HO FONDATO UN CORO BRASILIANO: IL CORO DI RIOMA. L’INTERVISTA AL SUO DIRETTORE, LA BAIANA CLAUDIA MARSS

Ho pensato di fare un coro differente, e ho fondato il Coro di Rioma (Rioma Brasil è il mio giornale di cultura brasiliana, su www.riomabrasil.com), non perché a Roma non ve ne fossero, anzi: oltre agli altri, già ne sono presenti vari del Saint Louis College of Music. Ora questo, un coro brasiliano, differente semplicemente perché lo abbiamo pensato differente. Innanzitutto, un laboratorio: un corso dove apprendere poliritmia, polifonia, vocalità brasiliana, anche la sua nasalità. Ciò era mancante nel panorama romano: la docenza nella coralità brasiliana. Ma ciò che principalmente ci ha mosso è stato ascoltare la grande cantante soteropolitana (ossia, proveniente da Salvador de Bahia) Claudia Marss.

Ascoltare Claudia Marss in un concerto nel chiostro di una parrocchia (si veda: http://www.riomabrasil.com/benedetta-claudia-marss-e-benedetto-coro-di-rioma/), cui si sono uniti i partecipanti di un coro Gospel da lei educato, ci ha dato il la definitivo per la creazione del Coro di Rioma. Il grande amore verso questa docente, portatrice di valori e di «verdeoreficità», hanno rafforzato l’intento. Per la prima volta il Brasile entra dalla porta principale del Saint Louis, unica in Italia parificata all’Università con decreto. Intervistiamo Claudia Marss.

Che progetti hai per il Coro di Rioma? L’idea è di un coro di Musica Popular Brasileira (MPB). Non ne esistono molti in giro e comunque, di certo, non ce ne sono diretti da un brasiliano. E quel che fa la differenza è la percezione ritmica, sia nella conduzione dell’accompagnamento, vocale o strumentale, che nell’appoggio della melodia stessa con i suoi possibili spostamenti. Il tutto senza tralasciare l’importanza della pronuncia e della giusta vocalità. Il mio coro canta la melodia, l’armonia e fa vocalmente anche la ritmica. La musica brasiliana si sta (finalmente) diffondendo com’è successo anni fa con il jazz. Non si limita solamente a quei pochi brani in stile bossa nova che fanno parte del Realbook o a quegli altri ricantati in versione italiana. Roma non è ancora ai livelli di Parigi e New York per numero di artisti brasiliani di grande nome residenti, però la richiesta e la conoscenza del ricchissimo repertorio della MPB sta crescendo esponenzialmente. Come progetto vorrei avviare un coro che faccia dei concerti con e senza di me.

In che modo imposti il programma di lezioni, considerata l’affluenza di italiani ai laboratori con le conseguenti difficoltà? Il coro è un punto d’arrivo. Li voglio formare facendo laboratori sulla poliritmia nei diversi stili, sulla pronuncia e la vocalità, e costruiremo il repertorio mentre si formano i coristi. Ho la consapevolezza di avviare un coro brasiliano in Italia, quindi i coristi saranno italiani. Ecco perché parlo di formazione: non basta mettere insieme un gruppo di persone a cantare. Coro si diventa. Il ritmo, gli accenti, la pronuncia ed i suoi fonemi si imparano. Si può cantare in un’idioma anche se non lo si parla.

Cosa è importante conoscere per entrare a far parte di un Coro? Non è una questione di conoscenza. Si parte dal presupposto che un aspirante corista sia intonato e canti a tempo, anche se non sa leggere la musica. L’ideale è avere un gruppo dove tutti la conoscano, cantino e siano dello stesso livello, ma anche questo è un punto di arrivo. Lavorando con un gruppo misto di appassionati, mi rendo prima conto di come cantano singolarmente e di che tipo di voce hanno; una volta diviso il gruppo, si lavora per imparare a cantare coralmente. Succede solo provando insieme. Un coro può essere buono anche senza solisti di pregio, anzi, alcune volte un bravo solista non è un bravo corista. Si devono ascoltare le diverse sessioni a blocco, e all’unisono nessuna voce si deve sentire più delle altre, trovando un timbro unico che le faccia suonare come una voce sola.

Chi è Claudia Marss? Sono nata a Salvador in una zona del centro storico, a Garcia, vicino Campo Grande. Ho cominciato con la danza, entrando in una compagnia fondata da professori del Teatro Castro Alves. Nel frattempo mi diplomavo anche come perito elettronico. Finita la scuola ho fatto due anni in Conservatorio di chitarra classica, che ho abbandonato per lavorare per la TeleBahia come chitarrista e cantante. Dopo aver vinto il Festival interno l’organizzaione mi iscrisse al premio Trofeu Caymmi, e ne uscii prima come interprete emergente. Era il 1986, e a quel punto la musica ha preso il sopravvento.
Il sopravvento musicale come si esplicitò? Nel 1988 sono entrata come corista nella band baiana di Gilberto Gil con Daniela Mercuri, prima che fosse Daniela Mercury. Ho fatto tutto il 1988 con Gil, quando era candidato come sindaco di Salvador; all’ultimo momento il prefetto decise di candidare un altro e Gil rimase consigliere comunale (il più votato). La campagna tra politica e concerti finì con questo, dopo molte tournée in tutto il Brasile.

Come sei arrivata in Italia? Avevo conosciuto un musicista italiano, Corrado Nofri, che aveva portato il jazz a Salvador (uno dei rari che aveva il Real Book, importato dall’Italia, con il quale fece impazzire tutti). Registrai un paio dei suoi brani, cantammo anche nell’isola di Itaparica, e nel 1990 mi invitò in Italia a fare concerti di promozione del disco. Dopo tre mesi a Vetralla per concerti, a Roma conobbi mio marito e mi trattenni. Era il luglio del 1990.

Com’è continuato il tuo percorso musicale? Con la Folk Magic Band, nata negli anni 70, che Nofri aveva rimesso su negli anni 90, dove si concentrava tutta la musica del quartiere di Testaccio, da Lillo Quaratino, Guerino Rondolone ed altri, una big band di 25 persone con brani originali. Quando cominciò a funzionare, Nofri tornò in Brasile. Mi avvicinai per caso al Blues con Harold Bradley, ed ebbi accesso alla musica Gospel e alla conoscenza di un altro grande americano, Nehemia Brown. Quest’esperienza fece crescere moltissimo la mia voce: da una voce più sottile e nasale passai a un timbro più ricco e amplio, cantando diversamente anche la musica brasiliana.

Dalla nasalità brasiliana al Blues cosa corre? La voce è leggermente di gola, le cantanti brasiliane sono spesso autodidatte ed hanno una vocalità molta nasale: la musica brasiliana non esige più di tanto l’esplosione americana. Ho sperimentato ancora utilizzando la mia radice afro-baiana riletta in chiave jazzistica, più ricca armonicamente con colori percussivi tipicamente afro-baiani ed aperture armoniche più jazzistiche, rentrando ancora nella musica brasiliana, che non ha confini, ma con una sperimentazione più azzardata, senza accontentarmi di cantare semplicemente i brani ma dando loro una connotazione particolare.

Qual’è l’idea migliore che hai della voce? Molti in Brasile hanno usato la voce anche come strumento, non solo emotivamente: ricordo Ellis Regina, grande interprete di colori e di dinamica, ma anche voce potente, o Milton Nascimento, che crea atmosfera e riporta nella dimensione trascendentale solo col suono della voce senza niente di particolare sotto. L’idea della voce come strumento di trasporto. Poi ho scoperto Lenine Andrade, la chiave jazzistica nella musica più brasiliana: cantante che non era semplicemente «canarino», ma anche strumento.

Hai sostituito Amy Stewart. Com’è nata la tua collaborazione con Nicola Piovani? Insieme a Vincenzo Cerami, Piovani aveva scritto uno stupendo spettacolo, “Stabat Mater – La Pietà”, per la solista nera Amy Stewart (che a quel tempo lavorava con molti, tra cui Ennio Morricone), al suo fianco una cantante lirica, Rita Cammarano, e i testi di Cerami letti e recitati da Gigi Proietti. Dopo 5 anni dalla presentazione di questo spettacolo, la compagnia fu invitata a Betlemme a mettere la prima pietra per la costruzione di una gigantesca scuola elementare gestita dai francescsni. Amy aveva uno spettacolo su Billie Holiday e per sostituirla furono fatti dei provini: Piovani mi scelse e mi portò a Betlemme e Tel Aviv.

In quali altri progetti hai partecipato? Molti. Nel 2008 ho avuto una partecipazione con la Fondazione Toscanini, che aveva chiamato la Jazz Art Orchestra e, in omaggio a Nini Rosso, più di 50 musicisti avevano scritto brani da cinema anni 50 e 60. Un progetto molto azzardato è stato quello di voci gospel ed un quartetto d’archi barocco, con arrangiamento della musica dei Padri Fondatori secondo il Gospel degli anni 70. Il testo era del ‘600, la musica del ‘700 (di Bach), spinto fino al Gospel del 900.

Hai lavorato mai in Brasile in seguito? Con molti musicisti che purtroppo non hanno pubblicato dischi, tra cui Franco Brasiliano, Acelino de Paula, Ricardo Feijão, bassista nei primi dischi di Marisa Monte, Robertino de Paula (figlio di Irio), Alvinho Senize, chitarrista di Alcione, Augusto Alves. Una parentesi italiana anche con Roberto Ciotti.

Vi invitiamo a partecipare al Coro di Rioma, perché la coralità possa divenire il simbolo di un passaggio obbligato di crescita, ove non di rinascita e conoscenza interiore e dell’altro. Per contatti didattici o di agenzia: info@riomabrasil.com – www.riomabrasil.com

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NICOLA CONTE: MA QUESTO È UN REGNO PIÙ CHE UNA CONTEA

di ROMINA CIUFFANicola Conte è uno dei produttori silenziosi del panorama italiano. Ma, in effetti, definirlo “silenzioso” e “italiano” non rende: infatti gli album da lui prodotti sono sempre stati all’apice della classe e della polivalenza, da Rosália de Souza a Chiara Civello, ed hanno sempre avuto l’internazionalità come trait d’union, come se questo metà-barese-metà-lucano avesse un Dna globalizzato molto prima dell’era di internet. Facile dire oggi “cavalco il mondo”, il cavallo di Conte era un pony dei primi anni 70 e sempre a quegli anni lui si è ispirato, dunque anche oggi la sua elettronica e le sue sonorità restano dei cavalli di battaglia degli anni d’oro della musica, quella fuori dai reality ma dentro la realtà. Wikipedia dice di lui “disc jokey”, e questa è l’orma più profonda della carriera di Conte, quella che lui schiaccia con vigore da sempre e che lo distingue. Ciò detto, non è solo il disc jockey a rappresentare la sua contea: chitarrista, produttore musicale, dalla bossanova al pop all’afro, oggi anche al crooning, non si è mai limitato (e dice che il suo non limitarsi costituisce anche un limite) all’Italia, che ritiene un luogo in cui l’impronta è meno evidente, ed ha mantenuto la sua visione globale nei secoli dei secoli della musicalità con la quale si è contraddistinto. Si è contornato di musicisti di ogni nazione, neri e bianchi (sono i colori che fanno l’arte), e ha creato un Combo, una band tutta sua che varia nei contenuti e nei componenti a seconda di chi e che c’è in giro, e dove lo porta il suo eclettismo.

Dal suo primo album Jet Sounds fonde  gli elementi propri del jazz con la club culture e dall’Europa parte alla volta dei club di San Francisco, Tokyo, Mosca; dal 2001 produce il primo album di Rosália De Souza (“Garota Moderna”), cui segue “Garota Diferente”, remix del primo: da DJ ha all’attivo oltre cento remix pubblicati. Collabora  con jazzisti del calibro di Gianluca Petrella, Fabrizio Bosso, Daniele Scannapieco, Rosario Giuliani, Till Brönner, Cristina Zavalloni, Nicola Stilo; è del 2008 l’album “Rituals”, nel quale incide due canzoni con Chiara Civello con la quale pubblica, di recente, Canzoni (vi cantano, in duetto con la Civello, anche Gilberto Gil, Chico Buarque, Ana Carolina, Esperalda Spaldin). Nel 2009 esce per Schema Records il doppio album “The modern sound of Nicola Conte – Versions in jazz-dub” con inediti e reworks, producendo anche il remix Tema de la Onda (Nicola Conte meets Aldemaro Romero). Nel 2010 esce per Edizioni Ishtar for Schema Records una versione rimasterizzata in 2 cd di “Other directions”, suo grande successo. Le altre novità e spezzoni della sua inesauribile vita me le racconta su Rioma. Perché qui si arriva a un regno, più che ad una contea. Rigorosamente ascoltare questo brano mentre si legge l’intervista.

Domanda. Quali sono le tue origini?
Risposta. Sono nato a Bari; mia madre è barese mentre mio padre è lucano di un paese in provincia di Potenza, Montemilone: sono metà barese e metà lucano. Mio padre andò a studiare a Pisa, quindi si trasferì a Bari per il suo lavoro di ingegnere, e fu a a Bari che conobbe mia madre. Così ho vissuto semre a Bari, tranne brevi periodi all’estero.

D. Su Wikipedia c’è scritto che sei nato a Bari nel 1964, “disk jockey e compositore italiano”.
R. Wikipedia forse lo scrivono le persone, e c’è una cosa che mi tormenta: parlano del fatto che le mie influenze sono le colonne sonore italiane, e indipendentemente dalla musica che suono sembra che abbia fatto sempre la stessa cosa, ma non è così.

D. Ma sei davvero un “disc jockey” o sei anche “altro”?
R. Per me la musica è legata al disco in vinile: sin da quando ero piccolo ho collezionato dischi. I miei hanno voluto che frequentassi l’università, ma mi ero così appassionato alla musica che per un periodo della mia vita, tra il liceo e l’università, l’idea che mi prendeva di più era quella di suonare il jazz nei club; io non sono mai stato un dj di intrattenimento e la mia idea era proprio quella di fare jazz, cosa che ho fatto quando a Bari è nato il Fez Club. Così scorse la mia vita negli anni immediatamente precedenti a quelli più “sperimentali”. Ma è dalle scuole medie che coltivo la mia passione per la chitarra, prendendo lezioni di chitarra classica.

D. Quindi, a dirla tutta, tu parti dal jazz e dalla chitarra classica, più che dal clubbing?
R. Sì, ma ho ascoltato di tutto. Moltissimo rock, anche quello degli 70; e frequentando come facevo amici più grandi di me conoscevo musica fantastica, “per adulti”. Poi ho lasciato completamente la musica, in parte per la questione dell’università, in parte perché nella mia famiglia non era ben visto che io suonassi. Così ho frequentato la Facoltà di Scienze Politiche, ma ho anche cominciato a fare il dj. La cosa è partita e mi sono concentrato su quello. Da lì sono arrivate le prime produzioni discografiche con i gruppi che facevano parte del giro del Fez Club; dopo qualche anno la scena del Fez cominciava ad esaurirsi, e decisi di produrre direttamente dischi a mio nome. Il primo che ho fatto, Jet Sounds, uscito nel 2000, è un disco da dj con dei campioni, lavorando con i musicisti presenti nella scena barese.

D. Come ha reagito il pubblico al primo album di Conte produttore?
R. È subito uscito in tutto il mondo, dall’America al Giappone, e naturalmente anche in Europa. Da quel punto in poi non mi sono fermato più, ho fatto moltissimi remix, fino a quando arrivò il disco, uscito sotto l’egida Blue Note: sto parlando di Other Directions, del 2004.
Nicola Conte Other Directions

D. È proprio il caso di dire “altre direzioni”.
R. La svolta c’era già stata, nel senso che avevo abbandonato i campioni ed un certo tipo di elettronica legata al genere musicale degli anni 60 e 70. Così alla fine è diventato un progetto live acustico, nel quale rimisi insieme tutti gli amici dell’ultimo periodo del Fez Club, tra cui Gianluca Petrella, Fabrizio Bosso, Rosario Giuliani, Lorenzo Tucci, Daniele Scannapieco, Pietro Lussu, Pietro Ciancaglini, Nicola Stilo, Pierpaolo Bisogno, Till Bronner, Cristina Zavalloni, Bembe Segue, Lucia Minetti, Lisa Bassenge. Con tutti questi nomi divenne un gruppo dal vivo, e iniziammo a fare concerti. Dovevo immaginare la mia presenza all’interno del progetto, e fu così che arrivò il momento di riprendere gli studi della chitarra e di carlarmi in questo tipo di realtà. Diciamo che dal 2004 a oggi è stata questa la cosa principale che ho fatto, anche se continuo a fare dj set.

D. Si può dire, allora, che in effetti è stata la tua componente DJ a spingerti oltre?
R. Una delle cose più importanti nella mia carriera è stata la fortuna di avere sin da subito un sound originale che ha influenzato molti altri, ed è quello che poi ho sempre cercato di mantenere durante il tempo, magari cambiando le forme espressive ma sempre cercando di avere come principale obiettivo quello della riconoscibilità. Il mio senso estetico si è formato negli anni, e la cosa che per me è stata sempre rilevante è il fatto che dietro il mio lavoro c’è un percorso intellettuale e culturale molto profondo. Ossia, conosco bene le cose che amo, le approfondisco continuamente e sono sempre alla ricerca di informazioni e di cose che non conosco. Questa per me è la mia evoluzione costante. E non essere mai contento di quello che faccio mi proietta verso quello che accadrà domani, in una ricerca continua.

D. La tua evoluzione dipende dalla ricerca costante, ossia dal tuo carattere; ma quanto dipende anche dagli altri, come produttore?
R. L’altra cosa molto importante per me, secondo la mia percezione, è quella di avere intorno a me persone che stimo moltissimo, non solo musicisti di alto livello ma anche amici, che dal punto di vista umano e non meramente musicale siano in grado di dare qualcosa. Se poi andiamo a vedere i musicisti presenti nei miei dischi, ci si rende conto del fatto che la mia idea di musica non può prescindere dalla grandezza degli interpreti: nel momento in cui si ha una visione musicale, bisogna anche essere capaci di trovare gli interpreti giusti. Cioé: anche questa è una ricerca continua.

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D. Parlando di produzione, Chiara Civello spicca tra le ultime collaborazioni: il 6 maggio 2014 è uscito “Canzoni” (distribuzione Sony Music), il nuovo album che per la prima volta la vede nelle vesti di sola interprete, 17 brani del repertorio italiano e un sound più internazionale e contemporaneo, che spazia dal blue eyed soul al jazz alla bossa nova, da te prodotto artisticamente alla guida di un team di musicisti di alto livello come lo svedese Magnus Lindgren al sax, il finlandese Teppo Makynen alla batteria, Luca Alemanno al basso, Pietro Lussu al piano, Gaetano Partipilo al sax alto e il chitarrista brasiliano, con Chiara sin dal primo disco, Guilherme Monteiro.
R. L’avventura con Chiara è stata molto stimolante fin dall’inizio. Innanzitutto amo molto Chiara, questo da sempre: credo che sia l’unica cantante italiana che abbia una dimensione internazionale, non solo per la bravura, ma per la sua stessa forma mentis.

D. Oltre a lei chi?
R. Ce ne sono altre che sono bravissime, seppure in una dimensione diversa, come per esempio Alice Ricciardi, cantante straordinaria, che ho inserito nel ruolo di voce jazz della mia band; ma ce ne sono anche altre, come Cristina Zavalloni. Si tratta di donne soprattutto di classe, con un grandissimo charme, e di artiste che non hanno scelto la strada più semplice.

D. E quale sarebbe la strada più semplice oggi?
R. È quella di fare dei mainstream, cioè di fare una musica pop pensata per l’Italia e che vive in Italia e basta; invece credo che per chi abbia veramente un grande spessore artistico l’Italia sia molto limitante, nel senso che oggi non puoi pensare di vivere il tuo percorso artistico a livello nazionale, io stesso me ne sono allontanato sin dall’inizio. Ovviamente questo per me in diversi periodi è stato anche un limite, nel senso che la musica che faccio, a seconda dei vari periodi, può aver avuto poco appeal in Italia, ma è stata una scelta consapevole e voluta.

D. La tua musica ha sempre avuto un sound molto diverso, molto straniero.
R. Sì, molto internazionale: mi sento cittadino del mondo e non riesco ad autoconfinarmi soltanto nella dimensione italiana. Questo da sempre, fin da quando ero piccolo: per esempio Londra per me è stato un polo di attrazione fortissimo fin da quando avevo 12-13 anni.

D. Cos’è il Combo?
R. Il Combo è il gruppo stabile che ho da oltre 10 anni, caratterizzato da una formazione variabile nel senso che non sono solo 5-6 persone, ma sono almeno 10-12. Ciò dipende dal fatto che ogni volta che vado in studio per le prove il gruppo si arricchisce di nuovi elementi perché, a seconda dei vari periodi e dei vari dischi, arrivano nuove personalità e la musica cambia anche in base a chi c’è in quel momento nel gruppo. C’è una dimensione del gruppo che è molto internazionale, a partire da Magnus Lindgren, sassofonista svedese, Logan Richardson afroamericano che vive a Parigi, quindi un trombettista tedesco ed un altro francese, e tutti gli italiani più bravi, da Fabrizio Bosso a Flavio Boltro e Giovanni Amato, e molti altri che continuano a ruotare. Ed anche se alcuni non suonano più perché sono legati a un determinato momento, ne arrivano degli altri, alcuni meno noti ma bravissimi, come ad esempio Francesco Lento. Anche di batteristi ne sono passati tanti, tra cui l’italiano Marco Valeri. Da circa 5 anni a questa parte la musica della band si è orientata sempre più verso un’ispirazione afroamericana ed è diventata molto più black, ad esempio con il percussionista Abdissa “Mamba” Assefa e la cantante americana Tasha. La musica ha dei colori, ed in base a quali colori e a quali sfumature prende in determinati momenti creativi cambia anche la conformazione del gruppo.

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D. Si dice che tu hai scoperto e prodotto Rosália de Souza: il suo primo disco aveva la sua voce, il secondo era un rifacimento del primo versione remix, da “Garota Moderna” a “Garota Diferente”. In tema brasiliano, da Rosália a Chiara quant’acqua sotto i ponti è passata? 

R. Ci sono molte affinità tra il progetto che iniziai con Rosália e quello con Chiara, però ci sono anche molte differenze nel senso che con Rosália c’era lei e basta, ho dovuto quindi costruire tutto il suo immaginario musicale in quel disco, e che tutt’ora rimane in lei. Quando poi  si creò un gruppo dal vivo per lei, io non entrai perché non era il mio gruppo: il mio gruppo non era ancora nato, stiamo parlando del 2001-2002, ma avevo una serie di musicisti che comunque lavoravano con me. Il suo gruppo durò un anno e mezzo, in quello che secondo me è stato il periodo artisticamente più felice per lei. Invece con Chiara il mio coinvolgimento è stato a 360 gradi, nel senso che è stato non solo immaginare un sound e crearlo in studio, ma riunire un gruppo di musicisti intorno a lei, in un’idea di disco che fosse diretta emanazione poi di concerti, un’esperienza per me molto bella perché io avevo sempre suonato la mia musica, da solo o con il mio gruppo, ed ho trovato interessante affrontare questo discorso facendo canzoni italiane e suonando insieme a lei con la band in una dimensione più pop rispetto a quello che avevo fatto fino ad allora. Anche se ovviamente l’idea di pop che abbiamo io e Chiara è comunque molto alta.

D. Progetti per il futuro?
R. Da circa tre anni sto lavorando a un progetto elettronico che si chiama Black Spirit, non è ancora uscito nulla ma abbiamo fatto dei live; oltre ad un amico Dj di Bari che proviene dalla tecno pura berlinese, sono coinvolt, Andrea Fiorito e Gianluca Petrella. Da questa idea ne sta nascendo un’altra, ancora con Gianluca Petrella e aggiungendo Giovanni Guidi. Ora ho prodotto il disco per un’amica che ho dai tempi del Fez barese, Stefania Di Pierro, dal titolo “Natural”, con brani in portoghese brasiliano, per l’etichetta inglese Far Out Recording (qui sotto per l’ascolto), e a settembre uscirà un album nero crooner (ndr: il crooner è un cantante che interpreta canzoni melodiche in chiave confidenziale) con Marvin Park: ne sono produttore e lavoriamo con il Combo. (ROMINA CIUFFA)

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MAX DE TOMASSI: ECCO COME “CONDUCO” IL BRASILE DA CARDOSO A DILMA, DA GIL A CAETANO, DALLA ROCINHA A GAVEA

Schermata 2015-03-13 a 13.23.12di ROMINA CIUFFA

UNA CONVERSAZIONE TRA ROMINA CIUFFA E MAX DE TOMASSI SULLA NUOVA ERA BRASILIANA E L’EVOLUZIONE DEL BRASILE DEGLI ULTIMI 30 ANNI. Il padre gli regalò, per la maturità classica, un biglietto per il Brasile. Rimase 3 mesi a Rio de Janeiro. Durante la conduzione di un piccolo programma radiofonico a Roma, aveva già conosciuto la manager dei più grandi artisti brasiliani, che contattò una volta giunto a Rio; lei subito lo prese sotto la sua ala protettrice. Famosissima per essere stata la zia dei due rivoluzionari del movimento tropicalista, Gilberto Gil e Caetano Veloso, in quanto zia delle due cugine carnali che i cantanti sposarono, era conosciuta con il nome di Tia Léa, «zia Lea» appunto. Lui è Max De Tomassi, più unico che raro giornalista italiano specializzato nel verdeoro, esperto conduttore di «Brasil», programma di Radio Rai Uno a cura e per la regia di Danilo Gionta. Trasmissione nata nel 2001 quasi per scommessa, allora già in onda da tanti anni su altre emittenti, De Tomassi la propose alla Rai, e iniziò semplicemente coprendo lo spazio lasciato libero nel periodo estivo da un programma di satira. Per poi divenire il riferimento principale, per di più ad origine pubblica, della cultura brasiliana in Italia.

Schermata 2015-03-13 a 13.23.39Domanda. Il Brasile, per quanto grande, è una «nicchia». Come si spiega l’interesse della Rai a portare avanti una trasmissione come «Brasil»?
Risposta. Mi domando sempre qual è il fenomeno che fa sì che il nostro sia il programma musicale più ascoltato di Radio Uno, anche considerando che va in onda la notte della domenica solo a partire dalla mezzanotte, e che è un programma di nicchia all’interno di una programmazione musicale che copre i vari generi. Certo il Brasile propone una vastità di stili musicali di qualità encomiabile, e produce forse la musica più creativa del mondo. A livello di download e poadcast, ossia l’ascolto in streaming delle puntate, abbiamo cifre eclatanti, superiori a tanti programmi di Radio Uno pur essendo in onda solo una volta a settimana. Fino allo scorso anno andavamo in onda tutti i giorni con «Brasil – Suoni e culture dal mondo», ed avevamo alti numeri.

D. Prima del 2001, anno in cui iniziò la sua conduzione di «Brasil», era già coinvolto con la realtà brasiliana?
R. Non esattamente. Lavoravo nel mondo della comunicazione, avevo iniziato in tv nel 1985, ma fare televisione in Italia è difficile se non si appartiene a una certa lobby. Ho fatto il conduttore, il regista, l’autore, ho lavorato per 5 anni a Tele Montecarlo quando i brasiliani comprarono la rete, quindi altri 5 anni in una televisione tematica quando in Italia si cominciava ad andare sul satellite. La Telecom mise in piedi una struttura «stream» che poi venne venduta a Sky, lì realizzavo programmi di cultura, pur essendo assenti gli interlocutori di una televisione di spessore. La radio e la Rai mi hanno dato quello che ho sempre desiderato.

D. Quali sono i cambiamenti che ha percepito nel corso degli ultimi anni nei suoi molteplici viaggi in Brasile?
R. Solo quindici anni fa il Brasile era un Paese del terzo mondo, oggi è la quinta potenza mondiale: abbiamo un periodo storico temporale troppo limitato per poter individuare con esattezza questi cambiamenti. Ma il primo e più consistente è senz’altro l’arrivo al Governo di Fernando Henrique Cardoso, due volte presidente del Brasile dal 1995 al 2003, più sociologo che politico, il quale ha dato finalmente al Brasile gli strumenti per diventare un Paese progredito dal punto di vista sociale, economico e politico. L’ha fatto convincendo non la classe politica, ma i grandi proprietari terrieri e i ricchi del Brasile a guardare all’estero per guadagnare di più, attraverso l’esportazione o l’inclusione di partner stranieri. Giustificazione che ha permesso a un sociologo di operare affinché potesse avvenire un cambio sociale, realizzato poi in concreto dal presidente Lula con il Partido dos Trabalhadores (PT) nella prima decade del nuovo millennio attraverso le rivoluzioni sociali, le leggi ed altro messo in atto dalla corrente più a sinistra del mondo politico brasiliano, ma con gli strumenti già forniti da Cardoso.

Schermata 2015-03-13 a 13.24.31D. È Lula che ne ha preso i meriti?
R. Lula era un personaggio atteso da tantissimi anni, aveva avuto diverse candidature come presidente della Repubblica, e quando fu eletto in effetti le cose cambiarono; ma gran parte della spinta proveniva anche dalla nuova possibilità di dare ai brasiliani una dignità e un’indipendenza economica che prima non c’erano. Paradossalmente quello che gli imprenditori e i latifondisti si aspettavano era più un richiamo verso l’estero che una risorsa interna; le migliori risorse economiche non sono arrivate tanto dagli investimenti stranieri quanto dal maggior potere d’acquisto della società, mentre il valore del Real cresceva. Così il prodotto interno si è alzato.

D. Questo stesso meccanismo economico, unito ai fatti collegati ai megaeventi, ha però condotto a un innalzamento del costo della vita e, se le classi medie ne sono state toccate solo relativamente, il livello di povertà è aumentato insieme alla distanza creatasi tra i livelli più bassi della scala sociale e i benestanti, o coloro che hanno tratto vantaggio dalla crescita.
R. È chiaro che, una volta che il prodotto interno è schizzato in alto, è salito il costo della vita; ma credo che la povertà non si sia accresciuta, poiché anche le classi più povere hanno cominciato ad avere nuove e maggiori possibilità di lavoro. Con il consumismo immediatamente subentra la spirale del credito, e il guadagno concretizzato con contratti a tempo indeterminato o con occupazioni da libero professionista ha fornito una certa indipendenza economica e ha spinto a spendere; la rateizzazione ha fatto il resto, in larga misura responsabile di far spendere alla gente più di quanto non guadagnasse.

D. La rateizzazione del credito, molto in uso in Brasile tanto che nei negozi è più comune trovare i prezzi già divisi in rate che non il totale, creando l’illusione di un affare, non rischia in questi casi di essere un’arma a doppio taglio?
R. Non sono un consumista, e mi piacerebbe che tutti comprassero il minimo indispensabile perché sono convinto che la salute di una nazione e di un popolo non si misura da ciò che si produce né da ciò che viene venduto, bensì dal livello qualitativo della sanità, dell’istruzione, della cultura. Il meccanismo della parcellizzazione sulle carte di credito, che consente ai brasiliani di rateizzare il pagamento di qualunque cosa e che in Italia ancora non ha preso piede, porta l’inflazione e il consumismo a una versione «2.0», ossia aggiornata, ed io la considero una cosa intollerabile.

Schermata 2015-03-13 a 13.24.05D. Istruzione, cultura, sanità ed altro: è tutto molto carente ed è indubbiamente in questo che si misura il vero benessere di un popolo. Eppure il Brasile ha messo in primo piano investimenti di altro tipo, come turismo e megaeventi.
R.  Ma la classe politica meno abbiente ha usato la vetrina gigantesca che il campionato di calcio forniva per attuare dimostrazioni anche abbastanza eclatanti in piazza e reclamare quello che è giusto che il popolo brasiliano reclami, manifestando la necessità di avere un’economia meno frenetica e il desiderio di dare più attenzione alla sanità e al trasporto pubblico. Ricordiamo che il Brasile non ha una rete di trasporto interno su rotaia, ha esclusivamente una rete di trasporto aerea con le sue limitazioni, e su gomma, ma le strade non sono all’altezza delle nostre. L’intero Paese è esteso per 8 milioni e mezzo di chilometri quadrati, è quasi 30 volte l’Italia, è il quinto maggiore del mondo in estensione, ha 200 milioni di abitanti, è dunque una realtà gigantesca che da sola contiene il 22 per cento della terra coltivabile del pianeta, come fosse un immenso giardino dal quale il mondo riesce a cogliere l’alimentazione, quindi è un Paese che, dal punto di vista delle risorse, va trattato «con le pinze». E non parliamo di risorse economiche e tecnologiche, ma di quelle basilari. Il 12 per cento delle riserve di acqua dolce mondiale si trovano in Brasile: la prossima guerra non sarà quella sul petrolio, ma quella sull’acqua.

D. E il petrolio?
R. I brasiliani hanno scoperto il pre-sal, il più grande giacimento di petrolio che rende il Paese totalmente indipendente dal punto di vista energetico, con 600 chilometri di estensione a 2 mila metri di crosta salina sotto l’acqua. Solo grazie alla crescita del Paese sono riusciti a trovare internamente la tecnologia per bucare questo strato di sale ed arrivare ai giacimenti. Il petrolio poi è di una qualità eccellente.

D. Eppure il Paese si è rivoltato contro le «megaspese» per i megaeventi. È giusto investire quei capitali in questo modo, in questo momento?
R. Non riesco a capire se è giusto o sbagliato fare grandi investimenti sul Campionato mondiale di calcio o sulle Olimpiadi, perché non riesco a capire quale possa essere il volume di ritorno: questo potremo dirlo solo in seguito, quando sapremo se spendere soldi per gli stadi e non per gli ospedali o altro oggi possa innalzare le possibilità generali di domani.

D. Da tutto il mondo, l’Italia ai primi posti, c’è una migrazione verso il Brasile, non solo giovanili fughe ma veri e propri insediamenti societari. Conviene?
R. Italiani, inglesi, americani, australiani, giapponesi, cinesi, tutti. Il Brasile ha città gigantesche quali Rio e San Paolo, ma la densità di popolazione è bassa e aprire fabbriche e attività fuori dai centri urbani dal punto di vista strutturale è possibile, anche di fronte a costi di realizzazione molto bassi. Il Brasile continua ad essere un Paese abbastanza conveniente, è in città che i prezzi sono eccessivi.

D. C’è più lavoro in Brasile al momento, per i giovani brasiliani e italiani che non abbiano una base societaria?
R. Non so dirlo con esattezza, di certo il mondo delle professioni in Brasile è molto vasto, e le start up e le nuove iniziative sono sempre benvenute. Oltre a questo, secondo me si può contare sul fatto che il nostro è ancora adesso un Paese molto stimato dai brasiliani nonostante tutto quello che è successo in Italia, nonostante ciò che è stato fatto nell’attuale e nel passato Governo, nonostante i grandi equivoci che ci sono stati recentemente, un esempio per tutti il caso Battisti. Il Brasile continua a guardare con grande esterofilia molti Paesi del mondo, ma fra tutti l’Italia è particolarmente amata e forse sopravvalutata. Il made in Italy è sempre una garanzia.

D. Oggi è ancora più forte il collegamento tra Italia e Brasile, essendo il 2015 l’anno dell’Expo che si terrà in Italia su uno dei temi in cui il Brasile è tra i principali interlocutori mondiali: «Nutrire il pianeta, energia per la vita».
R. Il Brasile è il più grande produttore di soia e di arance del mondo grazie a questa immensa versatilità agricola, e non si può pensare al futuro del mondo senza pensare al futuro del Brasile.

Schermata 2015-03-13 a 13.24.53D. Lei è un esperto delle tematiche brasiliane, ma certamente tra le tante prevale la musica, quella di un Paese che ha pochi eguali, in fatto di gusto e notorietà, nel mondo. Come si è evoluto il mercato discografico nel tempo?
R. L’ho visto evolversi e decadere. Sono entrato in Brasile 33 anni fa, nel 1982, e si vendevano milioni di dischi. Il Brasile allora era il quinto mercato discografico mondiale. Adesso, con internet e YouTube, c’è una frammentazione del mercato musicale, ormai parliamo della vendita di «fonogrammi» non più sul supporto fisico ma su canali quali Spotify e piattaforme digitali, a volte il download è gratuito e sempre si ha la possibilità di guardare video online. Io non accetterei di «guardare una canzone» su YouTube.

D. Sembrerebbe un discorso elitario: le priorità sono mutevoli e al momento, o comunque non più come prima, non si spendono (o non si hanno) soldi per acquistare cd o tracce musicali se si ha l’alternativa gratuita.
R. La musica non può prescindere dal supporto per le informazioni e soprattutto per la qualità sonora, ma ora non siamo in grado di capire ciò che è meglio e ciò che è peggio, ciò che è giusto lasciare indietro e ciò che è giusto mantenere, è questa la grande incertezza umana che rispecchia il grande disorientamento sociale.

D. Il boom economico sperimentato dal Brasile ha contribuito al mercato discografico o ha concentrato la ricchezza solo su alcuni grandi nomi, anche considerata la costante tendenza brasiliana a mitizzare i propri grandi idoli, da Tom Jobim a Caetano Veloso e tutti gli altri?
R. A prescindere dalle vendite, il mercato musicale brasiliano adesso alla punta dell’iceberg non ha Caetano, Gilberto Gil o Chico Buarque de Hollanda, ma fenomeni diversi come la musica country, che è la maggiore venditrice di dischi, o altri generi musicali, i successi dell’estate, la musica usa e getta. Per fortuna, al contrario di quanto accade da noi che vediamo sparire i grandi autori e interpreti a favore dei reality, in Brasile c’è un WWF che difende i grandi autori in via d’estinzione.

Schermata 2015-03-13 a 13.25.30D. Quindi c’è spazio per il nuovo cantautorato e non solo per le interpretazioni dei grandi successi, cosa molto tipica in Brasile tanto da essere un «must» per chiunque faccia musica?
R. È anche vero che i grandi nomi della musica brasiliana continuano ad incidere e ad essere estremamente creativi, artisti come Ney Matogrosso che a più di 70 anni sperimentano ancora. Caetano Veloso potrebbe essere paragonato al nostro Gianni Morandi, ma quest’ultimo non ha mai fatto né fa la sperimentazione che fa Caetano. Quello di Mina, ad esempio, è un falso sperimentare, atipico e asettico, non essendo lei presente in prima persona nella sperimentazione. Un conto è ascoltare i nuovi autori, cosa che nessuno garantisce lei faccia davvero, un conto è confrontarsi, e lei è assente dalle scene. I brasiliani continuano ad essere i primi nella creatività anche perché sono aperti all’incontro anche casuale con i giovani, ai quali aprono molte strade.

D. Ha un’idea sulla pacificazione delle favelas operata dalle forze dell’ordine?
R. Non si può dire niente sulla pacificazione se non cose positive. Le favelas grazie alla pacificazione sono state rese più vivibili sia per coloro che le abitano, sia per coloro che vengono da fuori, fermo restando che stigmatizzo e non approvo l’atteggiamento dei turisti che prendono le favelas per zoo. Pensosamente, per comprare prodotti di cosmetica vado nelle favelas perché hanno un sistema di distribuzione più pratico rispetto ai negozi nel centro di Rio de Janeiro, mi trovo bene e pago con la carta di credito.

D. In quale favela in particolare?
R. La Rocinha.

D. Anche durante una semplice cena nella Rocinha, vedo in continuazione agenti armati, e le pattuglie passano con fucili spianati che escono da tutti i finestrini. Parlando personalmente con gli abitanti («moradores») della Rocinha, mi è stato da tutti riferito che da quando le unità di polizia pacificatrice (UPP) sono entrate nel territorio non si può più dormire con la porta aperta, i furti e le rapine sono all’ordine del giorno, la favela non è più sicura. Questo discorso è estendibile a tutte le altre comunità. Come giustifica questo e i numerosi e sanguinari scontri tra polizia e «moradores», non solo trafficanti, ma anche semplici residenti?
R. Non credo a una sola parola di quello che mi arriva, posso credere solo a ciò che vedo. Il dubbio è se la polizia brasiliana possa o meno difendere il diritto del cittadino. Sui social network si vedono video tragici in cui i poliziotti picchiano chiunque accomunandoli sotto il nome di delinquenti comuni. In generale diciamo che il Brasile, con le riforme sociali e con questo avanzamento economico, auspica un miglioramento dei servizi di sicurezza, della sanità e del trasporto, questo è il primo obiettivo.

D. Hanno sgombrato coattivamente le comunità, ossia le favelas, non dando alternative agli abitanti. È d’accordo?
R. Per carità, non è stata un’azione da elogiare, ma ci sarà stato un motivo per cui è stata compiuta, nella sua tragicità. Prendere una famiglia che ha una baracca, costruita con tanta sofferenza, e sradicarla da un posto solo perché da un punto di vista estetico non è elegante, è sbagliato; ma è pur vero che per la crescita in un Paese tanta gente si deve sacrificare, e i poveri sono quelli che cadono prima.

D. Uno dei quartieri più residenziali e ricchi di Rio de Janeiro è Gavea, che confina con la Rocinha trattandosi di una collina colonizzata in un lato dalla favela, nell’altro dalla città. È plausibile che Gavea via via si estenda dall’altro lato e si residenzializzi, sgomberandola, la Rocinha?
R. In realtà il procedimento è stato inverso: negli anni 90 le casupole della Rocinha erano appena sul cucuzzolo della montagna, adesso stanno scendendo e si stanno espandendo.    (Romina Ciuffa)

 

Anche su Specchio Economico – Marzo 2015
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