HO FONDATO UN CORO BRASILIANO: IL CORO DI RIOMA. L’INTERVISTA AL SUO DIRETTORE, LA BAIANA CLAUDIA MARSS

Ho pensato di fare un coro differente, e ho fondato il Coro di Rioma (Rioma Brasil è il mio giornale di cultura brasiliana, su www.riomabrasil.com), non perché a Roma non ve ne fossero, anzi: oltre agli altri, già ne sono presenti vari del Saint Louis College of Music. Ora questo, un coro brasiliano, differente semplicemente perché lo abbiamo pensato differente. Innanzitutto, un laboratorio: un corso dove apprendere poliritmia, polifonia, vocalità brasiliana, anche la sua nasalità. Ciò era mancante nel panorama romano: la docenza nella coralità brasiliana. Ma ciò che principalmente ci ha mosso è stato ascoltare la grande cantante soteropolitana (ossia, proveniente da Salvador de Bahia) Claudia Marss.

Ascoltare Claudia Marss in un concerto nel chiostro di una parrocchia (si veda: http://www.riomabrasil.com/benedetta-claudia-marss-e-benedetto-coro-di-rioma/), cui si sono uniti i partecipanti di un coro Gospel da lei educato, ci ha dato il la definitivo per la creazione del Coro di Rioma. Il grande amore verso questa docente, portatrice di valori e di «verdeoreficità», hanno rafforzato l’intento. Per la prima volta il Brasile entra dalla porta principale del Saint Louis, unica in Italia parificata all’Università con decreto. Intervistiamo Claudia Marss.

Che progetti hai per il Coro di Rioma? L’idea è di un coro di Musica Popular Brasileira (MPB). Non ne esistono molti in giro e comunque, di certo, non ce ne sono diretti da un brasiliano. E quel che fa la differenza è la percezione ritmica, sia nella conduzione dell’accompagnamento, vocale o strumentale, che nell’appoggio della melodia stessa con i suoi possibili spostamenti. Il tutto senza tralasciare l’importanza della pronuncia e della giusta vocalità. Il mio coro canta la melodia, l’armonia e fa vocalmente anche la ritmica. La musica brasiliana si sta (finalmente) diffondendo com’è successo anni fa con il jazz. Non si limita solamente a quei pochi brani in stile bossa nova che fanno parte del Realbook o a quegli altri ricantati in versione italiana. Roma non è ancora ai livelli di Parigi e New York per numero di artisti brasiliani di grande nome residenti, però la richiesta e la conoscenza del ricchissimo repertorio della MPB sta crescendo esponenzialmente. Come progetto vorrei avviare un coro che faccia dei concerti con e senza di me.

In che modo imposti il programma di lezioni, considerata l’affluenza di italiani ai laboratori con le conseguenti difficoltà? Il coro è un punto d’arrivo. Li voglio formare facendo laboratori sulla poliritmia nei diversi stili, sulla pronuncia e la vocalità, e costruiremo il repertorio mentre si formano i coristi. Ho la consapevolezza di avviare un coro brasiliano in Italia, quindi i coristi saranno italiani. Ecco perché parlo di formazione: non basta mettere insieme un gruppo di persone a cantare. Coro si diventa. Il ritmo, gli accenti, la pronuncia ed i suoi fonemi si imparano. Si può cantare in un’idioma anche se non lo si parla.

Cosa è importante conoscere per entrare a far parte di un Coro? Non è una questione di conoscenza. Si parte dal presupposto che un aspirante corista sia intonato e canti a tempo, anche se non sa leggere la musica. L’ideale è avere un gruppo dove tutti la conoscano, cantino e siano dello stesso livello, ma anche questo è un punto di arrivo. Lavorando con un gruppo misto di appassionati, mi rendo prima conto di come cantano singolarmente e di che tipo di voce hanno; una volta diviso il gruppo, si lavora per imparare a cantare coralmente. Succede solo provando insieme. Un coro può essere buono anche senza solisti di pregio, anzi, alcune volte un bravo solista non è un bravo corista. Si devono ascoltare le diverse sessioni a blocco, e all’unisono nessuna voce si deve sentire più delle altre, trovando un timbro unico che le faccia suonare come una voce sola.

Chi è Claudia Marss? Sono nata a Salvador in una zona del centro storico, a Garcia, vicino Campo Grande. Ho cominciato con la danza, entrando in una compagnia fondata da professori del Teatro Castro Alves. Nel frattempo mi diplomavo anche come perito elettronico. Finita la scuola ho fatto due anni in Conservatorio di chitarra classica, che ho abbandonato per lavorare per la TeleBahia come chitarrista e cantante. Dopo aver vinto il Festival interno l’organizzaione mi iscrisse al premio Trofeu Caymmi, e ne uscii prima come interprete emergente. Era il 1986, e a quel punto la musica ha preso il sopravvento.
Il sopravvento musicale come si esplicitò? Nel 1988 sono entrata come corista nella band baiana di Gilberto Gil con Daniela Mercuri, prima che fosse Daniela Mercury. Ho fatto tutto il 1988 con Gil, quando era candidato come sindaco di Salvador; all’ultimo momento il prefetto decise di candidare un altro e Gil rimase consigliere comunale (il più votato). La campagna tra politica e concerti finì con questo, dopo molte tournée in tutto il Brasile.

Come sei arrivata in Italia? Avevo conosciuto un musicista italiano, Corrado Nofri, che aveva portato il jazz a Salvador (uno dei rari che aveva il Real Book, importato dall’Italia, con il quale fece impazzire tutti). Registrai un paio dei suoi brani, cantammo anche nell’isola di Itaparica, e nel 1990 mi invitò in Italia a fare concerti di promozione del disco. Dopo tre mesi a Vetralla per concerti, a Roma conobbi mio marito e mi trattenni. Era il luglio del 1990.

Com’è continuato il tuo percorso musicale? Con la Folk Magic Band, nata negli anni 70, che Nofri aveva rimesso su negli anni 90, dove si concentrava tutta la musica del quartiere di Testaccio, da Lillo Quaratino, Guerino Rondolone ed altri, una big band di 25 persone con brani originali. Quando cominciò a funzionare, Nofri tornò in Brasile. Mi avvicinai per caso al Blues con Harold Bradley, ed ebbi accesso alla musica Gospel e alla conoscenza di un altro grande americano, Nehemia Brown. Quest’esperienza fece crescere moltissimo la mia voce: da una voce più sottile e nasale passai a un timbro più ricco e amplio, cantando diversamente anche la musica brasiliana.

Dalla nasalità brasiliana al Blues cosa corre? La voce è leggermente di gola, le cantanti brasiliane sono spesso autodidatte ed hanno una vocalità molta nasale: la musica brasiliana non esige più di tanto l’esplosione americana. Ho sperimentato ancora utilizzando la mia radice afro-baiana riletta in chiave jazzistica, più ricca armonicamente con colori percussivi tipicamente afro-baiani ed aperture armoniche più jazzistiche, rentrando ancora nella musica brasiliana, che non ha confini, ma con una sperimentazione più azzardata, senza accontentarmi di cantare semplicemente i brani ma dando loro una connotazione particolare.

Qual’è l’idea migliore che hai della voce? Molti in Brasile hanno usato la voce anche come strumento, non solo emotivamente: ricordo Ellis Regina, grande interprete di colori e di dinamica, ma anche voce potente, o Milton Nascimento, che crea atmosfera e riporta nella dimensione trascendentale solo col suono della voce senza niente di particolare sotto. L’idea della voce come strumento di trasporto. Poi ho scoperto Lenine Andrade, la chiave jazzistica nella musica più brasiliana: cantante che non era semplicemente «canarino», ma anche strumento.

Hai sostituito Amy Stewart. Com’è nata la tua collaborazione con Nicola Piovani? Insieme a Vincenzo Cerami, Piovani aveva scritto uno stupendo spettacolo, “Stabat Mater – La Pietà”, per la solista nera Amy Stewart (che a quel tempo lavorava con molti, tra cui Ennio Morricone), al suo fianco una cantante lirica, Rita Cammarano, e i testi di Cerami letti e recitati da Gigi Proietti. Dopo 5 anni dalla presentazione di questo spettacolo, la compagnia fu invitata a Betlemme a mettere la prima pietra per la costruzione di una gigantesca scuola elementare gestita dai francescsni. Amy aveva uno spettacolo su Billie Holiday e per sostituirla furono fatti dei provini: Piovani mi scelse e mi portò a Betlemme e Tel Aviv.

In quali altri progetti hai partecipato? Molti. Nel 2008 ho avuto una partecipazione con la Fondazione Toscanini, che aveva chiamato la Jazz Art Orchestra e, in omaggio a Nini Rosso, più di 50 musicisti avevano scritto brani da cinema anni 50 e 60. Un progetto molto azzardato è stato quello di voci gospel ed un quartetto d’archi barocco, con arrangiamento della musica dei Padri Fondatori secondo il Gospel degli anni 70. Il testo era del ‘600, la musica del ‘700 (di Bach), spinto fino al Gospel del 900.

Hai lavorato mai in Brasile in seguito? Con molti musicisti che purtroppo non hanno pubblicato dischi, tra cui Franco Brasiliano, Acelino de Paula, Ricardo Feijão, bassista nei primi dischi di Marisa Monte, Robertino de Paula (figlio di Irio), Alvinho Senize, chitarrista di Alcione, Augusto Alves. Una parentesi italiana anche con Roberto Ciotti.

Vi invitiamo a partecipare al Coro di Rioma, perché la coralità possa divenire il simbolo di un passaggio obbligato di crescita, ove non di rinascita e conoscenza interiore e dell’altro. Per contatti didattici o di agenzia: info@riomabrasil.com – www.riomabrasil.com

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EVANDRO DOS REIS: UN MICHAEL JACKSON DI “VERDEORO” COLATO

di ROMINA CIUFFAEvandro Dos Reis, chi non lo conosce? Tutti sanno che è stato, a Roma, uno dei fondatori del movimento brasiliano di questo millennio, importando dal Brasile la roda de samba che, con un altro folto gruppo di brasiliani, ha animato le notti prima della Fonderia, poi di molti altri luoghi e locali romani, come si fosse a Ramos, zona Nord di Rio de Janeiro, dove è attivo dal 20 gennaio del 1961 uno dei blocchi carnevaleschi più noti, quello dei Cacique de Ramos. Così Evandro, trasferitosi a Roma pieno di valigie musicali, ci ha trasportato da Roma a Ramos attraverso dei grandi capotribù, i Cacique de Roma. Da allora l’attività di questo paulista non è mai terminata in Italia, che grazie a lui ha conosciuto meglio non solo il Samba, nelle note della sua chitarra e del suo cavaco, ma anche il genere del Forrò, che Evandro predilige (oggi questa predilezione si è formalizzata nel gruppo neonato a San Paolo, i Matuto Baião) non mancando la tradizione della MPB, della quale Evandro Dos Reis ci rende partecipi da sempre. Tornato stabilmente in Brasile, trascorre vari mesi l’anno a Roma, facendo parte integrante e fondamentale dell’Orchestra di Piazza Vittorio, di recente essendo stato anche tra i protagonisti incontestabili del Roma Forrò Festival, figlio anche di quella generazione che al Beba do Samba di San Lorenzo ha avuto l’occasione di conoscere cosa voglia davvero dire “verde-oro”. Chi non conosce Evandro Dos Reis? Nessuno. Ma chi lo conosce bene, davvero? Pochi. Per questo, lo intervisto per dar conto di una realtà capiente che ci ha liberati dalle dissonanze, e sapere di Evandro cose in più: dov’è nato, cosa lo ha portato in Italia, etc.? E poi, chi è che sa che lui cominciò come i Jackson Five, nella band dei cugini, Tudo em Familia? Un brasiliano Michael Jackson, per noi “verdeoro colato”.

Evandro, puoi raccontare discorsivamente ed emotivamente la tua biografia? Sono nato a Osasco, in Brasile, in una famiglia di musicisti, mia mamma e le mie zie cantano benissimo, suo padre (mio nonno) e suo fratello suonano e costruiscono fisarmoniche, sono cresciuto ascoltando loro cantare nelle feste di famiglia, ma anche a pranzo o durante le faccende quotidiane. Quando ho fatto 6 anni mio cugino mi ha regalato uma chitarra classica e mio padre mi ha messo in uma scuola di musica dove ho studiato per 4 anni. A 10 anni sono entrato in Conservatorio, dove ho studiato per 7 anni; e nel mentre ho fondato la mia prima band Tudo em Familia assieme ai miei cugini, abbiamo fatto um sacco di concerti in giro per São Paulo e inciso un vinile in un festival di samba dove la prima canzone che io ho composto é arrivata quarta. A 17 anni mi sono iscritto alla Universidade Livre de Musica dove ho studiato per 4 anni e, appena finito, ho iniziato a lavorare in una nave da crociera. Lì ho conosciuto quella che poi sarebbe diventata mia moglie, e così sono finito in Italia.

In Italia quale è stata la tua esperienza? La prima persona con la quale ho lavorato in Italia è stato Giacomo Bondi, con lui ho collaborato come strumentista e come autore, e nel 2004 abbiamo inciso um cd, “Evandro Reis”, con delle mie canzoni arrangiate da lui. Tramite questo lavoro siamo stati invitati dal conduttore radiofonico di Rai Uno Max de Tomassi per fare un’intervista nella sua trasmissione Brasil: Max è stato ed è tutt’ora una persona con cui collaboro e chiacchiero volentieri di musica. Tramite lui ho lavorato prima con Franco Cava, suonando nella sua band in Italia, e poi com Jovanotti nella band che ha suonato al Live8.

In che modo sei entrato a far parte dell’Orchestra di Piazza Vittorio?  È una storia interessante: tre anni prima ero stato invitato da Mario Tronco a suonare con l’Orchestra di Piazza Vittorio (OPV) che in quel periodo aveva appena fatto il primo concerto, La cosa non si era conclusa e le nostre strade si erano divise, fino a quando due miei amici in vacanza dalla nave persero il treno che da Genova li avrebbe portati a Roma e, rimasti un giorno in più a Genova, la sera andarono a vedere l’OPV e a fine concerto, chiacchierando con il Maestro Tronco, hanno contestato il fatto che in un’Orchestra del genere non vi fosse un brasiliano. Mario parlò di me e loro, increduli, gli confidarono che il giorno seguente sarebbero stati ospiti a casa mia, così Mario gdiede loro il suo numero di telefono dicendo di chiamarlo. L’ho fatto e ci siamo dati appuntamento per settembre quando l’Orchestra avrebbe iniziato a registrare il suo secondo album “Sona”, senza sapere nel mentre che io suonavo nella band di Jovanotti e Jovanotti aveva invitato l’Orchestra a fare una partecipazione ad una canzone, così ci siamo rivisti proprio in occasione del Live8 e da lì è iniziata l’avventura più bella della mia vita: ho suonato con l’OPV per 8 anni e con essa ho realizzato tutti i sogni che un bambino che impara a suonare uno strumento musicale ha, ho inciso dischi incredibili, ho suonato nei più importanti palchi e del mondo, ho lavorato con produttori mondialmente conosciuti. L’Orchestra mi ha dato la possibilità di capire e conoscere musiche, culture, credenze e ideologie che porterò con me per sempre, ogni musicista che suona in quel gruppo potrebbe scrivere libri e libri di storie e conoscenze e convivere con questo: l’esperienza non ha prezzo! Il mio lavoro con l’Orchestra ha avuto un’interruzione nel 2012, la crisi aveva portato dei cambiamenti in Italia ed io nel mentre sentivo un’enorme curiosità di capire chi ero al di fuori del contesto di gruppo, L’Orchestra è comoda perchè ti fa sentire importante, ma volevo capire cosa avrei potuto combinare da solo, o semplicemente in un contesto diverso, così sono partito per una vacanza alla fine del 2012 ed ho deciso di restare in Brasile.

In sintesi: la mia storia con l’Orchestra di Piazza Vittorio comincia nel 2002 anche se il mio ingresso è stato nel 2005 dopo l’incontro sul palco del Live8 dove suonavo con Jovanotti e lui ha invitato l’Orchestra a partecipare alla presentazione, ho iniziato durante le registrazioni del disco Sona, poi nel 2006 e 2007 abbiamo girato il mondo con il disco ed il documentario, nel 2008 e 2009 abbiamo fatto il primo spettacolo teatrale, il Flauto Magico, dove io facevo uno dei 3 fanciulli, con il quale spettacolo abbiamo girato tanto; nel 2012 abbiamo fatto il disco Isola di Legno, con canzoni autorali  disco  che coincide con il mio ritorno al Brasile, fino al 2015 quando sono stato chiamato dal Maestro Mario a Roma per fare il Don Josè alla Carmen secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio.

Quali sono state le tue prime esperienze musicali? E come si è susseguita la tua carriera musicale fino ad oggi? Con i i miei cugini nel gruppo “Tudo em Familia” ho iniziato a suonare nei primi palchi “veri”, ho scritto le mie prime canzoni, ho inciso una canzone in un disco per la prima volta! La mia carriera musicale è stata piena di colpi di scena e molto intensa fino a qui, ho iniziato molto presto e tutto quello che io sono intelettualmente e ideologicamente parlando lodevo alla musica.

Chi sono stati i tuoi principali ispiratori? Musicisti o falegnami, genitori o insegnanti, bulli o matematici… che nomi? Da sempre sono ispirato dalle cose che mi circondano, sono sempre stato molto curioso ed ho sempre il perché dei bambini piccoli, la strada brasiliana, credo, sia stata la prima ispirazione, quando ero ragazzino si cresceva molto in fretta in Brasile, stavamo sempre per strada a giocare prima, amare e lavorare dopo, tutto molto velocemente. Ho da sempre preso ispirazione dalle cose che mi capitavano o incuriosivano, le mie storie d’amore (banale ma vero) sono state le prime ad uscire dalla mia mente per finire sulla carta, ma ho avuto anche muse ispiratrici della cui figura mi innamoravo, ma che non necessariamente divenivano storie d’amore, “Tatuagem” infatti, la prima canzone del disco della Matuto Baião l’ho scritta per una ragazza che ho visto ad un matrimonio, lei aveva un bellissimo tatuaggio sulla schiena. Poi ho scritto altre per lei che non ho ancora inciso e non siamo mai stati insieme… Scrivo spesso cose sul calcio, il calcio è troppo bello e non c’è bisogno di aggiungere altro.

Cosa ti ispira in questo momento? In questo perìodo sono molto ispirato dalla filosofia, il concetto delle cose: partendo dai greci fino al nostro periodo, leggo libri e libri, finisco uno che menziona un’altro e così via… Mario Sergio Cortella mi ispira molto, ma anche Clovis de Barros, tramite loro ho conosciuto Umberto Eco, ma anche Kant ed altri, a volte penso che impazzirò! Non ha fine questa cosa! Comunque l’ispirazione può partire nei modi più assurdi, ieri ero nella metropolitana e leggevo un post di un’amica, Carmel Dutra, che tornando da un viaggio spiegava la parola africana ubuntu che esprime una filosofia ed un antico concetto di etica: “Sono ciò che sono perché siamo tutti noi”. Alla fine lei ha scritto “porque sou o que sou pelo que nós somos”, sono ciò che sono per quello che siamo noi. Io ho commentato: “Ne uscirà fuori una bellìssima canzone”, e lei ha confermato: “Sarebbe bellissimo”. L’ispirazione tramite ciò che mi circonda!

La Banda Matuto Baião, appena nata, è il tuo passo musicale più recente, ed è un passo di Forrò. Puoi raccontare in che modo si è formata e cosa vi anima? La band è formata da 3 persone io, Tiago Nepomuceno e João Lopes, ci siamo conosciuti tramite Priscila D’Oro, assistente di direzione forrozeira e mia amiga del cuore che ho conosciuto a Roma. Quando siamo tornati in Brasile frequentavamo i forró di São Paulo e lei me li ha presentati, siamo diventati amici e condividevamo l’idea che la scena del “forró pé de serra” in Brasile non era molto creativa, ci sono molti musicisti e band valide ma molte cose sono semplicemente copie del lavoro fatto da Luiz Gonzaga. Noi volevamo fare un lavoro autorale, qualcosa che in grande o in piccolo contribuisse alla causa.

Sono brani autoriali: di cosa parlano? Chi li scrive? I brani li scriviamo io e Tiago Nepomuceno e i temi sono vari, ma in comune hanno la semplicità della vita quotidiana, cose semplici come il fatto di chi lavora tutta la settimana aspettando di andare al Forró nel fine settimana a ballare con una certa persona (“Passo a passo“), oppure di una persona che vive in campagna e riesce a vincere anche in un contesto urbano (“Resposta a saudade”), ecco, questioni di vita semplici, e a volte anche complicate. Obiettivamente, questo “penta”album ha una qualità molto elevata.

Il Forrò è sempre stato appannaggio di alcuni grandi (è proprio del Brasile “ripetere” brani altrui, differentemente dalle modalità italiane). Cosa ti/vi ha dato questo coraggio? Ho fatto sentire ad alcuni amici che hanno band o lavorano con il Forró i nostri brani quando ancora erano demo e la loro reazione era sempre meravigliata: “Tutti brani vostri? Non ci sono cover?”. Questo perché nel ambito del Forró esiste da sempre la filosofia di ri-registrare brani, a volte, con un arrangiamento molto simile alla versione originale. Noi pensiamo invece che è fondamentale avere un’identità di gruppo, nel disco è stata una scelta pensata anche per la quantità di musica che io e Tiago scriviamo, abbiamo molto materiale, ma anche nei nostri concerti a São Paulo le cover che facciamo sono pensate, sono meno conosciute e sono riarrangiate per avere la nostra impronta.

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Una sfida ad ampio margine, un “salto nel vuoto?”, o meglio: un Forrò acrobatico: sarà un successo in Brasile? C’è la possibilità che “vosso Forrò” possa essere ballato nel Pelourinho o alla Feira de São Cristòvão, o inserito nella programmazione accanto a “Esperando na Janela”? O più probabile nei club vip di San Paolo? Noi facciamo del nostro meglio per aprire un nostro spazio, più spazio riusciamo ad avere meglio è, in realtà il forro “pé de serra”, quello di Luis Gonzaga ha un pubblico specifico e fa più sucesso al sud del Brasile che al nord dove è nato. Quindi conquistare questo pubblico è il primo obiettivo.

Sappiamo che il Forrò è nordestino. Voi nascete più a sud (per non dire troppo più a est… fino a Roma). Com’è il panorama forrozeiro di San Paolo? São Paulo senza dubbio è il posto dove si balla più Forró “pé de serra” di tutto il Brasile, la stramaggioranza delle band di Forró sono di São Paulo, c’è Forrò dappertutto ma a San Paolo la cosa è veramente grande.

Che differenza c’è tra il Forrò paulista/paulistano e quello nordestino? Il Forró è venuto dal Nordest del Brasile ma è stato diffuso per il resto del Brasile tramite Rio de Janeiro negli anni 40 e ha avuto il primo momento di moda in tutto il Brasile negli anni 50, fino agli anni 70 ha sempre avuto una grande buona fetta di mercato, negli anni 70 e 80 è caduto a causa della crescita della bossa nova e della Jovem Guarda, in questo perìodo gli artisti si spostavano tra Rio e São Paulo dove molti nordestini venivano a tentare fortuna, ed andavano al Nordest nel periodo delle feste “juninas” (nel mese di giugno). Nei primi anni 90 è apparso al Nordest un nuovo tipo di Forró, non più con il trio sanfona (fisarmonica), zabumba e triangulo, ma con intere band, con batteria, basso, chitarra, ed una proposta molto più commerciale e molto meno autentica. Da allora al Nordest si suona più questo tipo di Forró mentre al Sudest è rimasta l’anima del Forrò tradizionale. Per carità, si suona il Forró tradizionale in tutto il Brasile e anche quello moderno si suona dapertutto ma sicuramente l’anima del Forró moderno è al nordest mentre il tradizionale è rimasto al sudest.

Puoi dirci cosa distingue questo “vosso” Forrò dal Forrò “deles”? Credo che il “nosso forrò” sia esattamente questo, un richiamo al Forrò che ho imparato dai miei genitori nordestini, un richiamo al Forró che é quello tradizionale, un omaggio ai compositori ed artisti che portano avanti una musica che è autentica brasiliana.

Perché “Matuto Baião”? Puoi spiegare al pubblico italiano il retroscena culturale, mentale, psicologico, ed anche nudo e crudo di questo nome? “Matuto” da noi è un persona che “non vive la vita di città”, una parola che molte volte è usata per un contadino o una persona che ignora certe cose come la tecnologia, al Nordest però si usa dire “matuto” a una persona intelligente “che pensa”, che “matuta”, riflette sulle cose. Io amo questa parola ed è stato il primo nome che Tiago ci ha suggerito. Mi fa pensare che il Baião, che è un ritmo, si sia personificato, o che il Baião è furbo, mi piace peensare a che faccia avrebbe avuto il “Matuto Baião”.

Cos’è il Baião? Baião è un ritmo brasiliano regionale, ballato al Nordest nelle feste popolari, registrato in vinile per la prima volta negli anni 30 con Luiz Gonzaga con la canzone omonima che spiega nel testo letteralmente “come si balla il baião”, da allora ballato in tutto il Brasile ma anche in molti posti del mondo, come Roma.

Sono solo 6 brani, in questa “Parte 1”. State procedendo a nuove composizioni? Dov’è possibile reperire il disco? Esiste un supporto fisico? Il disco è in tutte le piattaforme digitali, streaming o per download.

Avete in previsione un tour di presentazione in Brasile e/o in Europa/Italia? In Brasile stiamo suonando in posto importanti come il Remelexo a São Paulo, uno dei posti più importanti del Forrò “pé de serra”.

A Roma sei conosciuto molto per il Forrò, ma anche per aver portato, insieme ad altri brasiliani, la roda di samba dei Cacique de Roma. Puoi raccontarci come hai vissuto il Brasile romano, come lo hai visto evolvere e, dopo essere tornato in Brasile, come lo hai trovato ora che, di recente, sei tornato a farci visita? Roma è casa mia e per tanti versi mi piace molto che i brasiliani siano benvisti dal popolo italiano, mi piace che la nostra musica sia conosciuta dagli italiani, la comunità brasiliana a Roma è bella e folclorica, in generale ci si aiuta molto. La roda dei Caciques de Roma è stata una delle cose più belle che io abbia fatto nella vita, mi sono reso conto ancora di più quando sono tornato ed ho visto il Coletivo do Bigode, dove ci sono tante persone che suonavano con noi allora, mi piace ancora di più che quando ho visto per la prima volta tutti i musicisti erano italiani e la qualità della musica non ne rissentiva la mancanza di musicisti brasiliani. Questo è bello e fa capire il legato che i Caciques hanno lasciato.

Il Forrò in Italia: come lo trovi? Hai partecipato al Roma Forrò Festival. Com’è stata questa esperienza? Con chi hai avuto occasione di suonare? Sì, ho partecipato al Roma Forrò Festival e mi è piasciuto molto perché ho incontrato una comunità proveniente da tutta l’Europa apapssionata e che porta con avanti Francesca Maiolino il Forró autentico! Francesca sta facendo un gran lavoro con il Forró a Roma, la comunità è cresciuta molto e balla con maestria.

C’è qualche forrozeiro in Italia che è al livello di un forrozeiro brasiliano? Sì, ci sono persone che ballano il Forró alla grande in Italia o “meninão Ruggero” e la “menininha Martina” sono esempi ma potrei citarne molti altri, a partire da Francesca. Per me è bello vedere e far parte di questa realtà.

Come suona ai tuoi orecchi la pizzica? La pizzica è quasi una filosofia! È incredibile come si suona e come si balla, ho avuto la fortuna di suonare alla notte della taranta a Melpignano e la cosa è di un’altro mondo. Trovo che questa cultura regionale sia la motivazione per la quale voi imparate a ballare altri ritmi come la Salsa o il Forrò, siete un popolo di ballerini e di gente a cui piace fare festa, questo unito alla cultura poppolare forte che c’è in Italia vi aiuta molto a capirne altre manifestazioni simili.

Qual è l’obiettivo “sogno” che vorresti raggiungere? Credo di aver raggiunto molti di questi obiettivi, vorrei fare una carriera nella mia patria, ecco, questo sarebbe il sogno attuale.

Suonare… con chi? Un italiano/a e un brasiliano/a. E…? Se avessi avuto la possibilità avrei voluto suonare con Pino Daniele, ed in Brasile sicuramente con Gilberto Gil, il mio preferito.

Domanda per noi: come hai percepito “Rioma”? Ho scoperto Rioma conoscendo Romina!

Domanda a piacere (obbligatoria!) “Sei felice di quello che hai fatto fino ad ora con la musica?” Assolutamente sì.

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FRA SIDIVAL FILA, NOMEN OMEN: FILA, TESSE E PREGA NELLO STUDIO PIÙ BELLO DEL MONDO

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Nomen omen. Sidival Fila fila. Ed è il suo quello che è stato definito «lo studio più bello del mondo»: lo è. Uno studio metafisico, immerso nella romanità più pura, dove a 360 gradi si vede il mondo, si sovrastano il Colosseo e tutti gli imperatori, raggiungibile solo camminando lungo la Via Sacra. Sito all’ultimo piano del convento di San Bonaventura, immerso nel verde, vasti giardini ed albe e tramonti che porterebbero chiunque ad una spiritualità superiore. Infatti Sidival è, innanzitutto, un uomo di religione: un frate. Ma la sua spiritualità, la vocazione, l’ha ricevuta prima di conoscere Bonaventura, comunque dopo essere giunto, con un aereo da San Paolo, a Roma, per compiere il suo più grande sogno: visitare Parigi e conoscere il Novecento francese. A Parigi non è mai arrivato: Roma lo ha fermato vincolandolo misticamente alla sua eternità.

Schermata 2016-03-24 a 19.21.53Per raggiungere il grande tavolo da lavoro, dove fra Fila fila, egli deve compiere molte scale, agguantato da una maglia di divinità ed antichità. I suoi pezzi sono tessuti sulle tele che le famiglie conservano nei cassetti della nonna, e che gli portano come gli portassero non solo gioielli di casa, ma i propri stessi antenati. Quelle grandi tele anticamente usate nelle sartorie, o come tovaglie, lunghe decine di metri: le prende e da esse tira fuori opere d’arte unica. Perché contengono la storia affettiva di intere generazioni, le aspettative di nozze novecentesche, i traumi delle guerre. Ne ricava grandissimi o minuscoli quadri, molti dei quali, cambiando la luce che vi è proiettata, cambiano magicamente il disegno. Proprio come nell’odierna tecnologia Fila è riuscito, con le sue sole mani e la sua tecnica, più unica che rara, a rendersi programmatore 3D di una sapiente arte mistica, monocromatica e nel medesimo tempo cangiante, immobile ma nel contempo in pieno dinamismo, giochi di ombre che rendono un colore mille colori, tessiture accartocciate, piegate, ondulate, alterate, ferite. Come in un quadro di realtà virtuale.

Si ispira ai suoi Lucio Fontana, Enrico Castellani, Alberto Burri, ma è Giotto, l’allievo che supera il maestro: e se non lo supera, se ne distacca e crea la propria unicità amanuense. La spiritualità che esce da questo certosino, infinito lavoro, si estende ed abbraccia tutto il Colle Palatino, la storia del mondo, la storia privata di ciascuno di noi. Ecco perché, prima di tutto, Sidival Fila è un frate, e prima ancora era un uomo che si è convertito una volta conosciuta Roma e che ha messo da parte l’arte. Impara l’arte e mettila da parte, poi torna da lei una volta pronto. E, quando ha imparato da Dio ad amare il pragmatismo umano e si è convertito, ecco tornare l’arte. Sant’Ambrogio scrive: «Non credere, dunque, solamente agli occhi del corpo. Si vede meglio quello che è invisibile, perché quello che si vede con gli occhi del corpo è temporale; invece quello che non si vede è eterno. E l’eterno si percepisce meglio con lo spirito e con l’intelligenza che con gli occhi». Dice Sidival: «Arte e preghiera sono il luogo della lotta, della fatica dove l’uomo si misura con l’oltre da sé, e questa distanza incolmabile è sorgente di sofferenza e fatica. Spesso invece si intende che l’arte sia evasione o gioco, e la preghiera fuga dalla realtà. Ma un rapporto si costruisce nella fatica, nella diversità di chi vuole dialogare, così nella preghiera».

Sidival Fila Romina Ciuffa

Nato in Brasile nello Stato del Paranà nel 1962, già da adolescente si appassiona alle arti plastiche, prediligendo la pittura. Ama la tradizione medievale trecentesca, rinascimentale e barocca, ma si sente personalmente attratto dai moderni, dall’impressionismo e dal cubismo. Trasferitosi a San Paolo per gli studi, frequenta spesso i musei di questa città e dipinge guardando soprattutto ai movimenti artistici del primo Novecento europeo. Nel 1985, alla ricerca della sua identità artistica e personale, Sidival si trasferisce in Italia per approfondire la sua conoscenza della pittura e della scultura. Dopo qualche anno dal suo arrivo e varie esperienze lavorative, deciderà di ascoltare la sua vocazione alla vita religiosa, abbandonando così tutti i suoi progetti personali, ed entrando nell’Ordine dei Frati Minori di San Francesco d’Assisi. Nel 1999 è ordinato sacerdote a Roma, dove esercita il suo ministero al Policlinico Agostino Gemelli, al carcere di Rebibbia come volontario, in seguito nel convento di Vitorchiano e in quello di Frascati.

Per diciotto anni non si dedicherà più all’arte.

Gradualmente, attraverso piccoli lavori di restauro, si riavvicina all’arte. Nel 2006 ricomincia a dipingere, guardando specialmente l’Action Painting di Jackson Pollock, e sentendo affinità con l’arte informale europea e con lo Spazialismo. In questi primi anni di «vita nuova artistica», crea opere di grande intensità e rigore formale, tutte realizzate grazie al recupero di materiali poveri oppure obsoleti: carta, legno, tele, vecchie tele e stoffe, svariati metalli, materassi consunti, gesso. Nel 2007 realizza una prima mostra personale nel convento San Bonaventura di Frascati. Nel 2009 viene presentata a Roma per la prima volta con una piccola personale nella galleria Le Passage du Russie, presso il medesimo Hotel, che attira sul suo lavoro curiosità e attenzione da parte del mondo artistico della capitale. Attirando anche un collezionismo estero che lo porta a Monaco, nella Galerie du Gildo Pastor Center con la mostra «L’Eloquence de la Metiere». È invitato inoltre nell’ambito della manifestazione «Life in Gubbio», ad esibire le sue opere con la personale «Oltre la trama»; tre sue opere sono i premi assegnati dalla manifestazione rispettivamente a Dario Fo per la letteratura, a Gigi Proietti per il teatro e a Nicola Piovani per la musica.

Tra le più importanti collettive è invitato, nel 2010, alla mostra «Trasparenze: l’Arte per le energie rinnovabili» presso il Macro Testaccio di Roma (in seguito approdata a Napoli presso il Madre, Museo d’Arte Donna Regina), dedicata allo sviluppo sostenibile e all’impegno per riscattare il pianeta dal degrado ambientale; nel 2011, alla mostra «Lo splendore della Verità, la bellezza della Carità, Omaggio degli artisti a Benedetto XVI per il 600 di sacerdozio», a cura del Pontificium Consilium de Cultura. Nel 2012 la Galleria Ulisse dedica la mostra «Dittico sull’orlo dell’infinito» ad Agostino Bonalumi e Sidival Fila e molte sue opere fanno parte di una personale, «Le pieghe della luce», nello spazio ex Gil di Roma. Nel 2014 è invitato a partecipare al progetto «Atelier d’artista» della Galleria nazionale d’Arte moderna e contemporanea (Gnam) di Roma con un video permanente che presenta il suo lavoro artistico. Le sue opere fanno parte di importanti collezioni private in Francia, nel Principato di Monaco, in Svizzera, in Brasile e a New York. In Italia sue opere sono presenti, ad esempio, nella collezione della Fondazione Puglisi Cosentino di Catania e nella Collezione d’Arte contemporanea dei Musei Vaticani.

Sidival Fila sembrerebbe nato per questo, fila come il suo nome. «Il cielo si apre su Roma e continua a gridare – qui devono reiniziare i colori» (Davide Rondoni). Pregando.

Schermata 2016-03-24 a 19.22.48Domanda. Perché l’Italia?
Risposta. Sono venuto in Italia nel 1985 attratto dalla cultura italiana, ma soprattutto dalla cultura europea. In realtà l’obiettivo del mio viaggio europeo era la Francia. Ho sempre ritenuto che quello che è stato il Rinascimento in Italia nel Cinquecento, è stato il Novecento in Francia per l’arte moderna. Il tutto senza grosse ambizioni: volevo soltanto vivere e stare qui in questo ambiente culturale. Ma arrivai a Roma e me ne innamorai. Il primo volo fu una rotta San Paolo-Roma, e il paradosso è che a Parigi non sono ancora mai stato, dopo oltre 30 anni.

D. Roma è la capitale della religione. C’entra qualcosa con la sua conversione?
R. In realtà venni in Europa per lavorare, non ero religioso né pensavo a questo. Stando in Italia dopo circa un mese trovai lavoro prima in un piccolo ristorante, poi in un locale al Gianicolo, infine in un bar brasiliano di Trastevere. Avevo 23 anni.

D. E quando è avvenuta la vocazione?
R. All’età di 25 anni ho avuto la vocazione, mi sono riavvicinato al cristianesimo per poi trovare in questo riavvicinamento il desiderio della vita in un convento.

D. Come è avvenuto questo?
R. Ho preso contatto con una parte di me che non funzionava, non è successo nulla di esterno. Sebbene la mia vita fosse in sostanza felice, sentivo che in una parte di me portavo la morte dentro, e questa morte era proprio la distanza nel rapporto con Dio. In questa mia prima parte di vocazione c’è stato un cambiamento radicale in cui ho vissuto l’esclusione di tutto quello che secondo me non era Dio, sono entrato in convento e ho dovuto lasciare da parte i miei progetti personali, soprattutto l’arte.

D. In che anno è entrato in convento?
R. Nel 1990. Poi sono state diverse le tappe formative: sono stato a Vitorchiano e a Frascati, quindi da Frascati sono venuto a Roma, a San Bonaventura, poi al Gemelli e da lì un’altra volta a Vitorchiano, poi di nuovo Frascati. È stato un percorso personale e spirituale molto lungo nella prima fase, mentre nella seconda fase sono divenuto formatore.

D. Quando si è avvicinato all’arte?
R. Nel 2005, quasi per gioco e per il desiderio di ammirare i quadri di Van Gogh e guardare film su Jackson Pollock e sulla sua tecnica, sempre portando avanti i miei impegni religiosi come formatore. Il mio riavvicinamento all’arte è avvenuto senza pretese e senza nessun progetto, era piuttosto un mio bisogno personale quello di contattare la mia parte artistica conciliandola con gli impegni religiosi.

D. Come riesce a conciliare le attività religiose con la sua arte?
R. Il mio lavoro artistico è fatto principalmente dopo cena, dedicando all’arte gli ultimi rimasugli di energia spesi durante tutta la giornata. Ciò potrebbe sembrare controproduttivo ma è proprio questo che mi rende contemporaneo: tutti i nostri contemporanei sono stressati, hanno poco tempo libero e sono tirati a destra e a sinistra ma devono anche sopravvivere in questo caos, e anch’io mi sento contemporaneo perché, come le altre, la mia vita è fatta di lacerazioni che ricadono, e si riflettono, nello stesso mio linguaggio, in quello che io faccio, in quello che io sono. Il tempo che impiego per andare negli ospedali lo potrei usare per l’arte, ma quando vado negli ospedali nutro il mio essere e questo nutrimento poi diventa la mia arte. Non si possono scindere queste due cose, anche perché altrimenti rimarrebbe solo tecnica artistica, e non emozioni di vita vissuta.

D. Come ha vissuto la religione in Brasile?
R. Da ragazzo frequentavo la chiesa come chierichetto, ma non per esperienza personale quanto per tradizione e per cultura, anche se io credevo in Dio, quindi andare in chiesa era un modo per espletare il senso della ritualità senza esprimere in alcuno modo un linguaggio personale. Con la conversione invece ho scoperto tale modalità e l’Italia mi è stata d’aiuto, poiché ho trovato il linguaggio con cui esprimermi anche attraverso la vita del convento, del ritiro, della storia, dell’eremo, dei monumenti storici, dell’arte. Sono stato molto aiutato nella mia conversione dalla cultura che ho acquisito in Italia e che anche mi ha permesso di divenire me stesso.

D. Com’è vissuto in Brasile il cattolicesimo?
R. Dal punto di vista dottrinale è uguale, il patrimonio della fede e quello religioso è lo stesso. C’è solo un ambiente più protestante, ma non inteso come protestantesimo storico europeo bensì come una grande varietà di letture e di interpretazioni difficilmente conciliabili tra loro; invece nel protestantesimo europeo ci sono dei punti in comuni con la chiesa. Forse in Brasile non c’è il retaggio culturale e il peso religioso che c’è in Europa, e quindi la religione si riversa più sul sociale e sulla gente; in Brasile c’è una «leggerezza religiosa» diversa anche perché la storia del Brasile stesso è diversa e il peso culturale della religione è molto più ridotto.

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D. Da quanto manca dal Brasile?
R. Ci sono stato pochi mesi fa, ma non ci andavo da 4 anni. Io vivo dove sto, quando vado in Brasile mi sento a casa ma quando sono qui non ci penso.

D. Altre esperienze al di fuori dell’Italia?
R. Sono stato in Mozambico, in Jugoslavia; poi prima di entrare in convento sono stato in Spagna, Grecia, Austria, Svizzera, Inghilterra, Germania.

D. Sono stati viaggi in ambito religioso?
R. In realtà culturali, perché in Inghilterra e in Germania sono andato per imparare la lingua, ma ero già frate.

D. Cos’è un frate rispetto a un prete?
R. Il frate di per sé è un religioso che conduce una vita religiosa, mentre il prete è autorizzato al ministero sacerdotale. Poi un frate può diventare frate-sacerdote, che è il mio caso.

D. Il suo è considerato «lo studio più bello del mondo». Come si è trovato qui?
R. A settembre saranno 8 anni dal mio arrivo a San Bonaventura, per il trasferimento da Frascati dovuto al lavoro che facevo al Gemelli; anche il convento di Frascati è dedicato a San Bonaventura, ed hanno lo stesso santo protettore, ma il convento romano è stato fondato da Beato Bonaventura da Barcellona, mentre l’altro, quello frascatano, da San Bonaventura da Bagnoregio. Qui da noi, sul Palatino, c’è attività pastorale giovanile e vocazionale e vengono molti giovani da fuori per i corsi di formazione.

D. Che tipo di corsi di formazione?
R. Per esempio sacra scrittura, francescanesimo o maturità umana.

D. Non solo corsi vocazionali dunque?
R. Esatto, sono corsi spirituali aperti a tutti i giovani suddivisi in due ambiti: uno specifico per la formazione dei giovani e uno specifico vocazionale, che consentono in questo modo un approccio costruttivo verso la fede. Io non ho rapporti diretti con i giovani perché la mia funzione qui è essere tutore della chiesa per i matrimoni e per la manutenzione del convento, però ho un gruppo di terziari francescani che hanno scelto di dedicare la propria vita alla spiritualità di San Francesco essendo però laici, alcuni di loro sono anche sposati.

D. Cosa faceva al Gemelli?
R. Per tre anni sono stato il cappellano del Gemelli ed ero residente lì, poi sono stato trasferito qui ma al Gemelli andavo comunque tutti i giorni facendo il pendolare. Poi per 4 anni, dal 1999 al 2001, ho prestato le mie funzioni nel carcere di Rebibbia e ci andavo tutte le domeniche come volontario.

D. Come mai ha a disposizione questo studio e queste belle sale?
R. In questo spazio prima c’era una biblioteca seicentesca che, per lavori di consolidamento, è stata smantellata e portata in un altro convento. Questo spazio di conseguenza non era più agibile e per 5 anni è rimasto vuoto e inutilizzato. Il Provinciale che mi ha mandato qui mi ha appoggiato in questa mia vita artistica, dato che conciliavo l’arte e la fede, e voleva che continuassi con questa mia attività, così mi ha assegnato lo spazio nel piano terra che era molto più piccolo. Quando ho dovuto togliere i quadri dallo studio nel piano terra perché doveva essere usato per altre cose, li ho appoggiati qui sopra dove noi siamo adesso. Allora questo era un magazzino, poi piano piano mi sono organizzato e adesso è diventato il mio studio. Con i nostri risparmi siamo riusciti a fare dei piccoli interventi e mentre i quadri sono partiti in Francia per una mostra a Lille, a febbraio di quest’anno, ed altri sono stati trasferiti a gennaio per una mostra nella Galleria Portinari dell’Ambasciata brasiliana a Roma, in Piazza Navona, ho colto l’occasione insieme ai ragazzi di imbiancare tutto e mettere la luce.

D. Dove si trovano ora quei quadri?
R. A Lille, ospitati in una mostra molto importante finanziata dal Ministero della cultura francese nel Centro nazionale di ricerca, arte e cinema contemporaneo. La mostra è visitabile fino all’8 maggio prossimo.

D. Oltre a ispirarsi allo Spazialismo e a Pollock, come è arrivato a fare «arte tessile»?
R. Lavorando sulla materia, sui colori, sul recupero di oggetti di modo che la materia fosse molto eloquente e presente; nelle mie opere di transizione mi sono reso conto che le «canalette», ossia i solchi cuciti nella stoffa che avevo costruito si stavano allentando, e per evitare ciò ho cucito le canalette. La materia diventava così molto espressiva e rudimentale, creavo una forma che mi interessava ed ho così cominciato a creare quadri con delle grosse cuciture più in funzione della forma che della poetica che vuole esprimere l’opera. Ho poi avuto modo di approfondire questo processo di sviluppo che permette di creare uno stile che sia soltanto mio, perché come ricerca non c’è nulla di simile, anche se il filo è un materiale molto impiegato da diversi artisti. Quindi, da un concetto espressivo e materico ho fatto la ricerca sulla luce, sul colore, sulle vibrazioni cromatiche, sulla tridimensionalità: i miei quadri diventano ologrammi a seconda di dove colpisce la luce. Ed è proprio questo che stupisce la gente che guarda le mie opere. Siamo abituati, con i computer, a vedere delle trasformazioni spaventose, ma quello che meraviglia le persone è vedere un materiale che è tradizionale, fatto a mano con una tecnica artigianale, che ha però in sé le caratteristiche della tecnologia; quindi l’ambito particolare della mia ricerca è quello di creare una tridimensionalità cromatica e un’astrazione del colore.

D. Questi quadri hanno committenti ed un giro economico?
R. Sì, sono opere che stanno entrando nelle collezioni internazionali.

D. Le quotazioni dei suoi quadri sono alte?
R. Dipende dall’opera, possono arrivare anche a 70 mila euro.

D. E come vengono usati i soldi ricavati dalla vendita?
R. I soldi che rimangono a disposizione, a dire il vero, sono molto pochi, perché più della metà del ricavato va a pagare le tasse allo Stato. Il restante va al mantenimento del convento e a vari progetti di beneficenza per i bambini del Terzo mondo. Ne abbiamo vari e siamo impegnati su più fronti. Purtroppo l’Italia non aiuta, con la tassazione.        (Romina Ciuffa)

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Anche su Specchio Economico – Aprile 2016
www.specchioeconomico.com
(nello sfondo della copertina di Specchio Economico, un’opera di Sidival Fila)

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