NEW YORK. WELCOME BACK HOME, CARO DISADATTATO DI MAMMA TUA

New York, novembre 2005. Cosa succede a chi, dopo un periodo vissuto negli Stati Uniti, si ritrova per caso a passare per l’Italia? Numero uno: il primo impatto è meramente visivo, dove la storia e la bellezza si lanciano senza paracadute sugli occhi ormai disabituati dell’italiano e gli dedicano un suggestivo bentornato a casa con un odore di pini, foglie e griglia. In quel momento l’italiano sente di voler tornare il prima possibile e restare, perché l’America tutto ha fuorché questo, e non ha nemmeno l’autista del taxi accanto che ti strepita nelle orecchie e l’odore del cappuccino la mattina presto. Sente di voler tornare perché gli manca tutto, ora che ci pensa.

Ora che ci pensa gli manca la sua lurida palestra (niente a che vedere con quell’incredibile edificio aperto 24 ore su 24 che ospita campi da tennis, da golf, piscina, beach volley e ogni tipo di sport e di personal training); gli manca la sua vecchia macchina (niente a che vedere con i trasporti ineccepibili che permettono di trovarsi in un attimo nella zona opposta della città senza ricevere improperi, clacsonate o multe); gli manca anche la sua mamma (niente a che vedere con le madri americane che, sull’onda del vivi e lascia vivere, si occupano dei propri figli solo per organizzare il tacchino del ringraziamento). Ci pensa e ci ripensa, e intanto si ritrova a casa. Questo piccolo edificio (nulla a che vedere con il grande grattacielo che sovrasta la propria americana abitazione); un ascensore lento (nulla a che vedere con il rapporto un minuto-cinquanta piani); e un bagno con bidet (quello proprio mancava). Si sdraia un momento per riposare, ma è impossibile dormire.

Allora esce. Una passeggiata in centro, un aperitivo, qualche amico e conoscente, troppa vodka. Improvvisamente, numero due: non sa di cosa parlare. Si accorge, in un attimo, che gli argomenti di conversazione sono totalmente diversi. Era abituato a dire che gli americani sono insensibili e superficiali. È ancora vero (e lo sarà sempre): ma di cosa parlare, ora, con gli amici di sempre? Che sono sensibili, sì, e per niente superficiali, ma troppe cose sono cambiate dalla sua partenza, e ora si è abituato alla solitudine, all’isolamento, a pensare per sé con mille Dii diversi, a pensare per tutti, compreso quello Denaro. Non c’è nulla da dire. Incalliti, tutti gli italiani fumano le loro sigarette e lui, di passaggio, ha smesso. Gli andrebbe di fumarne una, insieme a quel whisky invecchiato, ma non ci dice proprio niente. E così la sua nevrosi la deve affondare con qualcos’altro che ancora gli sfugge. Per ora nulla, un po’ di pazienza e la cena è finita. Niente tassazione in più sul prezzo di base, né soprattutto alcuna mancia dovuta. Il prezzo è davvero quello scritto sul menù: stenta a crederci l’italiano ormai abituato a spendere, e con una sottile soddisfazione si alza e va via.

Il numero due non è stato piacevole, come impatto. Non sapere cosa dire a casa propria e trovare un mondo immutato non è il massimo per chi è abituato a vedere il mondo girare in miglia anziché in chilometri. Numero tre: dopo i due sorrisi e abbracci ricevuti, un po’ come fusa da gatti che devono ancora mangiare, è già normale riaverlo attorno e, in fondo, la vita deve continuare. Così le feste iniziali e le code scodinzolanti si trasformano nella pretesa di poterlo infilare in ogni ritaglio di tempo libero come se si trattasse di un dovere. Ma l’impatto numero quattro è ancora peggiore: qualcuno comincia ad avercela con lui, chi per un motivo, chi per un altro. Non è cambiato davvero nulla, ma in America lui ha appreso a badare a sé e a non dover dare spiegazioni relative alla propria vita. L’America l’ha cambiato cosí come ha cambiato milioni di immigrati. Non può piú stare a sentire altri consigliare e giudicare la sua vita, soprattutto quando sono spariti da tempo o non sanno nulla di come l’America funziona e influenza il carattere. Non ha più voglia di provincialismi, di visioni limitate, non ha più voglia di ripicche o sensi di colpa. Quel continente, a sole otto ore di distanza, insegna a vivere ognuno la propria vita senza voltarsi mai indietro, insegna l’individualismo e il valore delle responsabilità. L’Italia insegna solamente a coltivare patate, a vivere in casa dei genitori e mangiare pizza. L’America forse non insegna a suonare il mandolino, ma di certo a crescere.

Un italiano non avrà mai la stessa età di un americano che porta la macchina a sedici anni, cede la propria verginità al ballo di fine anno e può entrare nei locali e comprare sigarette a 21. Non l’avrà mai perché ha già avuto il motorino, sa di essere il più grande amatore del mondo e nessuno gli domanderà mai un documento di fronte a una birra. Non l’avrà mai, perché pranzerà sempre con gli spaghetti fatti da nonna, non metterà una lira che sia sudata nella propria macchina e nel proprio affitto, e non troverà mai lavoro perché il sistema non lo vorrà, o il pessimismo che gli sarà stato inculcato non glielo permetterà. L’americano è insensibile, gli rimbalzano come squash le emozioni e durano pochi secondi, ha imparato a non soffrire e non soffre perché è nato solo pochi anni fa, ma non si lamenta, non si piange addosso, non fa il vittimista e lavora senza interruzione per costruire il proprio futuro ma, soprattutto, il presente. Il quarto impatto, allora, è la pressione.

Il quinto è il crollo della comunicazione che, ormai, è divenuta fittizia, mendace. Litri di inchiostro buttati sui giornali per parlare di nulla, tutto è politica, tutto è Berlusconi ed elezioni, tutto sfida e potere ai danni del cittadino, con pochi canali e un abbonamento inutile da pagare. Spegne la tv, l’italiano, in questo momento, e comincia a rimirare il proprio biglietto di ritorno per accertarsi a che ora parte il suo volo, e mancano ancora alcuni giorni, troppe ore ancora senza dormire, in balia del provincialismo e degli scaricabarile. Tanto aveva atteso questa partenza perché sua nonna, i suoi genitori, la sua fidanzata gli mancavano, e il Colosseo, e fontane che danno vino, e il bel tempo del Bel Paese, e la pasta al dente e le trattorie e il ballo del mattone. Poi, in valigia qualche buon vino, arrivato all’aeroporto dove non c’è wireless per il suo computer, attende la chiamata dell’aereo. Sa che tornerà presto in Italia perché la sua palestra, comunque, gli manca ancora. Ma non appena monta sul suo volo, dorme fino a che non si ritrova di nuovo, finalmente, completamente, e felicemente solo. (ROMINA CIUFFA)

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