HIKIKOMORI: DA PARETE A RETE

HIKIKOMORI: DA PARETE A RETE.
Studio e ipnosi di ROMINA CIUFFA
(www.psichelogia.com)

INTRODUZIONE ERICKSONIANA
“DA UNA STANZA ALL’ALTRA”

Chiesi a uno studente: “Come fai ad andare da questa stanza a quella stanza?”
“Prima di tutto mi alzo”, rispose. “Poi faccio un passo”.
Lo interruppi e dissi: “Dimmi tutti i modi possibili di andare da questa stanza a quella stanze”.
“Ci si può andare correndo”, rispose, “camminando, ci si può andare saltando, ci si può andare saltellando, facendo capriole. Si può andare a quella porta, uscire dall’edificio, entrare per l’altra porta dentro la stanza. Oppure se uno vuole può scalare la finestra…”.
“Hai detto che li avresti detti tutti, ma hai tralasciato un modo, che è il più importante”, dissi io. “Io di solito comincio col dire così: ‘Se voglio andare in quella stanza da questa stanza, io uscirei da quella porta lì, prenderei un taxi fino all’aeroporto, comprerei un biglietto per Chicago, New York, Londra, Roma, Atene, Hong Kong, Honolulu, San Francisco, Chicago, Dallas, Phoenix, tornerei indietro in macchina e entrerei nel giardino posteriore attraverso il passaggio di dietro, entrerei per la porta di dietro ed entrerei in quella stanza’. E abbiamo pensato solo ai movimenti in avanti! Non hai pensato di andare all’indietro, vero? Non hai pensato all’andare carponi”.
“E neanche a strisciare sulla pancia”, aggiunse lo studente.
È proprio vero che ci limitiamo così terribilmente in tutte le nostre forme di pensiero!

Milton Erickson [1]

L’HIKIKOMORI

Mi reco in Giappone nell’aprile 2019. Esco la mattina all’ora di punta, circa le 8 del mattino. La città di Tokyo è silenziosa come una faggeta. Non c’è traffico, pochissime automobili, molte biciclette e pedoni, comunque non sufficienti a dare il senso occidentale dell’ora di punta. Salgo sulla metropolitana, in particolare prendo la linea verde “Yamanote”: con quasi 4 milioni di utenti al giorno (poco meno dell’intero sistema di trasporti di New York), essa costituisce una delle linee metropolitane più grandi del mondo. Il suo percorso funge da circolare per la città di Tokyo e disegna un anello intorno al centro della città, incrociando gran parte delle altre linee dei trasporti di essa, più di 50. La folla è massiva, il silenzio tombale. All’interno dei convogli, sui quali si sale con grandi difficoltà ma altrettanto silenzio, si sta strettissimi. Eppure non si sente rumore, se non quello degli annunci riguardo la fermata successiva. Tutti i passeggeri sono fissi sul proprio tablet o telefonino, non si ha alcun contatto, la solitudine riempie la metro. Non si dovrebbe: guardo sui loro schermi, tutti in giapponese, voglio entrare in contatto con questo silenzio: sono videogiochi, non i social che l’occidentale si aspetterebbe. Dall’altra parte, non c’è nessuno. O meglio, ci sono dromedari e robot che altri utenti nel mondo stanno personificando. Molti portano la mascherina tipica, per una questione di igiene o di rispetto verso gli altri nonché di riservatezza: non si mostra, così, il rossore sul volto, se compare. Per indicare che la prossima è la nostra fermata, faccio “psiu” alla persona che mi accompagna in questo viaggio, lontana da me e, gesticolando e sussurrando, comunico timidamente: “Dobbiamo scendere”. Il mio sussurrio rimbomba nel vagone sovraffollato. Mi guardano tutti.


Romina Ciuffa, Kyoto

Hikikomori (引きこもり o 引き籠もりsignifica letteralmente, in giapponese, “stare in disparte, isolarsi” [2], dalle parole hiku “tirare” e komoru “ritirarsi” [3]). Il termine si riferisce a coloro che hanno scelto di appartarsi dalla vita sociale, cercando anche livelli estremi di isolamento e confinamento, per fattori personali e sociali di varia natura. In Giappone – dove per primo il fenomeno è stato definito – vi è, nondimeno, tra tali fattori, la particolarità del contesto familiare, che si dice caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da una eccessiva protettività materna; ciò si aggiunge alla grande pressione della società verso l’autorealizzazione ed il successo personale cui l’individuo viene sottoposto fin da sempre.

Per scegliere una definizione che più si avvicina a quest’ultimo fattore, quella di Marco Crepaldi: “L’hikikomori è una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle forti pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate” [4].

Si tratta, infine, della difficoltà adattiva di trarre sensazioni positive e stimoli dalle relazioni interpersonali e, più in generale, dalle dinamiche sociali moderne.

Fino a “ieri”, in Italia si parlava di hikikomori come di un fenomeno “strambo”, “antropologizzato” dall’effetto distanza, che porta a ritenere – secondo la scrivente – che, più chilometri intercorreranno tra una cultura e l’altra, minore sarà il “contagio”. Se, infatti, la trasmissione – base della culturalizzazione e, di seguito nel tempo, dell’antropologizzazione – è un processo tramite il quale l’informazione passa da un individuo all’altro attraverso meccanismi quali l’apprendimento sociale, l’imitazione, l’insegnamento o il linguaggio, fino al momento dell’avvento di una rete capillare come quella web si poteva ritenere che tali elementi mancassero tra due Paesi che distano quasi 10 mila chilometri l’uno dall’altro. Come pensare di contrarre una malattia da una tribù africana o la tubercolosi da una favela brasiliana.

Aguglio scrive [5]: La cultura non va considerata come qualcosa di esterno all’individuo, ma come una struttura specifica di origine sociale che contiene e rende possibile il funzionamento dell’apparato psichico; Beguin già nel 1952 affermava che “si è folli in rapporto a una data società”. Non può esistere alcun processo psichico senza l’esistenza di un filtro culturale che ordini e fornisca gli strumenti necessari per l’interazione della persona con il mondo. Le sindromi culturali comprendono un insieme eterogeneo di malattie, l’importanza e l’attualità delle quali è stata riconosciuta anche nel DSM-IV TR 3; nell’appendice è infatti presente una classificazione delle “cultural bound syndrome” che ha lo scopo di integrare l’inquadramento diagnostico multiassiale e di delineare le difficoltà che si possono incontrare applicando i criteri del DSM-IV in un contesto multiculturale. Il DSM-IV TR le definisce come: “Modalità ricorrenti, caratteristiche di certe regioni, di comportamento aberrante e di esperienza disturbante che possono essere o meno collegabili a qualche particolare categoria diagnostica del DSM-IV”. Si potrebbe dire che queste sindromi siano un modo specifico di una determinata cultura per esprimere una condizione di disagio psichico. Mentre le basi scientifiche della cultura occidentale permettono di classificare i sintomi psichiatrici in quadri ben precisi, nei luoghi in cui le sindromi culturali si verificano vengono spesso accettate come eventi non patologici. Inoltre, il sistema medico occidentale opera una netta distinzione fra mali di ordine fisico e mali d’ordine psichico; nelle culture tradizionali invece questa distinzione si perde, sia per quanto riguarda le procedure terapeutiche, che spesso non si differenziano, sia per quanto attiene alla ricerca delle cause della patologia. (grassetto mio)

Se poi ci si concentra sull’elemento “linguaggio” – intrinsecamente culturale – è evidente che nella trasmissione del disturbo essa è basicamente assente, trattandosi di due ceppi linguistici e antropologici completamente differenti. Il giorno e la notte, anche in termini di fuso orario. Lo stesso valga per l’imitazione, praticamente impossibile in due Paesi tanto distanti con popolazioni tanto distinte.

Se la trasmissione culturale è una componente fondamentale dell’evoluzione, essa non è l’unica. L’hikikomori più avanzato infatti, oltre che da un parallelismo culturale (due rette che prima dell’era web non si incontravano mai, non sottoposte a contagio ma a sviluppo evoluzionistico), deriva da un disagio sociale che riguarda tutti i Paesi economicamente sviluppati, nei quali si delinea un atteggiamento competitivo e perfezionista in vari ambiti di vita. Proprio nel senso di fallimento sociale sono da rintracciarne le cause profonde: lì dove si crea un gap tra il proprio sé ideale e la realtà nascono le paure di fallire, di deludere, di perdere tempo e, come conseguenza, un senso di vergogna di sé. Al disagio e alla sofferenza sperimentata si sommano pensieri valutativi più complessi quali repulsione, sfiducia e delusione verso un luogo e verso le persone che ne fanno parte, i cui valori appaiono a un hikikomori troppo distanti dai propri [6]. Questo luogo, oggi, è infinito: questo luogo, oggi, è online ed è wireless, senza fili.

Il contagio dunque non è causa, bensì concausa accelerata dall’effetto-web. L’hikikomori non è “malattia” in sé, bensì e prima di tutto disturbo cui può essere associata una malattia strictu sensu, ossia un’entità clinica sostenuta da alterazioni lesionali fisiche (in questo caso corticale); ma in esso prevale l’interiorizzazione di esperienze e, delle stesse, l’esteriorizzazione successiva a seguito di rielaborazione. Con una puntualizzazione: l’hikikomori in quanto tale non è stato riconosciuto ufficialmente – né in Giappone né dalla comunità scientifica internazionale – come una psicopatologia. Il che, sia pur escludendo il fenomeno dalla categorizzazione nosologica, lo rende flessibile. Questo glielo si deve: di esso, l’unica variabile strettamente caratterizzante e generalizzabile è l’impulso all’isolamento sociale. Le altre dimensioni variano da soggetto a soggetto: da chi presenti un forte quadro depressivo non legato a fobia sociale, a chi soffra di una profonda crisi esistenziale, a chi sia colpito da apatia; da chi soffra maggiormente le pressioni di origine sessuale a chi sia esposto a quelle legate al confronto con i pari. In altre parole, l’isolato sociale volontario non apparenecessariamente depresso, fobico sociale, dipendente da internet o psicotico, e a volte, addirittura, esce. Fisicamente.

In sintesi, pur non essendo stato categorizzato, l’hikikomori ha uno sviluppo dimensionale. Il modo di agire della stessa imperatrice giapponese Masako è stato accostato a quello degli hikikomori ma, secondo le fonti ufficiali, avrebbe invece sofferto di depressione [7], tanto da meritare la nomea mediatica di “principessa triste”. Per la sua grande, tentacolare dimensionalità il fenomeno sembra essere di scarsa diffusione come tutti quei fenomeni dei quali è difficile la vista (lo stesso motivo per cui il transessualismo MTF – male to female – è conosciuto da tutti mentre, diversamente, quello FTM – female to male – da pochi: la variante, tra le altre, è la visibilità concreta e percepibile del fenomeno dall’esterno dello stesso [8]); esso è, così, poco considerato a livello di problema sociale e viene chiuso negli stretti margini del problema individuale.


L’imperatrice giapponese Masako, anche detta “la principessa triste”

Reclusi sociali, eremiti, ragazzi spariti non fanno notizia perché non esistono a tutti gli effetti. La famiglia è reticente, tende a non enfatizzare il problema o, a maggior ragione ed effetto, a non vederlo, riconoscerlo, considerarlo tale: a ben vedere, da sempre si è preferito avere figli che escono poco a figli che escono molto. Da sempre la discoteca è stata il catalizzatore di ogni difficoltà. Eppure, in questi casi lo è la stanza da letto. Quella arredata dai genitori, quella che garantisce protezione. Qui tale protezione diviene maleficio e gli effetti della chiusura possono condurre e, di fatto conducono, a depressione, suicidio, dissociazione, alienazione, insicurezza, “haterizzazione” (odio in rete), distorsione della propria immagine, comportamenti ossessivo-compulsivi, automisofobia e manie di persecuzione, “autismo selettivo” od “a contesto specifico”, mutismo selettivo, disturbo d’ansia generalizzata e molto altro.

La comfort zone si trasforma nella discoteca più pericolosa che esista, in cui è presente uno spacciatore di droghe dai cui effetti difficilmente si uscirà. Si tratterà, nello sviluppo della patologia, di una “adolescenza senza fine” [9]. I ragazzi, in alcuni casi, non riescono a immaginare se stessi adulti o hanno l’impressione di non stare crescendo. La mancanza di contatto sociale e la prolungata solitudine hanno effetti profondi sullo hikikomori, che gradualmente perde le competenze sociali, i riferimenti comportamentali e le abilità comunicative necessarie per interagire con il mondo esterno [10].

Ne sono colpiti anche gli adulti. In Giappone, dove sono presenti le stime più concrete, nel 2016 il Governo parlava di 541mila soggetti coinvolti con un’età compresa tra i 15 e i 39 anni, e di 613mila appartenenti alla fascia di età tra i 40 e i 64 anni, generalmente indicati come la prima generazione hikikomori, di difficile reinserimento in società da quando, superata la soglia dei 60 anni e rimasti orfani, perdano l’unica fonte di sostentamento a disposizione [11]. Un elemento culturale strettamente collegato al fenomeno è la categoria dei parasite single (パラサイトシングル parasaito shinguru), ragazzi che continuano a vivere coi genitori ben oltre la maggiore età, i quali sembrano possedere, in una certa percentuale di casi, stili comportamentali simili e sovrapponibili a quelli di uno hikikomori.

Il termine hikikomori fu coniato dallo psichiatra Tamaki Saitō, riflettendo sulla similarità sintomatologica di un numero sempre crescente di adolescenti che mostravano letargia, incomunicabilità e isolamento totale [13], ed uno stile di vita caratterizzato da un ritmo circadiano sonno-veglia completamente invertito [14], “con ore notturne spesso dedicate a componenti tipiche della cultura popolare giapponese, come la passione per il mondo manga e, soprattutto, la sostituzione dei rapporti sociali diretti con quelli mediati via Internet” [15].


Tamaki Saitō

È lo stesso Saitō a fare una analogia tra parasite single e “mammoni” italiani: “Oggi i Paesi colpiti da questo fenomeno sono il Giappone e la Corea, aree di cultura confuciana, le cui società hanno assimilato il concetto di pietà filiale, enfatizzandone molto il valore. I genitori accudiscono i figli per essere da questi accuditi in vecchiaia, nel rispetto dell’alternanza dei ruoli. In America e in Inghilterra, una volta diventati adulti, i figli lasciano la casa paterna; in Giappone invece rimanere in casa è normale. Qui li chiamiamo ‘parasite singles’, mentre in Italia si chiamano’ mammoni’”.

Questo a significare quanto non siano poi così lontane le culture. Aggiunge: “Nei Paesi in cui la famiglia ha una grande importanza ci sono più hikikomori. In Giappone è così, e lo stesso in Corea. La pietà filiale. Forse anche in Sicilia, nella parte meridionale dell’Italia, ce ne sono. No? Nei Paesi in cui i rapporti familiari sono importanti, anche se il figlio si emargina guarderà sempre i genitori con rispetto e dipenderà da loro. Poiché c’è il problema dell’amae (dipendenza parentale). In Giappone senz’altro è importante il giudizio degli altri. Un ragazzo hikikomori è motivo di vergogna per il genitore; per questo viene rimproverato. Anche il ragazzo si preoccupa molto di cosa possono pensare gli altri e si tormenta. Così facendo però si convince di essere sbagliato e si isola sempre di più. In Giappone non c’è un dogma religioso, la gente non ha un credo, crediamo agli occhi degli altri, ci preoccupiamo di come ci vedono. Siamo molto sensibili al giudizio altrui e ci fa male essere disprezzati. In questa condizione diventa difficile superare lo hikikomori” [12].

L’hihikomori, o come in Italia lo si voglia chiamare dopo quanto detto, incarna lo spirito di una società giovane che soffre a causa dei cambiamenti sociali e i cui membri non sono in grado di affrontare il duro sistema educativo, la crescente instabilità del lavoro e la grande pressione sociale a partire da quella stessa famigliare.

Da parete a rete. Molti di loro, di qualunque età, sia pure confinati nella loro camera, ne oltrepassano le pareti: si collegano alla rete, sul web, ed entrano in mondi lontani. Nell’impossibilità (psicologica) di far uso del loro corpo costruiscono un avatar con il quale intraprendono battaglie epocali e interagiscono virtualmente con milioni di utenti, di cui antesignano fu il Pacman.

Va però sottolineato come la dipendenza da internet, spesso indicata come una delle principali responsabili dell’esplosione del fenomeno, rappresenti invero una conseguenza dell’isolamento, non la causa: il fenomeno ha origine ben prima della diffusione del personal computer.Prima che esistesse internet, l’isolamento degli hikikomori era, però, totale.Ad oggi, solamente il 10 per cento degli hikikomori naviga su Internet, mentre il resto impiega il tempo leggendo libri, “girovagando” all’interno della propria stanza o semplicemente oziando, incapace di cercare lavoro o frequentare la scuola.

I primi casi in Italia sono stati “diagnosticati” nel 2007, per poi diffondersi ed essere sempre più individuati come tali [16]. Nel 2013 la Società Italiana di Psichiatria ne individua circa 3 milioni tra i 15 e i 40 anni [17]. Il disturbo può essere anche associato alle culture nerd e geek, o ad una semplice dipendenza da Internet, limitando il fenomeno a una conseguenza del progresso della società e non a una chiara scelta volontaria del soggetto[18]. Una stima riferita al 2018 parla di 100 mila casi di hikikomori in Italia.

Ne ho conosciuta una.
O meglio: ho ritenuto che la stessa definizione, per lei, di hikikomori FOSSE già la terapia. Ossia la diagnosi è, in realtà, la tecnica: definire qui è curare.
Il caso è coperto da segreto professionale. Seguono solo le mie riflessioni.

RIFLESSIONI POST TRANCE IPNOTICA SU UNA PAZIENTE “HIKIKOMORI”

Il percorso terapeutico, in questo caso, non si fonda sul considerare l’isolamento come un problema di socializzazione. In particolare, a mia paziente non presenta problemi nella capacità di interagire all’esterno, bensì nel movimento e nella motivazione al movimento. Lo stesso Saitō ha specificato che, prima che l’hikikomori fosse definito in questo modo, si soleva parlare di Sindrome di Apatia. E in effetti l’apatia (dal greco a-pathos, “senza emozione”) consta di una riduzione dei comportamenti finalizzati dovuto a un problema di espressione della motivazione.

Ciò che vale la pena sottolineare, nel caso della mia paziente, è la distinzione tra apatia e depressione: il paziente apatico non prova disagio per la propria condizione, mentre la depressione si correla spesso con stati ansiosi, un tono negativo dell’umore e assenza di piacere (anedonia) che può arrivare fino al desiderio di morire. Nell’oscillazione tra depressione ed apatia si trova la mia paziente.In particolare, il riferimento all’hikikomori mi è servito per parlare con il suo stesso linguaggio, un linguaggio di terre lontane quando non fantastiche, nel particolare caso il Giappone, da dove nasce una delle più floride letterature immaginifiche.

L’hikikomori, dunque, qui è una tecnica mascherata da diagnosi: usare questo esempio, infatti, trasporta già la paziente fuori dal proprio contesto e la sblocca nei movimenti mentali, proprio come in una ipnosi non formale, indiretta, che è quella su cui maggiormente ho condensato i miei interventi su di lei.

In questo tipo di ipnosi, la paziente si è trovata completamente a suo agio, e si è completamente lasciata andare, piangendo e ridendo e muovendosi fra mondi.

Nella ipnosi formale, ho voluto concretare il suo pensiero magico: l’ipnosi in questo caso, sia pure tecnica dello psicoterapeuta che può giungere in luoghi ritirati nel paziente, diviene vero e proprio oggetto, ossia qualcosa che lei è in grado di osservare in quanto appassionata di tematiche quasi fantasmiche, mondi da raggiungere “stando qui”, una sorta di Netflix incarnato nel proprio inconscio.In questo modo, ho smosso la motivazione alla sua stessa radice, e nonostante l’abbia collocata in un luogo più semplice per lei da raggiungere, lei si è recata in un ambiente desertico. La sua motivazione a muoversi è stata così messa in risalto dalla sua stessa volontà, più che dal mio concreto condurla e “accompagnarla”.

Descrivendomi i luoghi durante la trance ipnotica, piangendo, ha voluto rendermi partecipe di questo suo viaggio “oltre”. La ridefinizione, ad opera sua, della scala che le ho chiesto di visualizzare (da grande scalinata a scaletta da pozzo) mostra il suo desiderio di non tornare, e la sua difficoltà a gestire la risalita, che ha definito “faticosa”, ha rinforzato comunque il suo spostamento che, sebbene fosse un ritorno a casa, ha motivato un allontanamento eventuale, futuro, futuribile. Ha dato delle possibilità. Ha lasciato intravedere la forza di un’arrampicata complessa, che però compie. O compirà.

Romina Ciuffa

 

BIBLIOGRAFIA

[1] ERICKSON M., “La mia voce ti accompagnerà”, Astrolabio, 79.
[2] MARIANI A.,Hikikomori, nulla oltre il pc, Avvenire.it, 1 novembre 2012.
[3] ZIELENZIGER M., Non voglio più vivere alla luce del sole. Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta, Elliot Edizioni, 2008, 30.
[4] CREPALDI M.,Hikikomori. I giovani che non escono di casa, 2019.
[5] AGUGLIA E. et al., Il fenomeno dell’hikikomori: “Cultural Bound” o quadro psicopatologico emergente?, in Giornale Italiano di Psicopatologia, vol. 16, 2010, pp. 157-158.
[6] CREPALDI M., cit.
[7] La “principessa triste” torna a viaggiare, in TG1 Online, 28 aprile 2013:TOKYO – Sarà il primo viaggio all’estero, quello di Masako di Giappone: da sette anni, la principessa “triste” soffre di depressione, malattia che l’ha tenuta lontana dagli eventi sia nipponici, sia esteri. DESTINAZIONE OLANDA. La principessa, 49 anni, ex diplomatica, accompagna il marito per assistere alla intronizzazione del nuovo re olandese Willem-Alexander, il 30 aprile ad Amsterdam. L’agenzia imperiale ha precisato che, durante la visita di sei giorni, la principessa assisterà all’incoronazione, ma potrebbe non prendere parte ad altri eventi ‘‘a causa del suo stato’’. UN VIAGGIO FUORI DALLA NORMA. Per Masako, 49 anni, si tratta del primo viaggio all’estero dopo il 2006 quando trascorse due settimane proprio in Olanda su invito della regina Beatrice, ma per una vacanza familiare. Da circa 11 anni invece – dopo avere visitato l’Australia e la Nuova Zelanda nel 2002 – la principessa, che ufficialmente soffre di depressione dal 2004, non ha più partecipato a viaggi ufficiali. Secondo la stampa nipponica, la sua condizione è causata anche dalla forte pressione della corte imperiale, incluse quelle sulla nascita di un erede per assicurare la successione. La donna ha invece avuto solo una figlia, Akiko, di 12 anni”.
[8] CIUFFA R., Tra uomini e donne non ci sono confini, in Panorama, www.archivio.panorama.it/archivio/Tra-uomini-e-donne-non-ci-sono-confini e in Mutatis Mutandis, www.rominaciuffa.com/transessuali-izzo-tolu/, 2006.
[9] SAITŌ T., Hikikomori: Adolescence Without End, University of Minnesota Press, 2013.
[10] MANGIAROTTI A., Chiusi in una stanza: gli hikikomori d’Italia, in Corriere della Sera, 11 febbraio 2009.
[11] HOFFMAN M., Nonprofits in Japan help ‘shut-ins’ get out into the open, in The Japan Times, 9 ottobre 2011; Aging hikikomori children’s lifelong dependency on parents, in Japan Today, 14 agosto 2013 (senza firma).
[12]PIERDOMINICI C., Intervista a Tamaki Saitō sul fenomeno “Hikikomori”, su Psychomedia.it.
[13] PIERDOMINICI C., cit.
[14] AGUGLIA E. et al., cit., pp. 157-164.
[15] OHASHI N., Exploring the Psychic Roots of Hikikomori in Japan, ProQuest, 2008.
[16] SPINIELLO R., PIOTTI A., COMAZZI D.,Il corpo in una stanza. Adolescenti ritirati che vivono di computer, p. 304, 2015.
[17] NICOLETTI G., L’Hikikomori entra nel vocabolario e nella realtà italiana, in La Stampa, 17 ottobre 2012.
[18] GIAMMETTA R., Hikikomori: isolarsi per troppa vergogna e dire no al conformismo, su quipsicologia.it, 25 febbraio 2013.




APRE IL MIO STUDIO DI PSICOLOGIA ED IPNOSI

ROMINA CIUFFA
psicologa (Iscrizione Ordine degli Psicologi del Lazio n. 22761)
ipnoterapeuta (Scuola di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana diretta da Camillo Loriedo)

mail: info@rominaciuffa.com

MODULO DI CONTATTO RAPIDO
al link: https://www.psichelogia.com/consulto

Riceve negli studi di:
ROMA
(Centro Storico, Metro Barberini o Spagna)
CASTELLI ROMANI
(Monte Compatri)
MILANO
(Centro-Zona Navigli, Metro Sant’Agostino o Porta Genova) previo accordo ONLINE sulle consuete piattaforme
e in viaggio (METODO DROMO)

LINGUE > italiano, inglese, spagnolo, portoghese

PRINCIPALI AMBITI DI INTERVENTO

  • ansia, attacchi di panico, disturbi psicosomatici
  • ossessioni, dipendenze
  • LGBTIA, con particolare riguardo alla tematica omosessuale e di orientamento sessuale
  • dipendenza da farmaci e psicofarmaci
  • supporto all’età evolutiva (bambini ed adolescenti) in ambito scolastico, ripetizioni, aiuto nei compiti, socialità
  • disturbi da stress post-traumatico
  • terapia di coppia
  • insicurezze
  • ”mal d’amore”
  • ipnoterapia se necessario

Le sessioni di terapia psicologica seguono principalmente il modello di Milton Erickson. Sedute “classiche”, ma anche movimento, gite, passeggiate, compiti, e ciò che possa essere d’aiuto all’inconscio nello specifico, nella sua unicità: la classe dei cani non è essa stessa un cane. Si abbandona il letto di Procuste, ossia non si effettua alcuna forzatura (nella mitologia greca il brigante Procuste, anche conosciuto come “stiratore”, costringeva gli ignari viandanti in un letto scavato nella roccia, misurandoli: se troppo corti li stirava con l’incudine, se troppo lunghi e sporgenti li amputava fino a farli rientrare; le vittime, nei due sensi, morivano tra atroci torture). Il processo è naturale, si incoraggiano anche le resistenze, si promuove il cambiamento in un approccio naturalistico, si dorme sia corti che sporgenti senza stirare né amputare, grazie al dialogo con l’inconscio. Junghianamente riassumendo: alla parola viene affidato tutto ciò che non si è potuto ottenere con mezzi onesti.

MODELLO ERICKSONIANO. Il modello di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana si fonda sull’esperienza dello psichiatra, psicoterapeuta ed ipnoterapeuta statunitense (daltonico, dislessico, tonalmente sordo, poliomielitico, paralizzato) Milton Erickson (1901-1980) che, imparando a guarire se stesso, seppe guarire gli altri. Scoprì sin da giovane la focalizzazione ideodinamica indiretta (ogni idea tende a tradursi in atto): seduto su una sedia a dondolo, completamente paralizzato, si esercitava a pensare di guardare la finestra e immaginava che la sedia dondolasse; facendo questo esercizio, via via riprese piena padronanza dei movimenti. Era autoipnosi. Il suo lavoro nel tempo rivoluzionò le stesse fragili fondamenta dell’ipnosi e si pose come base dei nuovi approcci della psicoterapia strategica (di cui è considerato il padre, e nell’ambito della quale collaborò con George Bateson, che gli inviava pazienti), della psicoterapia breve-strategica (Paul Watzlawick a Palo Alto, Giorgio Nardone in Italia), della programmazione neurolinguistica (PNL), del costruttivismo, del coaching/counseling.

L’inconscio è di per sé strumento di guarigione, già detentore delle risorse utili al percorso evolutivo dell’individuo. Il quale non sa accedervi. Lo psicologo è colui che – attraverso il dialogo diretto con l’inconscio stesso per via di storie suggestive e metafore più o meno percettibili come tali dall’ascoltatore, nonché di un linguaggio “vago” (Milton Model), ma sempre nell’ambito di un rapport unico con il paziente – pone questi in grado di utilizzare “se stesso” per trovare la sua via d’uscita. La trance è “solo” un ambiente dove imparare, dove modificare il proprio stato. E non è, come si crede, il “dormire”: si può essere in trance anche nel pieno esercizio delle proprie funzioni cognitive, senza rendersene conto. Ogni giorno si cade in trance spontaneamente quando, leggendo un libro, guardando un film, assorti nei propri pensieri, scarabocchiando su un foglio mentre si è al telefono (scrittura automatica), non si sentono i rumori, non si vedono i dettagli, si dimentica un’intera stanza, un’intera spiaggia, un’intera isola, un intero mondo. Si cade in trance quando si sta ricordando, quando si ascolta un interlocutore, quando si fa la doccia, in un déjà-vu.

L’ipnoterapeuta induce la trance e, nel modello ericksoniano, assume un ruolo di guida, riassunto nell’asserzione ipnotica di Erickson: la mia voce ti accompagnerà (“My voice will go with you”). In questo spazio suggestivo, gestisce le risorse in senso favorevole alla persona che già le detiene, focalizzandosi sul suo benessere psicologico e, ove necessario, fisico (è il caso dell’analgesia e dell’anestesia). L’ipnoterapeuta protegge il paziente, e ciò può fare possedendo gli strumenti della psicoterapia: chiunque svolga pratiche di ipnosi senza una istruzione adeguata ed un titolo che la certifichi, non è qualificato. Lo psicoterapeuta ha compiuto studi che attengono direttamente alla diagnosi e alla terapia dei disturbi psicopatologici; e poiché la clinica e la sperimentazione sono strettamente legate, lo psicologo ipnotista rigorosamente diretto alla sperimentalità deve avere pratica dell’ipnoterapia. Chi è abilitato all’ipnosi? La mia risposta è qui: www.rominaciuffa.com/ipnosi-soggetti-abilitati/.

Risulta fondamentale la qualità della “coppia” terapeuta-paziente, di tipo relazionale e speculare. Il terapeuta andrà plausibilmente in trance prima del suo paziente in un rapporto di complementare fiducia: l’ipnotista non farà ipnosi alla persona ma con la persona. Il rapport sarà basato sul tailoring, poiché esattamente come in sartoria sarà ritagliato il vestito adatto a ciascun individuo. Così come fece innanzitutto su se stesso Milton Erickson, trovando soluzioni che implementassero le sue risorse e ridimensionassero i suoi (molti) handicap: si cucì addosso un completo che fosse “completo” proprio perché suo, e che lo “completasse” là dove sembrava/era dato per scontato che lui non potesse arrivare. Nonostante la sua grave disabilità fisica, affrontò da solo un viaggio in canoa pur senza la forza nelle gambe necessaria per muovere la canoa fuori dall’acqua, nuotare, pagaiare; per tutta un’estate navigò lungo il Mississippi, nutrendosi dei pesci che pescava e delle piante che trovava, e percorse 1.200 miglia. Dopo questa esperienza, il suo torace era aumentato di 15 centimetri, poteva nuotare per un chilometro e mezzo e pagaiare dall’alba al tramonto. E non fu la sua unica impresa. Questa non è una potenzialità di Erickson: è la potenzialità di tutti.


Milton Erickson

ESPERIENZE. Romina Ciuffa, laureata in Psicologia all’Università La Sapienza di Roma (già avvocato, dopo aver conseguito le laureee in Giurisprudenza all’Università LUISS-Guido Carli nel 1999, e in Scienze Politiche all’Università ROMA TRE nel 2001), ha, tra l’altro, lavorato presso il Carcere di Rebibbia in sostegno ai carcerati del Complesso Penale prima (Ministero di Giustizia), quindi del SerT (Servizio Tossicodipendenze) nel Nuovo Complesso (alcol, droga, gioco d’azzardo), specializzandosi nelle dipendenze (Ministero della Salute), con la dott.ssa Anna Augusta Taddeo. Ha trascorso anni nella Favela della Rocinha (Rio de Janeiro) occupandosi delle problematiche della comunità, con principale attenzione alle dinamiche dell’infanzia e dell’adolescenza dei ragazzi di strada e, negli adulti, delle situazioni di malessere, povertà, malattia.

È specializzata in Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana presso la scuola di Roma, diretta dal prof. Camillo Loriedo, psichiatra, docente di Psichiatria presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, direttore della UOC di Psichiatria e Disturbi del Comportamento Alimentare presso il Policlinico Umberto I, autore di innumerevoli pubblicazioni. 

Ha collaborato come psicologa con il dott. Emanuele Mazzone nel Presidio di Riabilitazione NUOVA SAIR a Roma, attraverso l’applicazione agli adolescenti autistici dell’ipnosi indiretta. Il Presidio accoglie giovani autistici cui vengono erogate prestazioni riabilitative, attività di carattere ludico-ricreativo e ludico-sportivo e attività sanitarie di tipo medico-infermieristico. L’area di azione del centro è la periferia di Roma est, caratterizzata da un alto livello di disagio socio-economico e marginalità.

Giornalista con all’attivo molte pubblicazioni sul tema della psicologia, i suoi articoli sono pubblicati sulla rivista quarantennale SPECCHIO ECONOMICO, in una specifica rubrica che lei stessa cura, e sul suo sito MUTATIS MUTANDIS nella categoria PSICOLOGIA (www.rominaciuffa.com/category/psicologia/).

Opera anche su METODO DROMO, di sua elaborazione: www.dromobility.com/metododromo.

Messo a punto in anni di viaggi e dromomania dalla stessa Romina Ciuffa, il METODO DROMO prende atto della necessità di fuggire – tacciata dai più con un connotato negativo e grossolano – e la utilizza come risorsa per superare ericksonianamente l’empasse. Attraverso la terapia, l’ipnosi e viaggi mirati, sarà utilizzato il “tempo di fuga” da taluni problemi non come semplice (e pericoloso) stacco e distacco, bensì come crescita e velocizzazione del metabolismo emotivo attraverso il ricorso ai nuovi stimoli o il corretto impiego degli antichi. Sarà un viaggio alla ricerca di se stessi, in superamento di fobie, depressioni, attacchi di panico, ossessioni, ed altro. Particolarmente indicato per affrontare e/o risolvere i problemi di una coppia, ivi inclusi quelli attinenti il tradimento, di cui è punto di forza. Si sviluppa in un viaggio mentale ed effettivo, una partenza vera e propria “senza ritorno”. 

Per contatti diretti e chat: www.psichelogia.com

 




IPNOSI: ORA ALZATI E UCCIDI. PARTE 2: DAL REATO IMPOSSIBILE ALL’INCONSCIO TESTIMONE IN GIUDIZIO

Segue da https://www.rominaciuffa.com/ipnosi-soggetti-abilitati/

IPNOSI. ASPETTI GIURIDICI
di Romina Ciuffa*
psicologa ipnotista
avvocato

PARTE 2. L’IPNOSI NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO

Introduzione alla seconda parte

A me gli occhi. Ora alzati e uccidi. È possibile? Dò la risposta alla vexata quaestio che tormenta chi ha dubbi sul potere dell’ipnosi, tanto in negativo (“Su di me non ha effetto”), tanto in positivo (“Ma io ho paura!”). Ne dò la risposta analizzando l’ordinamento giuridico in questo mio personale studio, che nelle precedenti versioni del Codice penale italiano aveva fatto invece l’illustre (ben più di me) autore Guglielmo Gulotta, ma che ora va rivisitato per la nuova formulazione. Per un giurista, infatti, a tale domanda si affianca il più rilevante interrogativo: di chi è la responsabilità dell’azione compiuta e indotta in stato di trance? E, ancor prima: è possibile che l’ipnosi possa tanto? Perché, se sì, viva l’ipnosi. Pericolosa sì, ma potente. Mi sono domandata, così, accanto ad altri, se non si rientri nella fattispecie del reato impossibile (art. 49, comma 2, del codice penale): una risposta positiva (l’ipnosi configura una fattispecie di reato impossibile al pari di chi voglia uccidere e, per farlo, spari con una pistola giocattolo, o pugnali un fantoccio) depotenzia lo strumento ipnotico ma ci rende liberi; una risposta negativa (il reato è possibile, ossia si può indurre l’ipnotizzato a compiere un atto contro la propria volontà, anche criminale, così come abusare di lui) potenzia l’ipnosi e apre uno scenario immenso non solo nella psicologia e nella psichiatria, ma anche nell’ordinamento giuridico, anche alla luce della responsabilità penale personale che la Costituzione esprime. E pur sempre viva l’ipnosi.

Ciò detto vale (con le dovute specifiche qui sotto indicate) non solo per il dilemma penale. Nel codice civile, il punto interessante è quello della sanzione per l’atto compiuto in stato di ipnosi: nullità, annullabilità, inesistenza? Un giurista sa quanto la questione sia rilevante: indurre a scrivere testamento o a donare una proprietà in stato di trance, ad esempio, è possibile? E in che modo sanzionabile?

Ultima questione, l’utilizzabilità dell’ipnosi nel processo penale: è lecito e valido l’impiego di tale strumento per far riaffiorare ricordi? E che valenza probatoria detta escussione ha nel nostro ordinamento processuale? E negli altri Stati? Ne faccio una questione “sentimentale”: l’inconscio può testimoniare la verità?

 

PARTE 2. IPNOSI: ORA ALZATI E UCCIDI. DAL REATO IMPOSSIBILE ALL’INCONSCIO TESTIMONE IN GIUDIZIO

Nel nostro ordinamento, a livello di legislazione ordinaria, prenderemo in considerazione le quattro norme fondamentali (ovviamente collegate ad altre) applicabili all’ipnosi. Una di esse è di materia civilistica, due sono contenute nel Codice penale, la quarta nel Codice di procedura penale. Nell’ordine, le descrivo qui sotto.

 

  • CODICE CIVILE

In ambito civilistico, ciò che è importante ai fini della presente trattazione è la valutazione dell’efficacia di un atto che è stato compiuto in uno stato di trance ipnotica o di suggestione post-ipnotica. Sovviene l’art. 428 c.c., titolato “atti compiuti da persona incapace d’intendere o di volere”, il quale prevede che gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore. La norma si riferisce alla cosiddetta incapacità naturale, ossia quella non risultante ufficialmente dai registri dello stato civile che è accertata in base a criteri sostanzali o procedimentali, comunque in grado di mettere il soggetto in una condizione, anche transitoria, di squilibrio contrattuale, dovuto a un vizio volitivo.

L’incapacità di intendere o di volere rilevante ai fini della norma deve essere verificata di volta in volta, in relazione allo specifico atto compiuto dall’incapace. Nel caso specifico dello stato ipnotico, bisogna verificare se esso possa configurare quell’incapacità naturale richiesta per l’annullamento di un atto compiuto in sua costanza; cito, una su tutte, la sentenza della Corte di cassazione n. 7344 dell’8 agosto 1997, secondo cui “nell’incapacità naturale è sufficiente che le facoltà psichiche del soggetto siano ridotte”. Le sue cause ricomprendono una menomazione della sfera intellettiva e volitiva, anche non patologica. Ed ai casi di ubriachezza o tossicodipendenza, età avanzata, infermità fisiche, stati passionali acuti, intenso bisogno di denaro, fino a suggestione, sorpresa, inesperienza e immaturità, il giurista Rodolfo Sacco aggiunge la suggestione ipnotica[6].

ANNULLABILITÀ. Secondo l’opinione dominante, nel concetto di inapacità naturale di cui all’art. 428 c.c. rientra anche l’ipnosi. Ma, secondo altra opinione, “la questione (…) sembra quanto meno discutibile perché, a rigor di logica, l’ipnosi dovrebbe esser considerata come una ipotesi di violenza fisica (o assoluta) e pertanto fuori dal campo di applicazione dell’art. 428 c.c.”[7]. Ciò che preme osservare qui è quanto la configurazione dello stato ipnotico come incapacità naturale porti effetti differenti rispetto ad una sua configurazione come assenza di volontà (non vizio): è la differenza giuridica che passa tra annullamento e nullità. Applicando l’art. 428 c.c. (l’ipnosi produce incapacità naturale) si rientra nella disciplina dell’annullamento, e dunque: il negozio annullabile in quanto concluso da un incapace di intendere e di volere è produttivo di effetti e li conserva sino alla sentenza; questa non è di accertamento ma costitutiva, poiché elimina una situazione giuridica esistente e gli effetti del negozio retroattivamente. L’annullamento può essere chiesto al giudice solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge (annullabilità relativa) e solo in rari casi da chiunque vi abbia interesse (annullabilità assoluta).

NULLITÀ. Considerando, invece, lo stato ipnotico come uno stato in cui la volontà non è menomata, flebile, bensì totalmente assente in quanto prodotto da violenza fisica (vis ablativa) [8], si andrebbe ad applicare la disciplina della nullità, per cui l’atto compiuto in tale condizione non è mai sorto, non ha mai prodotto effetti, è insanabile (salvo che la legge non prescriva diversamente), può essere convertito solo a determinate condizioni (ripetizione); la legittimazione all’impugnazione è assoluta e l’azione di nullità spetta a chiunque, purché interessato; ha effetto anche nei confronti dei terzi. Tale approccio avvalla l’affermazione che nel caso dell’ipnosi manchi assolutamente un simulacro di volontà, pertanto il contratto sarà privo del requisito essenziale psichico per il consenso negoziale, e quindi, nullo ex art. 1325 n. 1 c.c.; la dichiarazione sarebbe soltanto materialmente riferibile all’agente, in quanto fisicamente costretto senza alcuna possibilità di opporvisi. Questo perché il soggetto sottoposto ad ipnosi “non ha altra volontà che quella che gli viene imposta dall’operatore; allo stesso modo egli non ha pensieri, se non quelli che l’operatore gli suggerisce; egli non presenta la minima ombra di spontaneità ed un movimento a lui impresso viene eseguito senza che la sua volontà sia capace di arrestarlo, l’atto è soltanto eseguito dagli organi dell’ipnotizzato, è da attribuirsi non alla sua volontà e coscienza, cioè alla sua personalità, temporaneamente soppressa, ma alla volontà e coscienza dell’operatore”[9].

INESISTENZA. Non manca una parte della dottrina, infine, che indica nell’inesistenza dell’atto la sanzione più appropriata, essendo carente di quei requisiti minimi utili alla definizione di un atto come negozio, sebbene nullo. L’atto, in poche parole, non è mai sorto.

Nonostante il soggetto ipnotizzato, per Di Cagno, divenga un automa in balia dell’ipnotista sulla base di una pretesa energia promanante dall’ipnotista che ricorda il magnetismo animale di Franz Anton Mesmer, egli sostiene che non è comunque possibile far rientrare nell’ipotesi di violenza assoluta gli atti compiuti nello stato post-ipnotico, ossia quando l’esecuzione del comando ipnotico avviene dopo la deipnotizzazione, “mancando l’estremo dell’immediatezza dell’esecuzione dell’atto quale risultato diretto dell’energia fisica impiegata”. Il medesimo problema si concretizza anche per gli atti compiuti in stato di ipnosi leggera. Qui la convinzione di una vis ablativa nell’ipnosi comincia a cedere. Le teorie indicate si riferiscono, ormai, ad una concezione dell’ipnosi che ha in parte significato. Infatti, “si ricordi che il grado di coinvolgimento dell’individuo nell’ipnosi varia da caso a caso e che col termine di profondità dell’ipnosi si allude proprio a questa gradualità di partecipazione del soggetto al fenomeno in questione”[10].

Il regime applicabile, invero, dipende dalla situazione verificatasi nella fattispecie concreta. Va, cioè, valutato ed accertato come e quanto, fattivamente, si sia concretata la perdita o la diminuzione di coscienza che, in uno stato di induzione, può variare su una scala molto vasta, soggettiva, e che non può essere generalizzata; accertamento, questo, indubbiamente complesso, ma che chiama in causa la neurologia dell’ipnosi e la forza che tale strumento può espletare, effettivamente, non su un soggetto bensì su quel determinato soggetto.

 

  • CODICE PENALE

Sono due le norme che, peraltro espressamente, richiamano l’ipnosi: gli artt. 613 e 728 c.p. Le descrivo di seguito.

 

a. L’ART. 613 DEL CODICE PENALE

L’art. 613 c.p. punisce chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcooliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato d’incapacità d’intendere o di volere. Reclusione fino a un anno, e due aggravanti al terzo comma: reclusione fino a cinque anni a) se il colpevole ha agito col fine di far commettere un reato; b) se la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla legge come delitto. Il concorso delle due aggravanti non è ipotizzabile perché la prima richiede il fine di far commettere il reato, la seconda lo esclude. Se il fatto è commesso da pubblico ufficiale è applicata l’aggravante dell’art. 61 n. 9, se commesso da un medico che ha agito con abuso della professione la condanna non è aggravata, ma ai sensi degli artt. 30 e 31 c.p. è comminata l’interdizione temporanea dalla professione. Soggetto passivo è chiunque non si trovi già in stato di incapacità di intendere e volere.

Inoltre, la norma va interpretata in combinato disposto con l’art. 86 c.p. per cui: “Se taluno mette altri nello stato di incapacità di intendere o di volere, al fine di fargli commettere un reato, del reato commesso dalla persona resa incapace risponde chi ha cagionato lo stato di incapacità”.

La prima domanda: è questo un reato impossibile? (previsto espressamente dall’art. 49, comma 2, c.p.). Ossia: è possibile indurre in stato di trance qualcuno senza la sua volontà? È possibile far compiere atti criminosi all’ipnotizzato?

La risposta è, generalmente, negativa[11]. È possibile indurre una trance ipnotica senza consenso solo su chi è già assuefatto, come una profezia che si autodetermina, o su soggetti che, prestandosi per la prima volta all’ipnosi, implicitamente danno il consenso. Si può anche operare con soggetti riluttanti (Milton Erikson ammette che la riluttanza dei suoi pazienti era ambivalente, cioè contrastata dal desiderio del soggetto di esibirsi e di provare questa particolare esperienza), o attraverso tecniche dialettiche nelle quali le parole “ipnosi” o “sonno” non sono mai pronunciate. Altro è il problema se il soggetto ipnotizzato volontariamente perda il controllo del proprio comportamento mentre è in ipnosi, e soprattutto, con Orne, se esista corrispondenza tra l’esperienza soggettiva di libertà di scelta ed il comportamento dell’ipnotizzato[12]. “Si possono verifìcare in ipnosi diverse ipotesi: può aumentare il controllo dell’ipnotista sul soggetto per la diminuita capacità critica di quest’ultimo. È poi possibile che il soggetto elimini i suoi processi decisionali per la durata della trance ipnotica ed accetti la realtà in base alle istruzioni dell’ipnotista – che può anche alterare i dati di realtà – piuttosto che in base alle sanzioni concrete dei suoi organi di percezione. Un’alternativa completamente differente è che il soggetto in ipnosi possa essere forzato a commettere azioni contro la sua morale”[13].

Per la scuola di Nancy, i soggetti ipnotizzati divengono come automi che eseguono qualunque cosa sia loro comandata: l’ipnotismo può venire usato con propositi criminali. La scuola della Salpètrière ritiene, in opposizione, che l’uso antisociale dell’ipnotismo è possibile solamente quando nel soggetto siano già presenti tendenze criminali: l’ipnotizzato non potrebbe essere indotto a commettere azioni che si rifiuterebbe di compiere in condizioni normali. Per entrambe le scuole, però, la suggestione ipnotica può essere usata con successo per compiere i crimini sessuali sull’ipnotizzato[14].

Molti autori hanno sostenuto, con esperimenti, la possibilità di indurre il soggetto a nuocere a se stesso o a terzi; per altri, è invece mpossibile provocare ipnoticamente una condotta antisociale. Lo stesso Erickson istruì 50 soggetti in trance, selezionati da un gruppo di 500, a rubare piccole somme di denaro, a leggere la corrispondenza destinata ad altre persone, a commettere atti autolesivi, a dare false informazioni, a infrangere regole morali, a commettere atti lesivi dell’incolumità personale altrui ed altri atti antisociali. In nessun caso il soggetto tenne il comportamento che gli era stato suggerito[15]. Questa divergenza di risultati è spiegata in letteratura secondo tre criteri:

  • l’ipnotizzato compie atti antisociali perche in sé ha una tendenza criminale;
  • l’ipnotizzato compie atti antisociali perché percepisce la sperimentalità della situazione;
  • l’ipnotizzato compie atti antisociali perché l’ipnotista se ne assume la responsabilità.

Numerosi sono i fattori cui legare il comportamento[16], ad esempio, il fatto stesso che una determinata azione sia richiesta al soggetto da un professore, in un laboratorio universitario, altera considerevolmente il significato contestuale del comportamento. Se gettare l’acido addosso a qualcuno rappresenta un comportamento antisociale, compiere la stessa azione in una situazione sperimentale riveste un significato completamente diverso, in quanto il soggetto percepisce la non pericolosità del suo gesto, anche se apparentemente non sembra vi siano misure precauzionali. Molte variabili influenzano il comportamento del soggetto e tra esse si possono includere: le circostanze in cui il comportamento viene richiesto (in laboratorio, in privato, con testimoni, ecc), la posizione e la reputazione dell’ipnotista, il proposito che il soggetto attribuisce alle richieste dell’ipnotista”[17].

Oltre a tale problema, sussiste quello accennato del nesso eziologico tra causa ed effetto del comportamento, che non può essere interrotto pena la violazione della norma costituzionale di cui all’art. 27 che prevede la personalità della responsabilità penale. La teoria causale della conditio sine qua non considera causa ogni antecedente senza il quale il risultato non si sarebbe avverato: è cioè sufficiente che l’uomo abbia realizzato un antecedente indispensabile per il verificarsi del risultato perché si abbia il rapporto di causalità. Ma al nesso di causalità va aggiunto, per una corretta definizione penale, l’elemento soggettivo del reato, ossia il concorso del dolo o della colpa dell’agente (escluderei l’ipotesi di Pioletti secondo cui l’ipnotizzato dovrebbe sempre rispondere per colpa del reato commesso durante lo stato ipnotico per il fatto stesso di aver consentito di farsi porre in trance[18]). Tanto che la teoria della condicio sine qua non è stata molto osteggiata, e sostituita da quella più tenera della “causalità adeguata”, secondo cui perché esista il nesso occorre che il soggetto abbia determinato l’evento con un’azione adeguata, idonea in astratto a determinare l’effetto, secondo un giudizio ex ante in base all’esperienza di casi simili: non si considerano causati dall’agente gli effetti che al momento dell’azione si presentavano improbabili, cioè gli effetti straordinari o atipici dell’azione stessa. Per la teoria “nomologico-funzionale”, invece, un evento deve reputarsi effetto di un altro evento quando tra essi esiste un rapporto di successione costante, ossia quando dato l’uno, l’altro segue in modo ineccepibile. Per le tre teorie citate, l’ipnosi è comunque adeguata alla causazione dell’evento criminoso, e la risposta alla domanda: “Si tratta di reato impossibile?” è negativa. È possibile. Non è infatti quello dell’ipnosi il caso in cui la punibilità è esclusa quando, per l’inidoneità dell’azione o l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso.

E Granone risponde: “Sul terreno medico-legale, anche se da un punto di vista più teorico che pratico, questa eventualità non deve rigettarsi come vorrebbero coloro che ammettendola, temono di compromettere il buon nome dell’ipnotismo. Le difficoltà della sua attuazione pratica, sono, per buona sorte, notevoli e richiedono da una parte un criminale che sia contemporaneamente un assai esperto ipnotizzatore e dall’altra un soggetto succubo, che raggiunga gradi profondi di suggestionabilità e di ipnosi sonnambolica, come non è tanto facile incontrare. D’altro canto gli ipnotisti esperti sanno che l’amnesia derivante dall’ipnosi non è sempre assoluta; emergono spesso all’improvviso sprazzi di ricordi e questi, denunciati, possono far crollare il delitto meglio architettato con l’ipnotismo”[19].

b. L’ART. 728 DEL CODICE PENALE

L’art. 728 c.p. punisce chiunque pone taluno, col suo consenso, in stato di narcosi o d’ipnotismo, o esegue su lui un trattamento che ne sopprima la coscienza o la volontà, è punito, se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità della persona, con l’arresto da uno a sei mesi o con l’ammenda da 30 euro a 516 euro. Aggiunge, nel secondo comma, che tale disposizione non si applica se il fatto è commesso, a scopo scientifico o di cura, da chi esercita una professione sanitaria.

La ratio dell’incriminazione delle pratiche ipnotiche va ricondotta all’art. 2 della Costituzione, dove si riconosce l’inviolabilità dei diritti dell’uomo in quanto singolo, nell’aspetto specifico dell’inviolabilità della libertà morale[20]. Anche qui, come analizzato in tema di incapacità naturale, il punto è il coinvolgimento del soggetto: si va da un grado minimo in cui il controllo della relazione da parte dell’ipnotista è modesto ed il senso della realtà dell’ipnotizzato non è intaccato, a un grado massimo in cui tale controllo è totale e il senso della realtà è fortemente compromesso.

La prima considerazione da fare sulla norma è formale e definitoria: il legislatore parla di ipnotismo, confondendo il metodo con lo stato. Più appropriato sarebbe stato parlare di “stato ipnotico”.

È richiesto il consenso di chi è posto in stato di incapacità nel senso sopraddetto (consenso che sia valido).

Del terzo comma si è accennato nel capitolo precedente (cfr. https://www.rominaciuffa.com/ipnosi-soggetti-abilitati/) relativamente all’esercizio dell’ipnosi da parte di chi non svolga professione sanitaria; tale norma introduce una causa di giustificazione per tali soggetti, estromettendoli dalla configurabilità del reato. Non escluderà, invece, la punibilità del non abilitato nel senso già descritto.

Quindi, è enunciata una condizione obiettiva di punibilità: che dal fatto derivi pericolo per l’incolumità della persona. Gulotta in particolare distingue pericoli per il soggetto, pericoli per l’operatore, pericoli per la medicina, pericoli per l’ipnosi stessa come metodo[21]. Non c’è prova che induca a ritenere che l’ipnoterapia possa avere effetti deleteri sui pazienti. Platonov, collaboratore di Pavlov, dichiarava di non aver mai osservato alcuna influenza dannosa dell’ipnosi sui pazienti, avendola usata per più di 50 anni su oltre 50.000 casi [22]. Cheek, poi, “ironizza ed afferma che i meccanismi con i quali l’ipnosi può produrre un effetto dannoso non sono differenti dagli strumenti usati da Lady Macbeth sul marito o da Jago su Otello; aggiunge che si produce un maggior danno dall’ignorare l’ipnosi che non dall’uso intelligente delle forme della suggestione”[23].

Diversamente dalle opinioni sulla pericolosità dell’ipnosi[24], il diritto non è opinabile, e questa problematica non può essere scissa dalla necessità di individuare un nesso eziologico, come richiesto dalla norma dell’art. 41 c.p., secondo cui “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”: stabilire se la situazione psicologica pregressa del soggetto possa essere considerata una di quelle cause preesistenti o simultanee che non escludono il rapporto di causalità tra l’azione e l’evento è cosa oltremodo complessa, come si è già avuto modo di sottolineare, ma ancor di più lo è nel caso dell’ipnosi.

Un cenno meritano le conseguenze pericolose cui la soppressione di sintomi tramite ipnosi potrebbe generare, giacché prima che il sintomo venga soppresso, esse deve venire interpretato. Sono state raccolte comunque prove che la soppressione del sintomo è comunque utile per il paziente[25].

 

  • CODICE DI PROCEDURA PENALE

Non vi è alcun diretto riferimento all’ipnosi nell’impianto processualpenalistico italiano. L’istituto potrebbe essere, però, ben collocato nell’ambito dell’interrogatorio e dell’escussione probatoria ai fini di ricordare. L’art. 64, comma 2, c.p.p., collocato tra le regole generali dell’interrogatorio in sede predibattimentale (indagini preliminari, convalida dell’arresto e del fermo o udienza preliminare), contiene la prescrizione per cui non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti. Tale norma esprime il principio della libertà morale e di autodeterminazione, che prevale su quello pubblico dell’accertamento della verità: non si può ricorrere all’ipnosi o alla narcoanalisi prescindendo dal consenso dell’imputato. Lo scopo è quello di evitare di ricorrere a modalità incompatibili con l’interrogatorio quale mezzo di difesa. Più avanti, nell’ambito dell’escussione dibattimentale, l’art. 188 detta la medesima previsione, mentre il successivo art. 189, nel regolare le prove “atipiche”, stabilisce che, quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede all’ammissione, sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova. La Relazione che accompagnava il Progetto preliminare del Codice faceva cadere l’accento su “narcoanalisi, lie-detector, ipnosi e siero della verità, che, a giudizio della Commissione, vanno banditi dalla sede processuale per la scarsa attendibilità che viene loro generalmente riconosciuta”.

È da premettere che, alla luce di quanto riportato anche in precedenza relativamente alla necessità di consenso e alla condizione che non vi sia pericolo per l’incolumità della persona, e alla luce dell’art. 499 c.p.p. che proibisce di porre al teste domande suggestive, il procedimento probatorio italiano mal si concilia con l’ipnosi (comma 3: “Nell’esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte”)[26].

Eppure, negli altri Paesi dell’ipnosi è fatta, in certi limiti, applicazione per scoprire eventuali simulazioni di malattie (un caso fu quello di una simulata paralisi alle gambe, che l’ipnotista indusse a muovere durante la trance), identificare le menzogne e controllare la verità (non sono rare le discordanze tra una risposta ideomotoria in trance e le risultanze del lie-detector)[27], ottenere confessioni[28], suscitare ricordi di avvenimenti passati coperti da amnesia e migliorare il ricordo di avvenimenti passati (una grande utilità è tratta per neutralizzare aspetti dell’affettività che possono incidere sui processi della memoria), indagare sulla volontà criminosa, investigare sull’eventualità che un crimine sia stato perpetrato su istigazione di un ipnotista criminale, diagnosticare la capacità di intendere e di volere dell’imputato; nonché l’ipnosi è impiegata quale strumento di indagine e di terapia in criminologia, e mezzo terapeutico in vittimologia[29].

In quest’ultima branca, che si propone lo studio della vittima, l’ipnosi costituisce una tecnica terapeutica di elezione utile nelle nevrosi traumatiche, alla stregua di uno strumento sociale di intervento per il trattamento dei danni psicologici derivanti da un crimine, idoneo ad ottenere risposte attive ed adattive a situazioni di stress cui il paziente non è capace di far fronte con successo.

Contano anche, sulla base degli esperimenti condotti, il grado di ipnotizzabilità delle persone sospette, i motivi di resistenza e di inganno, la profondità della trance, le tecniche impiegate[30]. L’ipnosi può, comunque (e come accennato sopra), non essere attendibile al fine di ottenere la verità da persone riluttanti; inoltre, anche se è possibile ipnotizzare qualcuno senza la sua volontà, questi può mentire intenzionalmente; ed il soggetto che accetti l’ipnosi volontariamente può comunque ricordare versioni distorte dei fatti accaduti. Non è, pertanto, in linea con il nostro ordinamento fondare un giudizio su dichiarazioni rilasciate dall’imputato/indiziato in ipnosi, dovendosi considerare troppi fattori difficilmente controllabili, oltre alla notazione (Schafer)[31] che la Giuria (in America) potrebbe essere troppo influenzata, sia positivamente che negativamente, dalle dichiarazioni ottenute con l’ipnosi indipendentetemente dal loro significato oggettivo. Si suole essere più propensi al suo impiego nel caso di indiziati o imputati amnesici, per il diritto di ciascuno di essere curato da una malattia; pur sottolineando come non siano infrequenti casi di pseudomemorie. E con un limite formale: le risultanze ipnotiche possono essere considerate accettabili solo se confermate da dati oggettivi e verificati.

In Italia mancano comunque esempi di riferimento sull’impiego dell’ipnosi ai fini della formazione della prova forense. Utile è però ricordare per analogia la condanna alla reclusione emessa nei riguardi di Don Giorgio Carli, parroco di Bolzano, per violenza sessuale ai danni di una parrocchiana all’epoca minorenne (sentenza della Corte di Appello di Bolzano del 16 aprile 2008), la quale si è basata sull’uso della distensione immaginativa per la riemersione del ricordo. Tale tecnica non sembra discostarsi molto dal modello ipnotico, a maggior ragione eriksoniano, in quanto utilizza un’atmosfera regressiva (permette alla memoria di allargarsi fino a rioccupare il terreno dal quale s’era ritirata) volta ad attivare animazioni fantasmatiche. Le caratteristiche intrinseche della modalità di recupero delle immagini presentate dal paziente, secondo la Rivista medica italiana di psicoterapia ed ipnosi e gran parte della dottrina, non possono costituire un fondamento attendibile in un contesto forense. Don Carli avrebbe violentato la vittima dai suoi 9 ai suoi 14 anni, e i ricordi dei fatti erano emersi solo nel corso di una terapia analitica cui lei si era sottoposta in quanto presentava sintomi non comprensibili; tali memorie erano dettagliate al punto da convincerla che contenessero la verità. In primo grado il prete fu assolto, in secondo fu condannato perché il tribunale del riesame accolse un diverso orientamento disposto a riconoscere la vicinanza tra sogno e realtà, tra materiale onirico e prove a carico. Per completezza di trattazione, si aggiunge che la Corte di cassazione ha in seguito decretato la sopraggiunta prescrizione del reato, ma con obbligo di risarcire economicamente la parrocchiana (Cass. pen., sez. III, 28 aprile 2009, n. 17846): il giudice di legittimità non si è pronunciato sul punto oggetto del presente lavoro, ma confermando le statuizioni civili della sentenza di merito ha implicitamente ammesso e convalidado l’uso della procedura sopracitata.

Se è vero che “gli psicologi asseriscono che non è la biografia o la storia che genera nevrosi, ma è la nevrosi a generare biografia e storia. Perciò i sogni e le fantasie si usano in analisi, non nelle aule giudiziarie”[32], lo stesso può dirsi dell’ipnosi: il suo impiego in ambito forense non può sottrarsi alla valutazione secondo i medesimi criteri adoperati per stimare l’attendibilità della prova scientifica. D’altronde nel caso di indiziati ed imputati il suo utilizzo non si accompagna necessariamente allo stimolo dell’interrogato ad una maggiore sincerità; mentre per il recupero di memorie in testimoni o vittime di reati esso può rilevarsi utile, ma non in assoluto, ai fini processuali, comunque restando ferma la riserva del giudice di attribuire volta per volta alle risultanze il giusto peso in relazione ai soggetti coinvolti e agli altri elementi di confronto oggettivo reperibili negli atti acquisiti. “In particolare, dopo aver selezionato i casi ed avere ottenuto il consenso scritto della persona che richiede, per il diritto alla salute, di essere sollevata dall’amnesia, si impiegheranno tecniche ipnotiche generiche, atte a far sì che una volta tornati allo stato di veglia i soggetti possano ricordare episodi o fatti per i quali soltanto in un momento successivo potranno essere interrogati in stato di coscienza vigile. L’impiego dell’ipnosi in questi casi dovrà, quindi, essere limitata unicamente ad allenare, per così dire, il soggetto, suggerendo, attraverso delle istruzioni post-ipnotiche, che ricorderà al meglio ciò che gli si chiederà in un secondo momento allo stato di veglia dopo la seduta, evitando, pertanto, di fornire suggestioni che potrebbero rappresentare fondamento su cui installare pseudomemorie”[33]. Sono comunque indispensabili videoregistrazioni complete.

Concludo con la domanda della letteratura: l’inconscio può testimoniare la verità?

 

CONCLUSIONI 

Andrei O. Popescu, “Solitudine, autoritratto dell’inconscio”

Con la presente trattazione ho dato solo avvio a quella che potrebbe essere una lunga disquisizione sulla rilevanza giuridica dell’ipnosi, nei termini esposti, in relazione alle molteplici fattispecie che possono concretarsi anche avuto riguardo alle altre norme in combinato disposto. Ne emerge anche, e con chiarezza, l’assenza di una posizione dell’ordinamento e dei suoi estensori, che è sinonimo dell’assenza di una definizione dell’ipnosi prima, dei suoi limiti dopo, e dunque della sua valenza al di fuori dell’ambito terapeutico e curativo, dove essa può avere degli effetti – quelli giuridici – che oltrepassano la “giurisdizione psicologica e somatica” e si riversano nel mondo reale come produttivi di conseguenze giuridiche.

Annullare un negozio in quanto perfezionato in stato ipnotico, o considerarlo nullo in nuce; emettere una condanna sulla base di dichiarazioni o comportamenti espressi durante la trance; essere perseguibili penalmente per aver “indotto” l’ipnotizzato a commettere “senza o contro volontà” un reato; ritenere quest’ultimo incapace di intendere e di volere; porlo in una condizione di pericolo per la sua incolumità: queste ipotesi sono da una parte in grado di fondare una base solida, anche solo per la loro postulazione, affinché lo strumento ipnotico sia inserito in un sistema più ampio. Dall’altra costituiscono tutte alternative ipotizzabili in via astratta, ma da convalidare nel concreto. E l’ipnosi, per sua stessa etimologia hýpnos, sonno, non rientra nel concreto se non negli effetti che ne derivano. Perciò è assai “blasfemo” considerarla al pari di una sostanza stupefacente, che obiettivamente e scientificamente interagisce con il corpo prima, con la psiche durante, ed è misurabile. Lo stato di trance non ha un valore quantitativo, bensì qualitativo; non è misurabile, bensì descrivibile. Ed anche nella sua descrizione è vincolato alle regole della soggettività e della narrazione, meglio detto dipende dal soggetto ipnotizzato, dalla sua percezione di quanto esperito, dal nuovo stato riscontrato dopo il risveglio (anche in momenti molto successivi, ed eventualmente coinvolgendo la valenza del comando post-ipnotico), e, con Erikson, dallo stesso ipnotizzatore e da quel rapport che tra questi e l’altro è creato, dipendente da entrambi, dal contesto, dalle loro soggettività e percezioni reciproche ed individuali.

Troppi i fattori che impediscono a noi, e al legislatore a maggior ragione, di definire scientificamente l’ipnosi. Lo stato alterato di coscienza cui essa mira può essere, a mio parere, inteso come una vera e propria actio libera in causa, l’assoggettamento consapevole ad uno spazio-tempo inconsapevole in cui muoversi, uno stato preordinato di incapacità di intendere e di volere. Lo stesso che, nel campo del diritto, è rilevante penalmente nel definire le azioni compiute nell’alterazione psichica che il soggetto si è procurato (ad esempio, mediante droghe o alcolici) allo scopo di commettere un reato o di prepararsi una scusa (art. 87 c.p.). Nonostante l’agente non avesse la capacità d’intendere e di volere al momento del fatto, il reato commesso in stato di incapacità preordinata è punibile e l’esecuzione del reato viene fatta fittiziamente risalire al momento in cui l’agente ha preordinato lo stato di incapacità (lascio per altra sede le considerazioni sull’elemento psichico – dolo o colpa – da valutarsi tanto al momento della preordinazione quanto al momento della commissione del fatto).

Così l’ipnosi. Attraverso essa, l’azione diviene libera dalla causa. Ma non per questo il soggetto diviene un automa non imputabile. L’inconscio è ben più attento di quanto non sembri. Resta ferma la nota frase alfieriana del “volli fortissimamente volli”, che viene affiancata ai successi o ai fallimenti dell’ipnosi (l’Alfieri la pronunciò in riferimento alla volta in cui si fece legare alla sedia per non avere distrazioni dallo studio si rasò i capelli solo su una metà della testa affinché il suo impresentabile aspetto lo dissuadesse dall’uscire di casa): ciò che fortissimamente si vuole, l’ipnosi fa fare. Ciò che “fortissimamente” non si vuole è, invece, opera di altri meccanismi o cause. Ciò che è certo è che, a fini terapeutici, non è sufficiente “ipnotizzare”, bensì essere formalmente psicologi, informalmente “bravi”, come non solo e non da ultimo anche Freud sosteneva. (ROMINA CIUFFA)

*Romina Ciuffa, psicologa, riceve in centro storico a Roma, ai Castelli Romani (Monte Compatri) e, su appuntamento, a Milano (info@rominaciuffa.com) 

NOTE

[6] SACCO R., Il consenso, in Tratt. contratti RescignoGabrielli, Torino, 1999, I, 419.
[7] CENDON P., Commentario al codice civile, Giuffré, 292. Cfr. BIGIAVI W., I vizi della volontà nella dichiarazione cambiaria, Sperling & Kupfer, Merano, 1943; DI CAGNO V., L’ipnosi e l’incapacità di intendere e di volere, in Riv. Trim. dir. e proc. civ., 1955, 808 ss.; PANZA G., Contratto compiuto in stato di ipnosi, Università di Bari, in Casi e questioni in tema di contratti, Bari, 1970.
[8] PUCCINI L., Osservazioni in tema di incapacità naturale a testare con particolare riguardo al caso di suggestione ipnotica, in Giur. Comp., Cass. Civ., 1953, I, 288.
[9] DI CAGNO V., 1956, 815.
[10] GULOTTA G., cit., 390.
[11] ORNE M. T., The Potential Use of Hypnosis in Interrogation, in BINDERMAN A., ZIMMER H., The Manipulation of Human Behavior, Wiley, New York, 1961.
[12] ORNE M., Antisocial Behavior and Hypnosis, in ESTABROOKS G. H., Hypnosis Current Problems, Harper and Row, New York, 1962, 146 ss.
[13] GULOTTA G., cit., 469.
[14] Avviene anche l’inverso, il caso dell’ipnotista che viene accusato dalla paziente di abuso sessuale. In tal senso GULOTTA G., cit. 553, “(…) Ho cercato di mostrare (GULOTTA G., Le vittime di aggressioni sessuali, in ERMENTINI A., GULOTTA G., Psicologia, psicopatologia e delitto, Giuffrè, Milano, 1971, 217) come talune false accuse da parte di donne, di avere subito aggressioni sessuali, possano derivare da una pseudologia fantastica, in cui proiettano il loro desiderio di avere rapporti sessuali con l’altro. Arons descrive come riuscì ad accertare, tramite ipnosi, che un’accusa di tal genere era calunniosa. L’ipnotista veniva consultato da un medico amico, accusato da una donna di quarantacinque anni, che egli aveva in cura, di comportamento seduttivo nei suoi confronti mentre ella si trovava in stato di ipnosi. Il medico tuttavia garantiva la propria innocenza. L’ipnotista consultato ascoltò la registrazione delle due sedute iniziali, dopo le quali il medico, sicuro della stabilità emotiva della paziente, non aveva più effettuato registrazioni. L’accusato assicurava che ogni seduta si era svolta con la massima correttezza professionale e sottolineava di essersi comportato con la paziente in modo formale, rifiutando anche di chiamarla per nome quando ciò gli era stato domandato dalla paziente stessa, declinando inoltre gentilmente alcuni inviti mondani da lei rivoltigli. Arons ricorse quindi ad una seduta ipnotica, presente l’avvocato nello studio del medico. La donna sembrava ansiosa di essere ipnotizzata per provare l’autenticità della sua storia. L’ipnotista eseguì test di vario genere (il soggetto era in posizione eretta, ma rilassata, gli occhi chiusi ed eseguiva movimenti di tipo ideomotorio richiesti): la donna si dimostrò particolarmente suggestionabile. Completati i preliminari, l’ipnotista si preparò a deipnotizzare il soggetto suggerendole prima: lei non si ricorderà di nulla di ciò quando io toccherò il suo posto, o quando conterò fino a tre, o quando mentirò. L’interrogatorio della paziente allo stato di veglia non si differenziò dai precedenti interrogatori: le risposte vennero date con lo stesso candore e la stessa prontezza. Tuttavia, ogni volta che la risposta aveva a che vedere con le presunte aggressioni sessuali, il suo dito indice si contraeva violentemente”.
[15] ERICKSON M. H., An Experimental Investigations of thè Possible Antisocial Uses of Hypnotism, in Psychiatry, 1939, 391.
[16] Orne ha sostenuto che la difficoltà principale dell’interpretazione della letteratura è costituita dalla mancanza di distinzione tra tre fondamentali tipi di comportamento: a) il comportamento che appare ripugnante al soggetto, ma che è legittimato nel contesto sociale in cui avviene l’ipnosi; b) il comportamento che l’individuo non terrebbe in condizioni normali, ma che assume a causa di forti desideri inconsci o consci che lo spingono a compiere quel determinato atto; c) il comportamento che il soggetto non desidera tenere, sia a livello conscio che inconscio e che egli rifiuterebbe nella relazione che precede l’ipnosi. È soltanto in quest’ultimo caso che, qualora avvenisse, si potrebbe senz’altro ritenere che l’ipnosi abbia determinato un atto antisociale (ORNE M. T., Can a Hypnotized Subject. Be Compelled to Carry Out Otherwise Unacceptable Behavior? A Discussion, in Int. J. of Clin. Exp. Hypnosis, 1972, 2).
[17] GULOTTA G., cit., 486.
[18] PIOLETTI U., Ipnotismo, in Nov. Dig. it., Utet, Torino, 1963, 38.
[19] GRANONE F., Trattato di ipnosi (Sofrologia), Boringhieri, Torino, 1972.
[20] CALLIERI B., FLICK G. M., I comportamenti indotti: aspetti psichiatrici e giuridici, in Riv. It. Diritto e Procedura Penale, 1973, 800; TAORMINA C., Narcoanalisi, in Enciclopedia del Diritto, XXVII, Giuffrè, Milano, 1977, 489.
[21] GULOTTA G., cit., 447.
[22] PLATONOV K., The Word as a Phsysiological and Therapeutic Factor, Foreign Languages Publishing House, Mosca, 1959.
[23] CHEEK D. B., Hypnosis: and Additional Tool in Human Reoriention to Stress, in Northwest Med., 1958, 177, in GULOTTA G., cit., 448.
[24] Mi sembra opportuno riportare il contributo di GULOTTA G., cit., 552: “Poiché la sperimentazione sull’uomo ha subito recentemente negli Stati Uniti notevoli restrizioni allo scopo di proteggere i soggetti partecipanti all’esperimento e l’ipnosi è stata giudicata una procedura soggetta a rischi, due autori hanno di recente riesaminato il problema (COE W., RYKEN K., Hypnosis and Risks to Human Subjects, in Am. Psychol., 1979, 673). Essi hanno confrontato su 209 studenti di psicologia (157 maschi e 152 femmine) divisi i cinque gruppi, gli effetti della somministrazione della scala Stanford forma C, con quelli seguenti alla: a) partecipazione ad un esperimento di apprendimento verbale; b) ad un esame universitario; e) ad una lezione universitaria; d) alla vita del College in generale. Il risultato a cui sono giunti è che l’ipnosi in nessuno dei casi è apparsa causalmente responsabile di produrre effetti e negativi di tipo emotivo o sintomatologico più che le altre situazioni confrontate, sia sotto il profilo della durata dell’effetto della sintomatologia, sia sotto il profilo della qualità di essi. È apparso per esempio che la partecipazione ad un esame, alla vita scolastica produce più ansietà, depressione e infelicità che la induzione di ipnosi con la relativa fenomenologia riferita alla scala adottata”.
[25] EYSENCK H. J., RACHMAN S., Terapia del comportamento nevrotico, Franco Angeli, Milano, 1971.
[26] TAORMINA C, voce Narcoanalisi, in Enc. del Diritto, Giuffrè, Milano, XXVII, 1977, 489.
[27] MUTTER C, Regressive Hypnosis and the Polyghraph: A Case Study, in Am. J. of Clinical Exp. Hypnosis, 1979, 47. Floch afferma che un atto, giudicato disdicevole da chi lo compie, può essere represso fino al punto che colpa ed ansietà associate con l’atto non possono essere scoperte dal poligrafo (FLOCH M., Limitations of the Lie Detector, in Journal of Crim. Law and Criminology, 1950, 651).
[28] Per ORNE T., The Potential Use of Hypnosis in Interrogation, in BINDERMAN A., ZIMMER H., The Manipulation of Human Behavior, Wiley, New York, 1961, 169, esistono difficoltà tecniche.
[29] Per una casistica americana, WORTHINGTON T., The Use in Court of Hypnotically Enhanced Testimony, in Int. J. of Clin. Exp. Hypn., 1979, 402, e WARNER K., The Use of Hypnosis in thè Defense of Criminal Cases, in Int. J. of Din. Exp. Hypn., 1979, 417.
[30] FIELD P. B., DWORKIN S. F., Strategies of Hypnotic Interrogation, in Journal of Psychology, 967, 47 ss.
[31] SCHAFER W.D., RUBIO R., Precedence and Suggested Rules in Criminal Investigations, presentato al congresso della Society for Clin. Exp. Hypnosis, dicembre 1973.
[32] SPETTU M., Aspetti legali di ipnosi in www.scuoladiipnosi.net, Omni Hypnosis Training Center of Slovenia.
[33] SPETTU M., cit.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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CALLIERI B., FLICK G. M., I comportamenti indotti: aspetti psichiatrici e giuridici, in Riv. It. Diritto e Procedura Penale, 1973, 800

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TRAUMA SENTIMENTALE: GIORGIO NARDONE LO SPIEGA BREVEMENTE E STRATEGICAMENTE

Trauma sentimentale: oggetto dei nostri giorni, del nostro divenire. Sempre più incerto, traghettato da uno spazio temporale in cui l’uomo era al centro della relazione ad uno in cui è la relazione ad essere al centro dell’uomo. Anche oggetto di un workshop tenuto dal fondatore del CTS, Centro di terapia strategica di Arezzo, Giorgio Nardone che, legatosi come psicologo e ricercatore alla Scuola americana di Palo Alto, è divenuto l’erede di un grande Paul Watzlawick, filosofo e psicologo, unico autore tradotto in ottanta edizioni differenti, avente la capacità di sintetizzare il lavoro di eminenti studiosi – da Gregory Bateson a Donald deAvila Jackson e Milton Erickson – in un unico e rigoroso modello teorico e applicativo. Finanche il padre del costruttivismo Heinz Von Förster amava dichiarare di essere lui stesso una invenzione di Watzlawick. È con quest’ultimo che nel 1987 Nardone fonda il suo centro aretino, dove applica il modello della terapia breve-strategica, particolarmente adatto alla risoluzione dei traumi, incluso quello sentimentale, per il suo approccio netto e veloce.

Nell’ambito del IV Congresso di psicologia della Società italiana di psicologia e psicoterapia relazionale (SIPPR) presieduta dal professor Camillo Loriedo, dal titolo «Psicologia in evoluzione. Progetti e soluzioni della psicoterapia per il futuro», tenutosi a Roma negli ultimi quattro giorni di settembre, anche d’amore s’è trattato. Con Nardone, sono intervenuti sul tema gli psicologi Piero Petrini, Luisa Martini e Giovanna De Maio. «Un ruolo ingrato, in quanto esponente maschile–afferma Nardone–quello di aprire il dibattito: e non è un caso, perché quando si parla di traumi sentimentali chiedono aiuto al 90 per cento le donne». Nel mondo egizio, tra i modelli più avanzati di società, spiega il fondatore del CTS, un editto prescriveva: se cogli una donna in flagranza di adulterio punisci il marito. «Erano già molto saggi. Possiamo anche rovesciare le cose. Smettiamola con la prosopopea del vittimismo. Il tradimento, da un punto di vista interazionale, non è mai un atto singolo, individuale, ma sempre di interazione».

Specifica che negli ultimi anni alcuni Paesi si stanno orientando verso una legislazione nuova: i matrimoni a termine, una profezia triennale che si autoavvera solo in quanto formulata. Il disturbo da iperattività sessuale, ora bandito dal DSM (il Manuale diagnostico dei disturbi elaborato dalla Società di psichiatria americana) definiva malato l’uomo che avesse più di due rapporti sessuali a settimana. Negli ultimi due decenni, per Nardone la ricerca scientifica ha subito la corruzione della misura quantitativa: calcoli da laboratori, non sul campo, e statistiche portano a deformazioni. Come dire che tutti al mondo mangiamo un pollo a testa a giorno, ma c’è chi ne mangia dieci e chi nessuno, e il problema dell’hypersex era emerso da una valutazione a livello mondiale della quantità media dei rapporti sessuali di una coppia dai 25 ai 50 anni, che dava un risultato di un rapporto e mezzo al mese. È la statistica.

«Grazie a questo–analizza Nardone–si era arrivati a ritenere rigorosamente scientifico, perché quantitativamente misurato, un disturbo completamente inventato da una deformazione di scientismo, di riduzionismo, non di scienza. Purtroppo di esempi come questo possono farsene anche riguardo psicopatologie molto più importanti e anche su ricerche che si danno il tono di scientificità, in questo ed altri campi». Cominciamo ad utilizzare il dialogo strategico con noi stessi, suggerisce il padre della breve-strategica. «Portiamo le persone di fronte alla condizione estrema del trauma sentimentale vissuto dal vivo, ossia la flagranza del tradimento, un’immagine che rimane con la densità di un disturbo post traumatico».

A proposito di tradimento Luisa Martini, psicoterapeuta e didatta dell’IIPR, l’Istituto italiano di psicoterapia relazionale, fa riferimento al romanzo «I giorni dell’abbandono» di Elena Ferrante, dove, tra i due partner sottoposti ad uno stress da tradimento, a morire è il cane Argo: la fedeltà. È il fedele che soccombe. In ogni fedeltà che non conosce il tradimento, e neppure ne ipotizza l’esistenza, c’è troppa infanzia, troppa ingenuità, per riprendere Umberto Galimberti. «Nelle relazioni con un altro significativo–spiega la Martini– è necessario mettere in conto il tradimento delle aspettative fantasmatiche di entrambi i partner, di ciò che ciascuno di essi si attende dall’altro ma, non di inferiore rilevanza, da se stesso in relazione con l’altro: ciò fa parte delle nostre possibilità di crescere nella conoscenza di noi stessi e di chi è con noi. La fiducia infantile rischia di divenire una prigione. Accade che il mondo del tradito perde tutti i suoi significati e che entrambi i partner devono riorientarsi. Il tradito vuole sapere tutto, il traditore si sottopone all’interrogatorio».

James Hillman arriva a postulare una verità fondamentale relativa al tradimento: non si danno amore e fiducia senza possibilità di tradimento. Hillmann parla, nei suoi lavori, delle reazioni disfunzionali al tradimento: vendetta, negazione dell’altro, cinismo («tutti gli uomini sono inaffidabili»), negazione di sé («non mi esporrò mai più»), scelte paranoiche (la persecuzione, ad esempio, valida soprattutto ai tempi del web e dei social network).

Nardone, in modo «breve-strategico», pone una domanda chiave: dopo un trauma sentimentale, non solo tradimento, cosa fare? Lasciare il partner o rimanere? Come si arriva a capire quale sarà la scelta migliore? «Ho affrontato questo argomento in un mio libro sul trauma nelle decisioni. Si arriva alla soluzione solo dialogando con se stessi, ma non con la parte razionale: con quella viscerale. Bisogna mettersi sul ciglio del precipizio e verificare quali sono i brividi, per citare la ballerina Sylvie Guillem». Essa sostiene che mantenersi sul precipizio sia l’unico modo per un artista di restare vivo.

La domanda fondamentale da farsi, per Nardone, non è «mi ama ancora?», perché questo è delegare mentre bisogna, invece, fare i conti solo con se stessi. Nemmeno domandandosi «amo ancora?», bensì «posso farne a meno?». L’interrogativo corretto apre scenari il più delle volte non contemplati, perché «quando si comincia ad immaginare in se stessi la vita senza quel partner, quindi a sperimentarla, ci si accorge di qualcosa che prima non si riusciva a vedere. Trovata la risposta, si ha già la strada da percorrere. Nel dialogo strategico–spiega–sono le domande che fanno le risposte. Il problema si pone se la risposta è: non si può fare a meno di quella persona. Ma in tal caso, è necessario evitare di fare la figura della vittima o del vendicatore: se non si può farne a meno, la risposta è chiara e si agisce di conseguenza, senza tornare indietro».

Parlare di traumi sentimentali è qualcosa di viscerale, è parlare del poter fare a meno di qualcuno o no. Da cui il percorso successivo. «Abbiamo bisogno di riduttori di complessità, ossia di stratagemmi che ci consentano di risolvere la complessità attraverso soluzioni semplici. È l’uovo di Colombo, sia pure sofferto: una sofferenza che non è attraversata si trasforma in una lenta agonia, la quale è ben peggiore. Il mio amico Emil Cioran diceva: il coraggio che manca ai più è il coraggio di soffrire per cessare di soffrire».

Se per Pietro Petrini il trauma sentimentale porta ad una dissociazione in grado di primitivizzare l’uomo, Giovanna De Maio spiega cosa evitare e come riprendersi da un trauma sentimentale: «Un abbandono è così devastante da essere paragonato a un vero e proprio lutto: si è sconfortati, inermi, si tratta di una perdita. Per Cesare Pavese un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra miseria, nullità, inermia, e così sintetizza la condizione di fine avvertita quando si entra in contatto con la parte più vulnerabile di se stessi».

Il terapeuta potrà accompagnare la persona che ha subito la perdita attraverso le cinque fasi di elaborazione del lutto descritte da Elisabeth Kübler-Ross: rifiuto («non può essere successo»), patteggiamento («torniamo insieme», «faccio tutto quello che non ho mai fatto prima», «prometto»), rabbia («mi ha ingannato»), depressione («ho sbagliato tutto», «non c’è futuro»), infine accettazione. Cercare di non pensare è già pensare, il tentativo vano di distrarsi non fa altro che allungare il tunnel dei sintomi; l’abbandonarsi è sicuramente la cosa più importante da fare, non come consigliano i familiari, gli amici, il cui dire non fa altro che intensificare il senso di inadeguatezza. Il terapeuta deve sintonizzarsi con il dolore e la sofferenza dell’altro, evidenziando come non ci sia nulla di patologico o sbagliato nel continuare a soffrire. Il dolore delle perdite sentimentali non sparisce: esso decanta. Per agevolare il processo bisogna immergersi come una bustina di tè nell’acqua bollente.

Per questi psicologi dunque, del trauma sentimentale non bisogna vergognarsi. Tutt’altro: esso va ascoltato, e attentamente. (ROMINA CIUFFA)

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