USA: MA COME SI DICE, IN ITALIANO, “PICCIRIDDU”?

New York. Si lamenta perché, dice, in America non si parla che l’americano. Dice che le scuole, i media, i cervelli sono, monopolizzati. Si sente italiano più che americano e, a dirla tutta, in Italia c’è stato solo pochi giorni che, contati su 49 anni, non lo rendono proprio italiano. Ma dice «grazie assai» e «statte buono». Ascolta Lucio Battisti, Rita Pavone, Daniele Silvestri, Vasco Rossi. «Sonno» lo pronuncia «sono», e «gente» per lui è un plurale. Non è alto e in America questo non fa onore, soprattutto quando si tratta di giocare a basket. Ha occhi scuri, capelli scuri, cuore scuro. Suo padre è morto. Sua madre vive nell’America più profonda. Entrambi sono nati calabresi. I suoi nonni erano emigranti e così hanno dato alla famiglia una possibilità di crescere.

È tornato qualche anno fa al proprio paesino, arroccato sui monti dell’entroterra calabrese, per salutare un cugino. Ma l’avevano ucciso. Perché? Non lo sa. Dove? Non lo sa. Da chi? Non lo sa. Nessuno parla, come suo cugino. Mi vengono in mente «I cento passi» del regista Marco Tullio Giordana, e la storia di Peppino Impastato di Cinisi, che il padre aveva provato a mandare, ma guarda un po’, proprio in America, una meta a caso: non c’era riuscito, anche se l’idea di aprire una radio negli Stati Uniti l’aveva stuzzicato. Gli zii americani ce li aveva pure Peppino, ma era rimasto in Sicilia a fare propaganda contro Tano Badalamenti. Non che il cugino di «Grazie Assai» abbia avuto a che fare con Tano, ma «non lo so» hanno risposto pure a lui quando ha chiesto il perché. Un altro viaggio «Grazie Assai» se l’era fatto qualche anno prima, accompagnando suo nonno al cimitero, lo stesso. Li aveva aspettati tutto il paese all’aeroporto. È tornato! È tornato!

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità»: alza il volume della canzone di Daniele Silvestri mentre mi racconta che gli manca l’Italia e che suo cugino Gaetano l’aveva conosciuto solo negli ultimi anni, perché prima lui parlava poco l’italiano – s’interrompe e ripete: «Sempre perché qui non impariamo niente» -, e il cugino non una parola d’inglese. A dire il vero, poche pure di italiano: È tornato!

«È la solita vita, la solita rincorsa a una corriera già partita, perpetuo movimento sulla strada che all’andata, così come al ritorno, è sempre una salita». Sai, mi dice, era proprio un brav’uomo mio cugino Gaetano. Ha lasciato una moglie e tre figli. Andavo al paese e tutti mi volevano bene, mi facevano sentire di appartenere. «I belong», e stringe il pugno. Poi mi racconta che nell’Indiana, dove vive, ha tre amici napoletani. Sarebbero quattro fratelli, ma uno s’è perso per strada. Perché? Che è successo? Niente d’importante ma, mentre lo dice, ride, anzi ridacchia; ha rubato 50 mila dollari al fratello. E come? Un giorno è andato in banca, ha firmato i «segni» al posto del fratello e ha riscosso sull’unghia (ma sull’unghia non lo dice). Il giorno dopo la banca ha chiamato il fratello: perché avrebbe firmato assegni per una cifra non disponibile sul conto? Io non ho mai firmato assegni. Non ne sapeva niente, davvero. L’altro aveva da anni la delega in banca, anche in America questa volta la si è fatta franca. Chiedo: «E cosa è successo poi, fra i fratelli?», chiedo, perché m’interessa sapere più questo che non di come sia andata sul piano legale; più come una famiglia napoletana impiantata in America con varie Green Card e quattro ristoranti («Ma non sai quanto è buona quella pizza»), si mantenga nel tempo, se è vero che essere lontani dalla propria terra unisce.

Risposta? Sì, unisce. E perché allora, domando, un fratello avrebbe fatto questo all’altro? Perché aveva bisogno di soldi e la moglie, l’unica italiana tra le quattro spose per i quattro fratelli, qui non ci sapeva proprio stare, non ci voleva stare, non ce la faceva più. Mica è facile. «È la solita vita, è il solito miracolo che svolta la giornata, l’evento microcosmico di minima portata, una mancia ricevuta, una cena regalata; e con la dignità rimasta, volevo vederti arrivare vestita di seta, di festa, magari fare quattro salti in pista, ma forse è meglio se rimani là».

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità: una casettina di periferia, una mogliettina giovane e carina, tale e quale come te».

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Arrivato in Italia, lo arrestano per precedenti reati, e lui si guadagna il titolo: è ufficiale, è la pecora nera della famiglia. Che poi nera non è, ma solo impaurita, forse, come se qualcuno stesse tirando in aria colpi di fucile al gregge per farlo riagglomerare fuori dal suo rettangolo d’erba. Ed ora che è fuori – perché i reati commessi in Italia non erano poi così gravi -, attende che si prescriva quello americano, se già non è prescritto. Ppoi ci penserà. Più probabilmente non tornerà nemmeno, perché lui l’inglese, come pure i suoi fratelli che vivono da anni in America, non lo parla proprio. Non gli entra. È un bravo guaglione, lui e gli altri tre. Per fare la pizza la lingua non serve.

E, canta ancora Daniele Silvestri, «dovrò dosare la fatica, imparerò a parlare in questa lingua sconosciuta, sognando di riuscire, un giorno, a fare ricevuta tra gente compiaciuta e che di me si fida». Si fida? Chi si fida? «Grazie Assai» mi dice che «la gente italiana sono apprezzati in America», e qui viene il dubbio: ma se non ci fidiamo l’uno dell’altro in madrepatria? Ma se prima di firmare un contratto chiediamo pure di che quartiere uno è? Ma se siamo tutti cani con le museruole? No, forse qualcuno si salva.

«E non è piccola la sfida, querida, disperso in questo angolo d’Europa unita». Fidarsi pure in Europa, che ora ci è alle calcagna. Fidarsi della storia? Non ha insegnato nulla. Delle esperienze? Ma quelle di chi? Fidarsi di me? Questo mai. Quando anche una guerra decisa sei ore prima ha interferito nei rapporti umani e disumani, fidarsi? E di chi? Di lui. Lui quale? Indicalo meglio. Quello laggiù, con la cravatta? No, scusa, quello con il tatuaggio sul collo? Scusa, non so a chi ti riferisci. E poi si vede che quella cravatta è finta. Io direi più lei. Come lei, lei quale?

Dispersi in un angolo di vita, «ti metto la valuta in una busta, la spedirò per posta, ma poi non basta mica: se tu sapessi quanto costa la vita, sapessi quant’è faticoso riuscire a tenerla pulita». Dove sono le opportunità? Gli dico che è stato più fortunato lui di Gaetano, che non ha avuto nemmeno la possibilità di annusarla, l’America; di annusarla, l’Europa; di annusarla, l’Italia. Perché il lutto, dopo il suo funerale, è stato tenuto dalle donne per tre mesi. E poco prima, quando nel viaggio precedente il compaesano emigrato era tornato a casa orizzontale, gli uomini hanno allontanato le femmine, hanno aperto la bara e hanno controllato che la salma fosse dentro. Lui era lì, non capiva, perché allontanare le donne? Cosa succede ora?

La mia domanda era stata, inizialmente: cos’è una Funeral Home? E cosí chiude il capitolo e mi risponde: «Tutto questo per dirti che qui, in America, la Funeral Home ospita ed espone la salma, che poi viene portata al cimitero e sepolta». Ed io che credevo che si facesse festa davanti al morto, si mangiassero pasticcini, si bevesse vino e, sussurrando nella stessa o nelle stanze accanto, si spettegolasse su quante donne aveva avuto e sul vestito della figlia: «Che orletto mal fatto»! No, mi spiega, questa non è l’America. This is more British. La festa si fa in Europa. La festa, una cerimonia per commemorare il defunto.

Mi guarda, l’aria un po’ sognante, e mi dice: «Non vedo l’ora di tornare al mio paese». Il paesello su una rocca, lo sprofondo dell’Italia, è nascosto nel cuore di un grande americano. Opportunità, mi dice. Sì, è vero, sono nato fortunato. L’America è un Paese ricco di opportunità. Ma freddo. Ma duro. Ma conservatore. Ma schivo. Lo sa che è stato fortunato, perché è un Giano bifronte che conosce due realtà, una nel cuore e l’altra nel cervello. Racconta che suo padre, dopo i 18 anni, gli faceva pagare 20 dollari a settimana d’affitto e un dollaro ogni volta che non avesse sistemato la stanza. In America.

Dall’altro lato, sua madre cucinava, il padre tornava e leggeva il giornale, e i figli li hanno fatti perché Dio li ha voluti, secondo la tradizione cattolica: Italia. Lui sta bene, fa una bella vita, comoda, lavora duro e può permettersi i propri lussi, ma lo vedi che non è soddisfatto, lo senti che gli manca un pezzo, e te ne accorgi quando ti guarda e lucidamente ti dice che non si vuole legare, e poi ti domanda: «Ma come si dice, in italiano, picciriddu?» (ROMINA CIUFFA)




L’URAGANO JAZZ SPOSA L’URAGANO KATRINA: DALLA SOFFERENZA SI DIVENTA EROI

New York, ottobre 2005. Undici settembre trascorso più velocemente di quello del 2001, vigili del fuoco per le strade a celebrare con birre e barbeque, un’atmosfera calda e una bella giornata. Anziché stare a New Orleans, ora al suolo, stremata. New Orleans, anche detta The Big Easy, la facile, la rilassata, l’opposto delle frenetiche città americane del Nord. Si dice che il Mississipi, in indiano «grande padre delle acque», vi arrivi stanco e riposi formando un lago – magari ascoltando un po’ di jazz -, per poi infine gettarsi nel Golfo del Messico e culminare il proprio viaggio in mare.  Il prossimo 28 febbraio il più famoso Martedì Grasso del mondo – quello di New Orleans -, sarà, sicuramente, diverso. Indubbiamente i volti ricorderanno le maschere delle antiche tragedie greche in quello che ora è un teatro di morte. Il presidente George W. Bush ha dichiarato di assumersi ogni responsabilità per il «caos» verificatosi nei soccorsi: troppo tardi. Rapine, stupri e violenze sono il plusvalore aggiunto dell’opera umana all’opera naturale. Il sindaco Ray Nagin azzarda un’ipotesi di vittime in numero superiore a quelle dell’11 settembre.

La città del Carnevale, ora, è una città fantasma, per giorni capeggiata da boss che hanno dato vita alle più tremende torture: i sopravvissuti hanno dovuto procurarsi pistole, darsi i turni anche per dormire, comprare a peso d’oro medicine, cibo, armi e droga in cambio di gioielli e merci in aste di vendita notturne, i bagni divenuti l’incubo più grande, luogo di violenze e stupri; gli stessi poliziotti della città hanno rinunciato. Stanchi di aspettare i rinforzi, stanchi di aspettare «i nostri eroi», i cittadini si sono fatti giustizia da soli. Poi, i primi soldati e volontari giunti hanno fatto uso della legge marziale con licenza di uccidere.  Moltissimi sono morti per volontà umana, non per volontà di Katrina. Katrina non è colpa di nessuno, Katrina è solo un uragano accorso nella città del jazz ad ascoltare della buona musica. È a New Orleans, infatti, che il jazz ha trovato il suo primo baricentro alla fine dell’800, quando la città era un miscuglio di popoli, razze e colori originati dalle varie dominazioni. Jazz che nasce anche «grazie» alla restrizione: i diritti dei neri ebbero una buona estensione sotto gli spagnoli, vennero ristretti da Napoleone e aboliti dagli americani. Da quel momento in poi i neri cominciano a cantare le loro melodie in silenzio.  In onore del re Luigi XIV, il 9 aprile 1682 l’esploratore francese Robert Cavelier La Salle, giunto nel Golfo del Messico navigando lungo il Mississipi, dai territori del Nord (l’odierno Canadà), rivendica tutta la valle del Mississipi per la Francia e la chiama Louisiana. Poco prima, nel 1570, vi era morto l’esploratore spagnolo Hernando de Soto, in cerca d’oro.

Il finanziere scozzese John Law, delegato dal re francese, comincia a vendere azioni di enormi paludi infestate dalla malaria spacciandole per paradisi terrestri e porta alla rovina molti francesi nel 1720. Tra il 1762 e il 1763 la Francia, esausta per le guerre con gli indiani locali, cede alla Spagna il territorio ad ovest del Mississipi (Louisiana), e all’Inghilterra quello ad est (Mississipi). Segue la guerra d’indipendenza, quindi il territorio della Lousiana viene barattato con un trono in Etruria per gli spagnoli da Napoleone il quale, nel 1803, ne autorizza la vendita agli Stati Uniti. In quel mentre il Governo americano ha invero già stanziato 10 milioni di dollari per il solo acquisto di New Orleans e della Florida: la Louisiana viene così, quasi in segreto e in oltraggio ad alcuni trattati, venduta dalla Francia per 15 milioni di dollari, diviene uno Stato nel 1812 e New Orleans comincia ad ospitare uno dei porti più importanti del mondo e supera anche le successive guerre di secessione.

Esplode l’uragano Jazz: se durante la schiavitù – dal 1619 al 1865 – ai neri è proibito esibire la propria musica e molti sono costretti a imparare la musica bianca per continuare a suonare, in campagna le tradizioni africane sopravvivono trasformate in canti popolari in inglese. Nel 1830, il «minstrel show» diviene una moda: bianchi truccati da neri che mettono in scena grotteschi balli e canzoni. Su questa scia il bianco Stephen Collins Foster diviene famoso per le sue canzoni «negre» e le pagine di Luis M. Gottschalk contengono i prodromi del jazz. Dopo l’emancipazione del 1865, soffia forte il tifone che si trasforma in uragano: spirituals, corali, concertisti neri, blues, sia pure ancora al servizio dei bianchi, come giullari, nei bordelli, nelle bettole. L’indolenza climatica di New Orleans – un caldo umido intollerabile -, feconda un ragtime per banda con improvvisazioni e ne fa jazz, nei primi del ‘900 ne consacra i re, indiscussi, Louis Armstrong e Sidney Bechet, quindi ne sviluppa i ritmi.

Mentre le «jazz-belles», prostitute di New Orleans, permettono il mescolamento di culture, con la parola «jass» si incitano i clienti delle case di tolleranza a ballare sotto la musica dei «jasbo». È dunque nello Storyville, quartiere dei bordelli e della «Big Easy» della città, che s’incontrano le due comunità nere di New Orleans: i creoli, piccolo borghesi e integrati nella società, e i neri americani, che costituiscono la parte più povera del proletariato americano. Il blues accompagna il lavoro degli schiavi, lo spiritual e il gospel ne accompagnano le preghiere, le «bands» accompagnano i cortei funebri verso il cimitero e, tornando in città, suonano melodie vivaci e improvvisano su progressioni armoniche.  A seguito della chiusura dello Storyville, voluta dalle autorità militari statunitensi per non turbare i militari di leva nella città all’entrata in guerra degli Usa, i musicisti si rifugiano nel Southside di Chicago, quartiere nero, dove quello che è iniziato a New Orleans trova storica consacrazione in album e capolavori di intramontabili artisti. Lì si crea il Chicago Style, nel quale la cultura occidentale e bianca si mischia con il jazz nero e lo contamina, valorizzando l’elemento solistico, l’improvvisazione del singolo e la dominazione del sassofono. Di lì a poco, lo swing. Dalla schiavitù, dal dolore, dalla restrizione, i più estasianti ritmi del mondo.

Il jazzista Dizzy Gillespie ricordava che «jesi», in un dialetto africano, significa «vivere a un ritmo accelerato». Forse è per questo che Katrina ha scelto New Orleans per valorizzare tutta la propria espressività. Simile al jazz, simile al blues, un ciclone è un violento movimento rotatorio di masse d’aria, combinato con un moto di traslazione intorno a un centro di bassa pressione. Esso è provocato da un complesso di fenomeni atmosferici determinati dalle alte temperature equatoriali che, in certe zone, creano centri di minima pressione e di aspirazione verso cui convergono i venti, seguendo un moto a spirale che determina un vortice. I meteorologi chiamano uragano un vento di eccezionale intensità, di forza 12, la massima, nella scala di Beaufort, corrispondente a una velocità al suolo di oltre 120 chilometri orari.  Nell’articolo del mese scorso ho scritto che gli americani non temono la natura né gli uragani. L’ho scritto prima che Katrina venisse a cercare un albergo a New Orleans.

Ora che l’ha trovato e che si sta godendo la vista del Golfo e delle immoralità umane, è un Deus Ex Machina e un po’ Dioniso, dio dell’orgia e delle nefandezze e dio anche, paradossalmente, dell’ordine naturale, un dio che punisce per redimere e condanna a morte l’intera città di Tebe per non averlo ossequiato, dando a Cadmo un’unica motivazione: perché è giusto così. Perché dalla sofferenza si diventa eroi. L’impressione sull’attitudine americana è confermata: si è bloccata l’entrata negli States, sono stati posti infiniti controlli, le metropolitane e gli edifici sono letteralmente setacciati e all’ordine del giorno c’è ancora, per l’Amministrazione Bush, il proseguimento di una lotta contro il terrorista. Gli avversari di Bush fanno rilevare che l’ordine del giorno non è cambiato dall’arrivo di Katrina, che subito dopo la quale il presidente statunitense è volato a San Diego per «business», che l’Air Force One è poi passato da New Orleans, riportandolo a Washington, scendendo appena un po’ sotto le nuvole per dare una rapida occhiata dall’alto alla situazione. Qualche altra visita presidenziale, ma la presenza di questo come di qualunque altro presidente non serve quanto il suo intervento dall’alto e non di un elicottero.

I fondi sono richiesti alla popolazione in ogni forma, con una multimedialità da spavento, mentre quelli governativi sono stanziati per costruire una democrazia in Irak; e che i meteorologi avevano annunciato l’arrivo di questa grande ascoltatrice del jazz di scala 5 sin dalla settimana precedente, quando l’acqua del Golfo diveniva più calda, e più calda, e più calda ancora, proprio come musica. È facile dire tutto ciò, più difficile dire cosa avrebbe potuto fare perfino un presidente degli Usa per dirottare un uragano.

Purtroppo non suona più jazz la calda New Orleans, i suoi neri restano sempre neri e c’è chi è pronto a giurare che se la popolazione fosse stata bianca o l’uragano si fosse abbattuto su Kennebunkport sarebbe stato diverso; chi suggerisce a Bush di immaginare «cittadini bianchi lasciati sui tetti delle proprie case per oltre cinque giorni»; chi lo invita a «trovare pochi elicotteri da mandare lì facendo finta che la gente di New Orleans e il Golfo siano vicino Tikrit»; chi scopre la mancanza, a Washington, di una Casa Nera, e pensa al prossimo Mardi Gras a New Orleans senza sfilate. Ma Katrina ha permesso anche all’America di ricordare che gli tsunami stanno dappertutto e che, contro l’Irak forse sì, ma contro la natura non ci sono padri eterni.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – ottobre 2005