasta per lungo tempo l’unica committente delle proprie episodiche lavorazioni – tavoli, sedie, armadi, coperte ecc.- e ciò è stato imputabile all’impreparazione manageriale della dirigenza carceraria, alla carenza di manodopera esperta nelle lavorazioni, alla mancanza di maestri d’arte, all’inadeguatezza delle strutture carcerarie e alla difficoltà di introdurvi processi produttivi e tecnologici: il tutto a scapito del trattamento rieducativo del detenuto e della qualificazione professionale necessaria al successivo (re)inserimento sociale.

Sia la legge 12 agosto 1993 n. 296 recante nuove misure in materia di trattamento penitenziario nonché sull’espulsione dei cittadini stranieri, che la legge Smuraglia del 22 giugno 2000 n. 193 hanno delineato nuovi strumenti e aree per la creazione e gestione di lavoro intra ed extramurario, affidando al volontariato e alle cooperative sociali la funzione di soggetti maggiormente qualificati ad agire in tali spazi. Il problema, oltre alla difficile reperibilità della liquidità necessaria, è la difficile assunzione di responsabilità da parte dei soci lavoratori (detenuti) e la fatica a costruire livelli gerarchici in una cooperativa di soggetti da rieducare che non accettano di essere comandati da chi si trova nelle loro stesse condizioni, e l’accettano solo «da altri».

IL PROGETTO DELLA REGIONE LOMBARDIA PER LA PROMOZIONE DI INTERVENTI DI INCLUSIONE SOCIALE DEI CITTADINI DETENUTI. La stessa Amministrazione penitenziaria denuncia «l’inidoneità e l’inagibilità degli istituti penitenziari, le difficoltà d’accesso e di controlli, la mancanza di continuità o le eccessive pause nei colloqui familiari-educatori-avvocato o nell’ora d’aria, la scarsa professionalizzazione di detenuti, un regolamento contabilità dello Stato non adeguato che, determinando un eccessivo costo del lavoro, rendono problematica una positiva resa sul mercato a qualsiasi imprenditore nonostante gli sgravi fiscali previsti dalla Smuraglia. Sono ammesse anche colpe proprie dell’Amministrazione»: si tratta a tutti gli effetti della denuncia dell’approssimativa sistematizzazione della problematica, della mancata emanazione di linee guida, dell’assenza di verifica e di esportazione di positivi progetti realizzati, e di una inadeguata ricerca di partner. Non è tutto rose e fiori, in gabbia.

Per questo l’Amministrazione penitenziaria, distribuita in numerose realtà locali, compie un’attività di promozione, ricerca e organizzazione di attività lavorativa, anche in collaborazione con altre strutture pubbliche e private, avvalendosi delle novità introdotte dal Nuovo Regolamento di esecuzione dell’O.P. del 2000 e dalla legge Smuraglia. Presupposto essenziale è la predisposizione di politiche attive d’intervento capaci di coniugare l’aspetto trattamentale con le necessità imprenditoriali. Il punto non è solo o tanto la rieducazione, quanto la disponibilità di imprese ad assumere detenuti ed ex detenuti. Un progetto, «Responsabilità sociale di impresa: lavoro, carcere e imprese», si ripromette la promozione di interventi volti alla loro inclusione sociale. Obiettivo dichiarato è favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti nelle imprese profit e no profit lombarde, intervento che riguarda in primo luogo i diretti interessati e le istituzioni penitenziarie ma che, per diffondersi in modo significativo e proporzionale alle potenzialità e ai vantaggi per le imprese, necessita di promozione anche e soprattutto extramoenia.

Le testimonianze fornite da operatori e imprenditori sulle esperienze maturate hanno dato atto delle potenzialità e dell’attuale efficacia della collaborazione tra istituzioni regionali e locali, sistema camerale, mondo imprenditoriale e cooperativo. In Lombardia, l’inserimento lavorativo di detenuti conta su diverse esperienze di successo soprattutto nell’ambito delle cooperative sociali (95 imprese hanno dato lavoro almeno a una persona proveniente dal circuito penitenziario), mentre è ancora ridotto nelle imprese profit. Di queste esperienze possono avvalersi le altre Regioni nella predisposizione di interventi simili in territori diversi, la cui situazione è spesso resa assai più problematica dal contesto, dalle effettive opportunità lavorative, dalla povertà intrinseca al territorio, dalla differente visione dell’individuo e del suo background.

L’inclusione sociale dei detenuti rientra nelle prassi della responsabilità sociale d’impresa: il sistema camerale lombardo è impegnato a promuovere e accompagnare le piccole e medie imprese, informa sui vantaggi diretti derivanti da questa opportunità sia negli sgravi fiscali, sia nella responsabilità sociale. Il primo protocollo tra la Regione Lombardia e l’Amministrazione penitenziaria competente è stato siglato nel 1999 ed ha avuto ad oggetto l’insediamento di una Commissione, con l’obiettivo specifico di creare una rete di rappresentanza per la diffusione del rientro dei detenuti nella società e nei propri territori. La Regione stessa ha coinvolto soggetti diversi e stretto alleanze per diffondere la conoscenza delle opportunità normative e degli strumenti a disposizione nelle imprese lombarde. Il sistema camerale lombardo partecipa al tavolo della Commissione Lavoro Penitenziario istituita presso il Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria, per sviluppare iniziative dirette agli scopi dell’articolo 27 della Costituzione, in relazione al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3 comma 2 della stessa: il ruolo di cui si è fatto carico è quello di trasmettere le esigenze delle aziende e trasferire in ambito carcerario il know-how proprio dell’impresa.

L’impegno assunto dall’Unioncamere Lombardia è promuovere l’incontro della società delle professioni con la popolazione carceraria e sensibilizzare le imprese, accompagnandole nel processo di integrazione sociale. Svolgendo un ruolo di «interfaccia», le Camere forniscono alle imprese gli strumenti per conoscere la realtà carceraria e portano all’attenzione degli organi regionali e territoriali preposti all’Amministrazione penitenziaria le esigenze delle imprese, dalla rigidità degli orari ai controlli, all’accesso a sgravi fiscali e contributivi di cui le imprese non sono a conoscenza. Altro contributo allo sviluppo del progetto è l’individuazione dei settori economici di maggiore potenzialità, tra cui spiccano l’artigianato e quelle attività che puntano sul singolo individuo.

La convenienza non è solo riscontrabile per le imprese, che hanno a disposizione maggior manodopera, ma riguarda l’intera società: la riabilitazione attraverso il lavoro è tra le forme più efficaci di prevenzione del crimine. Il beneficio è calcolabile come la riduzione dei costi sociali che si verifica per la diminuzione delle recidive: un detenuto inserito nel mondo del lavoro a fine pena è meno portato a commettere nuovamente reati; la popolazione carceraria impegnata in progetti lavorativi ha la possibilità di sostenere la famiglia e di vivere l’esperienza punitiva senza preoccupazioni economiche; una volta scontata la pena, ha meno probabilità di tornare a delinquere per necessità.

La citata legge Smuraglia per le imprese profit e le cooperative sociali, insieme alla legge 8 novembre 1991 n. 381, contenente la disciplina delle cooperative sociali, prevede varie misure con le quali è favorita l’attività lavorativa dei detenuti e sono applicati sgravi fiscali e contributivi ai soggetti pubblici o privati (imprese o cooperative sociali) che assumono detenuti in esecuzione di pena. La Commissione regionale per il Lavoro Penitenziario, prevista dall’articolo 25 bis O.P., svolge un ruolo di coordinamento e di supervisione e si occupa di dare uniformità agli interventi in un circuito unitario. Potendosi avvalere delle agevolazioni previste dalla legge Smuraglia, l’Amministrazione Penitenziaria ha istituito una specifica Agenzia che, interagendo con le numerose agenzie e attività progettuali presenti nel territorio, costituisce una struttura di supporto ed operatività per la Commissione. L’Agenzia regionale per la Promozione del Lavoro Penitenziario ottimizza, con la collaborazione delle Direzioni degli Istituti penitenziari e degli Uffici di Esecuzione penale esterna, le modalità di inserimento nel mondo del lavoro; riceve i curricula di tutti i detenuti occupabili trasmessi dalle Direzioni, raccoglie le offerte di lavoro ed ha la facoltà di proporre, in base a queste ultime, anche il trasferimento in ambito regionale dei detenuti.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Luglio 2014

 

 

 

 




FUNZIONE RIEDUCATIVA DELLA PENA (PARTE UNO): IL RUOLO DELLO PSICOLOGO VA POTENZIATO

In un sistema democratico l’imputato si presume innocente fino alla sentenza di condanna, dopo la quale assume la condizione formale di condannato ed eventualmente, nell’entrare in un istituto penitenziario per espiare la condanna applicata dal giudice della cognizione, quella sostanziale di detenuto. Nella fase dell’esecuzione – competente ne è il Magistrato di sorveglianza – si aprono molte strade.

Esse sono tutte guidate da un unico strumento: il trattamento penitenziario, una serie articolata di interventi tesi a contrastare gli effetti negativi della detenzione e dell’internamento.
Pregiudiziale è l’attività di osservazione del comportamento e della personalità, per garantire la massima individualizzazione degli strumenti applicati. Di entrambi – osservazione e trattamento – è responsabile lo psicologo che, con altri operatori, è definito «esperto» dall’articolo 80 dell’Ordinamento penitenziario.

In questi articoli – il presente e quelli che seguiranno – individueremo le norme che consentono l’esperimento dell’attività rieducativa all’interno degli istituti penitenziari, sorte sotto l’egida del dettato dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione, e la rimarcazione delle lacune del sistema. Sarà descritto il trattamento rieducativo come il programma teso a modificare gli atteggiamenti del condannato e dell’internato, che sono stati la causa della sua mancata integrazione sociale, ed analizzate le varie dottrine che incidono sulla visione del condannato e del suo comportamento antisociale. Saranno analizzate le modalità alternative con le quali può essere eseguita la pena e se ne stabilisce il valore dal punto di vista della sicurezza sociale e della maggiore stabilità del sistema nel suo rapporto con la recidiva.

Si esemplificheranno, quindi, gli strumenti che l’Ordinamento penitenziario, introdotto nel 1975 e integrato negli anni, mette a disposizione del sistema carcerario per assicurare al condannato un processo cognitivo ed emozionale completo che gli consenta non solo di comprendere il valore della propria azione criminale, ma anche di inserirsi in un iter di ricostruzione attraverso l’educazione. Si indicheranno le strade dell’educazione formale – quella (più cognitiva) che si ottiene dall’istruzione, dal lavoro intramurario ed extramurario, dalla religione – ed informale – più emozionale, perseguita attraverso creatività e interazione, nonché un più profondo contatto con l’inconscio (è il caso dell’arteterapia, delle attività teatrali e musicali in carcere, dei rapporti con la famiglia e con l’esterno) – e si nomineranno altresì progetti di ricerca-intervento che hanno trovato accesso, diretto o indiretto, negli istituti penitenziari e, quando possibile, se ne valuteranno gli effetti. Nondimeno saranno individuati degli interventi che, realisticamente, prendono atto della difficoltà sociale, del pregiudizio, dell’effettivo reinserimento dell’ex detenuto nel sistema lavorativo ed affettivo e, allo scopo di non rendere vano il percorso evolutivo affrontato nel corso della detenzione, predispongono anelli di giunzione tra carcere e impresa.

La pena assorbe più funzioni, a seconda di come la si interpreti e la si sia interpretata nelle varie epoche storiche. Oggi l’articolo 27, comma 3, della Costituzione enuncia: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Sono la Scuola classica e la Scuola positivista ad aver determinato le due letture chiave: l’articolo 27 risponde ai postulati della Scuola positiva del diritto penale, che respinge la concezione afflittiva della pena postulata dalla Scuola classica («tanto male inflitto per tanto male arrecato») e dà alla pena finalità di difesa sociale nella sua funzione di riadattamento, in accordo con la concezione della responsabilità di fronte alla legge penale.

Prima la Scuola classica, basandosi su una concezione assoluta del diritto, aveva posto a fondamento del diritto penale i seguenti principi: a) il delinquente è un uomo qualunque senza particolari differenze da tutti gli altri; b) la condizione e la misura della pena sono commisurate in relazione alla presenza e al grado del libero arbitrio; c) la pena ha funzione etico-retributiva del male commesso, perciò deve essere assolutamente proporzionata al reato, afflittiva, personale, determinata e inderogabile.

La funzione rieducativa, volta a cogliere l’occasione della condanna penale per perseguire la risocializzazione e il recupero del condannato costituisce anche la ratio giustificatrice delle pene sostitutive (articolo 53 della legge n. 689 del 1981) e delle misure alternative alla detenzione (articoli 47-54 della legge n. 354 del 1975); queste ultime possono evitare al detenuto la permanenza in stabilimenti carcerari (affidamento in prova, detenzione domiciliare) o ridurre la durata della permanenza in carcere (semilibertà, liberazione anticipata per riduzione di pena), come descritto dalla citata legge dell’Ordinamento penitenziario n. 354 del 26 luglio 1975 recante le norme sull’Ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà e dal successivo Regolamento di esecuzione.

Quando si parla di Ordinamento penitenziario si fa riferimento all’apparato normativo che regolamenta il momento della privazione della libertà personale in esecuzione di una sanzione penale, in particolare della legge n. 354. Caratteristica della riforma penitenziaria del 1975 è quella di essere nata da sola, senza che l’opinione pubblica fosse chiamata ad esprimersi, né alcuna dottrina fosse ascoltata. Comunque il testo della legge resta fedele agli intenti rieducativi del terzo comma dell’articolo  27 della Costituzione e rifiuta la tesi dell’irrecuperabilità di taluni quando proclama l’applicabilità del trattamento «a ciascun internato o condannato» (articolo 13 comma 3).
Il ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca, Mario Zagari, sintetizzava in cinque note le mete che la legge intendeva perseguire: l’umanizzazione del trattamento; l’efficacia del trattamento; il favorire i contatti con il mondo esterno; la giurisdizionalizzazione dell’Ordinamento penitenziario attraverso il magistrato di sorveglianza, figura indipendente dall’amministrazione cui affidare la supervisione dell’esecuzione penitenziaria; la riduzione della popolazione detenuta mediante l’introduzione di misure alternative alla pena detentiva.

Con queste norme, varate proprio mentre entra in crisi la concezione medico-clinica della rieducazione, il legislatore ha inteso dare importanza alla funzione risocializzatrice della pena soprattutto nella fase esecutiva, considerando il carcere non più come luogo di segregazione e di separazione dalla società, ma come momento di intervento per offrire le strutture materiali e psicologiche necessarie al reinserimento. I principi fondamentali sono elencati sin dal primo articolo della legge n. 354, intitolato «Trattamento e rieducazione»: innanzitutto, il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni su nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche, credenze religiose. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Infine, il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti; si specifica anche: i detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. L’ 431 del 29 aprile 1976 descrive il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà come «l’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali», e aggiunge: «Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale».

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È possibile una modificazione degli atteggiamenti? C’è un suggerimento nell’articolo 4 sull’integrazione e il coordinamento degli interventi di ciascun operatore professionale o volontario: questi «devono contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di integrazione e di collaborazione».

Il trattamento rieducativo è attuato in base all’articolo 1, comma 6, O.P. «secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti». La metodologia di realizzazione del trattamento è descritta nell’articolo 13 O.P. e consta di tre punti fondamentali: il punto di partenza è rappresentato dai bisogni, dalle carenze del soggetto e dalle cause del disadattamento sociale, il punto di arrivo è costituito dal reinserimento sociale, il tramite tra i due è formato dall’osservazione scientifica della personalità e dalla conseguente offerta di interventi che rappresenta per l’Amministrazione penitenziaria un obbligo di fare.

Il coordinato disposto dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione e delle norme dell’Ordinamento penitenziario delinea un sistema di gestione dinamica  dell’esecuzione della pena attraverso l’uso degli strumenti ordinari previsti a tale scopo, rappresentati dalla promozione della redazione e dell’attuazione dei programmi di trattamento per la definizione dei percorsi di reinserimento sociale, e dall’ammissione alle varie alternative alla detenzione.  (ROMINA CIUFFA, psicologa)

SEGUE. Parte due: https://www.rominaciuffa.com/carcere-educazione-formale/