AMBASCIATORE CELSO AMORIM: BRASILE, DAL MEDIORENTE ALL’EUROPA PASSANDO COME MINISTRO DI FRANCO, LULA E DILMA

Uno degli uomini che ha fatto la storia del Brasile: proveniente da Santos (San Paolo), ma residente a Rio de Janeiro, Copacabana, una carriera prima accademica come professore di lingua portoghese per l’Istituto Rio Branco e di Scienze politiche e relazioni internazionali per l’Università di Brasilia, oltre che membro dell’area Affari internazionali dell’Istituto di Studi avanzati dell’Università di San Paolo; quindi una carriera cinematografica che lo porta a capo dell’Embrafilme, impresa statale, come direttore generale, ma anche cineasta; è però chiamato, e per due volte, a svolgere l’incarico di ministro degli Esteri: dieci anni, di cui due sotto il presidente Itamar Franco, otto sotto «Lula». Quindi ministro della Difesa con Dilma Rousseff, ed ambasciatore. Oltre che scrittore (tre libri: «Conversa com jovens diplomatas» (2011), «Breves narrativas diplomáticas» (2013), e l’ultimo, recentissimo «Teerã, Ramalá e Doha – Memórias da Política Externa Ativa e Altiva» (2015), ha ricevuto il premio «Bravo Business» dalla rivista «Latin Trade» nella categoria «leader innovativo dell’anno» ed è stato definito da David Rothkopf, sulla rivista americana «Foreign Policy», il «miglior ministro del mondo». È Celso Amorim.

Domanda. Se fossi una studentessa di diplomazia, come mi insegnerebbe le relazioni internazionali?
Risposta. Direi innanzitutto di leggere i miei libri, perché in essi ho definito le priorità della politica estera brasiliana negli anni in cui sono stato ministro, soprattutto quelli in cui ho ricoperto tale incarico per il presidente Lula. Parlo delle relazioni del Brasile con l’America del Sud, ma anche con altri Paesi in via di sviluppo come l’India, il Sud Africa, della creazione del gruppo dell’Ibas, del Brics, dei rapporti del Brasile con i Paesi arabi, delle nostre iniziative o partecipazioni ad iniziative relative al Medioriente, del programma nucleare iraniano, in generale di tutti i temi più rilevanti quali le relazioni commerciali globali nell’ambito dell’Omc, l’Organizzazione mondiale del commercio, in cui il Brasile ha avuto un ruolo predominante soprattutto in un certo periodo di tempo. È tutto scritto lì.

D. È uscito di recente il suo ultimo libro, «Teerã, Ramalá e Doha: Memórias da Política Externa Ativa e Altiva» («Teheran, Ramallah e Doha: memorie della politica esterna attiva ed alta», dove «altiva» è sinonimo di elevatezza).
R. È diviso in tre parti, ossia tre racconti diplomatici. Il primo è incentrato sulla Dichiarazione di Teheran del 17 maggio 2010 attraverso la quale Brasile e Turchia si sono resi protagonisti dell’accordo con l’Iran per lo scambio di uranio in relazione al programma nucleare, rispondendo ad una sollecitazione iniziale dei Paesi occidentali. Il secondo riguarda Ramalà, un simbolo per indicare il nostro avvicinamento ai Paesi mediorientali e principalmente arabi, ma anche la partecipazione ad iniziative legate alla pace tra Palestina e Israele insieme al riconoscimento, da parte del Brasile, dello Stato palestinese; da cui il titolo «Ramalà», che vuole essere una sintesi di questo procedimento, giacché è Gerusalemme ad esser considerata la capitale, non Ramalà, che invece è la sede amministrativa del Governo palestinese. Il terzo racconto riguarda Doha, la terza capitale del Medioriente, con la quale il Brasile ha rapporti commerciali molto intensi ed io particolarmente ne sono stato molto coinvolto durante i miei incarichi governativi. Nel caso di Doha inizialmente ero ambasciatore del Brasile nell’Omc, poi ministro degli Affari esteri ma anche capo delle delegazioni brasiliane nelle relazioni commerciali. Uno dei passi più significativi della Dichiarazione di Doha che fece partire le negoziazioni era stata la Dichiarazione sulla proprietà intellettuale e la salute, la quale concesse flessibilità ai Paesi in via di sviluppo per la produzione di medicine generiche, e riuscimmo ad ottenere un abbassamento dei prezzi per malattie come Aids, tubercolosi, malaria ed altre; partecipai alle varie trattative in tema di sussidi agricoli ed altre questioni di interesse del Brasile e di altri Paesi, e creammo a quel tempo un G20, differente da quello dei leader, che ebbe molta influenza nelle negoziazioni che, se prima erano incentrate solo sui Paesi ricchi, divennero appannaggio anche dei Paesi in via di sviluppo. In generale i tre temi del mio libro costituiscono la sintesi di ciò che un Paese definito emergente è riuscito a fare in otto anni di Governo. L’unico tema veramente importante che non ho inserito in questo libro è l’America Latina, invece presente in altri libri che ho scritto sul Sud America.

D. Cosa pensa della situazione che oggi vede il Medioriente protagonista nella scena globale e, soprattutto, occidentale?
R. È una situazione molto complessa. Oggi il grande tema è, senza dubbio, quello della Siria e dello Stato islamico. Credo che il lato positivo sia nella sopravvenuta consapevolezza che per la negoziazione sia necessaria la presenza di tutti gli attori principali per l’accordo nucleare con l’Iran, includendo l’Iran stesso: il fatto che ci sia un dialogo è una cosa nuova. La questione mediorentale è anche legata a quella dell’immigrazione verso l’Europa, pertanto è un tema che ha ripercussione sugli europei, ma ciò che spesso le persone dimenticano è che assume centralità la questione della Palestina e che la non-soluzione del problema palestinese finisce per generare frustrazioni e risentimenti che producono situazioni come quella che stiamo vivendo ora. Ovviamente è un problema complesso che non può essere ridotto a unità, ma indubbiamente si è andato generando un sentimento di alienazione in gran parte dei cittadini degli Stati arabi e di quegli arabi che sono residenti in Europa, ciò causando le conseguenze che ben conosciamo.

D. Il presidente Dilma Rousseff aveva dichiarato di esser pronta ad accogliere, in Brasile, i rifugiati provenienti dall’Europa e dai Paesi dai quali fuggono, generando anche delle polemiche a riguardo.
R. Il Brasile ha una tradizione di accoglienza, anche prima degli attacchi di Parigi eravamo flessibili rispetto all’entrata di rifugiati in particolar modo provenienti dalla Siria. Il nostro è un Paese di immigrazione, che ha, tra siriani e libanesi, probabilmente 10 milioni di residenti. Abbiamo sempre accolto rifugiati, siano politici siano economici, come, nel caso europeo, spagnoli, portoghesi, italiani ed altri.

D. Discorso a parte merita il caso Battisti, condannato con sentenza passata in giudicato per 4 omicidi a due ergastoli; problema di differente natura quello della sua estradizione, che però in comune con il tema «accoglienza» riguarda la presenza di un europeo, nel qual caso italiano, in Brasile, con decisioni di natura più diplomatica che politica.
R. Credo di non dover entrare nel merito di questa questione, ma ritengo necessario rispettare le decisioni sovrane di un Paese.

D. Il Governo Dilma è contrario alla nomina di Dani Dayan, ex capo dei coloni nei territori della West Bank, come ambasciatore israeliano a Brasilia; e soprattutto ha dato luogo ad incidente diplomatico il fatto che, prima di comunicare il nome per i canali ufficiali, ciò sia stato reso pubblico tramite Twitter. Come esperto di diplomazia, cosa ne pensa?
R. Non rappresento più il Governo oggi, e parlo solo in base ad una mia personale analisi: credo che la reazione brasiliana sia stata corretta, il Brasile fino ad oggi non ha comunicato una decisione, ma in ambito diplomatico l’attesa di una risposta equivale ad una risposta negativa, in questo caso per due ragioni: una di forma e l’altra di contenuto. Quella di forma è importante quanto quella di contenuto in questa fattispecie; infatti, non sono state seguite le normali procedure, ossia il post su Twitter ha preceduto una richiesta confidenziale da parte dell’autorità competente, e con un aggravante: Dayan non è un ambasciatore qualunque, in quanto è stato il leader degli insediamenti israeliani in Palestina, dunque espressione di una politica che il Governo brasiliano condanna. In realtà, credo che questa non sia stata solo una «gaffe» diplomatica, bensì una mossa israeliana avente l’intento di collocarci all’interno di un «fatto consumato», e anche se indirettamente il Brasile si troverebbe ad accettare la posizione israeliana sulla Palestina, senza rispettare l’Accordo di Oslo: di questo passo la stessa idea di uno Stato palestinese comincerebbe ad essere utopia, e questo non è concepibile. Credo che il Governo brasiliano abbia agito correttamente tanto per la forma, quanto per la sostanza politica, ossia per ciò che rappresenta tale atto. Non si tratta di un ambasciatore appartenente all’opposizione, o che semplicemente abbia idee differenti dalle nostre: si tratta piuttosto di una questione centrale per la soluzione del problema mediorientale.

D. E dell’umanità.
R. Il punto dell’umanità è centrale: avevo sul mio tavolo durante il mio ministero, ed ho messo nella copertina di un mio libro, una mappa del 1511 fatta da un cartografo italiano che rappresentava Betlemme al centro del mondo, per la nascita di Gesù.

D. Può raccontare la sua politica estera e la sua visione ad un non brasiliano?
R. Sono stato ministro degli Esteri due volte, la prima con il presidente Itamar Franco, la seconda con il presidente «Lula»; successivamente, con il presidente Dilma, sono stato ministro della Difesa. La mia visione del Brasile, e non tutti devono essere d’accordo con me, è che il Brasile è un Paese che sta crescendo e tentando di affermare il proprio posto nel mondo; nel contempo il mondo sta cambiando e questi cambiamenti generano opportunità di una maggiore presenza brasiliana. Non siamo più nella bipolarità della Guerra Fredda, né nell’unipolarità dell’immediato dopoguerra: è un mondo più diversificato, più «multipolare», mi piace definirlo. Credo che il Brasile, anche unito al Sud America e ad altri Paesi emergenti, può costituire un polo di questa nuova configurazione. A mio avviso il fatto che vi siano vari poli di potere è salutare: dobbiamo e possiamo contribuire. Credo che, attraverso l’integrazione sudamericana, attraverso la cooperazione con altri Paesi emergenti, attraverso la formazione di gruppi come l’Ibas, ossia India, Brasile e Africa del Sud, o il Brics, ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, attraverso l’avvicinamento ai Paesi arabi e il mantenimento di buoni rapporti con l’Europa e gli Usa, attraverso tutte queste azioni la politica estera brasiliana negli ultimi anni sia riuscita a contribuire ad un mondo che dia più opportunità e nel quale vi sia meno egemonia. Non è un processo rapido: la storia delle relazioni internazionali non si misura per anni o decadi, ma a volte per secoli. È però un piccolo impulso in una certa direzione che ci sembra migliore, quella di un mondo multipolare che segua norme internazionali e più giuste. La definizione di «giusto» può variare da Paese a Paese, ma vogliamo norme più equilibrate che trasformino l’uso della forza, soprattutto quello unilaterale come è avvenuto in Irak e in Libia, e lo rendano sempre meno frequente.

D. Possiamo dire che oggi il Brasile è più ricco?
R. Economicamente, possiamo dire che è più ricco se prendiamo un periodo di almeno venti anni, se non quaranta. Negli ultimi dieci anni stiamo vivendo una recessione, ma ciò accade, è un momento difficile per il mondo intero. Il Brasile è riuscito ad evitare che questa crisi, iniziata nel 2009, lo colpisse in maniera profonda, ma adesso è giunta anche da noi e dobbiamo affrontarla, è il momento di dimostrare la nostra resilienza, la capacità di adattarci e cambiare nonostante gli ostacoli. Ci riusciremo, perché il Brasile, da quando sono una persona adulta, è riuscito a vincere tre grandi ostacoli: il primo è stato l’autoritarismo, la politica della dittatura militare; il secondo, quello dell’instabilità economica, l’inflazione per quasi 50 anni; il terzo, ancora in corso, quello della riduzione delle diseguaglianze. Il Brasile non è un Paese povero, bensì di reddito medio nell’insieme, ma è un Paese molto «disuguale»; questa disuguaglianza sta diminuendo molto soprattutto con i Governi di Lula e Dilma. Con Lula si notò in misura maggiore in quanto era quella un’epoca di grande sviluppo economico, ma il processo continua. Sì, il popolo brasiliano è più ricco, perché un maggior numero di persone partecipano al mercato, arrivano all’università, per tale ragione hanno accesso a impieghi migliori, e questo è il cambiamento più grande.

D. Cosa pensa dei grandi eventi che si sono tenuti e che si stanno ancora per tenere, dalla Giornata mondiale dei giovani che ha portato il Papa a Rio de Janeiro, ai Mondiali di calcio del 2014 fino alle Olimpiadi che stiamo aspettando per giugno? Essi non sono stati per i brasiliani anche un grande problema sotto molti punti di vista, come hanno dimostrato le rivolte chiamate «O gigante acordou»?
R. Non li vedo come un grande problema. Credo che la maggioranza dei brasiliani è stata felice di ospitare questi eventi, e li ha apprezzati. È chiaro che è sempre possibile muovere critiche, come questa: perché spendere soldi per uno stadio anziché per un ospedale? Le cose non sono in realtà escludentisi, abbiamo portato gente, turisti, mercato, e se a Rio, dove io risiedo, oggi vedo molti più stranieri che nel passato è per questi motivi. Ci sono anche molti più turisti brasiliani. Curiosamente non molti italiani: più francesi e tedeschi. Forse perché, essendo gli italiani molto simili ai brasiliani, non è facile distinguerli bene. Credo che tali eventi abbiano contribuito a riprogettare il Brasile, è una cosa eccezionale per qualunque Paese: in circa sei anni la visita del Papa, la Coppa del Mondo e le Olimpiadi. È anche incredibile che il Brasile, per essere scelto come ospite delle Olimpiadi, ha gareggiato con gli Usa, con Madrid e con Tokyo, tre Paesi del G7. Ed è stato scelto, probabilmente perché possiede questo potere di attrattiva che gli americani definiscono «soft power». Ma esso non basta: sono stato ministro della Difesa e so bene che per poter usare il «soft power» è necessario avere una base di «hard power».

D. Come si difende il Brasile?
R. Abbiamo 17 mila chilometri di frontiere con altri Paesi, 10 vicini, e non abbiamo una guerra con alcuno di essi da 150 anni: è sintomo di una diplomazia capace. Abbiamo 8 mila chilometri di litorale marittimo, e anche questo richiede buoni strumenti difensivi oltre che diplomatici, parte di una grande strategia.

D. Come vede l’Italia, dal punto di vista di un brasiliano, di un uomo politico e diplomatico, e delle varie persone che lei è?
R. Come brasiliano e come umanista, l’Italia è un Paese formidabile. Ripeto sempre che uno degli elementi della mia formazione è stato il cinema italiano dell’epoca del Neorealismo, per le lezioni che da esso ho appreso non solo di cinema, del quale sono appassionato, ma anche di umanesimo, insegnamenti sui valori umani. Questo è straordinario. Per non parlare dell’arte. Come uomo politico, vedo che l’Italia e il Brasile hanno molti punti in comune: il modo di guardare ad esempio. Vedo che l’Italia, anche in situazioni molto complesse come quella irachena, ha una posizione più moderata ma, a differenza del Brasile, è membro della Nato. Il Brasile non è membro di alcuna alleanza militare, e questo già crea una differenza di prospettiva. Abbiamo altre differenze, che credo siano minori e normali, come nel caso della riforma del Consiglio di sicurezza o in questioni commerciali. Ho sempre ritenuto, comunque, l’Italia un Paese moderato, alla ricerca di soluzioni pacifiche; ciononostante, il fatto di essere membro della Nato crea, a mio avviso, alcune limitazioni. Sto parlando come persona indipendente, in quanto oggi non appartengo ad alcun Governo e ciò mi dà modo di fare queste dichiarazioni: credo che l’Italia non avrebbe partecipato, di per sé, all’attacco in Libia, come è accaduto. Ha partecipato in ragione dell’alleanza con la Francia, l’Inghilterra, gli Usa, e l’Italia, membro della Nato, ha dovuto prendervi parte. Come credo che avrebbe idee più moderate sull’Irak ed altre questioni. L’Italia è un Paese importante, e potrebbe avere un ruolo maggiore nel G20 internazionale, quello dei leader, rispetto a certi temi, anche politici o relativi alla pace e alla sicurezza. Credo anche che, nella questione dell’immigrazione, essa abbia una mentalità più aperta di molti altri Paesi europei, e ciò è un punto a favore dell’Italia. Il Brasile ora sta appoggiando la candidatura italiana per il Consiglio di sicurezza e ciò dimostra che, a prescindere dalle differenze, riconosciamo il valore e l’importanza di questo Paese.

D. Nota una differenza tra la diplomazia italiana e la diplomazia brasiliana?
R. Ogni diplomazia rispecchia naturalmente il popolo e la formazione. Il Brasile è un Paese in cui è presente una grande pluralità e tale elemento influenza e modifica il Brasile, che fortunatamente è fuori dai grandi conflitti mondiali, solo sfiorando la seconda guerra mondiale; l’Italia, invece, ha partecipato alle due guerre mondiali. L’Italia è un Paese ricco, il Brasile si sta sviluppando, e questo crea differenze che si riflettono nella diplomazia, ma non tanto nello stile. È molto facile e naturale il linguaggio di un diplomatico italiano, simile al nostro. Subiamo certamente il fascino italiano della cultura e della teoria politica, Machiavelli e Gramsci per citarne solo due, indispensabili.

D. Cosa farà nel futuro, dopo gli anni di Governo e i precedenti di cinema?
R. Ho tre figli che fanno cinema, una quarta che lavora in un’organizzazione internazionale. Il cinema lo lascio ai primi tre, io oggi resto uno spettatore.

D. Cosa la portò al cinema?
R. Studiavo ed ero appassionato di filosofia, e a quei tempi il cinema non era solo arte: in Brasile esso costituiva un vero e proprio strumento di cambiamento sociale, di trasformazione. Il cinema ha fatto sì che i paulisti e i carioca, gli abitanti di San Paolo e di Rio de Janeiro, conoscessero il «Nordest» del Brasile e la sua povertà, ad esempio. Anche la politica era molto legata al cinema. Entrai però nella carriera diplomatica che ho condotto, insieme all’essere ministro, per oltre 50 anni. Ora tengo lezioni, partecipo a conferenze alle quali sono invitato o commissioni, anche nell’ambito delle Nazioni Unite, su questioni legate a problemi globali di salute ma anche calcio, perche siamo sempre brasiliani; sono stato capo dell’Osservatorio elettorale dell’Oea, l’Organizzazione degli Stati americani ad Haiti. Un libro è costituito da una prefazione, una storia ed un epilogo: io mi trovo nella fase dell’epilogo, ho sempre lavorato per lo Stato e per organismi internazionali, ma non lavorerei, pur rispettandola, in un’impresa privata. Sono servitore dello Stato.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Marzo 2016




7 SETTEMBRE: L’INDIPENDENZA DEL BRASILE DAL PORTOGALLO LUNGO UN CAMMINO DI SCHIAVITÙ E SANGUE

Il 22 aprile del 1500 Pedro Alvares Cabral avvistò terra: era l’attuale Santa Cruz de Cabràlia, nello Stato nordestino di Bahia. Il Brasile non era affatto una meta accattivante: abitata da indigeni, e non v’erano dichiarati propositi colonialisti da parte degli europei, sebbene quel territorio fosse stato già spartito tra Spagna e Portogallo, ancor prima della sua scoperta ufficiale quando, con il trattato di Tordesillas (7 giugno 1494), i due iberici definivano la frontiera che divideva il continente brasiliano da Nord a Sud, dall’attuale stato di Parà fino alla città di Laguna (modificata in seguito con l’espansione portoghese ad Ovest). Allo sbarco di Cabral l’intento era mite: si intendeva popolare le Americhe ed usare le terre brasiliane come base per il commercio con le Indie, l’impresa di navigazione puntava sugli scambi con i prodotti locali. Era necessario capire come.

L’occupazione vera e propria inizia comunque, sebbene 32 anni dopo, con la fondazione nello Stato di San Paolo di Vila de São Vicente, che è nel guinnes dei primati come la «cidade mais velha do Brasil»: nel 1531 il re del Portogallo João III inviò in Brasile i coloni con Tomé de Sousa, primo governatore generale. I portoghesi trovarono un popolo ingenuo (che li accolse prima di doverli odiare) privo di organizzazione militare che poterono assoggettare con facilità più che con destrezza e, in base al vecchio Trattato di Tordesillas integrato da quello di Saragozza del 1529, il nuovo territorio entrò ufficialmente a far parte della zona d’espansione territoriale del Portogallo. Risale al 1533 la prima struttura politica ed amministrativa brasiliana, basata sulle «capitanias», come volle re João III, concessioni terriere di tipo feudale date dal sovrano a nobili che, in cambio di un tributo, ottenevano pieni poteri sulla terra; ciò però implicava anche indipendenza di interessi presso ogni capitanato (ve n’erano 12), che di fatto era una comunità separata dalle altre, per tale ragione non attenta al commercio e alla difesa del Paese dagli interessi stranieri. Il re ritenne, per ovviare a questa dispersione, di fondare un potere centrale, nominando un governatore generale: il 29 marzo 1549 fu fondata la capitale, Salvador.

Fu allora che l’accoglienza brasiliana si tradusse in ostilità e nel conflitto bianchi-neri: da una parte i portoghesi costringevano gli oriundi a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, dall’altra la tratta degli schiavi fece giungere dall’Africa più di 4 milioni di neri. Contro le barbarità i preti gesuiti costruirono «reducciones», villaggi di civilizzazione e difesa contro le razzie dei coloni portoghesi e spagnoli, in cui i missionari accoglievano i fuggiaschi ed insegnavano la fede cristiana. Intanto gli schiavi si rifugiavano nelle regioni dell’interno più inaccessibili dove si organizzavano in «quilombos», il più emblematico dei quali è il quilombo di Palmares – comunità autonoma, regno o repubblica secondo alcuni – che occupava una vasta area, grande quasi quanto il Portogallo, nella zona nordorientale del Brasile, tra gli odierni Stati dell’Alagoas e Pernambuco, e che arrivò a contare 30 mila abitanti. Ancora oggi questo quilombo è il simbolo della resistenza degli africani alla schiavitù, così come lo è Zumbi dos Palmares.

Quando giunsero le navi della Compagnia Olandese delle Indie Occidentali nel Pernambuco, fu destabilizzato il mercato della canna da zucchero e facilitata la fuga degli schiavi per contrastare il Portogallo. Ma l’Olanda riuscì a prendere solo la città di Olinda e fu proprio a Palmares che gli olandesi puntarono, nel 1644, per tentare un’alleanza antiportoghese: primo tentativo olandese di conquistare le terre brasiliane ad onta della bolla papale «Ea quae pro bono pacis» del 1506 e del Trattato di Tordesillas che la stessa proteggeva, secondo cui alle nazioni europee differenti da Portogallo e Spagna che conducevano esplorazioni era negato l’accesso alle nuove terre, lasciandosi loro unicamente opzioni come la pirateria. Francesi ed olandesi provarono ad insediarsi, saccheggiarono Bahia, addirittura i secondi conquistarono temporaneamente la capitale e dal 1630 al 1654 si stabilirono nel Nordeste fondando la colonia di Nuova Olanda, padroneggiando una lunga striscia della costa più accessibile dall’Europa e controllando l’interno. Ma dopo anni di guerra aperta con i portoghesi gli olandesi si ritirarono, nel 1661.

Nel 1678 il governatore della Capitania de Pernambuco, stanco del lungo conflitto col quilombo de Palmares, si riappacificò col leader di Palmares, Ganga Zumbi, ed offrì la libertà a tutti gli schiavi fuggitivi a condizione che il quilombo si sottomettesse all’autorità portoghese; la proposta venne accettata ma Zumbi, sospettoso e contrario ad accettare la libertà solo per il quilombo mentre gli altri neri del Brasile rimanevano in stato di schiavitù, spodestò Ganga Zumbi divenendo il nuovo leader di Palmares, che invece soccomberà ai portoghesi nel 1694, dopo 94 anni di esistenza. Zumbi, tradito e denunciato da un vecchio amico, sarà localizzato, catturato e decapitato a 40 anni, per divenire eroe e martire. Ma l’insofferenza contro il dominio europeo si era ormai diffusa, oltre che nei quilombos e tra gli oppressi, anche nelle élite creole – strati benestanti di popolazione nata in America da genitori europei, molti dei quali iberici – che la cultura illuministica e le rivoluzioni americana e francese influenzavano.

Il Brasile, un secolo più tardi, giunse all’indipendenza senza una vera e propria lotta di liberazione nazionale, senza un vero e proprio (finale) spargimento di sangue, bensì per una decisione della famiglia regnante. Infatti, nel 1807 Napoleone invase il Portogallo marciando su Lisbona e il principe (futuro Pedro I), scortato dall’esercito britannico che fornì la protezione navale al viaggio, fuggì in Brasile giungendo a Rio nel 1808 e proclamandola capitale del Regno Unito di Portogallo. Il Brasile aprì i propri porti ed escluse lo status di colonia, provocando le ire di molti; così nel 1821 il re decise di rientrare a Lisbona e di lasciare il figlio Pietro come reggente del Brasile. Quest’ultimo, nonostante le pressioni dei liberali per tornare in patria, rimase (nel cosiddetto «Dia do Fico», ossia giorno dell’«io resto») e il Portogallo non poté più dominare il Brasile. Pietro I, istituendo una monarchia costituzionale, ne dicharò l’indipendenza il 7 settembre 1822 al grido di «Indipendenza o morte!», sulle rive del fiume Ipiranga.

Nelle negoziazioni del Congresso di Vienna, al Brasile fu data inizialmente condizione di regno all’interno dello Stato portoghese. Il Portogallo assunse la denominazione ufficiale di Regno Unito di Portogallo, Brasile e Algarve il 16 dicembre del 1815 (Gazzetta di Rio de Janeiro del 10 gennaio 1816), status che venne perso il 29 agosto 1825 dopo la ratificazione del Trattato di Rio de Janeiro siglato alla fine della Guerra d’Indipendenza del Brasile.

Il reggente João VI diveniva Imperatore Titolare del Brasile de jure, e simultaneamente abdicava in favore del figlio Pedro de Alcântara (Pedro I do Brasil), giuridicamente allora Principe Reale di Portogallo, Brasile e Algarve, già imperatore de facto del Brasile: in questo modo, alla morte del padre, avrebbero potuto eventualmente unirsi le due corone. Il Brasile aveva intanto, simultaneamente, un imperatore e un re (1822-1826) e due imperatori (1825-1827). Nel 1831 il regno passò a soli 5 anni a Pietro II, che dopo 9 anni di reggenze fu acclamato imperatore nel 1840, a 14 anni. Il suo regnò durò fino al 1889, quando fu rovesciato da un colpo di Stato che istituì la repubblica. Nel 1888, dichiarò l’abolizione della schiavitù.    (ROMINA CIUFFA)

Il 7 settembre il Brasile celebra l’indipendenza dall’incubo lusitano: colonialismo, corte e schiavismo che non fecero bene a un Paese che Paese ancora non era, bensì una terra totalmente vergine dalle dinamiche europee di conquiste e ricchezza, a scapito di un territorio e di una popolazione accoglienti. È istituita festa nazionale ma, mutata mutandis, la giornata del 7 settembre non è, per la popolazione, motivo di festeggiamenti, bensì occasione di protesta mentre il presidente Dilma Rousseff, vestita di bianco e con la fascia presidenziale, sfila a bordo della Rolls Royce cabrio ufficiale in testa al corteo di Brasilia, alla presenza di circa 25 mila persone. E lancia alla popolazione un videomessaggio, che traduciamo interamente.

Non senza anticipare ciò che Dilma ha fatto: non ha parlato di nulla, ha spostato il baricentro delle responsabilità del Paese prima al di fuori del Paese stesso (la crisi internazionale, i drammi dei Paesi emergenti, i rifugiati sulle spiagge europee) addirittura cogliendo l’occasione per invitarli a recarsi in Brasile, ove saranno accolti (ma come?); quindi spostando il medesimo baricentro in una visione autoattribuente, con un locus of control interno del tipo «il problema è dentro di noi». In un discorso nel quale si fa retorica senza empatia e dove sono presenti molte ripetizioni e scarsa capacità linguistica e comunicativa, accompagnato, per di più, da stacchetti di forte impatto, stile Casa Bianca, che aprono ciascuno dei paragrafi in cui esso è stato distinto. «Casa verdeoro».

L’avvocato e politico Flavio Bierrenbach, per anni ministro del Tribunale militare, ha commentato altri discorsi della Rousseff: «Seguo la politica brasiliana attentamente da sempre. Ho già visto nella mia vita presidenti che sono buoni oratori, cattivi oratori, mediocri oratori: non ho avuto alcuna sopresa dinnanzi a quello che è quasi un caso di dislessia, incapacità di formulare un’idea con inizio, discorso e conclusione, incapacità di comunicare qualcosa. La presidentessa brasiliana non sa comunicare. Dovrebbe leggere. Risulterebbe più semplice, più intelligente per se stessa e per i suoi discorsi». Mentre, per lo storico Leandro Karnal: «Non è necessario sapere di tutto, o parlare di tutto: il silenzio è meglio in certi casi e crea un’utile illusione di conoscenza sullo spettatore».

La traduzione è effettuata senza apportare modifiche al discorso, mantenendo anche le ripetizioni. (ROMINA CIUFFA)

DILMA ROUSSEFF. «Cari brasiliani e brasiliane, voglio parlarvi oggi, 7 settembre, giorno dell’indipendenza del Brasile, come un momento per riflettere, parlare delle nostre preoccupazioni sul presente ed il futuro del Paese. È vero che attraversiamo una fase di difficoltà, affrontiamo problemi e sfide, e so che la mia responsabilità è quella di presentare percorsi e soluzioni per fare ciò che deve esser fatto. I problemi e le sfide derivano da un lungo periodo di azioni di un Governo che ha compreso di dover spendere ciò che è necessario per garantire impiego, continuità di investimento, programmi sociali. Dobbiamo ora rivalutare tutte queste misure e ridurre quelle che devono essere ridotte. I nostri problemi vengono anche da fuori, e nessuno che sia onesto può negarlo: è evidente che la situazione in molte parti del mondo si è nuovamente aggravata per la crisi internazionale, colpendo ora i Paesi emergenti, Paesi importanti, anche partner del Brasile. Il mondo, oltre a questo, affronta tragedie di natura umanitaria, come quella scioccante dei rifugiati che muoiono nelle spiagge europee mentre cercano rifugio dalla guerra. L’immagine di un bambino di appena tre anni ha commosso tutti noi e ci ha posto una grande sfida».

«Noi, il Brasile, siamo una nazione formata da popolazioni delle più diverse origini che qui vivono in pace. Anche nelle più grandi difficoltà, o in crisi come quella che stiamo attraversando, abbiamo le braccia aperte per accogliere i rifugiati. Colgo l’occasione, nel giorno di oggi, per rinnovare la nostra disponibilità ad accogliere coloro che, espulsi dalla propria patria, vogliano venire qui a vivere, lavorare e contribuire alla prosperità e alla pace del Brasile».

«Insisto: le difficoltà sono nostre, e sono superabili. Ciò che voglio dire, con tutta franchezza, è che stiamo attraversando sfide. È possibile commettere errori, ma li supereremo e andremo avanti. Ecco alcuni rimedi a questa situazione: è vero, sono amari, ma indispensabili. Le misure che stiamo adottando sono necessarie per risistemare la nostra casa, ridurre l’inflazione ad esempio, rafforzarci dinnanzi al mondo, e condurre il Brasile nel più breve tempo possibile alla ripresa della crescita. Possiamo e vogliamo essere esempio per il mondo, esempio di crescita economica e di valorizzazione delle persone. Lo sforzo di noi tutti è quello che ci porterà a superare questo momento. Io lo so. E so anche che l’unione intorno al nostro Paese e al nostro popolo è la forza capace di condurci lungo questo viaggio. È il momento, questo, in cui dobbiamo sorvolare le differenze minori e mettere in secondo piano gli interessi individuali o di parte. Mi sento pronta a condurre il Brasile sul cammino di un nuovo ciclo di crescita, ampliando le opportunità che il nostro popolo ha per andare avanti con più e migliori impieghi. Noi vogliamo un Paese con inflazione sotto controllo, interessi decrescenti, rendite e salari alti. Posso garantire che nessuna difficoltà mi farà rinunciare all’anima e al carattere del mio Governo, che consistono nell’assicurare, in questo Paese di grandi diversità, opportunità uguali per la nostra popolazione, senza battute d’arresto, senza retrocessioni».

«Noi siamo stati capaci di tirare fuori dalla miseria milioni di persone ed elevarne altri milioni ai canoni di consumo delle classi medie. Cresceremo di nuovo per avanzare ancor di più in questo cammino, costruendo un Brasile di lavoratori e imprenditori, di studenti, di esperti nell’agricoltura, nel commercio, nell’industria, nei servizi. Ma sappiamo che ancora manca molto per ottenere questo e perciò abbiamo bisogno di tornare a crescere, per portare, ad esempio, educazione di qualità a tutta la popolazione, dall’asilo al dottorato. Abbiamo esperienze vincenti e voglio contare su una grande vittoria: abbiamo appena vinto il primo posto nelle Olimpiadi mondiali della conoscenza tecnica, cui hanno partecipato 59 Paesi, molto forti nella formazione professionale come la Germania, la Corea del Sud, il Giappone, la Francia. La buona notizia è che l’84 per cento dei vincitori avevano fatto o stavano per fare il Pronatec (il Programma nazionale di accesso all’insegnamento tecnico e all’impiego, ndr), un accordo tra il Governo e il Senai (Servizio nazionale di apprendimento industriale, ndr), che conferisce borse di studio per la formazione tecnica, e vorrei sottolineare che la famiglia di uno dei vincitori della medaglia d’oro ha ricevuto anche la Bolsa Família, che gli ha consentito di accedere alle Olimpiadi».

«Cari brasiliani, care brasiliane, il giorno dell’indipendenza deve essere un momento di incontro del Brasile con se stesso, una celebrazione e un tributo che prestiamo agli eroi che hanno lottato per un Brasile forte, libero, indipendente. È in questo giorno che dobbiamo pensare che Paese vogliamo per noi e per i nostri figli e nipoti. È in questo giorno che onoriamo gli eroi dell’indipendenza, che rendiamo omaggio a tutti i brasiliani che hanno lottato e dato la propria vita affinché il nostro Paese restasse sempre libero dall’oppressione».

«È in questo giorno che riaffermiamo quello che una nazione e un popolo hanno di meglio: la capacità di lottare e la capacità di convivere con la diversità, tollerante nei confronti delle differenze, rispettoso nella difesa delle idee, e soprattutto ferma a difendere la miglior conquista raggiunta e che dobbiamo garantire permanentemente: la democrazia e l’adozione del voto popolare come metodo unico e legittimo di eleggere i nostri governanti e rappresentanti».

«L’indipendenza, cari brasiliani e brasiliane, accade ogni giorno nel Paese, nelle nostre case, nelle nostre famiglie, dentro ognuno di noi. È la forza nella nostra autostima come popolo e la certezza che i brasiliani sono ciò che il Brasile ha di meglio, con il nostro lavoro, la nostra unione, il nostro sforzo per mantenere le nostre famiglie e creare i nostri figli e nipoti, con l’allegria con cui passiamo i buoni momenti ed il coraggio con cui affrontiamo quelli brutti. Siamo tutti in lotta per l’indipendeza del Brasile. Oggi, più che mai, siamo tutti il Brasile».  (ROMINA CIUFFA)

In Italia quest’anno l’Ambasciata brasiliana, con sede a Roma nel Palazzo Pamphilj di Piazza Navona, ha invitato a festeggiare il 193esimo anniversario attraverso un ricevimento privato tenutosi l’8 settembre. Rioma lo ha documentato. L’ambasciatore Ricardo Neiva Tavares ha accolto, insieme alla moglie Cecilia, gli ospiti. Pur mancando un momento culturale, una tavola rotonda che spiegasse cosa sia l’indipendenza per un brasiliano, cosa è accaduto e come si è arrivati a quel 7 settembre in cui il re portoghese stesso ha liberato il Brasile dal Portogallo, l’evento è risultato, come ogni anno, il momento di incontro di moltissimi personaggi che ruotano intorno all’area verdeoro, intorno a caipirinha, pão de queijo, brigadeiros e beijinhos. Presente innanzitutto l’Ambasciatore del Portogallo in Italia, Manuel Lobo Antunes, accreditato anche presso l’Albania, Malta e la Repubblica di San Marino e, come Rappresentante permanente, presso le organizzazioni delle Nazioni Unite con sede a Roma (Fao, Ifad e Wfp/Pam). La sua partecipazione significa molto e infonde all’evento un afflato di storia e resurrezione.

L’apertura di Palazzo Pamphilj, appartenuto dal 1470 alla famiglia Pamphilj, completamente rinnovato dal Cardinale Giovanni Battista Pamphilj che, dal 1644, chiamò i più importanti artisti e architetti dell’epoca, come Bernini e Borromini per riprogettare l’intero isolato, è sempre un momento importante, che coniuga la storia, l’arte e l’architettura italiane con l’insediamento brasiliano: l’edificio infatti, ospita dal 1920 questa Ambasciata, ed è diventato una proprietà brasiliana nel 1961. (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Ottobre 2015




MAX DE TOMASSI: ECCO COME “CONDUCO” IL BRASILE DA CARDOSO A DILMA, DA GIL A CAETANO, DALLA ROCINHA A GAVEA

Schermata 2015-03-13 a 13.23.12di ROMINA CIUFFA

UNA CONVERSAZIONE TRA ROMINA CIUFFA E MAX DE TOMASSI SULLA NUOVA ERA BRASILIANA E L’EVOLUZIONE DEL BRASILE DEGLI ULTIMI 30 ANNI. Il padre gli regalò, per la maturità classica, un biglietto per il Brasile. Rimase 3 mesi a Rio de Janeiro. Durante la conduzione di un piccolo programma radiofonico a Roma, aveva già conosciuto la manager dei più grandi artisti brasiliani, che contattò una volta giunto a Rio; lei subito lo prese sotto la sua ala protettrice. Famosissima per essere stata la zia dei due rivoluzionari del movimento tropicalista, Gilberto Gil e Caetano Veloso, in quanto zia delle due cugine carnali che i cantanti sposarono, era conosciuta con il nome di Tia Léa, «zia Lea» appunto. Lui è Max De Tomassi, più unico che raro giornalista italiano specializzato nel verdeoro, esperto conduttore di «Brasil», programma di Radio Rai Uno a cura e per la regia di Danilo Gionta. Trasmissione nata nel 2001 quasi per scommessa, allora già in onda da tanti anni su altre emittenti, De Tomassi la propose alla Rai, e iniziò semplicemente coprendo lo spazio lasciato libero nel periodo estivo da un programma di satira. Per poi divenire il riferimento principale, per di più ad origine pubblica, della cultura brasiliana in Italia.

Schermata 2015-03-13 a 13.23.39Domanda. Il Brasile, per quanto grande, è una «nicchia». Come si spiega l’interesse della Rai a portare avanti una trasmissione come «Brasil»?
Risposta. Mi domando sempre qual è il fenomeno che fa sì che il nostro sia il programma musicale più ascoltato di Radio Uno, anche considerando che va in onda la notte della domenica solo a partire dalla mezzanotte, e che è un programma di nicchia all’interno di una programmazione musicale che copre i vari generi. Certo il Brasile propone una vastità di stili musicali di qualità encomiabile, e produce forse la musica più creativa del mondo. A livello di download e poadcast, ossia l’ascolto in streaming delle puntate, abbiamo cifre eclatanti, superiori a tanti programmi di Radio Uno pur essendo in onda solo una volta a settimana. Fino allo scorso anno andavamo in onda tutti i giorni con «Brasil – Suoni e culture dal mondo», ed avevamo alti numeri.

D. Prima del 2001, anno in cui iniziò la sua conduzione di «Brasil», era già coinvolto con la realtà brasiliana?
R. Non esattamente. Lavoravo nel mondo della comunicazione, avevo iniziato in tv nel 1985, ma fare televisione in Italia è difficile se non si appartiene a una certa lobby. Ho fatto il conduttore, il regista, l’autore, ho lavorato per 5 anni a Tele Montecarlo quando i brasiliani comprarono la rete, quindi altri 5 anni in una televisione tematica quando in Italia si cominciava ad andare sul satellite. La Telecom mise in piedi una struttura «stream» che poi venne venduta a Sky, lì realizzavo programmi di cultura, pur essendo assenti gli interlocutori di una televisione di spessore. La radio e la Rai mi hanno dato quello che ho sempre desiderato.

D. Quali sono i cambiamenti che ha percepito nel corso degli ultimi anni nei suoi molteplici viaggi in Brasile?
R. Solo quindici anni fa il Brasile era un Paese del terzo mondo, oggi è la quinta potenza mondiale: abbiamo un periodo storico temporale troppo limitato per poter individuare con esattezza questi cambiamenti. Ma il primo e più consistente è senz’altro l’arrivo al Governo di Fernando Henrique Cardoso, due volte presidente del Brasile dal 1995 al 2003, più sociologo che politico, il quale ha dato finalmente al Brasile gli strumenti per diventare un Paese progredito dal punto di vista sociale, economico e politico. L’ha fatto convincendo non la classe politica, ma i grandi proprietari terrieri e i ricchi del Brasile a guardare all’estero per guadagnare di più, attraverso l’esportazione o l’inclusione di partner stranieri. Giustificazione che ha permesso a un sociologo di operare affinché potesse avvenire un cambio sociale, realizzato poi in concreto dal presidente Lula con il Partido dos Trabalhadores (PT) nella prima decade del nuovo millennio attraverso le rivoluzioni sociali, le leggi ed altro messo in atto dalla corrente più a sinistra del mondo politico brasiliano, ma con gli strumenti già forniti da Cardoso.

Schermata 2015-03-13 a 13.24.31D. È Lula che ne ha preso i meriti?
R. Lula era un personaggio atteso da tantissimi anni, aveva avuto diverse candidature come presidente della Repubblica, e quando fu eletto in effetti le cose cambiarono; ma gran parte della spinta proveniva anche dalla nuova possibilità di dare ai brasiliani una dignità e un’indipendenza economica che prima non c’erano. Paradossalmente quello che gli imprenditori e i latifondisti si aspettavano era più un richiamo verso l’estero che una risorsa interna; le migliori risorse economiche non sono arrivate tanto dagli investimenti stranieri quanto dal maggior potere d’acquisto della società, mentre il valore del Real cresceva. Così il prodotto interno si è alzato.

D. Questo stesso meccanismo economico, unito ai fatti collegati ai megaeventi, ha però condotto a un innalzamento del costo della vita e, se le classi medie ne sono state toccate solo relativamente, il livello di povertà è aumentato insieme alla distanza creatasi tra i livelli più bassi della scala sociale e i benestanti, o coloro che hanno tratto vantaggio dalla crescita.
R. È chiaro che, una volta che il prodotto interno è schizzato in alto, è salito il costo della vita; ma credo che la povertà non si sia accresciuta, poiché anche le classi più povere hanno cominciato ad avere nuove e maggiori possibilità di lavoro. Con il consumismo immediatamente subentra la spirale del credito, e il guadagno concretizzato con contratti a tempo indeterminato o con occupazioni da libero professionista ha fornito una certa indipendenza economica e ha spinto a spendere; la rateizzazione ha fatto il resto, in larga misura responsabile di far spendere alla gente più di quanto non guadagnasse.

D. La rateizzazione del credito, molto in uso in Brasile tanto che nei negozi è più comune trovare i prezzi già divisi in rate che non il totale, creando l’illusione di un affare, non rischia in questi casi di essere un’arma a doppio taglio?
R. Non sono un consumista, e mi piacerebbe che tutti comprassero il minimo indispensabile perché sono convinto che la salute di una nazione e di un popolo non si misura da ciò che si produce né da ciò che viene venduto, bensì dal livello qualitativo della sanità, dell’istruzione, della cultura. Il meccanismo della parcellizzazione sulle carte di credito, che consente ai brasiliani di rateizzare il pagamento di qualunque cosa e che in Italia ancora non ha preso piede, porta l’inflazione e il consumismo a una versione «2.0», ossia aggiornata, ed io la considero una cosa intollerabile.

Schermata 2015-03-13 a 13.24.05D. Istruzione, cultura, sanità ed altro: è tutto molto carente ed è indubbiamente in questo che si misura il vero benessere di un popolo. Eppure il Brasile ha messo in primo piano investimenti di altro tipo, come turismo e megaeventi.
R.  Ma la classe politica meno abbiente ha usato la vetrina gigantesca che il campionato di calcio forniva per attuare dimostrazioni anche abbastanza eclatanti in piazza e reclamare quello che è giusto che il popolo brasiliano reclami, manifestando la necessità di avere un’economia meno frenetica e il desiderio di dare più attenzione alla sanità e al trasporto pubblico. Ricordiamo che il Brasile non ha una rete di trasporto interno su rotaia, ha esclusivamente una rete di trasporto aerea con le sue limitazioni, e su gomma, ma le strade non sono all’altezza delle nostre. L’intero Paese è esteso per 8 milioni e mezzo di chilometri quadrati, è quasi 30 volte l’Italia, è il quinto maggiore del mondo in estensione, ha 200 milioni di abitanti, è dunque una realtà gigantesca che da sola contiene il 22 per cento della terra coltivabile del pianeta, come fosse un immenso giardino dal quale il mondo riesce a cogliere l’alimentazione, quindi è un Paese che, dal punto di vista delle risorse, va trattato «con le pinze». E non parliamo di risorse economiche e tecnologiche, ma di quelle basilari. Il 12 per cento delle riserve di acqua dolce mondiale si trovano in Brasile: la prossima guerra non sarà quella sul petrolio, ma quella sull’acqua.

D. E il petrolio?
R. I brasiliani hanno scoperto il pre-sal, il più grande giacimento di petrolio che rende il Paese totalmente indipendente dal punto di vista energetico, con 600 chilometri di estensione a 2 mila metri di crosta salina sotto l’acqua. Solo grazie alla crescita del Paese sono riusciti a trovare internamente la tecnologia per bucare questo strato di sale ed arrivare ai giacimenti. Il petrolio poi è di una qualità eccellente.

D. Eppure il Paese si è rivoltato contro le «megaspese» per i megaeventi. È giusto investire quei capitali in questo modo, in questo momento?
R. Non riesco a capire se è giusto o sbagliato fare grandi investimenti sul Campionato mondiale di calcio o sulle Olimpiadi, perché non riesco a capire quale possa essere il volume di ritorno: questo potremo dirlo solo in seguito, quando sapremo se spendere soldi per gli stadi e non per gli ospedali o altro oggi possa innalzare le possibilità generali di domani.

D. Da tutto il mondo, l’Italia ai primi posti, c’è una migrazione verso il Brasile, non solo giovanili fughe ma veri e propri insediamenti societari. Conviene?
R. Italiani, inglesi, americani, australiani, giapponesi, cinesi, tutti. Il Brasile ha città gigantesche quali Rio e San Paolo, ma la densità di popolazione è bassa e aprire fabbriche e attività fuori dai centri urbani dal punto di vista strutturale è possibile, anche di fronte a costi di realizzazione molto bassi. Il Brasile continua ad essere un Paese abbastanza conveniente, è in città che i prezzi sono eccessivi.

D. C’è più lavoro in Brasile al momento, per i giovani brasiliani e italiani che non abbiano una base societaria?
R. Non so dirlo con esattezza, di certo il mondo delle professioni in Brasile è molto vasto, e le start up e le nuove iniziative sono sempre benvenute. Oltre a questo, secondo me si può contare sul fatto che il nostro è ancora adesso un Paese molto stimato dai brasiliani nonostante tutto quello che è successo in Italia, nonostante ciò che è stato fatto nell’attuale e nel passato Governo, nonostante i grandi equivoci che ci sono stati recentemente, un esempio per tutti il caso Battisti. Il Brasile continua a guardare con grande esterofilia molti Paesi del mondo, ma fra tutti l’Italia è particolarmente amata e forse sopravvalutata. Il made in Italy è sempre una garanzia.

D. Oggi è ancora più forte il collegamento tra Italia e Brasile, essendo il 2015 l’anno dell’Expo che si terrà in Italia su uno dei temi in cui il Brasile è tra i principali interlocutori mondiali: «Nutrire il pianeta, energia per la vita».
R. Il Brasile è il più grande produttore di soia e di arance del mondo grazie a questa immensa versatilità agricola, e non si può pensare al futuro del mondo senza pensare al futuro del Brasile.

Schermata 2015-03-13 a 13.24.53D. Lei è un esperto delle tematiche brasiliane, ma certamente tra le tante prevale la musica, quella di un Paese che ha pochi eguali, in fatto di gusto e notorietà, nel mondo. Come si è evoluto il mercato discografico nel tempo?
R. L’ho visto evolversi e decadere. Sono entrato in Brasile 33 anni fa, nel 1982, e si vendevano milioni di dischi. Il Brasile allora era il quinto mercato discografico mondiale. Adesso, con internet e YouTube, c’è una frammentazione del mercato musicale, ormai parliamo della vendita di «fonogrammi» non più sul supporto fisico ma su canali quali Spotify e piattaforme digitali, a volte il download è gratuito e sempre si ha la possibilità di guardare video online. Io non accetterei di «guardare una canzone» su YouTube.

D. Sembrerebbe un discorso elitario: le priorità sono mutevoli e al momento, o comunque non più come prima, non si spendono (o non si hanno) soldi per acquistare cd o tracce musicali se si ha l’alternativa gratuita.
R. La musica non può prescindere dal supporto per le informazioni e soprattutto per la qualità sonora, ma ora non siamo in grado di capire ciò che è meglio e ciò che è peggio, ciò che è giusto lasciare indietro e ciò che è giusto mantenere, è questa la grande incertezza umana che rispecchia il grande disorientamento sociale.

D. Il boom economico sperimentato dal Brasile ha contribuito al mercato discografico o ha concentrato la ricchezza solo su alcuni grandi nomi, anche considerata la costante tendenza brasiliana a mitizzare i propri grandi idoli, da Tom Jobim a Caetano Veloso e tutti gli altri?
R. A prescindere dalle vendite, il mercato musicale brasiliano adesso alla punta dell’iceberg non ha Caetano, Gilberto Gil o Chico Buarque de Hollanda, ma fenomeni diversi come la musica country, che è la maggiore venditrice di dischi, o altri generi musicali, i successi dell’estate, la musica usa e getta. Per fortuna, al contrario di quanto accade da noi che vediamo sparire i grandi autori e interpreti a favore dei reality, in Brasile c’è un WWF che difende i grandi autori in via d’estinzione.

Schermata 2015-03-13 a 13.25.30D. Quindi c’è spazio per il nuovo cantautorato e non solo per le interpretazioni dei grandi successi, cosa molto tipica in Brasile tanto da essere un «must» per chiunque faccia musica?
R. È anche vero che i grandi nomi della musica brasiliana continuano ad incidere e ad essere estremamente creativi, artisti come Ney Matogrosso che a più di 70 anni sperimentano ancora. Caetano Veloso potrebbe essere paragonato al nostro Gianni Morandi, ma quest’ultimo non ha mai fatto né fa la sperimentazione che fa Caetano. Quello di Mina, ad esempio, è un falso sperimentare, atipico e asettico, non essendo lei presente in prima persona nella sperimentazione. Un conto è ascoltare i nuovi autori, cosa che nessuno garantisce lei faccia davvero, un conto è confrontarsi, e lei è assente dalle scene. I brasiliani continuano ad essere i primi nella creatività anche perché sono aperti all’incontro anche casuale con i giovani, ai quali aprono molte strade.

D. Ha un’idea sulla pacificazione delle favelas operata dalle forze dell’ordine?
R. Non si può dire niente sulla pacificazione se non cose positive. Le favelas grazie alla pacificazione sono state rese più vivibili sia per coloro che le abitano, sia per coloro che vengono da fuori, fermo restando che stigmatizzo e non approvo l’atteggiamento dei turisti che prendono le favelas per zoo. Pensosamente, per comprare prodotti di cosmetica vado nelle favelas perché hanno un sistema di distribuzione più pratico rispetto ai negozi nel centro di Rio de Janeiro, mi trovo bene e pago con la carta di credito.

D. In quale favela in particolare?
R. La Rocinha.

D. Anche durante una semplice cena nella Rocinha, vedo in continuazione agenti armati, e le pattuglie passano con fucili spianati che escono da tutti i finestrini. Parlando personalmente con gli abitanti («moradores») della Rocinha, mi è stato da tutti riferito che da quando le unità di polizia pacificatrice (UPP) sono entrate nel territorio non si può più dormire con la porta aperta, i furti e le rapine sono all’ordine del giorno, la favela non è più sicura. Questo discorso è estendibile a tutte le altre comunità. Come giustifica questo e i numerosi e sanguinari scontri tra polizia e «moradores», non solo trafficanti, ma anche semplici residenti?
R. Non credo a una sola parola di quello che mi arriva, posso credere solo a ciò che vedo. Il dubbio è se la polizia brasiliana possa o meno difendere il diritto del cittadino. Sui social network si vedono video tragici in cui i poliziotti picchiano chiunque accomunandoli sotto il nome di delinquenti comuni. In generale diciamo che il Brasile, con le riforme sociali e con questo avanzamento economico, auspica un miglioramento dei servizi di sicurezza, della sanità e del trasporto, questo è il primo obiettivo.

D. Hanno sgombrato coattivamente le comunità, ossia le favelas, non dando alternative agli abitanti. È d’accordo?
R. Per carità, non è stata un’azione da elogiare, ma ci sarà stato un motivo per cui è stata compiuta, nella sua tragicità. Prendere una famiglia che ha una baracca, costruita con tanta sofferenza, e sradicarla da un posto solo perché da un punto di vista estetico non è elegante, è sbagliato; ma è pur vero che per la crescita in un Paese tanta gente si deve sacrificare, e i poveri sono quelli che cadono prima.

D. Uno dei quartieri più residenziali e ricchi di Rio de Janeiro è Gavea, che confina con la Rocinha trattandosi di una collina colonizzata in un lato dalla favela, nell’altro dalla città. È plausibile che Gavea via via si estenda dall’altro lato e si residenzializzi, sgomberandola, la Rocinha?
R. In realtà il procedimento è stato inverso: negli anni 90 le casupole della Rocinha erano appena sul cucuzzolo della montagna, adesso stanno scendendo e si stanno espandendo.    (Romina Ciuffa)

 

Anche su Specchio Economico – Marzo 2015
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