BEMYEYE: OCCHI ED UNO SMARTPHONE PER GUADAGNARE COME IN UN GIOCO

Siamo in un videogioco e giochiamo. Ma la cosa interessante non è «partecipare» né, tantomeno «vincere», bensì «guadagnare». Abbiamo delle missioni da compiere e dei livelli da superare, per guadagnare di più; possiamo anche regredire (ma perdere le vite, mai). Non dobbiamo scalare montagne o uccidere i nemici: dobbiamo solo usare lo smartphone per inviare posizione e foto di ciò che vediamo. Siamo gli occhi. Noi, siamo «Eyes».

È questo BeMyEye, sii il mio occhio. L’occhio delle aziende che hanno necessità di controllare l’adempimento di certi contratti, di verificare che il loro cartellone sia affisso correttamente e, a maggior ragione, sia presente su un pannello della pensilina vicino casa di chi lo fotograferà, in conformità dei piani concordati con i distributori; o di accertarsi che una farmacia non abbia relegato il proprio prodotto in un cassetto; o che l’autoconcessionaria presenti la vettura in modo consono alla vendita. E così via.

«La tua missione consisterà nel raccogliere informazioni e immagini circa promozioni, prezzi ed esposizione dei prodotti. Alcuni dei nostri clienti richiedono anche attività di mystery shopping e pareri sulla tua esperienza d’acquisto. La maggior parte dei job richiede non più di 10 minuti del tuo tempo!», ed è fatta: ad ogni missione corrisponde un compenso, previa approvazione, ed è possibile guadagnare discrete somme impegnandosi da qualche minuto a qualche ora al giorno, o quando si vuole, in ogni città, in ogni luogo, in Italia e all’estero. Praticamente, oggi che si discute di Job’s Act e di disoccupazione, è una rivoluzione, o meglio: un faro.

Nel 2011, da Milano, Gian Luca Petrelli aveva bisogno di informazioni per se stesso, e immaginò BeMyEye, soluzione DaaS (Data as a Service) di «mobile crowdsourcing» per ottenere informazioni sulla vendita al dettaglio. Quindi, si rese conto che ciò potesse essere utile anche alle altre aziende, ed ecco altri manager – David Miller, Imran Khan, due anni fa anche Luca Pagano, attuale amministratore delegato -. Ecco i finanziamenti. Ed ecco le foto: più di 2 milioni raccolte da circa 400 mila «Eyes» che hanno scaricato l’App. Ed ecco i clienti: Mattel, Coca Cola, P&G, Nestlè, Samsung, Lavazza, Universal, Barilla, Nespresso, Tim, Heineken, Twentieth Century Fox, e moltissimi altri che hanno scelto BeMyEye per ottenere informazioni affidabili e processabili, potendo così osservare migliaia di location in pochi giorni, offrendo «insight» per identificare nuove fonti di business, per rafforzare l’identità del marchio, per monitorare gli accordi commerciali. Voilà.

BeMyEye ha la sede centrale in Gran Bretagna e uffici in Italia, Francia e Spagna, è una compagnia partecipata da grandi venture capital europei. Nauta Capital, p101 e 360 Capital Partners nel 2016 hanno conferito un finanziamento di 6,5 milioni di euro con cui la compagnia ha accelerato lo sviluppo del prodotto ingrandendo il team. Il finanziamento è stato utile anche a rafforzare la divisione vendite e marketing e supportare l’espansione internazionale dell’azienda. Così, sia la sede sociale che il quartier generale sono stati spostati a Londra, ed ora la società è a tutti gli effetti una società di diritto inglese. Ed ha anche acquisito LocalEyes, una delle maggiori compagnie di «crowdsourcing» in Francia, per superare i 400 mila collaboratori on-demand e posizionarsi come la più importante realtà europea nel crescente mercato della raccolta dati e immagini dal mondo reale tramite l’impiego di cellulari da parte degli utenti sottoscrittori.

BeMyEye si fonda, infatti, sull’impiego di un’App gratuita che utilizza tecniche di «gamification», ossia «come in un gioco», e consente di accumulare in maniera anche divertente piccole somme di denaro in cambio di micro-lavori da svolgere su base volontaria nei luoghi scelti attraverso la localizzazione. In tal modo sta costruendo un grande network europeo di rilevatori on-demand, occhi delle imprese che si rivolgono all’azienda di Petrelli necessitando di informazioni dai punti vendita o dal livello strada. Con questo metodo, le aziende richiedenti possono vedere, con gli occhi degli Eyes, migliaia di luoghi diversi in pochi giorni. Pagano (nella foto qui sotto) precisa come.

Domanda. Una delle principali e più innovative «start up» italiane, ma già è «adulta», sebbene guidata da giovani. Come definisce, allora, BeMyEye?
Risposta. Tengo a definirla non più come una start up, poiché la nostra ormai è un’azienda che ha 6 anni di vita, copre 10 Paesi, ha uffici a Milano, Parigi, Londra, Madrid, ha raccolto 10 milioni di capitali. Siamo 50 persone con un’infrastruttura dei processi e un’organizzazione che ci fa somigliare più a una giovane azienda in crescita che non ad una start up.

D. Come è sorta l’idea di canalizzare i singoli intorno a missioni a pagamento per soddisfare le esigenze di grandi compagnie?
R. BeMyEye nasce da un’idea geniale del fondatore, Gian Luca Petrelli, che ha creato il business da una sua esigenza personale: quella di controllare se l’olio prodotto dalla sua azienda di famiglia veniva correttamente promosso nei negozi di Whole Food negli Stati Uniti, cosa che lui non riusciva a fare attraverso le agenzie tradizionali a prezzi ragionevoli. Così si rivolse al fondo più importante d’Italia, il 360 Capital Partners, ed ottenne il finanziamento per concretizzare il prodotto. Successivamente, nel 2013, BeMyEye ha cominciato a commercializzarlo e si è visto che effettivamente funzionava.

D. Perché funziona?
R. Perché è un modo totalmente innovativo che «bypassa» completamente il modello tradizionale di rilevamento dei dati sul territorio o in un punto di vendita, mettendo direttamente in connessione i «brand» e i «retailer», che hanno bisogno di ottenere dati relativi ad una specifica location, con persone che si trovano in prossimità di quella location e hanno uno smartphone in tasca, dando loro un compenso: noi li abbiamo chiamati «Eyes», occhi. A loro diamo missioni da svolgere come se fossero in un gioco.

D. Le chiamate «missioni»: cosa sono?
R. Un esempio: l’Eye, che prenota dal cellulare una missione a sua scelta, deve entrare nel negozio e trovare un prodotto o una certa promozione, verificarne la presenza e il corretto posizionamento, fare delle fotografie o scansionare il codice a barre. Se l’Eye ha successo viene ricompensato con denaro. Ci sono missioni più veloci, compibili in meno di un minuto, come quella riguardante l’adempimento degli accordi relativi alle affissioni pubblicitarie: queste sono le missioni più semplici e più amate dal nostro «crowd». Poi ci sono missioni molto più complicate. Quest’anno abbiamo lavorato molto in giro per l’Europa con un grande gruppo automobilistico per seguire il lancio di un nuovo modello di macchina: si doveva andare nella concessionaria e avere un’interazione abbastanza prolungata e intensa con il venditore, domandandogli prezzi e disponibilità per quel modello specifico o aggiungendo una serie di optional, per vedere se l’auto era venduta bene. La stessa cosa è stata fatta anche su auto di marchi diversi.

D. Le missioni sono in incognito?
R. Per la verità la maggior parte sono in incognito, perché comunque si tratta sempre di verificare la corretta implementazione di un accordo che è stato preso dall’azienda committente della missione e quella che invece è in qualche modo oggetto della missione. Però a volte c’è anche piena apertura e trasparenza, anche perché sostanzialmente si può trattare di dati utilizzati nell’interesse del brand in questione senza che vi siano conflitti tra chi monitora e chi viene monitorato.

D. A quanto possono ammontare i guadagni che un Eye può fare attraverso l’App?
R. Per prima cosa tendiamo sempre a spiegare perché BeMyEye esiste: per noi è importante avere un impatto a livello globale su tutto quel segmento di persone che non ha necessariamente delle qualifiche, il cosiddetto «unskilled labour». Poi ci sono diversi livelli ed elementi di complessità nelle varie missioni, quindi bisogna impegnarsi e saperci fare, e ci teniamo in contatto attraverso un cammino che si svolge in progressione come all’interno di un videogioco – per questo lo chiamiamo «gamification» – il quale consente di salire a livelli più avanzati secondo il livello di impegno, l’ammontare delle missioni e la qualità con cui sono svolte. Le missioni possono progredire oppure ad un Eye possono essere riservate delle possibilità, come ad esempio le missioni multiple. Abbiamo notato che ci sono persone, in Francia e in Inghilterra, che si organizzano la giornata guardando quello che è possibile fare, creando un giro che permette in circa tre ore di compiere 15-20 missioni e di portarsi a casa anche 150 euro. Il nostro obiettivo principale è massimizzare le capacità di guadagno di queste persone e minimizzare l’ammontare delle ore che devono lavorare perché secondo noi, vedendo quello che è la capacità di guadagno dei nostri Eyes, è possibile essere maggiormente gratificati con un lavoro di 2-3 ore che non con un lavoro malpagato di una giornata intera.

D. Si può parlare di «lavoro»? In che modo sono collocati gli Eyes sul piano fiscale?
R. Chi fa queste missioni non «lavora» per noi, non è un nostro dipendente, l’attività è basata sulla volontarietà ed il nostro è un «marketplace» a tutti gli effetti dove noi postiamo missioni specifiche e chi vuole le riserva senza nessun obbligo di svolgerle, pur se, per il concetto della «gamification», è previsto l’abbassamento di punti e la regressione ad un livello inferiore nel caso di missioni prenotate e non svolte. Non c’è una relazione di dipendenza dal punto di vista giuslavoristico, c’è invece un’elevata possibilità di guadagnare molto di più di quello che è il minimo salariale. Si tratta, a livello fiscale, di una prestazione occasionale, con la ritenuta d’acconto che tratteniamo alla fonte, pagando al netto.

D. Quindi voi pagate le tasse.
R. Assolutamente sì.

D. Gli «Eyes» devono dichiarare le entrate?
R. Possono, ma sostanzialmente sono già stati pagati al netto della ritenuta d’acconto. Il mio obiettivo è di essere assolutamente in linea con quelle che sono le legislazioni giuslavoristiche a livello nazionale. Quello che ci preme sottolineare è come questa forma di guadagno possa essere significativa, e questa per noi è una motivazione molto forte perché effettivamente possiamo incrementare l’introito di molte persone.

D. Cosa accade se, nel corso della missione, l’applicazione non funziona o ha dei problemi, come già è capitato e stato segnalato da alcuni utenti?
R. La policy è di pagare la missione svolta se anche ne caso in cui vi sia stato un problema tecnico di cui noi siamo a conoscenza o che possiamo tracciare in qualche modo dai nostri logs. Cerchiamo il più possibile di andare incontro ai nostri Eyes, soprattutto perché sappiamo che hanno impiegato del tempo; è chiaro che ciò, nella pratica, non è semplice, se non riusciamo ad avere una tracciatura di quello che realmente è successo, sapere se poi la missione può essere effettivamente pagata o meno. Quindi ciò alla fine dipende da quello che riusciamo a vedere attraverso i nostri sistemi. A fronte di una missione compiuta c’è un processo di approvazione dopo il quale è possibile effettuare il pagamento, e ci sono situazioni in cui non possiamo corrispondere la quota della missione se essa non è documentata.

D. Una contestazione di un utente su un forum online riguardava l’abbassamento del compenso nel caso di una missione in cui a lui spettava di cercare surgelati in un supermercato ed essi non fossero presenti sul banco. Se, in effetti, lo scopo ultimo della missione è quello di verificarne la presenza, e dunque l’eventuale assenza, non è una contraddizione penalizzare l’Eye?
R. Questo, in realtà, è un modo che noi usiamo per incentivare lo stesso Eye a trovare il prodotto e quindi a fare uno sforzo. A lui è concesso di inviare foto multiple di un’intera area del supermercato che ne dimostrino l’assenza, e più recentemente abbiamo sviluppato la possibilità di farlo fotografando lo scaffale su cui il prodotto dovrebbe essere presente. Se esso, invece, non è presente sullo scaffale giusto, è come se non esistesse, e costituisce un mancato adempimento del supermercato.

D. Una potenziale missione potrebbe essere quella di mettere il prodotto giusto nello scaffale giusto.
R. In verità questa potrebbe essere l’evoluzione di una missione: ad oggi ancora non lo facciamo, però sempre di più ci viene richiesto dai nostri clienti.

D. Chi sono i vostri clienti e come le trovate?
R. Sono aziende di ogni tipo, soprattutto «retail», del «consumer electronics», del settore farmaceutico, del «fast moving consumer goods» e del «personal care». Si sta intensificando la competizione delle farmacie soprattutto nei Paesi dove sono state liberalizzate e sono state acquisite le logiche del merchandising tipiche di un supermercato. Essendo lo spazio nelle farmacie limitato, è ancora più importante la corretta ubicazione dei prodotti e questo sta diventando un mercato importante per noi.

D. Dove funziona l’applicazione?
R. Sostanzialmente copre tutta l’Europa, ma recentemente abbiamo aperto in Polonia e Svezia e ci stiamo espandendo nel mercato del nord e dell’est. Essa non si limita soltanto alle grandi metropoli, ma copre ogni luogo di un Paese.

D. È possibile che in un determinato territorio non vi siano Eyes disponibili?
R. Abbiamo un modello abbastanza efficace di reclutamento di Eyes, che avviene in maniera ipergeolocalizzata sfruttando i canali di acquisizione online. Nei Paesi più avanzati dove siamo presenti da più di due anni, come l’Italia e la Francia, ormai spendiamo poco o niente in «recruiting» anche perché abbiamo un passaparola molto attivo. Oltre a ciò impieghiamo tecniche di «members-get-members», chi porta un conoscente guadagna lo stesso importo della prima missione svolta dall’amico coinvolto per suo tramite. Nei Paesi dove abbiamo appena aperto, per esempio la Polonia, facciamo un po’ di fatica ma attivando delle campagne di acquisizione e reclutamento il problema si risolve. Uno dei canali più importanti per le acquisizioni è sia il passaparola, sia Facebook.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Giugno 2017




TANIA SCACCHETTI: CGIL, TRA VOUCHER E CARTA DEI DIRITTI UNIVERSALI DEL LAVORO

L’assemblea della Cgil ha eletto il 29 novembre 2016 la nuova segreteria confederale nazionale con l’83 per cento. Cinque i nuovi ingressi al fianco di Susanna Camusso: tra questi anche il nome di Tania Scacchetti, segretaria della Camera del Lavoro di Modena. Nata 43 anni fa a Modena, Tania Scacchetti, sposata, due figli, diplomata al liceo classico, comincia la propria esperienza sindacale nella categoria del commercio da delegata della Cir (Coop italiana ristorazione) mentre frequenta la facoltà di Sociologia a Trento. Nel 2000 entra in distacco alla Filcams Cgil e nel 2005 viene eletta nella segreteria provinciale della categoria. Due anni dopo passa alla segreteria confederale di Modena, dove assume la responsabilità dell’area welfare. Il 3 dicembre 2012 il comitato direttivo della struttura la elegge, a larga maggioranza, nuovo segretario generale provinciale della Cgil di Modena ed è stata riconfermata il 5 marzo 2014, al termine dei lavori del XVII Congresso provinciale. Il 29 novembre 2016, al termine della votazione dell’assemblea generale della Cgil, entra a far parte della segreteria nazionale.

Domanda. Il lavoro occasionale sembrava, all’inizio, un ottimo incentivo nell’attuale crisi del lavoro, dando la possibilità a più lavoratori di essere attivi, ivi inclusi i pensionati, le casalinghe, i disabili, gli extracomunitari, gli studenti. Quindi l’allargamento dell’utilizzo del buono anche ai settori professionali. Da cui i famigerati «voucher». Cosa pensa la Cgil del voucher in sé e delle modalità in cui esso è stato abolito, dopo una campagna che ipotizzava il referendum per il 28 maggio?
Risposta. In Italia il sistema dei voucher ha subìto notevoli variazioni e modifiche. Nel 2003 i buoni lavoro erano destinati solo ai soggetti a rischio esclusione sociale per attività lavorative di natura meramente occasionale, e il campo di utilizzo era riservato esclusivamente a piccoli lavori domestici, assistenza ai bambini e agli anziani, ripetizioni, lavori di giardinaggio, e per manifestazioni culturali e sociali. Tra il 2010 e 2012, lo strumento del voucher ha perso ogni riferimento alla occasionalità, tutti i soggetti e tutti i settori potevano utilizzarlo, con il solo vincolo del tetto economico. Divenne così uno strumento malato, abusato e irriformabile perché sostitutivo del lavoro ‘buono’. Per questo ne abbiamo chiesto l’abrograzione tramite uno dei quesiti referendari a supporto della nostra proposta di legge, la Carta dei diritti universali del lavoro. Oggi siamo di fronte ad una prima vittoria: il Governo ha varato un decreto che ne prevede la cancellazione, ora aspettiamo che il Parlamento faccia la legge, a quel punto potremo dire di aver compiuto un grande passo contro l’impoverimento continuo del lavoro e dei suoi diritti, come unica logica della competizione.

D. Crede che un referendum avrebbe ammesso il voucher o lo avrebbe abolito? Quali sono le prossime iniziative della Cgil per movimentare il Governo e il Legislatore?
R. Da molti mesi siamo impegnati, prima con le assemblee, poi con la raccolta firme e adesso con la campagna elettorale, a discutere e a confrontarci con i cittadini ed i lavoratori. Abbiamo riscontrato molta condivisione sui temi proposti e la volontà di rimettere al centro del dibattito e delle scelte politiche del Paese i diritti del lavoro. Siamo certi che i referendum popolari avrebbero mobilitato molti elettori e trovato il loro sostegno. Finché non avremo una legge in merito che fa decadere la consultazione referendaria, prevista per il 28 maggio, continuiamo la nostra campagna elettorale. In programma abbiamo numerose iniziative su tutto il territorio nazionale e l’8 aprile si terrà a Roma un attivo nazionale dei nostri quadri e delegati per organizzare la nostra sfida per i diritti e conquistare la Carta dei diritti universali del lavoro.

D. Sembrerebbe che l’introduzione dei «buoni-lavoro» abbia, piuttosto che ridurlo, aumentato il lavoro nero. Vero? In che modo? In realtà, molto spesso i voucher sono stati utilizzati come «fuori-busta», una sorta di ricatto anche al dipendente. Cosa ne pensa?
R. Siamo certi che l’uso dei voucher abbia favorito e non ridotto il lavoro nero. In questi anni di completa deregolamentazione dell’utilizzo dei buoni e in assenza, quasi totale, di percorsi certi e controllati di tracciabilità, il voucher, in molti casi, ha remunerato solo una parte residuale delle ore di lavoro svolte da una persona. Un fenomeno diffuso rilevato anche dall’Inps. Il fatto che non esista un contratto a normare l’uso dei voucher, ma che il rapporto sia solo fra il prestatore e l’utilizzatore rende certamente ricattabili i lavoratori: molti ci riferiscono che viene loro detto che li si farà lavorare solo se sono accettati i voucher.

D. E in che modo con l’impiego dei voucher possono essere tutelati i diritti fondamentali del lavoratore (a partire dagli infortuni sul lavoro o la maternità)?
R. I lavoratori pagati con i voucher non hanno tutele, non hanno diritto alla malattia, alla maternità, alle ferie, ai permessi o alla disoccupazione. La maggior parte dei ‘voucheristi’ non riesce ad accumulare un numero di contributi utili a maturare un mese di contribuzione all’anno.

D. Con l’eliminazione del voucher, in che modo possono essere aiutati i lavoratori più deboli? E come tutelarli?
R. Noi abbiamo una nostra proposta, contenuta nella Carta dei diritti, per normare il lavoro occasionale e considerarlo nell’ambito del lavoro subordinato, quindi riconoscendo tutti i diritti previsti dallo stesso. Crediamo che il contratto di lavoro subordinato occasionale debba avere natura meramente occasionale e saltuaria ed essere attivato solo per studenti, inoccupati, pensionati e disoccupati per piccoli lavori domestici, familiari o per la realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali di piccola entità. Pensiamo inoltre che opportunità di qualificazione professionale possano rappresentare un sostegno per i lavoratori più deboli.

D. In che modo l’Italia può combattere l’elusione e l’evasione? Ci sono proposte CGIL che riguardino il lavoro nero e che non è accettata dai vari Governi? Quali sono?
R. In Italia ogni anno vengono evasi dai 91 ai 180 miliardi di euro, 47 solo di Iva, risorse preziose che vengono sottratte al rilancio dell’economia. Infatti, i miliardi evasi non ingrossano né i consumi né gli investimenti, ma sono accumulati prevalentemente in ricchezze private. Per questo crediamo serva una vera e grande lotta all’evasione fiscale per l’equità, l’efficienza e lo sviluppo del Paese. È necessaria una riduzione strutturale della ricchezza evasa più che il recupero di una imposta ormai non pagata. Proponiamo una serie di azioni volte alla trasparenza della formazione del reddito e alla repressione delle irregolarità attraverso la tracciabilità, la rapidità e la semplicità delle informazioni sui movimenti di beni, servizi e denaro, e lo sviluppo tecnologico. Tutto ciò però non può prescindere da una forte volontà politica.

D. I giovani sono patrimonio italiano. Per quanto ormai si parla di giovani anche quando si tratta di ultraquarantenni… Non siamo più un Paese dove il lavoro è un diritto, la meritocrazia una garanzia, una vita «normale» scontata. Molti non fanno figli perché non hanno lavoro né casa. Si fugge dall’Italia, perdiamo così tutto l’investimento fatto sull’istruzione e la formazione, ma forse la piaga più grande è proprio quella dei «giovani» che in Italia restano. Se ne parla, se ne parla, se ne parla… eppure i curricula non arrivano mai da nessuna parte e non vengono letti. Il nepotismo prevale. Le paghe sono al limite del vergognoso. Dov’è finita la «dignità»?
R. Per la Cgil la vera emergenza sociale del Paese è la disoccupazione giovanile e l’aumento dei giovani intrappolati nella condizione di Neet (Not in Education, Employment or Training, ndr). Le riforme del lavoro, ultima il Jobs Act, e il programma europeo di Garanzia Giovani non hanno rappresentato una svolta per la condizione giovanile, anzi hanno contribuito alla precarizzazione e al proliferare di tirocini che raramente si sono trasformati in stabili occasioni di lavoro. Il programma europeo può rappresentare un’importante opportunità, se però non lo si utilizza solo come ‘escamotage’ dalle imprese per ridurre il costo del lavoro. Riteniamo che non sia più rinviabile una discussione su un piano straordinario per l’occupazione giovanile, come proponiamo da tempo.

D. Cosa pensa la CGIL del problema degli immigrati? In generale e dal punto di vista del lavoro. Una posizione chiara? Proposte ferme?
R. Innanzitutto il fenomeno migratorio non è un problema, ma una risorsa, una grande opportunità sia per chi parte sia per le società che accolgono. In Italia, così come in tutti i Paesi di destinazione, la forza lavoro degli immigrati rappresenta un sostegno prezioso perché spesso utilizzata per compensare la carenza di risorse interne in determinati ambiti produttivi e, in generale, per contrastare il progressivo invecchiamento della popolazione. In questi lunghi anni di crisi, i lavoratori stranieri hanno ricoperto un ruolo ancor più centrale per le dinamiche occupazionali. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un’inversione di tendenza: gli emigrati italiani all’estero sono cresciuti più degli immigrati in Italia, e spesso, purtroppo, a partire sono i giovani, con una grande bagaglio, quello formativo. Per questo ribadisco la necessità di un piano straordinario per l’occupazione giovanile.

D. Per quanto riguarda le pensioni, come possiamo immaginare un futuro che ci garantisca di recepirle, e, soprattutto, com’è possibile che si continui ad aumentare l’eta pensionabile ma senza possibilità di trovare lavoro?
R. Gli effetti di una riforma sbagliata come quella Fornero sono sotto gli occhi di tutti. L’innalzamento dell’età pensionabile ha penalizzato moltissime persone poiché i lavori non sono tutti uguali ed è impossibile continuare a svolgere determinate mansioni ad una certa età. Ma, soprattutto, spostare sempre più avanti i requisiti per l’accesso alla pensione costituisce un impedimento alle assunzioni dei giovani. Da mesi siamo impegnati unitariamente per modificare la legge. Con l’ultima manovra abbiamo ottenuto alcuni risultati per la tenuta del potere di acquisto dei pensionati e per consentire ai lavoratori precoci, in determinate condizioni, di accedere alla pensione con il requisito di anzianità di 41 anni, un diritto che secondo la Cgil dovrebbe essere esteso a tutti. Inoltre nella legge di stabilità si prevedono due misure: l’Ape volontaria, strumento per noi negativo ed ingiusto poiché vincola l’accesso anticipato alla pensione ad un vero e proprio mutuo, e l’Ape sociale, in cui, per lavoratori in determinate condizioni di svantaggio, il costo del prestito è a carico dello Stato. I decreti attuativi relativi a questi interventi, in via di definizione, presentano alcuni limiti, in particolare la definizione di platee molto ristrette. Andrà poi affrontato il nodo di come garantire un futuro previdenziale universalistico e dignitoso alle giovani generazioni, che si affacciano tardi nel mercato del lavoro, hanno spesso carriere discontinue e basse retribuzioni. Questi ed altri temi sono oggetto di un confronto per noi necessario e sul quale manteniamo aperta la mobilitazione sindacale.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Aprile 2017




CONFSAL: MARCO PAOLO NIGI, VOUCHER O NON VOUCHER SI “VUOLE” EVADERE

Per lui, il sindacato è una scuola di vita. Scuola anche perché è dalla scuola che proviene, come professore. Segretario generale della Confsal, principale Confederazione dei sindacati autonomi, e dello Snals, storico rappresentante dei lavoratori della scuola, spiega la sua visione tout court sullo stato generale del mondo del lavoro, a partire dai famigerati «voucher».

Domanda. Cosa pensa dei voucher?
Risposta. Il voucher poteva servire a diminuire il lavoro nero ma per come è stato proposto ha dimostrato il contrario, e cioè il suo stesso aumento, un paradosso.

D. In che modo ciò è accaduto?
R. Il primo errore commesso dal Governo è stato quello di non distinguere le categorie: non si può assolutamente pensare di abbracciarle tutte sostituendo la retribuzione con i voucher. Dovevano essere esclusi innanzitutto i lavoratori dipendenti che non possono accedere ai voucher perché hanno i contratti che li tutelano sotto il piano fiscale, retributivo e contributivo; dovevano invece essere incluse altre categorie quali i lavori cosiddetti domestici, a cominciare da giardinieri, casalinghe, elettricisti, falegnami, donne delle pulizie, perché non si possono tutelare con contratti di lavoro occasionale. Eppure i voucher sono stati estesi dal settore «domestico» a quello professionale. La paura nei riguardi di una Confederazione come la Confsal – che aveva detto che avrebbe raccolto le firme per il referendum e, di fatto, le ha raccolte -, più in generale la paura di perdere il referendum, ha portato il Governo a fare un altro errore: non a modificare lo strumento ma a toglierlo di mezzo. E questo è stato un secondo errore, perché il voucher costituisce di base un’idea valida.

D. In che modo i voucher hanno inciso o inciderebbero sulla pensione?
R. Le pensioni sono un sistema che si regge in piedi su un equilibrio finanziario entrate=uscite, è così che garantiamo a tutti le pensioni. Ma nel momento in cui si presenti un disavanzo esso va coperto, altrimenti non è possibile pagare le pensioni, sperando inoltre che i più anziani muoiano, e si dà una reversibilità a una percentuale più bassa. Se si aggravano le uscite bisogna agire sulle entrate e ciò lo fa lo Stato con l’aumento del debito pubblico. I problemi del mondo d’oggi che interagiscono con le pensioni sono anche le coppie di fatto, le unioni civili, i matrimoni con le donne dell’est che si lasciano sposare e ottengono la pensione di reversibilità. Così, a forza di aumentare l’età pensionabile, arriveremo a cento anni. Noi riteniamo che sia necessario aumentare il numero dei contribuenti, per questo eravamo favorevoli ai voucher, concettualmente utili alla lotta all’evasione fiscale e al sommerso. Il voucher è stato creato dal Governo Berlusconi, poi cambiato dai premier successivi Monti e Renzi; prima erano lotta all’evasione, poi si sono trasformati in un incentivo perché invece di assumere, al datore è proposto il voucher, e il resto è dato al nero.

D. Può essere anche considerato come un ricatto al dipendente?
R. Certo, il datore di lavoro cerca di risparmiare sempre mentre il lavoratore è una categoria debole che pur di guadagnare, soprattutto in tempi di crisi, accetta qualunque compromesso. In realtà l’evasione non si risolve perché non ce n’è la volontà, non perché non ce ne siano le possibilità.

D. Secondo la sua esperienza, nel referendum chi avrebbe vinto?
R. Avrebbe vinto chi proponeva il referendum, ossia chi ne voleva l’eliminazione, perché anche i lavoratori si sono resi conto che questi bonus per il lavoro accessorio non andavano a loro vantaggio, peraltro non garantendo nemmeno i diritti classici come in caso di incidente sul luogo di lavoro o i mesi dedicati alla maternità. Dai voucher il «piacere» lo hanno avuto solo i datori di lavoro e questo molti lavoratori lo sanno.

D. I voucher vengono usati negli altri Paesi, ma funzionano?
R. Funzionano e ci sono, come in Germania e nei Paesi del nord.

D. Manca la dignità del lavoro: come si spiega che all’estero le cose funzionino, mentre da noi è un’epopea?
R. In atto ci sono tanti contrasti; il primo è quello di un fisco europeo diverso da nazione a nazione. La paga oraria di un operaio tedesco è uguale alla paga di un operaio italiano, 19 euro l’ora, però il netto che percepisce il lavoratore tedesco è il doppio di quello che percepisce il lavoratore italiano perché il 53-55 per cento glielo porta via la tassazione. Si ha una moneta unica, una politica unica, ma un fisco diverso, quindi la prima cosa che dovrebbe farsi è unificare il fisco in modo che la paga netta di un operaio sia uguale per tutti.

D. E i giovani come faranno?
R. Vorrei fare un discorso partendo più da lontano: è la scuola che mette nelle condizioni di non essere meritevoli. Oggi sono usati solo due voti, il 9 e il 10, e il 5 non lo da più nessuno altrimenti i genitori divengono subito i sindacalisti dei propri figli. Quindi c’è un diritto allo studio ma non c’è un dovere di studiare: in Italia bisogna cambiare la scuola perché se non c’è istruzione non c’è futuro, bisogna rivalutare il ruolo sociale degli insegnanti. I giovani devono fare un percorso di istruzione, educazione e formazione, ci vorrebbe una scuola diversa, dove si studia, dove ci si impegna e dove va avanti il merito. Bisognerebbe aumentare gli anni per la preparazione di base e diminuire gli anni universitari, invece si sta facendo il contrario. L’ho definita umoristicamente la «teoria dell’uovo sodo»: se si mette un uovo a sodare per oltre 6 minuti l’uovo diventa verde ed è da buttare. I giovani di oggi sono diventati verdi. Ho cominciato a insegnare nel 1968 e guadagnavo 107 mila lire al mese, ora gli insegnanti prendono circa 1.200 euro, ma non c’è né paragone né proporzione perché se prima una stanza costava qualche milione di lire, adesso ci vogliono migliaia di euro, per cui un giovane non può neppure comprarsi casa. C’è da dire un’altra cosa; allora era poca la retribuzione ma era alta la considerazione sociale, ora un giovane insegnante viene definito non all’altezza. Bisogna ripartire dall’investimento nella scuola, non considerarlo un costo: non va tagliato bensì considerato un investimento redditizio. Stanno cercando di massificare tutti i cervelli in modo che non abbiano elementi di criticità e che siano manovrabili.

D. Credete ancora nel potere dello sciopero?
R. Lo sciopero è un’arma obsoleta cui un sindacato moderno non dovrebbe neanche pensare, andava bene una volta quando ci si credeva e quando c’era un padrone, una controparte; oggi questa figura non esiste più, non esistono più né l’operaio né il padrone. Se persiste l’attuale situazione di crisi, si possono determinare proteste non controllabili o l’utilizzo estremo dello sciopero. Ultimamente si sono visti gli orrori da parte della Pubblica Amministrazione e del potere politico, che farebbero arrabbiare anche le persone più pacifiche. La storia degli 80 euro introdotta dal Governo Renzi, ad esempio: hanno calcolato questi 80 euro andandoli a sommare al reddito e quindi chi ne usufruisce deve pagare ulteriori tasse, portando i contribuenti all’esasperazione. Inoltre, così facendo hanno parificato colui che prendeva uno stipendio di non oltre 1.300 euro con colui che aveva ottenuto, per scelta del datore, uno stipendio da 1.380, in un certo senso colpendo la meritocrazia anche qui. Altra cosa grave accaduta di recente è stata quella di consentire a Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle di mettere treni sulla nostra linea ferroviaria, causando una congestione del traffico con spaventosi ritardi e non dando alcun vantaggio ai contribuenti nonché viaggiatori, perché i binari si sono «intasati» e si corre sempre il rischio che un treno si fermi e blocchi gli altri. Tutto questo si è fatto per liberalizzare, perché quegli stessi che volevano nazionalizzare sono gli stessi che ora vogliono privatizzare; coloro che hanno rovinato l’agricoltura sono gli stessi che oggi danno gli incentivi per tornare a coltivare la terra. Possono permettersi di farci qualsiasi cosa.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2017