NON BASTA INFORMARE: È LA PSICOLOGIA AD INCORAGGIARE I COMPORTAMENTI ECOLOGICI

«Una persona sana di mente non preferirà mai la vista di un cumulo di foglie morte a quella dell’albero da cui sono cadute», scriveva nel 1985 il filosofo e psicologo Edward O. Wilson, teorico della biofilia, ossia la tendenza umana verso la natura. Da quest’ultima l’uomo proviene e a quest’ultima accede attraverso comportamenti differenziali che possono proteggere l’ambiente o indebolirlo, se non deformarlo o distruggerlo.

Il rapporto uomo-natura è l’oggetto di studio degli psicologi ambientali soprattutto in ragione delle distorsioni che l’hanno viziato e che hanno condotto al deterioramento di entrambe le parti dell’equazione ecologica: la natura, che vive una situazione di estrema emergenza causata dall’errore antropocentrico, e l’uomo, la cui qualità della vita si è ridotta, in quanto strettamente collegata alla qualità dell’ambiente e, attraverso di essa, alla qualità dello sviluppo economico.

Alla base del difficile e conflittuale rapporto tra uomo e ambiente stanno il diverso modo di funzionare del «tecnosistema» umano – in particolare di quello economico – in relazione con l’ecosistema, e la tendenza delle società industrializzate ad affrontare la natura come sfida ambientale e non come dimensione entro cui adattarsi. Affrontare la crisi ecologica impone innanzitutto di scoprirne le fondamenta: infatti, la crisi ecologica si profila sostanzialmente quale crisi del rapporto fra il mondo naturale e il mondo umano, segno di un equilibrio distrutto. La delicata situazione presente sottolinea la necessità di tornare a far proprio il concetto di «limite», perché quello adottato sino ad oggi non è l’unico modo possibile di vivere, si offrono anche percorsi diversi: al centro della questione vanno ricondotti l’uomo e lo stile di vita che ha deciso di adottare.

La perdita di biodiversità è frutto di scelte indipendenti di miliardi d’individui che fanno uso di risorse e servizi ecologici: il comportamento umano deve essere guidato nel senso di uno sviluppo sostenibile che, lungi dal costituire una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento che mette l’una di fronte all’altra le generazioni. Il punto di partenza della progressiva presa di coscienza ecologica è l’avvio del programma dell’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, le Scienze e la Cultura, denominato Mab ossia «Man and Biosphere», varato agli inizi degli anni Settanta, un osservatorio privilegiato per affrontare con mezzi e competenze adeguati i diversi problemi dell’ecosistema: nel binomio uomo-biosfera, l’uomo è proposto al centro della Terra come elemento centrale e attivo nei processi bioecologici, e il sistema ecologico è la nuova unità di analisi.

Nel 1987 il concetto di sostenibilità fu lanciato per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica e degli studiosi dal rapporto Brundtland, conosciuto anche come «Our Common Future», della Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo; esso è divenuto un obiettivo dichiarato delle politiche economiche e ambientali dei vari Paesi e degli accordi internazionali aventi per oggetto materie ambientali a partire dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, cui parteciparono 172 Governi, 108 capi di Stato o di Governo, 2.400 rappresentanti di organizzazioni non governative e oltre 17 mila persone.

In quell’occasione fu firmata la Convenzione sulla diversità biologica, finalizzata ad anticipare, prevenire e combattere alla fonte le cause di significativa riduzione o perdita della diversità biologica in considerazione del suo valore intrinseco e dei suoi valori ecologici, genetici, sociali, economici, scientifici, educativi, culturali, ricreativi ed estetici, oltre che a promuovere la cooperazione tra gli Stati e le organizzazioni intergovernative. Un nuovo meeting a Rio si è svolto nel 2012, il «Rio+20», e le dichiarazioni a margine sono state scoraggianti: «Questo è un momento unico in cui il mondo ha bisogno di una visione comune, di impegno e di una forte leadership. Ma il documento che abbiamo per le mani in questo senso è un fallimento», dichiarava Mary Robinson, ex presidente della Repubblica irlandese ed ex alto commissario dell’Onu per i diritti umani; Jeremy Wates, segretario generale dell’Ufficio per l’Ambiente europeo, ha definito il meeting un flop, e Fernando Cardoso, che nel 1992 era presente all’Earth Summit e dal 1995 è stato anche presidente del Brasile, affermava che «la divisione tra ambiente e sviluppo è anacronistica e non porterà alla soluzione dei problemi che stiamo creando ai nostri discendenti diretti. La soluzione è nella crescita sostenibile, non nella crescita a tutti i costi».

L’interesse verso i temi trattati dalla Psicologia ambientale ha richiesto un inquadramento della materia a livello istituzionale e accademico. In Italia non solo è stato compiuto un grande passo in ambito universitario verso il riconoscimento formale della disciplina, ma è stato anche creato, nel 2005, il Centro interuniversitario di ricerca in Psicologia ambientale (Cirpa) per la promozione e lo sviluppo della materia, un consorzio tra le università italiane e gli enti di ricerca, nel quale risultano fino al momento più consolidati gli interessi della ricerca psicologica in questo senso. Sotto la direzione di Mirilia Bonnes e la vicedirezione di Marino Bonaiuto, provenienti dall’Università Sapienza di Roma, il Cirpa vanta un comitato scientifico nel quale sono presenti ricercatori dalle Università di Padova, di Roma Tre, di Cagliari, di Napoli.

«Sostenibilità» fa riferimento alla necessità di venire incontro ai bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri: le variazioni apportate all’ambiente dalle attività umane devono mantenersi entro limiti tali da non danneggiare irrimediabilmente il contesto biofisico globale e permettere alla vita umana di continuare a svilupparsi. Ciò significa fare in modo che il tasso di inquinamento e di sfruttamento delle risorse ambientali rimanga nei limiti della capacità di assorbimento dell’ambiente ricettore e delle possibilità di rigenerazione delle risorse secondo quando consentito dai cicli della natura, per evitare la crescita dello stock di inquinamento e dell’elettrosmog nel tempo, l’effetto serra, l’estinzione di specie naturali, la deforestazione, la desertificazione, la distruzione della foresta amazzonica, e molti altri dei danni irreparabili che l’uomo provoca e ha provocato con il proprio comportamento non «biosferico».

È sull’uomo che si deve incidere per compiere l’improcrastinabile e necessaria inversione di marcia: solo attraverso la modificazione dei comportamenti individuali è possibile salvare il pianeta. Ciò non è cosa facile: il comportamento è frutto di meccanismi spesso incontrollabili o difficilmente trasformabili. Inoltre, la profonda sfiducia del singolo nel sistema rende l’impresa ancora più ardua, dovendo intervenire non solo sugli aspetti cognitivi del comportamento, ma più spesso sulla sfera motivazionale ed emotiva che guida il comportamento umano ed è parte integrante del «making plan» decisionale. Di tale impresa si stanno occupando gli psicologi ambientali con studi e ricerche sul campo e utilizzando metodi quantitativi e qualitativi, attraverso «case studies» che mettono al centro l’uomo – da solo e nella sua componente sociale – con le credenze, i valori, il sistema normativo, le motivazioni, in generale tutti quegli elementi che muovono il comportamento individuale e che vanno a comporre lo stile di vita.

Un comportamento ecologico può essere realizzato in modo intenzionale (prendere la bicicletta al posto dell’auto per un fine ambientale) o non intenzionale (prendere la bicicletta al posto dell’auto per risparmiare i costi della benzina), ma essere comunque efficace sul punto dell’impatto ambientale. È ecologico, o più ecologico di un altro, anche un comportamento che, pur non arrecando beneficio all’ambiente, si pone su un piano neutrale. La maggior parte dei comportamenti rilevanti sono espressione di abitudini, nelle quali l’intenzionalità è pressoché nulla, azzerata da meccanismi di risparmio cognitivo, e l’unità di analisi è più lo stile di vita che non il gesto singolo: le abitudini sono stringhe comportamentali nemiche dell’ambiente ed è soprattutto su queste che devono intervenire gli psicologi ambientali, risvegliando i singoli sulle conseguenze di azioni non ponderate e fornendo delle motivazioni differenti per gli atteggiamenti e la condotta routinaria. Oltre a ciò, la differente direzione motivazionale dei comportamenti colloca, accanto a valori altruistici ed egoistici, valori «biosferici» che sottendono ai comportamenti ambientali e li guidano, e che devono essere stimolati nell’ottica di un cambiamento globale.

La psicologia ambientale ha, inoltre, preso atto di un fenomeno in grado di dare una netta sferzata al comportamento, le «epifanie ambientali», che si presentano all’individuo come una rivelazione improvvisa, repentina, che lo avvicinano al senso della natura, e lo inducono a modificare il proprio stile di vita in funzione di un’ecologicità cosciente. Si verifica, in questi casi, quel ritorno alla natura che gli psicologi ambientali auspicano, si ricuce il rapporto uomo-natura in funzione di quest’ultima e si prende atto della sua presenza, prima invisibile.

Vi sono anche casi, affatto rari, in cui l’uomo nasce con una spiccata predisposizione verso l’ambiente o in cui, avendo l’occasione di vivere in un contesto naturale, matura non solo convinzioni, abitudini e stile di vita ecologici, bensì un’identità ambientale che può eventualmente evolversi nel senso di un impegno costante per la salvaguardia della natura. Per Wilson, «le persone preferiscono stare in ambienti naturali, in particolare nella savana o in un habitat simile a un parco. Amano poter spaziare con lo sguardo su una superficie erbosa relativamente piana punteggiata di alberi e cespugli. Vogliono stare vicino a una massa d’acqua: un oceano, un lago, un fiume o un ruscello. Cercano di costruire le proprie abitazioni su un rilievo, da cui poter osservare in sicurezza la savana o l’ambiente acqueo. Con regolarità quasi assoluta, questi paesaggi sono preferiti agli scenari urbani brulli o con poca vegetazione. In una certa misura, le persone mostrano di non amare le immagini di boschi in cui lo sguardo non può spaziare, la vegetazione è complessa e disordinata e il terreno è accidentato: in breve, le foreste con alberi piccoli e fitti e un denso sottobosco. Prediligono caratteristiche topografiche e aperture che consentono una visione più ampia».

Con il termine di biofilia si è definita una predisposizione dell’uomo verso la natura che per Wilson ha origini genetiche, e ciò si sintetizza nell’innata affiliazione emozionale dell’uomo agli altri organismi viventi, quel rapporto emotivo che da sempre lega gli esseri umani alle altre forme di vita che l’hanno accompagnato nel viaggio dell’evoluzione. «Biofilia–dice Wilson–è la tendenza innata a concentrare il proprio interesse sulla vita e sui processi vitali (…). Fin dall’infanzia, con animo felice, noi concentriamo la nostra attenzione su noi stessi e sugli altri organismi. Apprendiamo a distinguere la vita dal mondo inanimato e a dirigerci verso la vita come una farfalla attratta dalla luce di una veranda».

L’affinità dell’uomo con la natura, e con tutti gli esseri viventi, sarebbe dunque un prodotto della selezione naturale. Il concetto di verde appare come un punto di riferimento molto coinvolgente, archetipico e quasi viscerale. Il fatto che soggetti di differenti culture mostrino preferenze analoghe avvalora l’eventualità di una base genetica delle preferenze umane per l’habitat, che costituisce indubbiamente per tutti gli organismi il primo e cruciale passo per la sopravvivenza. Gli effetti benefici per la salute psichica e fisica dell’uomo derivanti da un contatto diretto con la natura sono ampiamente documentati da un’estesa letteratura scientifica: l’espressione «restorativeness» si riferisce agli effetti positivi che l’ambiente naturale ha per il benessere psicologico dei soggetti.

L’identificazione con il tema ambientale può sorgere, in misura più o meno ampia, anche nelle aree verdi degli ambienti urbani – se presenti, se note, se accessibili – o essere guidata da un’educazione ambientale attenta e mirata. La sola informazione, però, non è sufficiente a produrre un cambiamento nei comportamenti, o comunque un cambiamento stabile, come non sono sempre utili le strategie impiegate dalla politica, ad esempio tasse ambientali e incentivi monetari, in grado addirittura di spiegare un effetto inverso riducendo la motivazione morale delle persone a comportarsi in modo pro-ambientale.

Gli interventi sono distinti in strategie «soft», quelle informative, che hanno lo scopo di incrementare la conoscenza, la consapevolezza, le regole e le abitudini delle persone, come le campagne di sensibilizzazione sulla raccolta differenziata; e «hard» o strutturali, aventi lo scopo di cambiare le circostanze in cui sono messi in atto i comportamenti decisionali; fornire servizi per il riciclo dei rifiuti ne è un esempio. È importante individuare quei comportamenti che possono migliorare, in modo significativo rispetto ad altri, le condizioni ambientali, per indurre più massicciamente i primi; gli interventi devono essere dotati di un buon fondamento teorico e ad ogni intervento deve seguire una valutazione corretta delle sue conseguenze. Dove bisogna gettare un tovagliolo di carta? In quale dei contenitori: indifferenziato, umido o carta? L’azione informativa è utile a colmare il deficit di conoscenza; subito dopo deve intervenire l’azione strutturale, ossia la predisposizione, da parte delle autorità troppe volte sorde, di servizi per la raccolta, perché il comportamento compreso possa essere concretamente attuato. Da ciò consegue la forte necessità di educare la politica prima di tutto.

Sebbene sia sempre più possibile riscontrare una dichiarata consapevolezza ambientale, quest’ultima non risulta accompagnata da una matura azione quotidiana di sostenibilità ambientale, e i lavori realizzati dagli psicologi mostrano il ridotto riscontro delle campagne massicce volte a promuovere comportamenti ecologici responsabili. L’eccesso di informazione e le propagande morali non sono sufficienti a produrre processi di cambiamento di questo genere; secondo gli «ecopsicologi» della branca della «Ecopsicologia» è erroneo ritenere che la sensibilità ambientale possa maturare principalmente attraverso campagne di informazione e di comunicazione, o attraverso interventi di educazione ambientale nelle scuole, senza piuttosto l’esperienza di natura che tende a favorire l’emergere di un nuovo atteggiamento verso l’ambiente naturale, coinvolgendo non solo il sapere razionale ma anche la riflessione astratta, per modificare le immagini mentali e cambiare, riaccendendo un senso di profonda connessione con la Terra, nella consapevolezza che i valori non si modificano in un corso di formazione più o meno convenzionale, bensì attraverso azioni di formazione in cui la persona abbia modo di disimparare credenze che aveva dato come immodificabili nel passato.

In tempi recenti le società europee hanno acquisito la consapevolezza della necessità di comportamenti più responsabili e delle conseguenze delle azioni individuali e collettive sull’ambiente, e l’educazione ambientale ha assunto un ruolo centrale e diverso rispetto alla tradizionale accezione che la confinava nell’ambito dell’educazione naturalistica o negli spazi destinati alle campagne informative o di sensibilizzazione, o nelle aree protette.

La pura didattica o la semplice informazione non sono più in grado di fornire gli strumenti necessari ad agire in modo responsabile ed autonomo e garantire un grado di sviluppo sostenibile della nostra società; l’educazione ambientale deve sempre più configurarsi come educazione alla sostenibilità (ambientale, economica, sociale o dello sviluppo in senso lato): un impegno e un’opportunità in grado di coinvolgere tutti gli attori sociali, chiamati a diversi livelli e con competenze pluridisciplinari a definire obiettivi, strategie, azioni per attività integrate, utili a produrre una crescita culturale tale da riflettersi, mediante modifiche permanenti di atteggiamenti e comportamenti, sulla qualità ambientale e sulla nostra società, per preparare gli individui all’intenzione di prendere decisioni consapevoli rispetto all’ambiente.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2014




OVUNQUE LA PROIETTI. L’intervista a Carlotta Proietti, gran “figlia di”

  • di ROMINA CIUFFA. La figlia di Proietti, è facile, dicono. Ma l’ho sentita cantare senza saperlo, senza vedere il padre, seduto, ad applaudirla. Vado in giro in modalità «talent scouting», e ho pensato di aver scoperto chi avrebbe potuto risollevare dalla banalità degli spettacoli propinati da troppo tempo a questa parte, dall’inutilità delle voci in circolazione strappate alla recitazione di mantra, dall’urlo della mia coscienza sulle lamentele degli «artisti». La Proietti sì, è figlia di Gigi. Ma allora, sarà per questo che è perfetta sul palco? Sarà per questo che ha un umorismo irrefrenabile? E che, come lui, a casa è pigra?

Non per il fatto che lui l’abbia potuta portare al Brancaccio o spingere, ma per il fatto genetico, scientifico, che il DNA non mente. D’altronde c’è anche una madre, Sagitta Alter. E d’altronde, mio padre è un giornalista. 

MUSICA PIÙ CHE TEATRO. “Ho sempre cantato. Alle elementari – frequentavo la Kendale – c’era un’insegnante meravigliosa che ci faceva cantare ascoltare e suonare la musica più varia: da Benjamin Britten ai Beatles oltre che, per carità, Nella Vecchia Fattoria, che ha sempre la sua dignità… Affiancare musica per bambini a musica di livello rende più facile il percorso successivo. Ho cominciato ad avere una forte passione per i cori e le armonizzazioni, e mi divertivo in camera a farle su Alanis Morissette. A casa tra mia madre e mio padre il richiamo musicale è stato continuo, a partire dallo swing, e papà suonava pianoforte, chitarra, fisarmonica, persino il contrabbasso. Cantando nel coro della scuola e in chiesa, l’insegnante mi fece fare un brano di Pergolesi da solista e cominciai a prendere lezioni private di canto lirico: avevo 16 anni, feci esercizi di respirazione per due anni, e l’insegnante mi diede quell’impostazione da soprano leggero, nonostante io abbia una voce bassa. Poi ho cambiato direzione nello studio, e da questa impostazione lirica sono passata al «belting», contemporaneamente ho cominciato a fare serate nei locali, come veniva. Intanto lavoravo e studiavo Scienze della Comunicazione prima, il Dams dopo, per la mia grande passione della regia: c’era la musica a quel punto, ma c’era pure altro, quindi brancolavo. Le serate che facevo erano jazz e blues, ma non lo prendevo come lavoro”.

IL PRIMO ALBUM. “Nel 2003 è nato il mio primo album, Carlotta Proietti. Il mondo della discografia è ancora misterioso per me, niente ha il gusto del live e vorrei che fosse tutto così; anche se sono sempre stata estremamente timida, e le prime serate cantavo senza dire una parola di più”.

TEATRO. “A teatro cominciai a lavorare come cantante. Poi accadde la mia «prima volta» con mio padre, in teatro ma sempre come cantante nel 2005, per il festeggiamento dei suoi 40 anni di carriera, un suo One Man Show che aveva chiamato Serata d’onore ma in cui aveva chiesto la partecipazione delle due figlie, me e la maggiore, Susanna, costumista, scenografa, pittrice e disegnatrice. Io faticavo a scegliere questa via, lui mi disse: «Vieni a cantare una canzone». Davanti ai 1.500 spettatori del Teatro Brancaccio. Cantavo Moon Dance di Van Morrison, nella versione di Michael Bublé, in duetto con mio padre, swing e grande orchestra. Da lì sono successe una serie di cose a catena. Mia sorella in quella situazione recitava, la compagnia era enorme, è stata un’esperienza incredibile. Da cosa nasce cosa: abbiamo fatto uno spettacolo al Sistina dove è venuto Nicola Piovani, che dopo avermi vista mi ha proposto di partecipare al suo spettacolo Semo o non semo, una serata di canzoni romane: un onore grandissimo. Spesso si pensa «figlia d’arte», ma questa è gente che non ti chiama se non pensa che hai le qualità, e Piovani mi ha cercata così. Ho lavorato con personaggi che per me sono mostri sacri. Ma sempre come cantante. Lo spettacolo ha avuto molte edizioni, e continua ad averne”.

FORMAZIONI E LIVE. “Quando mi ritrovavo a fare le serate dal vivo, comunque, era sempre diverso. Un conto è far parte di uno spettacolo strutturato, in cui sei più protetta, un’altro è gestire il locale, dove sei tu, nuda. Volevo farne un motivo di vita: il mio progetto era portare avanti serate-spettacolo sempre più strutturate, con pretesti con un senso che accompagni le canzoni, anche perché io stessa, da spettatrice, non amo sedermi ad ascoltare cantautori in una serata che è un continuum di canzoni. Ho formato vari gruppi, tra cui l’attuale Blatters. È una formazione di musicisti estremamente validi, un progetto ricco di suoni e inventiva. Con loro abbiamo portato avanti l’esperienza live ma cresceva sempre di più l’esigenza di unire teatro e musica”.

RECITAZIONE.Non volevo più scindere teatro e musica. Così sono andata a fare una scuola di teatro. Si potrebbe pensare che c’entri mio padre, ma in verità lui si era già già arreso, sapeva che volevo fare la cantante. È stata una mia scelta. Mi sono iscritta alla scuola di Paola Tiziana Cruciani, che allora dirigeva Il Cantiere Teatrale. Completata la scuola e con qualche nozione di recitazione in più, ho appreso che musica e teatro non sono affatto distanti come pensavo; quindi la realizzazione di un sogno. E’ nato Se non parlo canto, uno spettacolo con testi recitati e cantati che ho scritto e che mi permettono di poter cantare e recitare, con i Blatters al mio fianco. Da qui l’idea, o meglio il desiderio di registrare i brani, che usciranno a breve in un album nuovo. Recitare mi ha fatto conoscere molti splendidi autori, e provarmi in ruoli sia comici che drammatici, attualmente sono Beatrice in Much ado about nothing (Molto rumore per nulla) di Shakespeare, in lingua originale, che debutterà il 5 ottobre al Silvano Toti Globe Theatre di Roma. A novembre inizieranno le riprese di Una pallottola nel cuore 3, fiction Rai dove mio padre è protagonista, io faccio un piccolo ruolo. E così continuo, sempre”. (ROMINA CIUFFA)

Romina Ciuffa