IPNOSI: CHI È CHE VA IN GALERA? PARTE 1: SOGGETTI ABILITATI ALL’IPNOSI

IPNOSI. ASPETTI GIURIDICI
di Romina Ciuffa*
psicologa ipnotista
avvocato

PARTE 1. SOGGETTI ABILITATI ALL’IPNOSI. TUTTI?
(segue in PARTE DUE: https://www.rominaciuffa.com/ipnosi-alzati-e-uccidi/)

Introduzione alla prima parte

Il presente lavoro intende dare un inquadramento prima facie della normativa applicabile all’ipnosi, meglio detto delle sue contraddizioni giuridiche sia nell’inserimento ad opera del legislatore (nazionale e comunitario), sia nell’interpretazione ad opera della giurisprudenza, della dottrina e degli stessi interessati. Infatti, avallare l’una o l’altra lettura delle norme implica la possibilità di impiegare lo strumento dell’ipnosi in maniera più o meno ampia e in settori distinti; per questo, sono soliti darne una lettura aperta coloro che non esercitano una professione sanitaria e che praticano l’ipnosi in quanto abilitati da un titolo straniero che l’ammette ovvero dopo aver frequentato una scuola in Italia differente da quella di specializzazione. La lettura restrittiva, che ne fa la scrivente, delega l’esercizio dell’ipnosi alle categorie sanitarie – iscritte ai rispettivi Albi – del medico, nei limiti delle finalità curative, dello psicologo e dello psicoterapeuta, nei limiti delle loro competenze di cui alla legge n. 56 del 18 febbraio 1989. L’ipnosi da “intrattenimento”, sebbene non giovi alla categoria, è comunque legittima se fuori tali ambiti; mentre l’ipnologo esperto, non medico e non psicologo, può utilizzarla liberamente in qualità di libero professionista solo ai fini della crescita personale del cliente, per il suo sviluppo e la presa di coscienza, per la riscoperta di risorse e l’insegnamento di tecniche atte al dissolvere disagi e per il miglioramento personale e relazionale.

Non gioverà però a tali ultimi soggetti la condizione obiettiva di non punibilità data dall’art. 728 del Codice penale, che punisce chi ponga taluno, col suo consenso, in stato d’ipnotismo (…), o esegue su lui un trattamento che ne sopprima la coscienza o la volontà, se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità della persona, esentandolo invece dalla pena se il fatto è commesso, a scopo scientifico o di cura, da chi esercita una professione sanitaria. Nel medesimo Codice si rinviene anche la norma dell’art. 613, che punisce chiunque, mediante suggestione ipnotica (…), pone una persona, senza il consenso di lei, in stato d’incapacità d’intendere o di volere, e aggrava la pena se il colpevole ha agito col fine di far commettere un reato o se la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla legge come delitto. In relazione alle due norme sopracitate, si analizza in questo testo anche la configurabilità del reato impossibile di cui all’art. 49, comma 2, c.p., attraverso l’analisi della concreta possibilità che lo strumento ipnotico sia in grado di produrre tali gravi conseguenze, rispondendo alle domande: è possibile indurre in stato di trance qualcuno senza la sua volontà? È possibile far compiere atti criminosi all’ipnotizzato?

Si tratterà anche della materia civilistica, valutando le teorie che vedono nell’atto negoziale compiuto da chi è stato indotto in trance un atto annullabile, nullo od inesistente; in questo senso partendo dalla norma dell’art. 428 del Codice civile e assimilando la condizione dell’ipnotizzato a quella dell’incapace naturale (nel testo si descriverà meglio la questione anche sul piano definitorio), per giungere all’opposta teoria secondo cui il soggetto in trance è sottoposto ad una vis ablativa, la stessa presente nella violenza fisica che esclude del tutto la riferibilità dell’atto al soggetto coartato (ma escludendo comunque si tratti di vis compulsiva, per il diritto intesa come quella violenza psichica integrata dalla prospettazione di un male ingiusto).

Infine, con riferimento al Codice di procedura penale, si analizzeranno le ipotesi in cui l’ipnosi possa essere impiegata a fini processuali nell’interrogatorio dell’indiziato o nell’escussione probatoria dell’imputato, e di altri soggetti quali i testimoni o la vittima. Si tratterebbe comunque di una prova innominata, atipica, che il giudice ha la facoltà di ammettere ex art. 189 c.p.p. se idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudicante la libertà morale della persona. Si risponderà, così, a questa domanda: la prova assunta attraverso ipnosi coarta tale libertà, anche nel caso di soggetto consenziente o richiedente un’escussione attraverso ipnosi? E si valuteranno le varie ipotesi in cui tale procedura possa essere considerata ottimale (come nel caso della vittimologia), utile (come nel caso delle amnesie e del ricordo di avvenimenti passati), oppure fuorviante (come nel caso di soggetto riluttante).

SOGGETTI ABILITATI ALL’IPNOSI – QUESTIONI

 Il fatto che vi sia una questione aperta sull’ipnosi allo stato giuridico della letteratura non fa che definire l’ipnosi in senso positivo, ossia darle legittimità. Invero, essa è presente direttamente solo in due articoli del Codice penale italiano (l’art. 603 e l’art. 728) e indirettamente nell’art. 188 del Codice di procedura penale. Ciò, da una parte rende giustizia alla sua identificazione, dall’altra – per genericità e incompletezza, nonché sinteticità nel suo inserimento – la declassa tra istituti non chiari, sui quali è dovuta (e deve) intervenire la giurisprudenza al fine di dare una spiegazione attuale all’ipotesi del legislatore penale del 1930 (che modificava il precedente Codice Zanardelli, datato 1889) e a quella del legislatore procedurale del 1988 (successiva alle codificazioni del 1865, del 1913 e del 1930). Anni in cui, certamente, non solo l’ipnosi, ma tutta la materia psicologica era considerata al di fuori di una struttura scientifica: questa constatazione di cronologia storica non fa che confermare la necessità che all’ipnosi sia data una definizione più certa e adeguata ai tempi che l’hanno vista evolvere e riconoscere quale possibile metodologia a supporto del medico e dello psicologo nelle materie di loro competenza.

Materie che non hanno avuto facile convivenza prima, collocazione dopo. Con l’entrata dell’Italia nell’Unione europea (definitivo fu il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1º novembre 1993, al quale gli Stati aderenti giunsero dopo un lungo percorso intrapreso dalle Comunità europee precedentemente esistenti e attraverso la stipulazione di numerosi trattati di integrazione). Un primo, rilevante punto è quello relativo alla libera circolazione delle persone nei Paesi membri, che include la possibilità di esportare il proprio titolo conseguito nello Stato di provenienza. in attuazione dell’art. 117, comma 3, della Costituzione e nel rispetto dei principi dell’Unione europea in materia di concorrenza e di libertà di circolazione. Integrando la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio COM n. 119 del 2002, relativa al riconoscimento reciproco delle qualifiche professionali tra i Paesi membri, approvata l’11 febbraio 2004, la legge n. 4 del 14 gennaio 2013 – emanata in attuazione dell’art. 117, comma 3, della Costituzione (potestà legislativa concorrente) – disciplina le professioni non organizzate in ordini o collegi, e in esse può esser fatta rientrare quella dell’ipnologo, se assimilata a quella del libero professionista intellettuale. Assimilazione che è compiuta con leggerezza e forzatura, oltre che scarsa quando non assente cognizione di causa, da chi ha interesse ai suoi effetti giuridici.

La tesi per cui la professione di “ipnotista” debba essere garantita sic et simpliciter senza necessità di essere inserita in un ambito più ampio e declinato (come quello della professione medica o psicoterapeutica) è sostenuta informalmente da molti, formalmente solo da alcuni Paesi, la Svizzera o la Gran Bretagna ad esempio. Con riferimento a quest’ultima, la British Medical Association nel 1955 riabilitava ufficialmente l’ipnosi; la Commissione di studi designata si ispirò per molto tempo al rapporto presentato da Husson[1] all’Académie Royale de Medécine nel 1831 (comunque non accolto dal plauso dei suoi tempi), e dichiarò che le conclusioni di suddetto rapporto erano “fortemente anticipatrici e per la maggior parte ancora valide”. Ciò, però, non avveniva in altri Paesi, tra i quali spicca la Francia, nonostante gli studi compiuti da Jean-Martin Charcot (fondatore della clinica psichiatrica presso l’Ospedale della Salpêtrière di Parigi, il primo a utilizzare l’ipnosi come cura nel fenomeno del “grand hypnotisme” negli isterici) ed i lavori compiuti dal suo allievo Pierre Janet (“La Médecine Psychologique”), e nonostante l’alternativa versione di Hippolyte Bernheim, fondatore della Scuola di Nancy (che intendeva l’ipnosi come una sorta di sonno o stato alterato di coscienza prodotto dalla suggestione, con implicazioni terapeutiche ed un fondamento più psicologico che neurologico).

Né tale riabilitazione avveniva altrove, salvo rare eccezioni tra cui spiccano gli Stati Uniti (nel 1958 l’American Medical Association inserì l’ipnosi nella terapia medica, precisandone le condizioni d’impiego), che riconoscono la professione indipendente di ipnoterapista dal 1979, e la cui American Medical Association ha recentemente deciso che, dal 1° gennaio 2004, anche gli ipnotisti non terapeuti (non-licensed) possano operare nella Sanità[2].

Tornando in Europa, il principio della libera circolazione delle persone negli Stati membri farebbe dedurne la constatazione che – in mancanza di una regolamentazione italiana della professione di ipnoterapista e di una previsione che la vincoli al conseguimento di un diploma o all’appartenenza ad un determinato ordine professionale – si sia ottenuto un lasciapassare per gli “ipnotisti” inglesi e svizzeri (o altri aventi simile riconoscimento) ad esercitare in Italia, senz’aggiuntivo titolo se non quello conseguito nello Stato di provenienza. Così anche affermava (5 gennaio 2005) l’ufficio legale europeo, motivando: “Se la professione di cui si tratta non è regolamentata nello Stato di accoglienza, allora non è necessario richiedere il riconoscimento delle qualifiche; è possibile cominciare a svolgere tale professione in questo Stato alle stesse condizioni che si applicano ai cittadini nazionali e con gli stessi diritti e gli stessi obblighi”.

È oltremodo evidente come il mancato riconoscimento nel nostro ed in altri Paesi europei del titolo riconosciuto di ipnologo/ipnoterapista – conseguibile (in Gran Bretagna ad esempio) previa frequentazione di corsi aperti anche ai non laureati, e con la correlata possibilità di stipulare la relativa assicurazione di indennità professionale – produca presso di noi una confusione foriera di gravi effetti giuridici, a partire da quelli drastici di cui all’art. 348 del Codice penale italiano che prevede, per chiunque abusivamente eserciti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, una pena della reclusione fino a sei mesi o una multa da 103 a 516 euro. La Corte di cassazione ha chiarito che incorre in tale reato “chi è sfornito del titolo richiesto (laurea, diploma) o non ha adempiuto alle formalità prescritte come condizione per l’esercizio della professione (ad esempio, l’iscrizione all’albo) o ne è stato sospeso o interdetto”. Lo stesso giudice ha chiarito, con sentenza n. 34200 del 6 settembre 2007, che non ha importanza ai fini della configurabilità del reato che il paziente sia più o meno cosciente della carenza del titolo abilitativo. La vexata quaestio è: si tratta, nel caso dell’ipnotista riconosciuto altrove, di esercitare abusivamente in Italia la professione ex art. 348 c.p., ovvero è applicabile la copertura UE?

La risposta è duplice e contraddittoria, sempre fondata su considerazioni di parte e interpretazioni disfunzionali, ricordando come lo stesso “concetto” di ipnosi, oltre che il metodo, sia soggetto a valutazioni differenziate a seconda che esso si contestualizzi in un ambito curativo-terapeutico, ovvero con finalità spettacolari, o infine volte al solo miglioramento delle condizioni della persona senza chiamare in causa i presupposti di diagnosi e guarigione. Non da ultima la questione del proliferare di “professionisti” in ipnologia e scuole ad uopo costituite, un intero sistema alias un giro d’affari che, prima di chiamare in causa il paziente, punta al lucro di chi lo costituisce: in Italia potrebbe essere integrata la fattispecie del reato di abuso della credulità popolare di cui all’art. 661 c.p. nel caso di coloro che istigano all’esercizio della professione medica e dell’ipnosi persone non qualificate, ossia scuole, corsi, meeting, organizzati con l’intento di abilitare alla pratica clinica dell’ipnosi. Niente di molto diverso di quanto avvenga nella polemica sul coaching, così come in molti altri campi nei quali lo strumento è impiegato. Senza considerare l’assenza, per costoro, di un codice deontologico e di un Albo ad uopo.

Analogicamente, in tema di investigazioni, l’International Society of Hypnosis allarmisticamente sottolineava in due risoluzioni (ottobre 1978 ed agosto del 1979) la tendenza degli agenti di Polizia, con un training minimo in ipnosi e senza una vasta competenza professionale, ad usare l’ipnosi per facilitare presumibilmente il ricordo di testimoni e vittime circa gli accadimenti in relazione a qualche crimine. La Società si oppone all’uso da parte della Polizia di questa tecnica, suggerendo che tali attività debbano eventualmente essere effettuate con l’aiuto di psichiatri e psicologi, esperti nell’uso forense dell’ipnosi, che costoro siano sempre presenti durante l’interrogatorio e che delle sedute sia sempre fatta una completa videoregistrazione. Direttive anche imposte all’FBI dal Dipartimento della Giustizia,.

Tornando all’Italia, la premessa necessaria la fanno l’art. 1 e l’art. 3 della legge n. 56 del 18 febbraio 1989 sull’ordinamento della professione di psicologo. Il primo definisce la professione di psicologo, e lo legittima all’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità, oltre che alle attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito, ma solo dopo aver conseguito l’abilitazione in psicologia mediante l’esame di Stato ed essere iscritto nell’apposito albo professionale (art. 2). In virtù dell’art. 3, invece, l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del D.P.R. n. 162 del 10 marzo 1982, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti: questa norma non è sormontabile. L’affermazione che l’ipnosi sia competenza dello psicologo o dello psicoterapeuta, per la giustizia della rappresentazione della normativa, è legata alla finalità per cui tale strumento è impiegato. Una volta espresso il vincolo tra ipnosi e psicoterapia, la prima assumerà il ruolo che le spetta: quello di un metodo specifico avente finalità terapeutica.

Nel caso del medico, egli potrà utilizzare l’ipnosi senza aver conseguito la specializzazione da psicoterapeuta, ma solo nell’ambito curativo che è proprio della sua professione e per il quale ha conseguito l’abilitazione, come è nei casi di analgesia o anestesia; gliene sarà invece inibito l’uso nel senso di sollevare il paziente da problemi psicologici. Esattamente come costituirebbe abuso quello dell’ostetrica che inducesse la trance ipnotica nella partoriente, o dell’infermiere che lo facesse per calmare il paziente ospedalizzato. Tale abuso potrà cioè perpetrarsi nel caso in cui il medico improntasse un intervento ipnotico con finalità psicoterapeutiche, psichiche e non fisiche. Il Codice di deontologia medica del 1978 imponeva ai medici di ispirarsi alle conoscenze scientifiche (art. 4) e di non favorire in qualsiasi modo chi esercita abusivamente un’attività sanitaria ivi compresa l’ipnosi-terapia (art. 93), con un espresso riferimento, dunque, alla materia oggetto del presente lavoro.

Riferimento contenuto anche nell’art. 128 del Regolamento del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, che consente al medico provinciale di autorizzare chi non eserciti la professione sanitaria a trattenimenti di ipnotismo, con ciò affermando la liceità dell’ipnosi solo a titolo di intrattenimento pubblico (spettacolarizzazione) ma non nel caso di fini scientifico-terapeutici. Infatti, tale norma non si riferisce ai medici (“a chi non eserciti la professione sanitaria”); e se il medico provinciale può accordare l’autorizzazione a trattamenti di ipnotismo nei casi “non sanitari”, non potendosi consentire ciò che è vietato dalla legge, se ne deduce che – per il principio di non contraddittorietà dell’ordinamento giuridico – è ammessa in nuce l’ipnosi quando utilizzata per finalità scientifiche.

Proprio attraverso tale norma Guglielmo Gulotta risponde alle seguenti domande: “(…) Può un non medico utilizzare l’ipnosi senza finalità curative? Può un non medico ipnotizzare con finalità curative? Lo psicologo a questi riguardi può considerarsi differentemente da tutti gli altri non medici ed essergli consentito ciò che agli altri non medici non è consentito?”[3]. Nessun dubbio, per lui, di una risposta affermativa nel caso del mero esercizio dell’ipnosi senza finalità terapeutiche anche da parte di chi non sia medico (anche se è sempre sconsigliabile–aggiunge–che una persona non preparata utilizzi questo mezzo a scopo dimostrativo o di divertimento).

Risponde a tali domande anche attraverso l’analisi della sentenza della IV Sezione della Corte di cassazione del 10 luglio 1969, per cui “non può contestarsi che la terapia ipnotica sia riservata agli esercenti la professione sanitaria regolarmente iscritti all’albo professionale: è sufficiente in proposito ricordare l’art. 728 comma 2, c.p., il quale consente, a scopo scientifico e curativo, il trattamento idoneo a sopprimere la coscienza e la volontà altrui, mediante narcosi o ipnosi, soltanto agli esercenti la professione sanitaria, vietandola a chi ad essa non è abilitato” (dell’art. 728 c.p. e degli altri che richiamano l’ipnosi in ambito penalistico, che tratterò nel capitolo seguente). A ben vedere, ed oppositivamente a tale pronuncia del giudice supremo, la norma di cui all’art. 728 c.p. – volta a punire chiunque ponga taluno, col suo consenso, in stato di narcosi o di ipnotismo, o esegua su di lui un trattamento che ne sopprima la coscienza o la volontà se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità della persona – è costruita dal legislatore non al fine di vietare al non medico l’attività di ipnotismo, bensì per escludere, in suo capo, la causa di giustificazione che invece applica all’esercente una professione sanitaria che abbia commesso il medesimo fatto a scopo scientifico o di cura. In sintesi, il non medico non potrà fruire dell’esenzione, ma non gli è per ciò solo vietata la pratica dell’ipnotismo. L’esempio lampante è quello della “suggestologia” bulgara, che utilizza tecniche di tipo ipnotico a scopi di insegnamento delle lingue straniere.

Resta fermo il fatto che un non medico non possa utilizzare l’ipnosi a scopo terapeutico, e sono imputabili del reato di cui all’art. 348 c.p. il “guaritore” e chi esprime giudizi diagnostici e, valendosi del metodo della psicoterapia suggestiva, consigli cure ai malati che si rechino a consultarlo: è, infatti, necessario il controllo medico per evitare i pericoli di mancanza di diagnosi o del mancato accertamento dell’eventuale guarigione o peggioramento. Ossia: non esiste divieto di ipnotizzare a scopi non terapeutici, ma resta ferma la responsabilità dell’agente se ciò possa procurare pericolo all’incolumità della persona[4].

E lo psicologo può? Gulotta risponde così, con una spiegazione concreta e razionale: “Soprattutto nell’ipnosi è da dire che la differenza tra l’aspetto sperimentale e quello clinico rende indispensabile la funzione dell’ipnotista psicologo, dato che nelle facoltà mediche non si insegna la sperimentazione del comportamento umano. E poiché come sempre la clinica e la sperimentazione sono strettamente legate, anche lo psicologo ipnotista rigorosamente diretto alla sperimentalità deve avere pratica dell’ipnoterapia. Ciò soprattutto perché il clinico poi possa avvantaggiarsi di ciò che lo sperimentalista gli mette a disposizione. Non a caso la Società internazionale d’ipnosi è chiamata d’ipnosi clinica e sperimentale[5]. La psicoterapia non è di pertinenza medica: in entrambi i casi del medico e dello psicologo dev’esservi un’adeguata preparazione (Freud sosteneva fermamente questo). Lo psicologo specializzato ha però compiuto, rispetto al medico, studi che attengono direttamente alla diagnosi e alla terapia dei disturbi psicopatologici, salvo che il medico non abbia approfondito adeguatamente la materia. Se ne deduce la possibilità di impiegare l’ipnosi come strumento alternativo, tra i vari in possesso dello psicologo.

In conclusione, l’ipnologo esperto, non medico o psicologo, non può praticare l’ipnosi per finalità cliniche, diagnostiche o terapeutiche, ma può utilizzarla liberamente, in qualità di libero professionista, ai fini della crescita personale del proprio cliente, per il suo sviluppo e la presa di coscienza, oltre che per la riscoperta di risorse e l’insegnamento di tecniche atte al dissolvere disagi e per il miglioramento personale e relazionale. (ROMINA CIUFFA) (…)

*Romina Ciuffa, psicologa, riceve in centro storico a Roma, ai Castelli Romani (Monte Compatri) e, su appuntamento, a Milano (info@rominaciuffa.com) 

 

NOTE

[1] Nel 1831 Husson presentò all’Accademia un dettagliato resoconto finale, volto a sottolineare da un lato la realtà dei fenomeni di magnetizzazione e la loro applicazione clinica, dall’altro la necessità di un intervento dell’Accademia per garantire l’impiego esclusivamente medico della magnetizzazione. Il resoconto finale nonostante le pressioni di Husson non venne discusso dall’Accademia, che si trincerò su posizioni di chiusura, opponendosi alla pubblicazione del rapporto.
[2] Tra gli Stati americani che ammettono l’uso delle tecniche ipnotiche a scopo investigativo o giuridico: California, Texas, Alabama, California, Pennsylvania, Alaska, Michigan, Utah, Arizona, Minnesota, Virginia, Connecticut, Missouri, Washington, Delaware, Nebraska, West Virginia, Florida, New York, Indiana, Hawaii, North Carolina, Iowa, Illinois, Oklahoma, Kansas. Codici deontologici e rigide linee guida governano l’uso dell’ipnosi a scopi forensi, e non è ammesso l’uso della trance ipnotica nei confronti degli imputati o dei sospettati. In altri Stati come Georgia, South Dakota, Wyoming, Mississippi, Louisiana, Colorado, Nevad,a North Dakota, Idaho, New Mexico, Oregon, Ohio, New Jersey, Tennessee, Texas, sono richieste procedure di salvaguardia e verifica incrociata affinché le testimonianze rese in stato ipnotico siano ammissibili.
[3] GULOTTA G., Ipnosi. Aspetti psicologici, clinici, legali, criminologici, 1980, Giuffré, 425.
[4] GULOTTA G., cit., 435.
[5] GULOTTA G., cit., 436.

 




TRAUMA SENTIMENTALE: GIORGIO NARDONE LO SPIEGA BREVEMENTE E STRATEGICAMENTE

Trauma sentimentale: oggetto dei nostri giorni, del nostro divenire. Sempre più incerto, traghettato da uno spazio temporale in cui l’uomo era al centro della relazione ad uno in cui è la relazione ad essere al centro dell’uomo. Anche oggetto di un workshop tenuto dal fondatore del CTS, Centro di terapia strategica di Arezzo, Giorgio Nardone che, legatosi come psicologo e ricercatore alla Scuola americana di Palo Alto, è divenuto l’erede di un grande Paul Watzlawick, filosofo e psicologo, unico autore tradotto in ottanta edizioni differenti, avente la capacità di sintetizzare il lavoro di eminenti studiosi – da Gregory Bateson a Donald deAvila Jackson e Milton Erickson – in un unico e rigoroso modello teorico e applicativo. Finanche il padre del costruttivismo Heinz Von Förster amava dichiarare di essere lui stesso una invenzione di Watzlawick. È con quest’ultimo che nel 1987 Nardone fonda il suo centro aretino, dove applica il modello della terapia breve-strategica, particolarmente adatto alla risoluzione dei traumi, incluso quello sentimentale, per il suo approccio netto e veloce.

Nell’ambito del IV Congresso di psicologia della Società italiana di psicologia e psicoterapia relazionale (SIPPR) presieduta dal professor Camillo Loriedo, dal titolo «Psicologia in evoluzione. Progetti e soluzioni della psicoterapia per il futuro», tenutosi a Roma negli ultimi quattro giorni di settembre, anche d’amore s’è trattato. Con Nardone, sono intervenuti sul tema gli psicologi Piero Petrini, Luisa Martini e Giovanna De Maio. «Un ruolo ingrato, in quanto esponente maschile–afferma Nardone–quello di aprire il dibattito: e non è un caso, perché quando si parla di traumi sentimentali chiedono aiuto al 90 per cento le donne». Nel mondo egizio, tra i modelli più avanzati di società, spiega il fondatore del CTS, un editto prescriveva: se cogli una donna in flagranza di adulterio punisci il marito. «Erano già molto saggi. Possiamo anche rovesciare le cose. Smettiamola con la prosopopea del vittimismo. Il tradimento, da un punto di vista interazionale, non è mai un atto singolo, individuale, ma sempre di interazione».

Specifica che negli ultimi anni alcuni Paesi si stanno orientando verso una legislazione nuova: i matrimoni a termine, una profezia triennale che si autoavvera solo in quanto formulata. Il disturbo da iperattività sessuale, ora bandito dal DSM (il Manuale diagnostico dei disturbi elaborato dalla Società di psichiatria americana) definiva malato l’uomo che avesse più di due rapporti sessuali a settimana. Negli ultimi due decenni, per Nardone la ricerca scientifica ha subito la corruzione della misura quantitativa: calcoli da laboratori, non sul campo, e statistiche portano a deformazioni. Come dire che tutti al mondo mangiamo un pollo a testa a giorno, ma c’è chi ne mangia dieci e chi nessuno, e il problema dell’hypersex era emerso da una valutazione a livello mondiale della quantità media dei rapporti sessuali di una coppia dai 25 ai 50 anni, che dava un risultato di un rapporto e mezzo al mese. È la statistica.

«Grazie a questo–analizza Nardone–si era arrivati a ritenere rigorosamente scientifico, perché quantitativamente misurato, un disturbo completamente inventato da una deformazione di scientismo, di riduzionismo, non di scienza. Purtroppo di esempi come questo possono farsene anche riguardo psicopatologie molto più importanti e anche su ricerche che si danno il tono di scientificità, in questo ed altri campi». Cominciamo ad utilizzare il dialogo strategico con noi stessi, suggerisce il padre della breve-strategica. «Portiamo le persone di fronte alla condizione estrema del trauma sentimentale vissuto dal vivo, ossia la flagranza del tradimento, un’immagine che rimane con la densità di un disturbo post traumatico».

A proposito di tradimento Luisa Martini, psicoterapeuta e didatta dell’IIPR, l’Istituto italiano di psicoterapia relazionale, fa riferimento al romanzo «I giorni dell’abbandono» di Elena Ferrante, dove, tra i due partner sottoposti ad uno stress da tradimento, a morire è il cane Argo: la fedeltà. È il fedele che soccombe. In ogni fedeltà che non conosce il tradimento, e neppure ne ipotizza l’esistenza, c’è troppa infanzia, troppa ingenuità, per riprendere Umberto Galimberti. «Nelle relazioni con un altro significativo–spiega la Martini– è necessario mettere in conto il tradimento delle aspettative fantasmatiche di entrambi i partner, di ciò che ciascuno di essi si attende dall’altro ma, non di inferiore rilevanza, da se stesso in relazione con l’altro: ciò fa parte delle nostre possibilità di crescere nella conoscenza di noi stessi e di chi è con noi. La fiducia infantile rischia di divenire una prigione. Accade che il mondo del tradito perde tutti i suoi significati e che entrambi i partner devono riorientarsi. Il tradito vuole sapere tutto, il traditore si sottopone all’interrogatorio».

James Hillman arriva a postulare una verità fondamentale relativa al tradimento: non si danno amore e fiducia senza possibilità di tradimento. Hillmann parla, nei suoi lavori, delle reazioni disfunzionali al tradimento: vendetta, negazione dell’altro, cinismo («tutti gli uomini sono inaffidabili»), negazione di sé («non mi esporrò mai più»), scelte paranoiche (la persecuzione, ad esempio, valida soprattutto ai tempi del web e dei social network).

Nardone, in modo «breve-strategico», pone una domanda chiave: dopo un trauma sentimentale, non solo tradimento, cosa fare? Lasciare il partner o rimanere? Come si arriva a capire quale sarà la scelta migliore? «Ho affrontato questo argomento in un mio libro sul trauma nelle decisioni. Si arriva alla soluzione solo dialogando con se stessi, ma non con la parte razionale: con quella viscerale. Bisogna mettersi sul ciglio del precipizio e verificare quali sono i brividi, per citare la ballerina Sylvie Guillem». Essa sostiene che mantenersi sul precipizio sia l’unico modo per un artista di restare vivo.

La domanda fondamentale da farsi, per Nardone, non è «mi ama ancora?», perché questo è delegare mentre bisogna, invece, fare i conti solo con se stessi. Nemmeno domandandosi «amo ancora?», bensì «posso farne a meno?». L’interrogativo corretto apre scenari il più delle volte non contemplati, perché «quando si comincia ad immaginare in se stessi la vita senza quel partner, quindi a sperimentarla, ci si accorge di qualcosa che prima non si riusciva a vedere. Trovata la risposta, si ha già la strada da percorrere. Nel dialogo strategico–spiega–sono le domande che fanno le risposte. Il problema si pone se la risposta è: non si può fare a meno di quella persona. Ma in tal caso, è necessario evitare di fare la figura della vittima o del vendicatore: se non si può farne a meno, la risposta è chiara e si agisce di conseguenza, senza tornare indietro».

Parlare di traumi sentimentali è qualcosa di viscerale, è parlare del poter fare a meno di qualcuno o no. Da cui il percorso successivo. «Abbiamo bisogno di riduttori di complessità, ossia di stratagemmi che ci consentano di risolvere la complessità attraverso soluzioni semplici. È l’uovo di Colombo, sia pure sofferto: una sofferenza che non è attraversata si trasforma in una lenta agonia, la quale è ben peggiore. Il mio amico Emil Cioran diceva: il coraggio che manca ai più è il coraggio di soffrire per cessare di soffrire».

Se per Pietro Petrini il trauma sentimentale porta ad una dissociazione in grado di primitivizzare l’uomo, Giovanna De Maio spiega cosa evitare e come riprendersi da un trauma sentimentale: «Un abbandono è così devastante da essere paragonato a un vero e proprio lutto: si è sconfortati, inermi, si tratta di una perdita. Per Cesare Pavese un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra miseria, nullità, inermia, e così sintetizza la condizione di fine avvertita quando si entra in contatto con la parte più vulnerabile di se stessi».

Il terapeuta potrà accompagnare la persona che ha subito la perdita attraverso le cinque fasi di elaborazione del lutto descritte da Elisabeth Kübler-Ross: rifiuto («non può essere successo»), patteggiamento («torniamo insieme», «faccio tutto quello che non ho mai fatto prima», «prometto»), rabbia («mi ha ingannato»), depressione («ho sbagliato tutto», «non c’è futuro»), infine accettazione. Cercare di non pensare è già pensare, il tentativo vano di distrarsi non fa altro che allungare il tunnel dei sintomi; l’abbandonarsi è sicuramente la cosa più importante da fare, non come consigliano i familiari, gli amici, il cui dire non fa altro che intensificare il senso di inadeguatezza. Il terapeuta deve sintonizzarsi con il dolore e la sofferenza dell’altro, evidenziando come non ci sia nulla di patologico o sbagliato nel continuare a soffrire. Il dolore delle perdite sentimentali non sparisce: esso decanta. Per agevolare il processo bisogna immergersi come una bustina di tè nell’acqua bollente.

Per questi psicologi dunque, del trauma sentimentale non bisogna vergognarsi. Tutt’altro: esso va ascoltato, e attentamente. (ROMINA CIUFFA)

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CATALUNYA VS SPAGNA: NE FACCIO UNA QUESTIONE EDIPICA E NEUROLINGUISTICA

Trovo che la Catalunya sia come un adolescente che, in piena febbre di crescenza, è in freudiana lotta con il padre. E che Madrid sia un classico padre, protettivo ed egoista, nel contempo amorevole, che non vuole dare al proprio figlio l’indipendenza di cui questi ha bisogno per crescere. Come in ogni conflitto intrafamiliare, entrambi hanno ragione: il primo, perché anela a un’indipendenza che gli spetta, voglioso che gli vengano ricosciuti l’individuale esistenza nel mondo, i talenti e le capacità; il secondo, perché come i padri è geloso della dipartita e interessato alla permanenza.

E uno schiaffo dal padre, uno schiaffo da Madrid a Barcellona, è ammesso dall’art. 154 del codice civile spagnolo che, modificato e «intenerito» dalla legge n. 54 del 2007, conferisce ai genitori la facoltà di esercitare la patria potestà impiegando un tratto autoritario in combinato disposto con il successivo art. 155, il cui oggetto è un dovere di obbedienza del minore «a sus padres». Purché non si sconfini nel reato di lesioni dell’art. 147 del codice penale, non giustificate dallo ius corrigendi attribuito al genitore a soli fini educativi, né nel secondo comma dell’art. 173, che fa riferimento all’abitualità di un condotta domestica degradante, fisica o psichica. Per la dottrina, la sberla è ok. Reiterata o violenta, o senza fini di educazione, no.

La Spagna ha il «diritto di correggere», a suon di sberle, la Catalunya?
La domanda pregiudiziale è: che tipo di relazione c’è tra Madrid e Barcellona? La Catalunya è figlia della Spagna?

È una questione storica: l’attuale Catalogna, nel Paleolitico medio pertinenza di greci e cartaginesi, poi parte dell’Impero Romano, quindi insediata dai Visigoti, è conquistata dai Mori e chiamata al-Andalus, organizzata in regni e contee che parlano catalano, aragonese, basco, castigliano-leonese e galiziano, infine inglobata nell’Impero carolingio con buona pace dell’indipendenza. I limiti territoriali del Principato dei «cathalani» vengono definiti solo con il passaggio, sotto la casata di Barcellona, alla Corona d’Aragona. La conquista delle Baleari e di Valenzia, quindi di Sicilia, Sardegna (ad Alghero tuttora si parla catalano) e Napoli, e il passaggio alla Corona di Spagna per unione dinastica, danno respiro ai catalani fino all’avvento della dinastia dei Borboni. È del 1640 la ribellione popolare contro i soldati mercenari nelle case dei contadini catalani prossime alla frontiera. La Repubblica catalana, autodichiarata sotto protezione francese, con la conquista di Barcellona del 1652 perde Stato, istituzioni, leggi e capacità di decisione politica. Nel 1716 il quartiere barcellonese del Born è distrutto e vi viene costruita una fortezza militare.

Con la dittatura del generale Franco – aiutato da Hitler e Mussolini – e la guerra civile, è il tempo di una brutale repressione politica (i bombardamenti aerei su Barcellona sono effettuati dall’Aviazione legionaria italiana con il supporto della Legione Condor tedesca dal 16 al 18 marzo 1938, un bilancio di oltre mille morti e 2 mila feriti). La lingua catalana viene vietata. Il presidente Lluís Companys nel 1940 è fucilato nel castello di Montjuïch. Dopo Franco, nel 1977 è ristabilita la Generalitat con Josep Tarradellas. Il catalano in questi anni è introdotto nelle scuole. Nel 2006 è approvato uno Statuto per via referendaria, ma la Corte Costituzionale ne dichiara l’inefficacia giuridica e nega la definizione della Catalogna come nazione.

Dal 2011 il Partido Popular di Mariano Rajoy governa la Spagna. Il primo ottobre 2017 la Catalunya va al voto referendario senza il consenso del padre, che considera il referendum anticostituzionale e sequestra le urne, taglia i collegamenti ad internet, invia polizia non pacifica, fa «prigionieri» politici. Ma i catalani, quasi tutti, dicono «ens n’anem», andiamo via dalla Spagna. Il «president» Carles Puigdemont chiede un margine di dialogo e negoziazione; Rajoy vuole chiarezza: avete o no dichiarato l’indipendenza?

Ora risponderei alla mia domanda: i catalani sono figli di Madrid, ma d’adozione, e riconosciuti. In quanto tali a loro si applica la norma che non consente al padre di schiaffeggiare oltre una certa misura (educativa) il figlio. Guerre civili e metodi impositivi non sono schiaffi di ius corrigendi ma uso abnorme.

I catalani parlano una lingua propria, che non è un dialetto. Che differenza c’è? Presto detto: la lingua è un dialetto con un Esercito ed una Marina (Max Weinreich). Ossia, il dialetto è la variante di una lingua, una specificità; come tale, si riconosce all’interno di essa. La lingua riflette, invece, l’anima del parlante, distinta dalle anime altrui intese come confluenza di elementi storici, culturali, caratteriali, territoriali, archivio dell’esperienza di un popolo. Il «català», nelle sue varianti locali, distingue il proprio parlante dagli altri anche in funzione dell’influenza psicologica che la costruzione, il modello motorio collegato alla riproduzione vocale e alla scrittura, i cambiamenti strutturali nelle regioni del cervello, la mappatura cognitiva, sviluppano nell’essere umano. La differente reazione neuronale dipende dal fatto che l’apprendimento di una lingua come nativa avviene contemporaneamente all’acquisizione delle conoscenze concettuali e delle esperienze corporee e sensoriali. Un esempio su tutti: per lo psicologo David Meyers i tedeschi, ritenuti privi di humour, sarebbero tali in quanto, nel pronunciare le vocali con la dieresi, inclinano verso il basso le labbra assumendo un’espressione triste, e l’uso che il cervello associa alla tristezza influenza negativamente l’umore.

Caratterizzata da una forma interna che esprime la concezione del mondo della nazione che la parla (Wilhelm von Humboldt), la lingua è «manifestazione fenomenica dello spirito dei popoli: la loro lingua è il loro spirito e il loro spirito è la loro lingua». I catalani non solo si sentono diversi, essi sono diversi. È nella forza spirituale delle nazioni l’effettivo principio esplicativo e la vera causa che determina la diversità delle lingue. Una base, questa, per il principio di autodeterminazione dei popoli interna ed esterna: il diritto di scegliere il proprio sistema di governo e di essere liberi da ogni dominazione esterna. Per il diritto costituzionale canadese (nel caso della secessione del Quebec) ed il diritto internazionale, il principio si applica solo in tre situazioni: ai popoli soggetti a dominio coloniale, ai popoli il cui territorio è occupato da uno Stato straniero, ai gruppi minoritari che all’interno di uno Stato sovrano si vedano rifiutare un accesso effettivo all’esercizio del potere di governo. È questo il caso della Catalunya?

Ho vissuto molti anni a Barcellona. Ho parlato fluentemente il catalano, più del castigliano che conosco come un madrelingua. La madre edipica. Ciò mi ha permesso di avere una visione completa della Spagna, in quanto ho utilizzato le strutture neurolinguistiche del primo e del secondo sistema. Sono sì consapevole che gli interessi politici ed economici entrano in gioco nelle richieste del presidente catalano Carles Puigdemont alla Spagna di Rajoy; sono sì consapevole del fatto che l’Europa tende, pericolosamente, verso una disgregazione. Ma ciò avviene non solo o non tanto per questioni di moneta, prosperità e comando, bensì spirituali: l’adolescente, se non muore, prima o poi compirà 18 anni. A quel punto, il padre non sarà più soggetto alla paghetta e all’educazione, nel contempo non riceverà una percentuale sui guadagni del figlio.

A meno che non vadano d’amore e d’accordo. E così, il primo potrà essere accudito in futuro da un discendente capace e affettuoso, il secondo riceverà un’eredità che lo riporterà nella casa paterna. E il Natale si farà insieme. La Pasqua, però, con chi vuoi. (Romina Ciuffa)

Romina Ciuffa, Formentera (giugno 2017)

BARCELLONA. LA MIA GALLERIA

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ALIMENTAZIONE 2.0: GALLINA CHE NON BECCA HA GIÀ BECCATO

All’inizio era il darwinianesimo. Processi di selezione naturale basati sulla meritocrazia non solo di un vivente, ma delle sue stesse parti corporali: la coda serviva – restava. Non serviva, via. Così le abilità. Si può dire che Darwin fosse un meritocratico, sebbene avesse ricevuto una raccomandazione, quella del naturalista John Stevens Henslow, per salire a bordo del Beagle, brigantino britannico in partenza per una spedizione di ricognizione scientifica intorno al mondo, in qualità di naturalista non stipendiato, e sebbene la sua ipotesi, esposta per la prima volta nel 1858, fu presentata contemporaneamente da Alfred Russel Wallace, che era giunto indipendentemente alle medesime conclusioni.

Corrette o meno, o correggibili, le teorie della selezione naturale sono utili a rispondere a chi vuole convincere il mondo – a prescindere da qualsivoglia cultura, antropologia, credo, dunque bandendo il relativismo in favore di un’assolutismo ideologico – a non mangiare carne. Esse sono basate, infatti, sull’assunto di una specie più forte all’interno di un ecosistema perfettamente autonomo. Homo homini lupus, d’altronde. Oggi la carne fa male, le tossine che sprigiona l’animale, mentre muore soffrendo, sono quanto di peggio si possa ingerire. Non è sbagliato ma, per quanto ciò sia vero, si scontra con l’eccesso. Le nonne dicevano: «Allora non è vera fame», quando si chiedeva da mangiare insistentemente e poi non si gradiva il brodino, la carne. Non è vera fame, no. Si voleva il gelato, diciamolo.

Ed eccoli qui, i nuovi affamati: onnivori (i polifagi), locavori (mangiano cibi prodotti nel raggio di un centinaio di chilometri dal luogo del pasto), ecotariani (scelgono cibo la cui sparizione causi un impatto minore sull’ecosistema), macrobiotici (no carne), vegetariani (no carne, no pesce), flexitariani (vegetariani che mangiano solo a volte carne e pesce), vegani (no ai cibi di origine animale, come latticini, miele e uova), freegan (che rifiutano in blocco la società consumistica, non comprano nulla, recuperano gli scarti anche dai bidoni, si nutrono pure di carcasse di animali morti trovate per strada), crudisti (amano cibi crudi di cui non sia superata una certa temperatura per mantenerne le proprietà di attivazione enzimatiche), fruttaliani (solo frutta e verdura), fruttaliani crudisti (escludono frutta e verdura cotte), fruttariani (solo frutta cruda, meglio se dolce), fruttariani simbiotici (solo frutta cruda e mangiata dagli alberi curati in proprio), via via verso il trionfo della concezione biocentrico-igienista.

Nonne, non abbiamo finito. È un melodramma quello dei melariani, per i quali le piante soffrono, tutte tranne i meli: le mele si donano all’uomo con piacere, i melariani lo sanno. Una mela al giorno leva il medico di torno (se il medico mangia solo mela, un peccato originale). Più avanti ci sono i respiriani: loro respirano. Vivono di sola luce. Assorbono prana (energia vitale, spirito) dal naso. Possono concedersi di ingoiare qualcosa solo se ciò non li fa sentire in colpa, «perché stiamo mangiando per gusto, perché ci piace e non per necessità», spiega una di loro in un’intervista. Aggiungendo: «I cambiamenti fisici più rilevanti sono stati la crescita costante di energia e luminosità e la scomparsa del bisogno di defecare. A un livello di pulizia totale si smette anche di urinare, rimettendo i liquidi in circolo e attivando un processo autotrofo». Alcuni riescono a non dormire, a diventare immortali, assicura la respiriana. Oltre, ci sono i raeliani, che meriteranno la reincarnazione scientifica e vivranno per sempre sul pianeta degli Elohim, dove il cibo sarà portato loro senza dover fare il minimo sforzo.

Dopo, ci sono solo i morti.

L’estremizzazione è una componente essenziale della media. Bukowski scriveva: «Non mi fido delle statistiche: un uomo con la testa nel forno e i piedi nel congelatore ha una temperatura media». Così è garantito un livello di maturità e intelligenza al centro, che solleva dall’idea di dover scegliere per forza tra il congelatore ed il forno. Ma si stava meglio quando si stava peggio. Prima non era un problema mangiare; oggi l’attenzione cade sul cibo al punto tale da essersi sviluppati in senso più ampio disturbi alimentari di forte gravità. L’aver posato lo sguardo su di essi li ha fatti emergere, e così avanti l’anoressia, avanti la bulimia, il «binge eating», la pica etc. Che, infine, sono ricollegati all’accudimento materno. E si torna alla madre, comunque: l’alimentazione inizia con la suzione, non con il respiro. Il latte materno proviene da un animale, facente parte della catena alimentare, ma oggi si dice: il latte è la cosa più pericolosa che c’è. Seno buono e seno cattivo, li chiamava Melanie Klein, l’assenza di integrazione dei quali condurrebbe, nello sviluppo evolutivo umano, alla formazione della posizione schizo-paranoide, utilizzata come difesa. Per l’appunto.

Cosa è accaduto, cosa ha portato a vivere di sola aria? A far credere che l’astensione dal cibo sia l’alimentazione corretta? A nutrirsi con il naso, non con la bocca? Nell’epoca degli «apericena» poi. La disperazione individuale, la distruzione planetaria, due facce della stessa medaglia; la psicosi come malessere. L’oncologo Umberto Veronesi, scomparso di recente, direttore dell’Istituto europeo di Oncologia, ha studiato la relazione tra cibo e cancro elaborando una dieta per la prevenzione dei tumori, incentrata su un consumo più coscienzioso dei diversi alimenti; una dieta non lontana da quella mediterranea, vicina a quella vegetariana ma con correttivi. Ma la dieta migliore è la coerenza.

Esagerare nella scelta di un regime alimentare e renderlo ideologia conduce a disturbi mentali, ossessioni, fissazioni, carenze. Una convinzione – di qualunque tipo essa sia – può modificare gli schemi neuronali del cervello, a livello individuale e collettivo, al punto da generare un effetto Pigmalione, la «profezia autoavverantesi» di Robert K. Merton, il quale con William Thomas sosteneva che «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Anche definito effetto Rosenthal, il postulato sottolinea come una previsione possa realizzarsi per il solo fatto di essere stata espressa. Così una corretta disciplina nell’alimentazione supporta fisico e mente; un’eccessiva disciplina li distrugge, e pone in circolo premesse che condurranno all’adempimento della predizione che le ha generate. Accenderemmo un fuoco sapendo che il tronco dell’albero ne soffre? Come potremmo riscaldarci? Oggi, con l’energia solare. Ma poi, dove sedersi, su quali sedie? Per terra. «Per terra» acquisisce un significato talmente pregnante, a questo punto del ragionamento, da poter citare un altro gruppo, quello degli scalzisti o «barefooters», che vanno sempre in giro scalzi. E siamo noi a doverci fare il callo.

Si dice anche: “Gallina che non becca ha già beccato”. Si fa riferimento al fatto che si ha già la pancia piena. Ed, in un certo senso, è così: la reificazione della metafora conduce a dire che sì, si ha la pancia piena, di troppe cose. Abbiamo tutto. Non c’è più pane e patate, altro che guerra. Non c’è più l’istinto di sopravvivenza, è tutto a portata di mano, il grano è nel pollaio e non lo becchiamo. Galline restiamo.

Quella di oggi è vera fame? Nell’epoca del consumismo più sfrenato, dei click, dell’abuso, si può rispondere: no, non è vera fame. Tale nonna, ancora viva, non può più fare il ragù ai nipoti, non può sbattere un uovo per lo zabaione o la sua crema, le è inibito spadellare. Oltre a doversi abituare, con rassegnazione anziana, ad un mondo che svanisce, che lei non aveva distrutto ma che i suoi figli hanno massacrato senza esitare, ora non può che preparare, per il pranzo di Natale, un buon prana, e sapere che, nell’esalare l’ultimo respiro, almeno per quella volta ancora potrà tornare a dare da mangiare ai nipoti. Basterà per tutta la famiglia?   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – luglio/agosto 2017




AGGRESSIVITÀ E FRUSTRAZIONE: DALL’EFFETTO ARMA AL MODELLAMENTO TV

Un eccesso di aggressività si avverte: madri che uccidono figli che uccidono padri che uccidono mogli, stupri, lacerazioni con l’acido, cadaveri occultati, giochi di pulsione distruttiva per dirla freudianamente. Precedentemente ho parlato del conflitto interiore, il dubbio, l’angoscia correlata. In questo articolo l’intenzione è quella di dare un senso alle teorie sull’aggressività e la frustrazione, estremamente collegate alle teorie sul conflitto. Non è un segreto che, più passa il tempo, più la frustrazione avanza. Essa è generata dalla politica, dalle istituzioni, dalla qualità della vita, dal confronto con altri Paesi: sebbene l’erba del vicino sia sempre più verde, e questo è il caso di ricordarlo. Ma di certo l’Italia ha raggiunto un picco storico di frustrazione. Intendo per frustrazione una reazione personale e comportamentale accompagnata da sintomi vegetativi, che può portare a disturbi psicosomatici, disturbi mentali quando non vere e proprie malattie. Essa si verifica quando un ostacolo si presenta, un obiettivo non è raggiunto, un compito è interrotto, la propria autostima è minacciata, non è possibile gratificare un bisogno, e in tutte quelle situazioni in cui l’individuo sperimenta un «fermo» rispetto alle proprie aspettative più ampie.

Kurt Lewin (1890-1947), gestaltista, teorico della funzione del campo C=f(P,A) secondo cui il comportamento di un individuo è una funzione regolata da fattori interdipendenti costituiti dalla sua personalità e dall’ambiente che lo circonda, effettua esperimenti sulla sospensione ed interruzione del compito e nota che l’energia mobilitata continua ad operare e cerca vie di scarico, un accumulo che è percepito soggettivamente come un’esperienza emotiva spiacevole e dolorosa.

Sigmund Freud (1856-1939) ricollega la frustrazione alla mancata gratificazione dell’Es, per lui elemento libidinoso della psiche che non conosce negazione né contraddizione, e, nel suo modello energetico della motivazione, fa confluire l’accumulo connesso in altro: l’uso di meccanismi di difesa conduce a differenti soluzioni di sfogo, la prima delle quali è la sublimazione dell’energia ossia il suo scambio in attività sostitutive (lo sport ad esempio), o lo spostamento verso altri bersagli, spesso aggressivo. Ricordando i tre luoghi psichici freudiani: l’Es (la parte impulsiva, irrazionale, animalesca), il SuperIo (l’etica, la coscienza morale che sorge gradualmente e tende a reprimere gli impulsi dell’Es), l’Io (che si situa tra l’Es e il SuperIo, media tra le due tendenze e consiste in un continuo tentativo di equilibrio). Quest’ultimo è sempre in oscillazione anche in soggetti sani adulti. Un esempio per tutti il fil «Un giorno di ordinaria follia» in cui il protagonista Bill Foster, interpretato da Michael Douglas, per la frustrazione di una giornata qualunque raggiunge il punto di non ritorno, armandosi e minacciando la città.

Collegano frustrazione ed aggressività molti autori, in senso energetico l’etologo tedesco Konrad Lorenz (1903-1989), secondo cui compito della società e degli educatori è reprimere le spinte o creare valvole di sfogo (negli anni di Freud la militarizzazione era un’alternativa molto valida). Sono John Dollard (1900-1980) e i colleghi del gruppo di Yale a dare il massimo rilievo al collegamento tra frustrazione ed aggressività. Secondo essi l’aggressività presuppone sempre frustrazione, e quest’ultima conduce sempre ad un comportamento aggressivo, un legame che può essere rivisto solo attraverso strategie di ridirezionamento verso attività in grado di consentire la scarica. Si verifica uno spostamento quando muta il target della spinta aggressiva attraverso comportamenti diretti verso altri soggetti ed oggetti distinti rispetto alla causa generativa.

Ma questa teoria è considerata estremista: per Robert Richardson Sears (1908-1989) e George Armitage Miller (1920-2012) «non sempre», ossia frustrazione e aggressività sarebbero collegati solo ove vi siano condizioni particolari (la frustrazione prepara l’aggressività ma non la implica), ed è Leonard Berkowitz (1926-2016) che, con gli esperimenti ben noti degli «indizi aggressivi», rilevava il cosiddetto «effetto arma»: se nel campo è presente un oggetto che richiama aggressività, esso catturerà l’attenzione selettiva dell’osservatore che avrà non solo difficoltà a ricordare altri dettagli (problema dei falsi ricordi, molto rilevante nelle testimonianze e deposizioni processuali), ma sarà maggiormente predisposto all’uso della violenza. L’indizio aggressivo «arma», infatti, suggerisce il comportamento violento, finanche lo legittima, ed innesca una sequenza distruttiva, configurandosi come appiglio. L’esempio più lampante è costituito dai disordini pubblici e gli scontri che avvengono nel corso di manifestazioni in cui sono presenti forze dell’ordine dotate di armi, manganelli ed altri oggetti simili. Berkowitz aveva condotto un esperimento per avallare la sua teoria, e aveva evidenziato come i soggetti ignari, umiliati e derisi da un complice dello sperimentatore, tendevano ad infliggere più scosse, e più prolungate, al provocatore quando venivano a conoscenza che alcune armi, presenti nel campo di sperimentazione, appartenevano a costui.

La teoria degli indizi aggressivi è applicabile in Paesi quali gli Stati Uniti d’America, dove le armi possono essere acquistate, il nuovo presidente è favorevole al loro uso – in questo modo ampliando la motivazione dei cittadini a possederle se non altro per potersi difendere da altri che ne abbiano comprate – e non a caso nel Paese sono molto comuni le stragi nelle scuole generate dagli stessi studenti. In questo anche i media hanno un’elevata responsabilità, ma per dare atto di questo a breve mi soffermerò sugli studi di Bandura.

Intanto Dolf Zillmann pone un limite alla teoria dell’effetto arma, integrandola con l’evidenziazione dell’interpretazione tra arousal (eccitazione) ed aggressività: dopo le provocazioni i soggetti compivano attività fisica su una cyclette, e coloro che subito dopo il termine dell’esercizio fisico potevano somministrare una scossa al provocatore erano meno aggressivi rispetto ai soggetti che attendevano 6 minuti. Ciò perché questi ultimi non potevano più attribuire l’arousal allo sforzo fisico, e dovendo scaricare la tensione accumulata la riversano nel comportamento aggressivo. Diversamente accadeva ai primi. L’attribuzione della frustrazione ad una motivazione, diceva Zillmann, arresta l’aggressività.
L’aggressività per Seneca era follia, per i greci coraggio in battaglia, Thomas Hobbes (1588-1679) parlava di un uomo «homini lupus», mentre Friedrich Nietzsche (1844-1900) dava solo al Super Uomo la capacità di canalizzarla. Per i comportamentisti, l’aggressività è frutto di condizionamento operante (derivato dagli studi di Ivan Pavlov) in cui il rinforzo è dato dalle condizioni vantaggiose del comportamento aggressivo, mentre per i cognitivisti parla Albert Bandura (1925).

Lo psicologo canadese, nell’ambito dei suoi studi sulla «agenticità umana», considera il «modellamento per imitazione» come meccanismo di base per l’aggressività. Dal 1960, con le psicologhe Dorothea e Sheila Ross della Stanford University, condusse una serie di esperimenti sugli effetti che la visione di un soggetto violento in azione può esercitare sugli osservatori: sono i famosi «Bobo Doll Experiments», gli esperimenti con la bambola Bobo. Lo psicologo divise dei bambini di età prescolare in tre gruppi di bambini in età prescolare;  nel primo inserì un proprio collaboratore con il compito di mostrarsi aggressivo nei confronti del pupazzo gonfiabile Bobo. L’adulto picchiava il pupazzo con un martello gridando: «Picchialo sul naso!» e «Pum pum!». Nel secondo gruppo, quello di confronto, il collaboratore giocava con le costruzioni di legno senza manifestare aggressività nei confronti di Bobo. Nel terzo gruppo, quello di controllo, i bambini giocavano da soli, senza alcun adulto con funzione di modello. Successivamente i bambini venivano condotti in un’altra stanza nella quale erano presenti giochi neutri come peluche e modellini di camion, e giochi aggressivi quali fucili, una palla con una faccia dipinta legata ad una corda, e lo stesso Bobo. I bambini del primo gruppo manifestavano un’incidenza maggiore di comportamenti aggressivi rispetto a quelli che avevano visto il modello pacifico e a quelli che avevano giocato da soli. Ossia: l’aggressività si impara. C’è un modello che influenza gli altri. Tali esperimento portarono a conclusioni molto operative nell’ambito deggli effetti della TV sui bambini stessi. E non solo. Ciò dimostra come in un Paese nel quale le armi sono a portata di mano e la televisione propini modelli di violenza continui sia più facile una tornata di «effetto arma» e modellamento stile Bobo. I media italiani non aiutano: i dati lo dimostrano. Inutile rinchiudersi nella torre costituzionale della responsabilità penale personale: non è così. In molti casi, tale responsabilità è dell’intera società.

Nel metodo: sulla frustrazione a stessa seduta di psicoterapia/psicoanalisi si presta ad esserne fonte: il tempo limitato, il distacco dello psicanalista, il fatto di doverlo dividere con gli altri pazienti e, in particolar modo, il pagamento. Un terapeuta di approccio cognitivo-comportamentale mira a sviluppare nel soggetto un riapprendimento, dopo aver valutato quale apprednimento è stato generato dalla sperimentazione della frustrazione da parte del paziente, e come si è modificato il suo comportamento. Un utile test è l’inventario dei meccanismi di difesa, ma sono sempre validi il Rorschach, noto test di interpretazione di macchie, e il Tat (Test di appercezione tematica) di Henry Murray, che porta all’interpretazione di 31 immagini tra foto, riproduzioni, quadri, illustrazioni.  (Romina Ciuffa)