JURACY: EPOCA “JURASSICA” DEL BRASILE A ROMA

Fino a poco tempo fa Roma era un altro Brasile. Solo chi c’era, chi lo ha vissuto, sa cos’era; chi è arrivato dopo, è arrivato dopo la partenza di troppi brasiliani che hanno fatto la storia della brasilianità romana, fuggiti, nella gran parte dei casi, perché l’Italia non aveva, né ha, più alcunché da offrire. Uno di costoro è Luis Juracy Rangel Lemos: astrofisico, malandro, sambista. 5 anni a Roma per un dottorato in Astrofisica relativistica, nel 2012 torna in Brasile e con lui va via un pezzo di «riomanità» pura, pirandelliana, nella quale ogni samba costituisce un pezzo di poesia d’autore. L’epoca “jurassica” è terminata. Oggi è di passaggio a Roma per le sue ricerche “interplanetarie”. Pubblicammo, alla sua partenza, un cartaceo interamente dedicato a lui (oggi al link http://www.scribd.com/doc/86905581/RIOMA-1-Juracy-lampo-di-raggi-gamma) per spiegare, a tutti coloro che lo avevano conosciuto o ne avevano sentito parlare, chi è Juracy: lo riproponiamo, per aggiornarlo nel futuro prossimo con il prosieguo sella sua storia e la descrizione di molti altri dei brasiliani che hanno collaborato a rendere Roma… Rioma.

JURA

RODA PLANETARIA

La gente dice: È matto. Oppure: Vive in un mondo di fantasia. O ancora: Come può confidare in cose prive di logica? – ma il guerriero continua ad ascoltare il vento e a parlare con le stelle. Paolo Coelho (da Manuale del guerriero della luce) qui sembra descrivere  Juracy. Di lui si dice «è matto»: vederlo per anni nel suo completo bianco da malandro non può che condurre un osservatore superficiale a tale conclusione. Vive in un mondo di fantasia ogni qualvolta, mentre suona un samba, Juracy si ferma, mi prende l’orecchio e comincia a descrivere tutta la storia della singola composizione: l’autore, il racconto, il momento storico, e vi aggiunge finanche considerazioni personali. Fantasia perché, ad un tratto, nei suoi insight proietta fuori di sé tutte le stelle che ha dentro e invita a guardarle. Juracy è quello che, durante un samba, mi ha spiegato tutta la sua tesi di laurea in Astrofisica partendo da un discorso sulla linguistica e, con estremo rigor di logica, giungendo alle statistiche del cosmo. Poi torna a sambare nella sua Malandragem personale, totale: l’essere Juracy significa un cosmo nel quale i pianeti si riuniscono attorno a un cerchio, il Sole, per danzare un samba luminoso, vera e propria roda interplanetaria.

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JURACY, LAMPO DI RAGGI GAMMA
«Il segreto non è prendersi cura delle farfalle, ma prendersi cura del giardino, affinché le farfalle vengano da te. Alla fine troverai non chi stavi cercando, ma chi stava cercando te» (Farfalle, Màrio Miranda Quintana, poeta delle piccole cose). È questa la chiosa iniziale che scelgo per parlare di Luis Juracy Rangel Lemos. C’è un motivo. Non è trascorso giorno in cui Juracy non abbia ricordato a tutti l’importanza della poesia e della cultura brasiliana, dell’approfondimento, dell’analisi. Guardare al cielo – un astrofisico lo fa – rende  ciò che è lontano vicino, esperibile.

La cultura è una stella. Lo si capisce anche solo dalla risposta ad una domanda semplice: come ti chiami? «Luis era il nome del mio nonno materno, Juracy il nome di mio padre; Rangel il cognome di mia madre, venezuelana, Lemos di mio padre, paulista. Il nome Juracy deriva dalle lingue indigene Tupi-Guarani e significa persona che fa del bene». Non solo. Specifica: «Sono nato negli Llanos venezuelani il 27 marzo 1980. Mio nonno materno è originario della Cordigliera delle Ande, vicino a San Cristobal, alla frontiera con la Colombia; mia nonna materna nacque su un’isola caraibica, Margarita. Mia nonna paterna è originaria del sertão pernambucano, discendente da un olandese e un’indigena. Mio nonno paterno era un alagoano mulatto dell’Agreste. Fu un importante leader nella regione del Pontal do Paranapanema contro lo sfruttamento dei contadini; venne ucciso dalla polizia del dittatore Getulio Vargas nel 1953. Mio padre aveva solo 4 anni».

Astrofisico, in Italia dal 2006 con una borsa di studio, Juracy ha discusso la propria tesi di dottorato il 15 dicembre 2011 ed è tornato in Brasile, dopo essersi reso noto nel panorama romano. Approfondire le origini di un «cittadino del mondo», come si definisce, è essenziale per capirne l’essenza, quella che lo ha portato a guardare il cosmo da Roma. Il padre di Juracy studiò Fisica a Mosca tra il 1970 e il 1976. Per la presenza su territorio brasiliano della dittatura militare, proveniendo da una famiglia di sinistra, ritenne più sicuro il Venezuela, dove nel 1976 vi si recò ad insegnare Fisica. «Fu lì che conobbe mia madre, dando lezioni di fisica, e lì che si sposarono ed ebbero tre figli (le mie due sorelle, una del 1977, l’altra del 1981). Nel 1986 mio padre trovò lavoro a Boa Vista, capitale dello Stato di Roraima, vicino alla Foresta Amazzonica». Questo Stato ha circa 200 mila abitanti su una dimensione poco inferiore all’Italia.

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Juracy nuota negli igarapés, i corsi d’acqua amazzonici. La regione è abitata da un insieme di etnie differenti: «Ho imparato il portoghese con i figli degli immigranti». Dopo 6 anni e mezzo, suo padre ottiene un lavoro al Cefet (Centro Federal de Educação Tecnológica) di Paraná, a sud, più precisamente a Medianeira, al confine con l’Argentina e il Paraguai, freddo d’inverno sotto zero, abitato da discendenti europei, fondamentalmente tedeschi ed italiani del nord. Una delle terre più fertili del mondo, oggi ancora di stampo prevalentemente agricolo, prima dominata da una foresta molto fitta, la Mata Atlântica. «Il Paraná è uno Stato molto ricco. Presi parte al movimento studentesco della scuola superiore finché, nel febbraio del 1999, non mi recai a studiare Fisica nella UFSCar, l’Università federale di São Carlos, all’interno dello Stato di São Paulo», secondo l’Enade (Exame Nacional de Desempenho dos Estudantes) la migliore università del Paese. L’esperienza è molto positiva, il modello prende spunto da quello nord-americano: «Una interazione incredibile, campionati sportivi oltre le aspettative, finanche un campionato di Fisica».

Nel febbraio del 2004 Juracy inizia un dottorato in Cosmologia presso l’Osservatorio di Valogno, all’interno del Dipartimento di Astronomia dell’Università federale di Rio de Janeiro. «I due anni e mezzo trascorsi a Rio hanno costituito i momenti più intensi della mia vita. Una città estremamente violenta, nel contempo meravigliosa: la natura, le spiagge, la gente, le rode de samba, il teatro e milioni di altre qualità. Fu a Rio che iniziò la mia passione per il samba, nei locali senza amplificazione, nelle rode attorno ai tavoli, nelle strade, mai dimenticando di cantare i samba più antichi come si chiedessero benedizioni per i loro stessi compositori; i duelos versados, duelli di improvvisazione; i testi profondi, le tematiche forti – amore, politica, storia, valori, satira -. Tutto questo catturò la mia attenzione. Allora capii l’importanza della cultura popolare e come la sua conservazione sia necessaria al benessere di un popolo».

Il 17 ottobre del 2006 Juracy parte per l’Italia con una borsa di dottorato in Astrofisica relativistica nell’Università La Sapienza. A Roma arriva solo il 17 dicembre: prima trascorre un mese a Pescara ed uno a Parigi. Studia il fenomeno del Gamma Ray Burst, l’esplosione di raggi gamma, intensi lampi che possono durare da pochi millisecondi a diverse decine di minuti. Queste potenti esplosioni di GRB costituiscono il fenomeno più energetico finora osservato nell’universo. «Ancora non siamo riusciti a spiegarci come sono prodotti».

 

Il primo anno a Roma è anche l’anno della scoperta della musica italiana, principalmente Fabrizio De Andrè e il genere della pizzica. «Eppure con il tempo, il samba è tornato ad essere la mia valvola di fuga per uccidere la saudade della mia terra. In Europa ho appreso almeno l’80 per cento di tutto ciò che so del samba stesso. Ma in Italia ho studiato anche la storia europea, quindi quella cinese, ed ho conosciuto più di 10 Paesi europei e, tra le altre, le città Dublino, Istanbul, Barcellona e Stoccolma. Credo che il livello dell’università italiana sia molto elevato, sebbene abbia io stesso assistito al crollo della sua qualità, dovuto probabilmente ai Governi che si sono susseguiti e alle continue crisi che non fanno che portare con sé verso il basso tutto il sistema didattico».

Ma la chiosa finale è sempre di Quintana: «Non so cosa vogliono da me questi alberi, questi vecchi angoli di strada, da essere così miei solo guardandoli un istante.»

 

MALANDRO

Il sambista è un personaggio classico  brasiliano, caratterizzato da un’attitudine furba; negli anni 30 e 40 ad esso ci si riferiva con il termine di malandro, figura somigliante al Casanova italiano, uomo non sposato che possiede molte donne, non lavora eppure ha sempre denaro, spesso vinto al gioco; lo mantengono le donne e la musica. Ha sempre la meglio. Indossa un completo bianco e un cappello Panama e cammina dondolando con una navalha de barbear in mano (il rasoio di barbiere). Oggi «malandro» costituisce quasi un titolo nobile. Esempio della Malandragem carioca è il cantautore Bezerra da Silva.

Malandragem: Define-se como um conjunto de artimanhas utilizadas para se obter vantagem em determinada situação (vantagens estas muitas vezes ilícitas). Caracteriza-se pela engenhosidade e sutileza. Sua execução exige destreza, carisma, lábia e quaisquer características que permitam a manipulação de pessoas ou resultados, de forma a obter o melhor destes, e da maneira mais fácil possível. Contradiz a argumentação lógica, o labor e a honestidade, pois a malandragem pressupõe que tais métodos são incapazes de gerar bons resultados. 

 

 

Qui sotto la pagina del cartaceo di RIOMA BRASIL (per leggerlo bene: http://www.scribd.com/doc/86905581/RIOMA-1-Juracy-lampo-di-raggi-gamma) che uscì in tutta Roma, con il servizio su Juracy. Chi ne possiede l’originale… ha un pezzo da collezione. Romina Ciuffa




AFRICA SARDA STUDIO: DA CARLA COCCO AL GHETTO DI BAULENI, IL NOSTRO “WE ARE THE WORLD”

Qui esplicitamente a chiedere di collaborare per la realizzazione di un progetto di solidarietà con il compound zambiano di Bauleni, in cambio di “ricompense” come indicato al link: https://www.musicraiser.com/it/projects/9415-africa-sarda-studio

Il punto è che fare musica non basta. Come non basta scrivere e nemmeno costruire i palazzi. C’è una sorta di meta-trasformazione di ciò che si fa in ciò che si è che va valutata (e sviluppata) ogni qualvolta si intenda rendere il proprio talento concretezza. Che un album sia pubblicato non significa, per me, nulla. Oggi ancor di più, potendolo scrivere e produrre in casa anche con l’apporto dei più grandi artisti globali che dalla loro abitazione non hanno mosso un passo, se non fatto click per l’invio del file audio come partecipazione al disco. Non serve a nulla, salvo considerare l’ascolto e, in questo millennio, le visualizzazioni, le quali certo non corrispondono a un “la so”. Il “la so” è per chi la sa, ossia la ha ascoltata, interiorizzata, ne conosce il testo e, mi spingo oltre, anche il video, considerando che personalmente so rifare per intero tutto il videoclip di Faith nella persona di George Michael e il moonwalker di Michael Jackson, nonché il balletto di Thriller. Sto dicendo una cosa: tutto deve avere una funzione. Come dire: l’atto sessuale provoca piacere intrinseco, sì, ma si può anche usare per la riproduzione.

Carla Cocco provoca piacere, prima, poi genera. Figli. Neri. Ecco come. Un progetto, quello di Africa Sarda Studio, che sto seguendo e che ascolto in anteprima mentre lo si registra in Africa, nel compound di Bauleni, in Zambia. Qui, esattamente:


Mutatis mutandis, parte una campagna di crowfunding per un ghetto africano, su https://www.musicraiser.com/it/projects/9415-africa-sarda-studio. Classe 78, cantante sarda di origine greca che vive a Roma da 20 anni, Carla Cocco ha scelto, per il suo quarto album, di finalizzare il proprio impegno in qualcosa di ri-produttivo. Non riproduzione solo musicale, una vera e propria gravi-danza. Nel 2015, quando rappresenta musicalmente l’Italia a Lusaka (Zambia) per la XV edizione della Settimana della lingua italiana nel mondo, ha l’occasione di visitare il compound di Bauleni e conoscere gli African Voice Band, una band di adolescenti nata nei cortili del ghetto. È lì che nasce l’idea, il sogno: Africa Sarda Studio, uno studio di registrazione e insieme una scuola di musica all’interno del ghetto, per permettere ai ragazzi di studiare, esercitarsi, incidere autonomamente la propria musica e portarla fuori dal ghetto stesso, anche attraverso l’organizzazione di una serie di concerti, lontano da una realtà che è ben nota. In tal modo i ragazzi sarebbero (saranno) i protagonisti attivi dello sviluppo della comunità in cui vivono e verrebbero (verranno) sottratti al loro inevitabile destino di povertà, analfabetismo, delinquenza e tossicodipendenza. Si darebbe (darà) loro la possibilità di costruirsi un futuro diverso, nuovo, positivo. Ed una stanza nel ghetto è stata già predisposta e pensata solo per lo studio (50 mq circa).

Con In&Out of the Ghetto (www.africass.it), associazione zambiana guidata dall’educatore Diego Cassinelli, la cui filosofia è: “C’è posto per il bello e il brutto ma non più per il pietismo. Basta bambini con le mosche in faccia e il pancione”. Azione.


Diego Mwanza Cassinelli

A Natale 2017 Carla torna a Bauleni, da sola, per iniziare la produzione del disco e condividere la vita del ghetto. Sono prodotti così i primi brani, creata la base della nuova struttura.

Cos’è Bauleni? Il compound, nato come insediamento non autorizzato, è fuori dalla responsabilità e dall’interesse dell’amministrazione della città; vi è, in Bauleni come negli altri slum, una strumentalizzazione di numeri da parte di terzi per trarne vantaggio, per esempio l’aumento di cifre inerenti la popolazione del compound stesso, il numero di persone particolarmente vulnerabili e altri dati sensibili ai fini di ottenere fondi. Questo insediamento ha origine nel 1945, e prende il nome dal vecchio proprietario della terra, Mr. Boulen, ex soldato tedesco in pensione o fuggito dopo la sconfitta dalla Germania nel conflitto mondiale. Successivamente il suo cuoco, proveniente dal Malawi, con l’aiuto di altri braccianti si incaricò del funzionamento dell’intera farm.

“Dall’inizio della formazione del compound di Bauleni la popolazione cresce anno dopo anno in maniera preoccupante”. Spiega Cassinelli“Il conteggio della popolazione è un aspetto problematico, abbiamo dati poco credibili e gonfiati di alcune agenzie, che stimano una cifra di 90 mila abitanti su 8 mila abitazioni; questo vorrebbe dire una media di 11 abitanti per casa, cosa che non corrisponde a ciò che ho potuto osservare nei miei 2 anni di frequentazione del compound. Altre fonti non ufficiali abbassano il numero a 30/35/40 mila. Una delle azioni prioritarie è la quantificazione in modo più puntuale e neutro attraverso ricerche sul campo, attraverso l’aiuto dei giovani del compound: questo può diventare un progetto per i giovani dei bar”. 

Altro? L’accesso all’acqua potabile è garantita da 3 pozzi, da 3 cisterne in differenti zone e un numero non precisato di rubinetti sparsi nel compound (da ricercare). All’interno e nelle vicinanze non ci sono ospedali, bensì una clinica fondata dalla collaborazione dei Governi dello Zambia e della Danimarca, con un reparto maternità, “struttura non sufficientemente preparata a far fronte alla ingente quantità di persone affette da diverse malattie che si riversano ogni giorno per cure, terapie o per semplice consulenza”. Vi sono inoltre una clinica privata di dimensioni notevolmente più contenuta e meno attrezzata, e un dottore locale che esercita legalmente.

La campagna di crowdfunding AFRICA SARDA STUDIO, lanciata da Carla Cocco, serve a coprire in parte i costi per la realizzazione dello studio di registrazione nel ghetto; le spese per un corso di formazione di fonia per i ragazzi e i costi per la realizzazione del disco al quale parteciperanno in tanti, che si sono offerti di dare il loro contributo. Più avanti, l’organizzazione di concerti per far muovere il ghetto dal ghetto e farlo tornare, più deciso, nel ghetto. Più pronto. Più forte. Con spalle più grosse.

“Musica vuol dire condivisione, vuol dire empatia, vuol dire amore–dichiara la cantante–, ecco perché ho pensato al crowdfunding: una famiglia, la nostra, quella che costruiremo insieme, che permetterà la realizzazione di un sogno che potrebbe cambiare per sempre la vita di questi ragazzi e la nostra, perché ne saremmo gli artefici. Abbiamo tanto da imparare da loro, dalle loro risate, dai loro sorrisi. Se riusciremo a raggiungere e superare la cifra per ora fissata su Musicraiser, quella di 5 mila euro, saremo stati capaci di creare insieme una nuova sinfonia, degna dei più grandi compositori”.  

Personalmente credo che fare gli auguri di Natale da Cortina serva a ben poco. A livello globale, intesi. Per chi mastica social condividendo link senz’anima come un “adesso spogliati”. Che sia più utile un’esperienza in cui i vestiti di cui adesso spogliarsi non ci sono nemmeno, quale quella vissuta dalla Cocco in Africa, in quei giorni e nei giorni che verranno, per funzionalizzare il concetto del “la so” ed integrarlo con quello di “la do”, ossia donare i propri sforzi ad un impegno superiore. La causa può essere diversa, sono molte le cose da fare oltre allo scroll sui social. In questo caso si possono acquistare cd, concerti in casa di Carla, ed anche una settimana di “soggiorno” nel Compound di Bauleni: sono le ricompense per i donatori, tutte ben esplicitate nella piattaforma di Musicraiser. È il vero “like”, il mi piace dell’attivo. Non c’è bisogno di fare uno sforzo filosofico sul “c’è chi sta peggio” né di muoversi a compassione. Tali emozioni non servono, sciare non è vietato; ciò che è utile è l’azione. La funzionalizzazione. L’oltre. Cantare con Toquinho va bene, essere scelta per rappresentare i 100 anni di Vinicius de Moraes all’Auditorium Parco della Musica di Roma va bene, affiancare Ornella Vanoni va bene, ma scegliere come partner ufficiale del prossimo disco il Compound di Bauleni fa bene. Tutti possiamo, a nostra misura, riscrivere “We are the World”. (ROMINA CIUFFA)

GALLERY

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HO FONDATO UN CORO BRASILIANO: IL CORO DI RIOMA. L’INTERVISTA AL SUO DIRETTORE, LA BAIANA CLAUDIA MARSS

Ho pensato di fare un coro differente, e ho fondato il Coro di Rioma (Rioma Brasil è il mio giornale di cultura brasiliana, su www.riomabrasil.com), non perché a Roma non ve ne fossero, anzi: oltre agli altri, già ne sono presenti vari del Saint Louis College of Music. Ora questo, un coro brasiliano, differente semplicemente perché lo abbiamo pensato differente. Innanzitutto, un laboratorio: un corso dove apprendere poliritmia, polifonia, vocalità brasiliana, anche la sua nasalità. Ciò era mancante nel panorama romano: la docenza nella coralità brasiliana. Ma ciò che principalmente ci ha mosso è stato ascoltare la grande cantante soteropolitana (ossia, proveniente da Salvador de Bahia) Claudia Marss.

Ascoltare Claudia Marss in un concerto nel chiostro di una parrocchia (si veda: http://www.riomabrasil.com/benedetta-claudia-marss-e-benedetto-coro-di-rioma/), cui si sono uniti i partecipanti di un coro Gospel da lei educato, ci ha dato il la definitivo per la creazione del Coro di Rioma. Il grande amore verso questa docente, portatrice di valori e di «verdeoreficità», hanno rafforzato l’intento. Per la prima volta il Brasile entra dalla porta principale del Saint Louis, unica in Italia parificata all’Università con decreto. Intervistiamo Claudia Marss.

Che progetti hai per il Coro di Rioma? L’idea è di un coro di Musica Popular Brasileira (MPB). Non ne esistono molti in giro e comunque, di certo, non ce ne sono diretti da un brasiliano. E quel che fa la differenza è la percezione ritmica, sia nella conduzione dell’accompagnamento, vocale o strumentale, che nell’appoggio della melodia stessa con i suoi possibili spostamenti. Il tutto senza tralasciare l’importanza della pronuncia e della giusta vocalità. Il mio coro canta la melodia, l’armonia e fa vocalmente anche la ritmica. La musica brasiliana si sta (finalmente) diffondendo com’è successo anni fa con il jazz. Non si limita solamente a quei pochi brani in stile bossa nova che fanno parte del Realbook o a quegli altri ricantati in versione italiana. Roma non è ancora ai livelli di Parigi e New York per numero di artisti brasiliani di grande nome residenti, però la richiesta e la conoscenza del ricchissimo repertorio della MPB sta crescendo esponenzialmente. Come progetto vorrei avviare un coro che faccia dei concerti con e senza di me.

In che modo imposti il programma di lezioni, considerata l’affluenza di italiani ai laboratori con le conseguenti difficoltà? Il coro è un punto d’arrivo. Li voglio formare facendo laboratori sulla poliritmia nei diversi stili, sulla pronuncia e la vocalità, e costruiremo il repertorio mentre si formano i coristi. Ho la consapevolezza di avviare un coro brasiliano in Italia, quindi i coristi saranno italiani. Ecco perché parlo di formazione: non basta mettere insieme un gruppo di persone a cantare. Coro si diventa. Il ritmo, gli accenti, la pronuncia ed i suoi fonemi si imparano. Si può cantare in un’idioma anche se non lo si parla.

Cosa è importante conoscere per entrare a far parte di un Coro? Non è una questione di conoscenza. Si parte dal presupposto che un aspirante corista sia intonato e canti a tempo, anche se non sa leggere la musica. L’ideale è avere un gruppo dove tutti la conoscano, cantino e siano dello stesso livello, ma anche questo è un punto di arrivo. Lavorando con un gruppo misto di appassionati, mi rendo prima conto di come cantano singolarmente e di che tipo di voce hanno; una volta diviso il gruppo, si lavora per imparare a cantare coralmente. Succede solo provando insieme. Un coro può essere buono anche senza solisti di pregio, anzi, alcune volte un bravo solista non è un bravo corista. Si devono ascoltare le diverse sessioni a blocco, e all’unisono nessuna voce si deve sentire più delle altre, trovando un timbro unico che le faccia suonare come una voce sola.

Chi è Claudia Marss? Sono nata a Salvador in una zona del centro storico, a Garcia, vicino Campo Grande. Ho cominciato con la danza, entrando in una compagnia fondata da professori del Teatro Castro Alves. Nel frattempo mi diplomavo anche come perito elettronico. Finita la scuola ho fatto due anni in Conservatorio di chitarra classica, che ho abbandonato per lavorare per la TeleBahia come chitarrista e cantante. Dopo aver vinto il Festival interno l’organizzaione mi iscrisse al premio Trofeu Caymmi, e ne uscii prima come interprete emergente. Era il 1986, e a quel punto la musica ha preso il sopravvento.
Il sopravvento musicale come si esplicitò? Nel 1988 sono entrata come corista nella band baiana di Gilberto Gil con Daniela Mercuri, prima che fosse Daniela Mercury. Ho fatto tutto il 1988 con Gil, quando era candidato come sindaco di Salvador; all’ultimo momento il prefetto decise di candidare un altro e Gil rimase consigliere comunale (il più votato). La campagna tra politica e concerti finì con questo, dopo molte tournée in tutto il Brasile.

Come sei arrivata in Italia? Avevo conosciuto un musicista italiano, Corrado Nofri, che aveva portato il jazz a Salvador (uno dei rari che aveva il Real Book, importato dall’Italia, con il quale fece impazzire tutti). Registrai un paio dei suoi brani, cantammo anche nell’isola di Itaparica, e nel 1990 mi invitò in Italia a fare concerti di promozione del disco. Dopo tre mesi a Vetralla per concerti, a Roma conobbi mio marito e mi trattenni. Era il luglio del 1990.

Com’è continuato il tuo percorso musicale? Con la Folk Magic Band, nata negli anni 70, che Nofri aveva rimesso su negli anni 90, dove si concentrava tutta la musica del quartiere di Testaccio, da Lillo Quaratino, Guerino Rondolone ed altri, una big band di 25 persone con brani originali. Quando cominciò a funzionare, Nofri tornò in Brasile. Mi avvicinai per caso al Blues con Harold Bradley, ed ebbi accesso alla musica Gospel e alla conoscenza di un altro grande americano, Nehemia Brown. Quest’esperienza fece crescere moltissimo la mia voce: da una voce più sottile e nasale passai a un timbro più ricco e amplio, cantando diversamente anche la musica brasiliana.

Dalla nasalità brasiliana al Blues cosa corre? La voce è leggermente di gola, le cantanti brasiliane sono spesso autodidatte ed hanno una vocalità molta nasale: la musica brasiliana non esige più di tanto l’esplosione americana. Ho sperimentato ancora utilizzando la mia radice afro-baiana riletta in chiave jazzistica, più ricca armonicamente con colori percussivi tipicamente afro-baiani ed aperture armoniche più jazzistiche, rentrando ancora nella musica brasiliana, che non ha confini, ma con una sperimentazione più azzardata, senza accontentarmi di cantare semplicemente i brani ma dando loro una connotazione particolare.

Qual’è l’idea migliore che hai della voce? Molti in Brasile hanno usato la voce anche come strumento, non solo emotivamente: ricordo Ellis Regina, grande interprete di colori e di dinamica, ma anche voce potente, o Milton Nascimento, che crea atmosfera e riporta nella dimensione trascendentale solo col suono della voce senza niente di particolare sotto. L’idea della voce come strumento di trasporto. Poi ho scoperto Lenine Andrade, la chiave jazzistica nella musica più brasiliana: cantante che non era semplicemente «canarino», ma anche strumento.

Hai sostituito Amy Stewart. Com’è nata la tua collaborazione con Nicola Piovani? Insieme a Vincenzo Cerami, Piovani aveva scritto uno stupendo spettacolo, “Stabat Mater – La Pietà”, per la solista nera Amy Stewart (che a quel tempo lavorava con molti, tra cui Ennio Morricone), al suo fianco una cantante lirica, Rita Cammarano, e i testi di Cerami letti e recitati da Gigi Proietti. Dopo 5 anni dalla presentazione di questo spettacolo, la compagnia fu invitata a Betlemme a mettere la prima pietra per la costruzione di una gigantesca scuola elementare gestita dai francescsni. Amy aveva uno spettacolo su Billie Holiday e per sostituirla furono fatti dei provini: Piovani mi scelse e mi portò a Betlemme e Tel Aviv.

In quali altri progetti hai partecipato? Molti. Nel 2008 ho avuto una partecipazione con la Fondazione Toscanini, che aveva chiamato la Jazz Art Orchestra e, in omaggio a Nini Rosso, più di 50 musicisti avevano scritto brani da cinema anni 50 e 60. Un progetto molto azzardato è stato quello di voci gospel ed un quartetto d’archi barocco, con arrangiamento della musica dei Padri Fondatori secondo il Gospel degli anni 70. Il testo era del ‘600, la musica del ‘700 (di Bach), spinto fino al Gospel del 900.

Hai lavorato mai in Brasile in seguito? Con molti musicisti che purtroppo non hanno pubblicato dischi, tra cui Franco Brasiliano, Acelino de Paula, Ricardo Feijão, bassista nei primi dischi di Marisa Monte, Robertino de Paula (figlio di Irio), Alvinho Senize, chitarrista di Alcione, Augusto Alves. Una parentesi italiana anche con Roberto Ciotti.

Vi invitiamo a partecipare al Coro di Rioma, perché la coralità possa divenire il simbolo di un passaggio obbligato di crescita, ove non di rinascita e conoscenza interiore e dell’altro. Per contatti didattici o di agenzia: info@riomabrasil.com – www.riomabrasil.com

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REPORTAGE AMATRICE. MAX DE TOMASSI: SE DOMO NON VA AL BRASILE È MARISA MONTE CHE VA A DOMO

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L’intervista di Romina Ciuffa a Max De Tomassi giornalista, esperto di Brasile e uno degli 8 residenti di Domo, dove ha portato in vacanza Marisa Monte pochi giorni prima del sisma.

Sono 69 le frazioni di Amatrice, la più distante è Domo, a 14 chilometri e 24 minuti secondo Google Map. Sita a 870 metri sul livello del mare, ha, d’inverno, 8 residenti. Tra questi il giornalista Rai Max De Tomassi, conduttore radiofonico della trasmissione «Brasil» e profondo conoscitore della cultura verdeoro. La sua casa è caduta, come le altre, il pagliaio, avente un tetto di legno, si è mantenuto. Si trovava all’interno dell’abitazione, alle 3:36 del 24 agosto, sua figlia Benedetta, che trovandosi in salone non è rimasta colpita dalle macerie che sono crollate nella sua camera da letto.

Domo ha una storia sismica interessante: infatti, nel 1639 era già stata completamente rasa a terra da un terremoto, e ricostruita. Ma più in là, dove ora si trova. Max De Tomassi mi descrive la situazione del suo «vilarejo», in portoghese brasiliano letteralmente «villaggio», e titolo di uno dei più noti brani della grandissima cantante Marisa Monte che proprio a Domo aveva trascorso, pochi giorni prima del sisma, le vacanze.

Domanda. Si è fatto molto parlare di Amatrice ma pochi si sono soffermati sulle frazioni che sono, comunque, rimaste colpite dal terremoto.
Risposta. È bene sottolineare l’importanza delle frazioni. Amatrice è un Comune di Rieti, recentemente il decreto ha dato determinate garanzie ai possessori di seconde case. A Domo, come nelle altre frazioni, molti posseggono una seconda casa, si tratta di una delle economie più importanti di Amatrice che riempie di persone tutto il territorio comunale per le vacanze estive ed invernali. Va enfatizzata l’importanza delle frazioni e quindi anche di un posto piccolo come Domo. Non ci sono frazioni particolarmente grandi, si possono trovare una quarantina di persone.

D. Lei è uno degli 8 residenti.
R. Sì, siamo 8, ma di frazioni come Domo ce ne sono tante. Domo è un posto unico, e qui subentra il campanilismo che è in ognuno di noi: quindi per me Domo è il posto più bello del mondo perché ci sono cresciuto, perché lì ho imparato ad andare in bicicletta, perché cacciavo le lucertole, raccoglievo i funghi con le castagne, facevo una vita libera. Domo è la libertà per tutti noi che ci siamo cresciuti e che ci siamo fatti grandi da quelle parti, Domo è il posto in cui i genitori aprono la porta di casa e dicono ai figli: «Torna a pranzo», e i figli rientrano soli perché non ci sono rischi di automobili o di altro tipo. È il posto ideale per meditare, per ritrovarsi, per fare le cose più semplici della vita, che sono anche le più belle: stare davanti al camino, fare passeggiate nel bosco, cercare le sorgenti di acqua purissima, pescare le trote con le mani, parlare con i pastori, mangiare formaggi appena fatti, in una dimensione d’uomo bucolica.

D. Domo è stata colpita dal sisma?
R. È stata colpita da un punto di vista architettonico. La maggior parte delle case sono inagibili, ma non ci sono stati morti.

D. Vi accorperanno nei moduli abitativi con altre frazioni?
R. Al Coc mi hanno detto che daranno moduli abitativi a chi ne farà richiesta e ne avrà il diritto, e li accorperanno in luoghi dove sarà più semplice fare opere di urbanizzazione.

Schermata 2016-11-02 a 13.18.18D. Una delle più grandi cantanti brasiliane, Marisa Monte, è venuta in vacanza a Domo pochi giorni prima.
R. A giugno mi trovavo in Brasile da lei, pranzavamo come sempre a casa sua, e mi ha manifestato il suo desiderio di fare un viaggio in Italia. Le ho proposto di venirmi a trovare in montagna, a Domo, per poi andare insieme al mare, in barca, per farle conoscere il Mediterraneo. Così è arrivata con suo marito e i suoi figli facendo una prima tappa a Venezia, città d’arte, passando per la montagna e quindi arrivando tutti insieme in Sardegna.

D. Ha avuto la fortuna di vedere luoghi che ora non esistono più.
R. Esatto, siamo stati anche a visitare Amatrice. Racconto un aneddoto: da poco mi ero tagliato i capelli dal mio barbiere di sempre, Pietro Serafini, di 84 anni, e incontrandolo lo salutai presentandolo. Così pensarono che sarebbe stata una esperienza farsi fare i capelli «all’italiana», e chiedemmo a Pietro se avesse due posti liberi per loro nel suo negozio. Lui li accolse con gioia e tagliò loro i capelli. Pietro, un simbolo di Amatrice, è morto sotto le macerie. Mi tagliava i capelli fin da quando avevo un anno, era lui ad avermi fatto il primo taglio.

D. La sua casa ha subito danni?
R. È inagibile, va abbattuta e ricostruita da zero.

D. Domo nel 1639 ha subito un altro terremoto, quindi era già stata ricostruita da capo.
R. Sì, ma era stata ricostruita in un’altra area: l’area del terremoto del 1639 adesso è solo un prato 400 metri più in là.

D. Sembrerebbe un triste destino.
R. È un’area sismica: non si può cambiare il destino spostandosi di 400 metri.

D. Ma oggi Domo non è completamente distrutta, si potrà ricostruire sopra lo stesso borgo.
R. Sì, inoltre le tecniche sono diverse, anche perché probabilmente la ricostruzione su case del 1600 sarebbe stata molto più complicata di oggi. Oggi si distrugge e si rifà.

D. Aggiungendo che ora c’è più cultura del terremoto, si potranno fare costruzioni antisismiche, anche se commettiamo spesso gli stessi errori.
R. Sì, ma consideriamo anche l’ignoranza dell’essere umano che dopo il primo terremoto ha costruito palazzi pensando che contro un tale cataclisma bastassero delle pareti profonde 60 centimetri. Con gli anni la legge è cambiata, ma le pareti e le mura sono rimaste le stesse di un tempo, nonostante la legge antisismica imponesse il tetto in cemento: eppure è stato proprio questo tipo di tetto che ha fatto crollare le case. Paradossalmente il mio pagliaio, avente un tetto di legno, non ha subito danni.

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D. Marisa Monte ha scritto una delle canzoni di maggior successo, «Vilarejo».
R. «Vilarejo» significa «villaggio», e già nel mio emotivo identificavo questo «vilarejo» di cui parlava il suo testo nella mia Domo. Quest’estate, quando eravamo a casa mia, sentivo Marisa parlare al telefono con la moglie di Caetano Veloso e le diceva proprio questo: che ci trovavamo in un vero e proprio «vilarejo», dove ci si conosce tutti, si mangia insieme, si vive in collettività.

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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EVANDRO DOS REIS: UN MICHAEL JACKSON DI “VERDEORO” COLATO

di ROMINA CIUFFAEvandro Dos Reis, chi non lo conosce? Tutti sanno che è stato, a Roma, uno dei fondatori del movimento brasiliano di questo millennio, importando dal Brasile la roda de samba che, con un altro folto gruppo di brasiliani, ha animato le notti prima della Fonderia, poi di molti altri luoghi e locali romani, come si fosse a Ramos, zona Nord di Rio de Janeiro, dove è attivo dal 20 gennaio del 1961 uno dei blocchi carnevaleschi più noti, quello dei Cacique de Ramos. Così Evandro, trasferitosi a Roma pieno di valigie musicali, ci ha trasportato da Roma a Ramos attraverso dei grandi capotribù, i Cacique de Roma. Da allora l’attività di questo paulista non è mai terminata in Italia, che grazie a lui ha conosciuto meglio non solo il Samba, nelle note della sua chitarra e del suo cavaco, ma anche il genere del Forrò, che Evandro predilige (oggi questa predilezione si è formalizzata nel gruppo neonato a San Paolo, i Matuto Baião) non mancando la tradizione della MPB, della quale Evandro Dos Reis ci rende partecipi da sempre. Tornato stabilmente in Brasile, trascorre vari mesi l’anno a Roma, facendo parte integrante e fondamentale dell’Orchestra di Piazza Vittorio, di recente essendo stato anche tra i protagonisti incontestabili del Roma Forrò Festival, figlio anche di quella generazione che al Beba do Samba di San Lorenzo ha avuto l’occasione di conoscere cosa voglia davvero dire “verde-oro”. Chi non conosce Evandro Dos Reis? Nessuno. Ma chi lo conosce bene, davvero? Pochi. Per questo, lo intervisto per dar conto di una realtà capiente che ci ha liberati dalle dissonanze, e sapere di Evandro cose in più: dov’è nato, cosa lo ha portato in Italia, etc.? E poi, chi è che sa che lui cominciò come i Jackson Five, nella band dei cugini, Tudo em Familia? Un brasiliano Michael Jackson, per noi “verdeoro colato”.

Evandro, puoi raccontare discorsivamente ed emotivamente la tua biografia? Sono nato a Osasco, in Brasile, in una famiglia di musicisti, mia mamma e le mie zie cantano benissimo, suo padre (mio nonno) e suo fratello suonano e costruiscono fisarmoniche, sono cresciuto ascoltando loro cantare nelle feste di famiglia, ma anche a pranzo o durante le faccende quotidiane. Quando ho fatto 6 anni mio cugino mi ha regalato uma chitarra classica e mio padre mi ha messo in uma scuola di musica dove ho studiato per 4 anni. A 10 anni sono entrato in Conservatorio, dove ho studiato per 7 anni; e nel mentre ho fondato la mia prima band Tudo em Familia assieme ai miei cugini, abbiamo fatto um sacco di concerti in giro per São Paulo e inciso un vinile in un festival di samba dove la prima canzone che io ho composto é arrivata quarta. A 17 anni mi sono iscritto alla Universidade Livre de Musica dove ho studiato per 4 anni e, appena finito, ho iniziato a lavorare in una nave da crociera. Lì ho conosciuto quella che poi sarebbe diventata mia moglie, e così sono finito in Italia.

In Italia quale è stata la tua esperienza? La prima persona con la quale ho lavorato in Italia è stato Giacomo Bondi, con lui ho collaborato come strumentista e come autore, e nel 2004 abbiamo inciso um cd, “Evandro Reis”, con delle mie canzoni arrangiate da lui. Tramite questo lavoro siamo stati invitati dal conduttore radiofonico di Rai Uno Max de Tomassi per fare un’intervista nella sua trasmissione Brasil: Max è stato ed è tutt’ora una persona con cui collaboro e chiacchiero volentieri di musica. Tramite lui ho lavorato prima con Franco Cava, suonando nella sua band in Italia, e poi com Jovanotti nella band che ha suonato al Live8.

In che modo sei entrato a far parte dell’Orchestra di Piazza Vittorio?  È una storia interessante: tre anni prima ero stato invitato da Mario Tronco a suonare con l’Orchestra di Piazza Vittorio (OPV) che in quel periodo aveva appena fatto il primo concerto, La cosa non si era conclusa e le nostre strade si erano divise, fino a quando due miei amici in vacanza dalla nave persero il treno che da Genova li avrebbe portati a Roma e, rimasti un giorno in più a Genova, la sera andarono a vedere l’OPV e a fine concerto, chiacchierando con il Maestro Tronco, hanno contestato il fatto che in un’Orchestra del genere non vi fosse un brasiliano. Mario parlò di me e loro, increduli, gli confidarono che il giorno seguente sarebbero stati ospiti a casa mia, così Mario gdiede loro il suo numero di telefono dicendo di chiamarlo. L’ho fatto e ci siamo dati appuntamento per settembre quando l’Orchestra avrebbe iniziato a registrare il suo secondo album “Sona”, senza sapere nel mentre che io suonavo nella band di Jovanotti e Jovanotti aveva invitato l’Orchestra a fare una partecipazione ad una canzone, così ci siamo rivisti proprio in occasione del Live8 e da lì è iniziata l’avventura più bella della mia vita: ho suonato con l’OPV per 8 anni e con essa ho realizzato tutti i sogni che un bambino che impara a suonare uno strumento musicale ha, ho inciso dischi incredibili, ho suonato nei più importanti palchi e del mondo, ho lavorato con produttori mondialmente conosciuti. L’Orchestra mi ha dato la possibilità di capire e conoscere musiche, culture, credenze e ideologie che porterò con me per sempre, ogni musicista che suona in quel gruppo potrebbe scrivere libri e libri di storie e conoscenze e convivere con questo: l’esperienza non ha prezzo! Il mio lavoro con l’Orchestra ha avuto un’interruzione nel 2012, la crisi aveva portato dei cambiamenti in Italia ed io nel mentre sentivo un’enorme curiosità di capire chi ero al di fuori del contesto di gruppo, L’Orchestra è comoda perchè ti fa sentire importante, ma volevo capire cosa avrei potuto combinare da solo, o semplicemente in un contesto diverso, così sono partito per una vacanza alla fine del 2012 ed ho deciso di restare in Brasile.

In sintesi: la mia storia con l’Orchestra di Piazza Vittorio comincia nel 2002 anche se il mio ingresso è stato nel 2005 dopo l’incontro sul palco del Live8 dove suonavo con Jovanotti e lui ha invitato l’Orchestra a partecipare alla presentazione, ho iniziato durante le registrazioni del disco Sona, poi nel 2006 e 2007 abbiamo girato il mondo con il disco ed il documentario, nel 2008 e 2009 abbiamo fatto il primo spettacolo teatrale, il Flauto Magico, dove io facevo uno dei 3 fanciulli, con il quale spettacolo abbiamo girato tanto; nel 2012 abbiamo fatto il disco Isola di Legno, con canzoni autorali  disco  che coincide con il mio ritorno al Brasile, fino al 2015 quando sono stato chiamato dal Maestro Mario a Roma per fare il Don Josè alla Carmen secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio.

Quali sono state le tue prime esperienze musicali? E come si è susseguita la tua carriera musicale fino ad oggi? Con i i miei cugini nel gruppo “Tudo em Familia” ho iniziato a suonare nei primi palchi “veri”, ho scritto le mie prime canzoni, ho inciso una canzone in un disco per la prima volta! La mia carriera musicale è stata piena di colpi di scena e molto intensa fino a qui, ho iniziato molto presto e tutto quello che io sono intelettualmente e ideologicamente parlando lodevo alla musica.

Chi sono stati i tuoi principali ispiratori? Musicisti o falegnami, genitori o insegnanti, bulli o matematici… che nomi? Da sempre sono ispirato dalle cose che mi circondano, sono sempre stato molto curioso ed ho sempre il perché dei bambini piccoli, la strada brasiliana, credo, sia stata la prima ispirazione, quando ero ragazzino si cresceva molto in fretta in Brasile, stavamo sempre per strada a giocare prima, amare e lavorare dopo, tutto molto velocemente. Ho da sempre preso ispirazione dalle cose che mi capitavano o incuriosivano, le mie storie d’amore (banale ma vero) sono state le prime ad uscire dalla mia mente per finire sulla carta, ma ho avuto anche muse ispiratrici della cui figura mi innamoravo, ma che non necessariamente divenivano storie d’amore, “Tatuagem” infatti, la prima canzone del disco della Matuto Baião l’ho scritta per una ragazza che ho visto ad un matrimonio, lei aveva un bellissimo tatuaggio sulla schiena. Poi ho scritto altre per lei che non ho ancora inciso e non siamo mai stati insieme… Scrivo spesso cose sul calcio, il calcio è troppo bello e non c’è bisogno di aggiungere altro.

Cosa ti ispira in questo momento? In questo perìodo sono molto ispirato dalla filosofia, il concetto delle cose: partendo dai greci fino al nostro periodo, leggo libri e libri, finisco uno che menziona un’altro e così via… Mario Sergio Cortella mi ispira molto, ma anche Clovis de Barros, tramite loro ho conosciuto Umberto Eco, ma anche Kant ed altri, a volte penso che impazzirò! Non ha fine questa cosa! Comunque l’ispirazione può partire nei modi più assurdi, ieri ero nella metropolitana e leggevo un post di un’amica, Carmel Dutra, che tornando da un viaggio spiegava la parola africana ubuntu che esprime una filosofia ed un antico concetto di etica: “Sono ciò che sono perché siamo tutti noi”. Alla fine lei ha scritto “porque sou o que sou pelo que nós somos”, sono ciò che sono per quello che siamo noi. Io ho commentato: “Ne uscirà fuori una bellìssima canzone”, e lei ha confermato: “Sarebbe bellissimo”. L’ispirazione tramite ciò che mi circonda!

La Banda Matuto Baião, appena nata, è il tuo passo musicale più recente, ed è un passo di Forrò. Puoi raccontare in che modo si è formata e cosa vi anima? La band è formata da 3 persone io, Tiago Nepomuceno e João Lopes, ci siamo conosciuti tramite Priscila D’Oro, assistente di direzione forrozeira e mia amiga del cuore che ho conosciuto a Roma. Quando siamo tornati in Brasile frequentavamo i forró di São Paulo e lei me li ha presentati, siamo diventati amici e condividevamo l’idea che la scena del “forró pé de serra” in Brasile non era molto creativa, ci sono molti musicisti e band valide ma molte cose sono semplicemente copie del lavoro fatto da Luiz Gonzaga. Noi volevamo fare un lavoro autorale, qualcosa che in grande o in piccolo contribuisse alla causa.

Sono brani autoriali: di cosa parlano? Chi li scrive? I brani li scriviamo io e Tiago Nepomuceno e i temi sono vari, ma in comune hanno la semplicità della vita quotidiana, cose semplici come il fatto di chi lavora tutta la settimana aspettando di andare al Forró nel fine settimana a ballare con una certa persona (“Passo a passo“), oppure di una persona che vive in campagna e riesce a vincere anche in un contesto urbano (“Resposta a saudade”), ecco, questioni di vita semplici, e a volte anche complicate. Obiettivamente, questo “penta”album ha una qualità molto elevata.

Il Forrò è sempre stato appannaggio di alcuni grandi (è proprio del Brasile “ripetere” brani altrui, differentemente dalle modalità italiane). Cosa ti/vi ha dato questo coraggio? Ho fatto sentire ad alcuni amici che hanno band o lavorano con il Forró i nostri brani quando ancora erano demo e la loro reazione era sempre meravigliata: “Tutti brani vostri? Non ci sono cover?”. Questo perché nel ambito del Forró esiste da sempre la filosofia di ri-registrare brani, a volte, con un arrangiamento molto simile alla versione originale. Noi pensiamo invece che è fondamentale avere un’identità di gruppo, nel disco è stata una scelta pensata anche per la quantità di musica che io e Tiago scriviamo, abbiamo molto materiale, ma anche nei nostri concerti a São Paulo le cover che facciamo sono pensate, sono meno conosciute e sono riarrangiate per avere la nostra impronta.

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Una sfida ad ampio margine, un “salto nel vuoto?”, o meglio: un Forrò acrobatico: sarà un successo in Brasile? C’è la possibilità che “vosso Forrò” possa essere ballato nel Pelourinho o alla Feira de São Cristòvão, o inserito nella programmazione accanto a “Esperando na Janela”? O più probabile nei club vip di San Paolo? Noi facciamo del nostro meglio per aprire un nostro spazio, più spazio riusciamo ad avere meglio è, in realtà il forro “pé de serra”, quello di Luis Gonzaga ha un pubblico specifico e fa più sucesso al sud del Brasile che al nord dove è nato. Quindi conquistare questo pubblico è il primo obiettivo.

Sappiamo che il Forrò è nordestino. Voi nascete più a sud (per non dire troppo più a est… fino a Roma). Com’è il panorama forrozeiro di San Paolo? São Paulo senza dubbio è il posto dove si balla più Forró “pé de serra” di tutto il Brasile, la stramaggioranza delle band di Forró sono di São Paulo, c’è Forrò dappertutto ma a San Paolo la cosa è veramente grande.

Che differenza c’è tra il Forrò paulista/paulistano e quello nordestino? Il Forró è venuto dal Nordest del Brasile ma è stato diffuso per il resto del Brasile tramite Rio de Janeiro negli anni 40 e ha avuto il primo momento di moda in tutto il Brasile negli anni 50, fino agli anni 70 ha sempre avuto una grande buona fetta di mercato, negli anni 70 e 80 è caduto a causa della crescita della bossa nova e della Jovem Guarda, in questo perìodo gli artisti si spostavano tra Rio e São Paulo dove molti nordestini venivano a tentare fortuna, ed andavano al Nordest nel periodo delle feste “juninas” (nel mese di giugno). Nei primi anni 90 è apparso al Nordest un nuovo tipo di Forró, non più con il trio sanfona (fisarmonica), zabumba e triangulo, ma con intere band, con batteria, basso, chitarra, ed una proposta molto più commerciale e molto meno autentica. Da allora al Nordest si suona più questo tipo di Forró mentre al Sudest è rimasta l’anima del Forrò tradizionale. Per carità, si suona il Forró tradizionale in tutto il Brasile e anche quello moderno si suona dapertutto ma sicuramente l’anima del Forró moderno è al nordest mentre il tradizionale è rimasto al sudest.

Puoi dirci cosa distingue questo “vosso” Forrò dal Forrò “deles”? Credo che il “nosso forrò” sia esattamente questo, un richiamo al Forrò che ho imparato dai miei genitori nordestini, un richiamo al Forró che é quello tradizionale, un omaggio ai compositori ed artisti che portano avanti una musica che è autentica brasiliana.

Perché “Matuto Baião”? Puoi spiegare al pubblico italiano il retroscena culturale, mentale, psicologico, ed anche nudo e crudo di questo nome? “Matuto” da noi è un persona che “non vive la vita di città”, una parola che molte volte è usata per un contadino o una persona che ignora certe cose come la tecnologia, al Nordest però si usa dire “matuto” a una persona intelligente “che pensa”, che “matuta”, riflette sulle cose. Io amo questa parola ed è stato il primo nome che Tiago ci ha suggerito. Mi fa pensare che il Baião, che è un ritmo, si sia personificato, o che il Baião è furbo, mi piace peensare a che faccia avrebbe avuto il “Matuto Baião”.

Cos’è il Baião? Baião è un ritmo brasiliano regionale, ballato al Nordest nelle feste popolari, registrato in vinile per la prima volta negli anni 30 con Luiz Gonzaga con la canzone omonima che spiega nel testo letteralmente “come si balla il baião”, da allora ballato in tutto il Brasile ma anche in molti posti del mondo, come Roma.

Sono solo 6 brani, in questa “Parte 1”. State procedendo a nuove composizioni? Dov’è possibile reperire il disco? Esiste un supporto fisico? Il disco è in tutte le piattaforme digitali, streaming o per download.

Avete in previsione un tour di presentazione in Brasile e/o in Europa/Italia? In Brasile stiamo suonando in posto importanti come il Remelexo a São Paulo, uno dei posti più importanti del Forrò “pé de serra”.

A Roma sei conosciuto molto per il Forrò, ma anche per aver portato, insieme ad altri brasiliani, la roda di samba dei Cacique de Roma. Puoi raccontarci come hai vissuto il Brasile romano, come lo hai visto evolvere e, dopo essere tornato in Brasile, come lo hai trovato ora che, di recente, sei tornato a farci visita? Roma è casa mia e per tanti versi mi piace molto che i brasiliani siano benvisti dal popolo italiano, mi piace che la nostra musica sia conosciuta dagli italiani, la comunità brasiliana a Roma è bella e folclorica, in generale ci si aiuta molto. La roda dei Caciques de Roma è stata una delle cose più belle che io abbia fatto nella vita, mi sono reso conto ancora di più quando sono tornato ed ho visto il Coletivo do Bigode, dove ci sono tante persone che suonavano con noi allora, mi piace ancora di più che quando ho visto per la prima volta tutti i musicisti erano italiani e la qualità della musica non ne rissentiva la mancanza di musicisti brasiliani. Questo è bello e fa capire il legato che i Caciques hanno lasciato.

Il Forrò in Italia: come lo trovi? Hai partecipato al Roma Forrò Festival. Com’è stata questa esperienza? Con chi hai avuto occasione di suonare? Sì, ho partecipato al Roma Forrò Festival e mi è piasciuto molto perché ho incontrato una comunità proveniente da tutta l’Europa apapssionata e che porta con avanti Francesca Maiolino il Forró autentico! Francesca sta facendo un gran lavoro con il Forró a Roma, la comunità è cresciuta molto e balla con maestria.

C’è qualche forrozeiro in Italia che è al livello di un forrozeiro brasiliano? Sì, ci sono persone che ballano il Forró alla grande in Italia o “meninão Ruggero” e la “menininha Martina” sono esempi ma potrei citarne molti altri, a partire da Francesca. Per me è bello vedere e far parte di questa realtà.

Come suona ai tuoi orecchi la pizzica? La pizzica è quasi una filosofia! È incredibile come si suona e come si balla, ho avuto la fortuna di suonare alla notte della taranta a Melpignano e la cosa è di un’altro mondo. Trovo che questa cultura regionale sia la motivazione per la quale voi imparate a ballare altri ritmi come la Salsa o il Forrò, siete un popolo di ballerini e di gente a cui piace fare festa, questo unito alla cultura poppolare forte che c’è in Italia vi aiuta molto a capirne altre manifestazioni simili.

Qual è l’obiettivo “sogno” che vorresti raggiungere? Credo di aver raggiunto molti di questi obiettivi, vorrei fare una carriera nella mia patria, ecco, questo sarebbe il sogno attuale.

Suonare… con chi? Un italiano/a e un brasiliano/a. E…? Se avessi avuto la possibilità avrei voluto suonare con Pino Daniele, ed in Brasile sicuramente con Gilberto Gil, il mio preferito.

Domanda per noi: come hai percepito “Rioma”? Ho scoperto Rioma conoscendo Romina!

Domanda a piacere (obbligatoria!) “Sei felice di quello che hai fatto fino ad ora con la musica?” Assolutamente sì.

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BRASILE: CHE SUCCEDE? CON ICBIE EUROPA ONLUS LA DIFFERENZA TRA COLPO DI STATO ED IMPEACHMENT È SPIEGATA MEGLIO

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L’incontro «Brasile: che succede?», tenutosi a Roma il 16 aprile 2016 nelle sale dello Spin Time Lab di Via Statilia, ha messo in luce alcuni punti brasiliani di cui oggi si parla ma che molti stentano a comprendere: dal colpo di Stato all’impeachment del presidente Dilma Rousseff. Cosa sta davvero accadendo? Lo spiega l’Icbie Europa Onlus presieduta dall’avvocato Paolo Mauriello, figlia dell’Icbie Salvador, insieme a Rioma Brasil e all’associazione Meta Brasil costituita in Roma; relatori il professor Alfredo Copetti Neto dell’Università Statale del Paranà, Fabio Marcelli dell’Associazione dei Giuristi Democratici, Gislaine Marins di RAiZ-Movimento Cidadanista.

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L’Icbie brasiliana è stata pensata non solo come luogo di istruzione formale, ma come punto di scambio interculturale nonché sede operativa di riferimento sul territorio per la popolazione locale (soprattutto giovani). Lo scambio è inteso anche come dialogo culturale tra Italia, Europa, Sud e Nord America e luogo d’incontro tra persone provenienti da estrazioni sociali diverse, disposte a mettere al servizio della comunitá Icbie la propria professionalità e abilità artistica per contribuire allo sviluppo culturale, della formazione e dei mestieri, aumentando in tal modo le speranze e le prospettive future per una occupazione e un’inclusione sociale dei propri studenti, in un momento di grande crescita economica del Brasile. A Roma, essa opera come Icbie Europa.

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Mauriello spiega: «Vorremmo farci un’idea della reale situazione brasiliana. L’Icbie Europa, onlus che opera nell’edificio occupato dello Spin Time, ha pensato di organizzare un incontro specifico insieme a Rioma Brasil e Meta Brasil, per confrontarci sul Brasile che in qualche modo tanto amiamo. Effettivamente la situazione brasiliana, oltre a mutare velocemente, pone una serie di interrogativi, e ognuno dei nostri relatori li affronterà in maniera differente. In Brasile il confronto è a dir poco aspro e lo si capisce anche dalla prospettiva italiana. Sicuramente alcune delle cose che accadono in Brasile preoccupano noi dell’Icbie, ci spaventa vedere che vi è qualcuno che invoca apertamente il ritorno della dittatura o che evoca persone che ebbero un ruolo nefasto e losco durante la dittatura, questo ci dispiace. Preoccupa che in una parte della società brasiliana ci sia disappunto per il processo di inclusione che ha visto gli ex svantaggiati o poveri essere i protagonisti di questi ultimi anni. Non ci piacciono i fenomeni di malcostume e le ruberie che imperversano, e lo dico soprattutto per coloro che più hanno avuto a cuore le sorti del Partito dei lavoratori, il PT, assistendo a prese di posizione di personaggi che a non tutti piacciono».

Seguono gli interventi di Gislaine Marins, Alfredo Copetti Neto e Fabio Marcelli, come seguiti da Rioma.

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«A prescindere dalla posizione che un brasiliano possa avere riguardo a tutta questa vicenda, sicuramente è una situazione di sofferenza per noi». Gislaine Marins è membro di RAiZ, una nuova formazione politica e un nuovo movimento della sinistra brasiliana. Cita il discorso di Dilma Rousseff in cui la presidentessa presenta il documento della Commissione sulla verità sui crimini della dittatura militare selezionando tre affermazioni di Dilma: 1 – «Sono sicura che i lavori della Commissione sono il risultato dello sforzo della ricerca della verità, del rispetto della verità storica e dello stimolo alla riconciliazione del Paese con se stesso tramite la verità e la conoscenza. 2 – «Ora la verità permette che si possa dire, capire e sapere tutto, la verità significa l’opportunità di promuovere il nostro incontro con la storia del popolo». 3 – «Meritano la verità coloro che continuano a soffrire come se morissero di nuovo e sempre ogni giorno». Nell’affermare ciò Dilma si è trattenuta dal piangere. La dittatura è una cosa indegna, non accettabile in un Paese civile.

Una breve cronistoria. Due giorni dopo le elezioni la Camera boccia il decreto bolivariano che istituisce i consigli popolari. Il 2 novembre 2014 i manifestanti a San Paolo chiedono l’impeachment di Dilma con l’intervento militare per destituirla a cui partecipano 2.500 persone. Il 18 dicembre 2014 il Partito socialdemocratico (PSD) chiede al tribunale elettorale di revocare la vittoria di Dilma perché è accusata di fare campagna con i soldi della corruzione. Il 4 gennaio 2015 il Partito democratico brasiliano (PDB) ritira il sostegno incondizionato a Dilma in Senato. Il 15 marzo 2015 il Brasile vive giorni di proteste massive contro Dilma, circa 1,4 milioni di manifestanti; sono passati solo 4 mesi dalle 2.500 persone che chiedevano l’impeachment di Dilma e hanno messo in moto questa macchina. Il 13 giugno 2015 parte la campagna elettorale di Dilma mascherata da intervista, cosa che è stata vista come un’accusa. Il 28 settembre 2015 il presidente della Camera brasiliana Eduardo Cunha, del Partito del Movimento democratico brasiliano (PMDB) afferma che saranno discusse le richieste di impeachment di Dilma e il presidente della Camera può o rifiutare o accettare le richieste e dichiara che l’analisi è parte della valutazione decisionale che si sta effettuando.

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Il 7 dicembre 2015 Dilma è accusata di mentire e sabotare il PDB, anche se da gennaio il PDB ha abbandonato il sostegno a lei. Il 16 marzo 2016 le intercettazioni complicano la situazione di Dilma e Lula e la diffusione di una telefonata aggrava la crisi politica. Il 29 marzo 2016 il giudice Moro ammette dinnanzi al Tribunale superiore federale di avere sbagliato nelle intercettazioni di Lula e Dilma. Il 30 marzo 2016 il PDB rompe con Dilma, e questa è la terza volta, il Governo promette un impasto e vuole il vicepresidente come golpista. L’8 aprile 2016 Cunha minaccia di accettare nuove richieste di impeachment contro Dilma e la misura verrebbe presa se il Tribunale superiore federale accettasse il processo contro il medesimo, presidente dalla Camera dei Deputati e terzo nella linea successoria ovvero eventuale vicepresidente in caso di allontanamento definito della presidente Rousseff.  «Quindi–sottolinea Marins–da uomo che valuta la situazione, si passa a un uomo che mette in atto un ricatto: se fai il processo di impeachment contro me, io accetto nuove richieste di impeachment contro Dilma. Una denuncia presentata al Tribunale superiore federale afferma che il presidente della Camera ha commesso reato di corruzione; vorrei sottolineare che contro Dilma non c’è nessuna denuncia di reato».

Nella seconda parte del suo intervento Gislaine Martins presenta i protagonisti della notte del 17 aprile, cioè del discorso di Dilma, i quali, ogni volta che si avvicinavano al microfono, dicevano «Voto per Dio, la famiglia e gli amici». Il partito di Dio, in Brasile chiamato «partito della Bibbia», non è un vero è proprio partito bensì uno schieramento trasversale perché racchiude più partiti. Si tratta del BBB, acronimo per la Bancada do Boi, Bíblia e Bala (bue per latifondisti, Bibbia per Bíblia e proiettile della pistola per bola). Questi parlamentari sono favorevoli al porto d’armi e la maggior parte di essi ritiene che la povertà e la criminalità siano legate alla mancanza di uguali opportunità per tutti.

«In questo caso–spiega la Marins–le uguali opportunità sono una specie di meritocrazia, cioè non sono politiche di inclusione, ma politiche molto individualistiche in cui viene valutata la persona povera che, lavorando, riesce ad uscire dalla povertà, come se questo fosse una cosa semplice. Purtroppo la società umana non dà sempre queste opportunità. Sono contro la pena di morte, sono proibizionisti rispetto alle droghe e difendono il controllo sociale dell’omosessualità, per essi le persone non devono parlare troppo altrimenti potrebbero influenzare coloro che sono potenzialmente omosessuali. Credono che Dio migliori le persone, sostengono che gli adolescenti debbano essere puniti come gli adulti e sono sostenitori dell’abbassamento dell’età penale per i giovani. Sono inoltre favorevoli al libero mercato senza mediazioni dello Stato, difendono la riduzione della presenza di quest’ultimo nell’istruzione e nella sanità in cambio dell’abbassamento delle tasse, e per la riduzione dello Stato in genere nella vita dei cittadini nonché per gli aiuti di Stato per le aziende in difficoltà dato che sono il principale vettore dello sviluppo economico. Questi sono quelli che votano Dio, adesso vediamo quelli che votano per la famiglia. Cunha vota per la famiglia, ma sua figlia e sua moglie sono sotto inchiesta; chi fa campagna elettorale dona il ricavato a se stesso. Essendo sotto processo, Eduardo Cunha potrebbe assumere la presidenza?».
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Marins passa dalla discussione politica alla discussione tecnica: «Uno dei principali problemi è che in Brasile con troppa leggerezza si compie una separazione tra tecnicismi e politica, come se i primi non fossero profondamente legati alla seconda». Quindi conclude il suo intervento con un riflessione sul ruolo dei mezzi di informazione in questa crisi politica: «Se è vero che abbiamo urgentemente bisogno di una riforma politica che impedisca il finanziamento privato delle campagne elettorali e che riempia il vuoto degli elettori, giacché oggi i deputati entrano nella Camera per quota di partito e non per numero di voti ricevuti – è altrettanto vero che abbiamo bisogno di rivedere il binomio politica-informazione: non vogliamo in alcun modo censurare la libertà di opinione ma dobbiamo creare anticorpi alla manipolazione dei dati, alle false notizie, ai dossier, alle mistificazioni, all’egemonia di alcune grandi famiglie nelle concessioni televisive; dobbiamo abolire senza indugio l’apologia alla tortura e ai crimini compiuti dallo Stato; niente di tutto ciò ha a che fare con la libertà di opinione. Non possiamo più accettare ad ogni stagione politica l’invenzione di casi scandalistici montati per sensibilizzare e influenzare gli elettori sommergendoli di informazioni per convincerli o per confonderli a seconda del caso, con voluta ambiguità e vaghezza e false notizie costruite ad hoc. Secondo voi, dopo tutto ciò, dobbiamo essere ottimisti?».

Sì. Risponde: «Dobbiamo esserlo per per amore verso il Brasile e verso il nostro popolo. Il Brasile è la più grande democrazia ed economia del Sud America, la seconda economia delle Americhe dopo quella degli Usa, una delle 10 economie del mondo, se crollasse trascinerebbe anche altri Paesi in una crisi economica: a chi conviene rovesciare la nostra democrazia? Purtroppo una risposta è certa: serve ai corrotti che vogliono sfuggire al giudizio delle istituzioni e del popolo brasiliano. Aiutateci a salvare la nostra democrazia, che è un bene di tutti».

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«Vorrei mettere in evidenza la situazione da un punto di vista giuridico», esordisce il professor Alfredo Copetti Neto dell’Università Statale del Paranà. «È un colpo di Stato l’impeachment di questi giorni brasiliani? Io rispondo sì e no: sì perché le formule usate dal sistema giuridico per mettere in evidenza una situazione che è molto difficile da essere provata come crimine, in realtà ci fa pensare se questo sia veramente legittimo; e no perché il nostro sistema politico-giuridico permette evidentemente la procedura dell’impeachment».

Naturalmente ci sono vari problemi, aggiunge Copetti: il primo, che è un problema interno del Governo brasiliano, l’impeachment fatto secondo la Costituzione brasiliana, è secondo lui un sistema fragile «perché non dà le garanzie di una Costituzione utilmente rigida in una situazione come questa. Alla fine lasciamo al Parlamento la decisione se c’è o non c’è un crimine di responsabilità del presidente, ossia: ammettiamo la procedura d’impeachment dalla Camera dei deputati che poi la invia al Senato che può decidere se mantenere o no la posizione della Camera e poi il Senato emette il giudizio materiale del crimine con la presenza del presidente della Suprema Corte. Da questa situazione vediamo come lo strumento di impeachment sia fragile, ma–aggiunge il professore paranaense–questo è l’unico strumento che abbiamo. Il secondo problema è che il Brasile ha già avuto un impeachment nel 1992, il primo presidente eletto dopo tanti anni di potere militare». Fa riferimento a Fernando Collor de Mello, primo presidente eletto a suffragio diretto dopo 25 anni di dittatura: prese invano diverse iniziative per migliorare la situazione economica del Brasile, ma le accuse di corruzione, evasione fiscale ed esportazione di valuta mosse contro di lui e del suo Governo spinsero la Camera dei deputati ad aprire un procedimento di impeachment nei suoi confronti (29 settembre1992). Collor de Mello fu destituito il 29 dicembre 1992, e il Senato lo dichiarò incompatibile con gli uffici pubblici per otto anni.

Schermata 2016-04-29 a 19.14.20«Studio diritto da 15 anni e non ho visto nessun libro, dopo l’impeachment di Collor, in grado di raccontarci giuridicamente i problemi correlati, di delineare prospettive utili, e di insegnarci una procedura veramente solida, e questo è un problema serissimo. Stiamo affrontando il medesimo problema di 24 anni fa e abbiamo lasciato la decisione alla Corte Suprema». Secondo Copetti, questa è una situazione in cui deve ragionare non soltanto la comunità internazionale, ma anche i giuristi brasiliani. Il terzo problema cui fa riferimento il professore riguarda la questione politica: «Noi abbiamo un Parlamento estremamente corrotto e fascista. Nelle ultime elezioni sono stati eletti i parlamentari più conservatori fin dall’epoca del regime militare, i rappresentanti del BBB non hanno nessuna capacità politica di rappresentare un popolo democratico e soprattutto un’istituzione democratica come il Parlamento brasiliano. Se prendiamo il procedimento d’impeachment di Dilma Rousseff e se scaviamo a fondo, andiamo a sapere che il presidente della Camera dei deputati, Eduardo Cunha, è accusato di corruzione del pubblico ministero federale e l’accusa è stata accettata dalla Suprema Corte perché il partito dei lavoratori non l’ha appoggiato alla Camera dei deputati».

Bisogna anche dire–sottolinea–che purtroppo il Parlamento è il riflesso della società brasiliana. Si prendano ad esempio le «pedalades», ossia la possibilità di avere o non avere crimini di responsabilità sull’attitudine della presidente. Sì o no? «Giuridicamente ci sono argomenti per tutte e due; sì perché Dilma non ha rispettato la legge finanziaria annuale, ha fatto dei decreti e poi ha promulgato un’altra legge diversa dalla prima alterando l’avanzo primario, e questo è o non è un crimine di responsabilità?». La legge dell’impeachment che regola il processo è del 1950; nel 2000 ha avuto un’alterazione dove si stabilisce, in una forma non molto precisa, in cosa consta il crimine di responsabilità fiscale; nel 2001 questa legge è stata revocata con la legge sulla responsabilità fiscale che vieta di fare le «pedalades», ossia stabilire rapporti economici-finanziari con le banche pubbliche, per poi alterare la legge: essa dice solo tale pratica è vietata, ma non dice nulla sul crimine.

«Ovviamente i Paesi democratici devono rispettare la tassatività della legge penale, fattore primario e garantista di tutte le repubbliche democratiche del dopoguerra», prosegue. «In Brasile vogliono replicare il fenomeno italiano di Mani Pulite; io, che studio diritto da tanti anni non ho mai visto in Brasile una riforma promossa dal sistema giudiziario, c’è un vincolo che si stabilisce tra il potere giudiziario brasiliano e il potere golpista, e la popolazione purtroppo non capisce ciò che sta accadendo nel Paese: se questo processo verrà approvato dal Senato si ritornerà indietro di 30 anni. Molti giuristi brasiliani, tra cui io, stanno difendendo le istituzioni democratiche che si stanno indebolendo sempre di più e stiamo lasciando l’ultimo soffio di vita costituzionale, repubblicana e democratica, alla Suprema Corte, che vuole che i militari ritornino al Governo. Questo è un duro colpo per coloro che credono nella Costituzione e nell’uguaglianza. Senza una riforma politica in Brasile ci saranno altri impeachment. Dobbiamo lottare e resistere per il bene del Brasile».

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«Si chiedeva Copetti se questo può essere ritenuto o meno un colpo di Stato», riafferma Fabio Marcelli, dirigente dell’Associazione dei Giuristi democratici a livello nazionale, europeo e internazionale. «Penso che possa e debba essere definito un colpo di Stato, anche al di là delle disquisizioni giuridiche che si possono dare sul termine. Il colpo di Stato è un termine di natura essenzialmente politica ed è innegabile che quello che sta succedendo in Brasile è un tentativo di colpo di Stato. Peraltro non è la prima volta che ciò avviene in America Latina, poiché la storia ne è costellata, ma qui assistiamo da qualche anno a una nuova generazione di colpi di Stato, che possiamo definire ‘soft’ e che passano attraverso i Parlamenti e procedure di impeachment più o meno formalizzate. Ne sono un esempio i casi in Honduras e in Paraguay, nei quali i due presidenti, eletti a suffragio universale, ottenendo un grande successo stavano portando avanti delle politiche che sul piano interno e internazionale andavano ad urtare degli interessi fondamentali ad alcuni».

Prosegue: «Gli Stati Uniti non si sono rassegnati a perdere il ruolo di potenza dominante dell’emisfero, al di là dell’immagine che il presidente Barack Obama ha voluto dare recandosi a Cuba e pronunciando parole di conciliazione ed apertura. Ma gli Stati Uniti non sono Obama, ci sono apparati militari e diplomatici che hanno una politica definita su questa base: bisogna affossare i Governi progressisti dell’America Latina». Secondo il giurista democratico, il principale di questi Governi progressisti è proprio il Brasile, centro dell’America Latina: «Colpendo il Brasile si colpisce al cuore il rinnovamento progressista che si avvale di personaggi quali Cunha e Temer per fare un colpo di Stato ‘soft’ in Brasile. Tempo fa ho conosciuto l’ex presidente del Paraguay, Fernando Lugo, vittima di questa strategia soft; mi ha ricevuto proprio nel suo ufficio in Senato, perché essendo stato un colpo di Stato morbido non è stato né ammazzato né tradotto in carcere, ma ha mantenuto un posticino nella politica essendo stato cacciato da presidente. E mi ha detto di essere stato detronizzato nel momento in cui ha posto il problema della riforma agraria, fondamentale e di primaria importanza in tutti i Paesi latino-americani dove il latifondismo è importantissimo anche per la composizione della classe dominante».

Schermata 2016-04-29 a 19.12.42«Finché le vacche sono grasse–prosegue Marcelli–ci sono soldi da spendere, e possono essere dati dei soldi ai meno abbienti. Uno dei risultati positivi del PT è stato il fatto che la quota della popolazione in miseria in Brasile si è dimezzata: sono 36 milioni le persone che sono uscite dalla miseria. Con la crisi economica non ci sono più soldi da spendere, e non è un caso che l’accusa nei confronti di Dilma sia quella di aver truccato i dati fiscali. Mi colpisce il fatto che questi soldi Dilma li aveva spostati appunto per finanziare i programmi sociali, e ciò rende evidente il fastidio della destra che si domanda perché si continua a dare denaro ai poveri. Questa posizione porta a disastri sociali, perché venendo meno detti programmi, nel giro di pochi anni le persone povere aumenteranno vertiginosamente. Non voglio dire che questo Governo non abbia delle responsabilità, perché molte cose si potevano fare e non sono state fatte e il PT ha dovuto fare molti compromessi».

E ancora: «Un’osservazione interessante è che noi, come sinistra italiana, siamo sempre stati antipresidenzialisti, invece in America Latina c’è il paradosso che il sistema presidenziale più o meno d’imitazione statunitense porta a votare presidenti progressisti mentre il Parlamento è pieno di persone poco raccomandabili e di poteri forti. Il tema della riforma politica è stato posto da Dilma dopo la sua rielezione nel 2014 ed è proprio da quello che è partita la controffensiva. Bisogna far sì che i partiti siano davvero uno strumento di partecipazione democratica e popolare e non gruppi che fanno i propri comodi a spese dello Stato e del pubblico. Se ne può uscire con una mobilitazione popolare che in Brasile sta cominciando a venire fuori: questo golpe non può essere accettato passivamente, le piazze devono esser messe a sostegno della democrazia».     (ROMINA CIUFFA)

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Anche su SpecchioEconomico – Maggio 2016

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AMBASCIATORE CELSO AMORIM: BRASILE, DAL MEDIORENTE ALL’EUROPA PASSANDO COME MINISTRO DI FRANCO, LULA E DILMA

Uno degli uomini che ha fatto la storia del Brasile: proveniente da Santos (San Paolo), ma residente a Rio de Janeiro, Copacabana, una carriera prima accademica come professore di lingua portoghese per l’Istituto Rio Branco e di Scienze politiche e relazioni internazionali per l’Università di Brasilia, oltre che membro dell’area Affari internazionali dell’Istituto di Studi avanzati dell’Università di San Paolo; quindi una carriera cinematografica che lo porta a capo dell’Embrafilme, impresa statale, come direttore generale, ma anche cineasta; è però chiamato, e per due volte, a svolgere l’incarico di ministro degli Esteri: dieci anni, di cui due sotto il presidente Itamar Franco, otto sotto «Lula». Quindi ministro della Difesa con Dilma Rousseff, ed ambasciatore. Oltre che scrittore (tre libri: «Conversa com jovens diplomatas» (2011), «Breves narrativas diplomáticas» (2013), e l’ultimo, recentissimo «Teerã, Ramalá e Doha – Memórias da Política Externa Ativa e Altiva» (2015), ha ricevuto il premio «Bravo Business» dalla rivista «Latin Trade» nella categoria «leader innovativo dell’anno» ed è stato definito da David Rothkopf, sulla rivista americana «Foreign Policy», il «miglior ministro del mondo». È Celso Amorim.

Domanda. Se fossi una studentessa di diplomazia, come mi insegnerebbe le relazioni internazionali?
Risposta. Direi innanzitutto di leggere i miei libri, perché in essi ho definito le priorità della politica estera brasiliana negli anni in cui sono stato ministro, soprattutto quelli in cui ho ricoperto tale incarico per il presidente Lula. Parlo delle relazioni del Brasile con l’America del Sud, ma anche con altri Paesi in via di sviluppo come l’India, il Sud Africa, della creazione del gruppo dell’Ibas, del Brics, dei rapporti del Brasile con i Paesi arabi, delle nostre iniziative o partecipazioni ad iniziative relative al Medioriente, del programma nucleare iraniano, in generale di tutti i temi più rilevanti quali le relazioni commerciali globali nell’ambito dell’Omc, l’Organizzazione mondiale del commercio, in cui il Brasile ha avuto un ruolo predominante soprattutto in un certo periodo di tempo. È tutto scritto lì.

D. È uscito di recente il suo ultimo libro, «Teerã, Ramalá e Doha: Memórias da Política Externa Ativa e Altiva» («Teheran, Ramallah e Doha: memorie della politica esterna attiva ed alta», dove «altiva» è sinonimo di elevatezza).
R. È diviso in tre parti, ossia tre racconti diplomatici. Il primo è incentrato sulla Dichiarazione di Teheran del 17 maggio 2010 attraverso la quale Brasile e Turchia si sono resi protagonisti dell’accordo con l’Iran per lo scambio di uranio in relazione al programma nucleare, rispondendo ad una sollecitazione iniziale dei Paesi occidentali. Il secondo riguarda Ramalà, un simbolo per indicare il nostro avvicinamento ai Paesi mediorientali e principalmente arabi, ma anche la partecipazione ad iniziative legate alla pace tra Palestina e Israele insieme al riconoscimento, da parte del Brasile, dello Stato palestinese; da cui il titolo «Ramalà», che vuole essere una sintesi di questo procedimento, giacché è Gerusalemme ad esser considerata la capitale, non Ramalà, che invece è la sede amministrativa del Governo palestinese. Il terzo racconto riguarda Doha, la terza capitale del Medioriente, con la quale il Brasile ha rapporti commerciali molto intensi ed io particolarmente ne sono stato molto coinvolto durante i miei incarichi governativi. Nel caso di Doha inizialmente ero ambasciatore del Brasile nell’Omc, poi ministro degli Affari esteri ma anche capo delle delegazioni brasiliane nelle relazioni commerciali. Uno dei passi più significativi della Dichiarazione di Doha che fece partire le negoziazioni era stata la Dichiarazione sulla proprietà intellettuale e la salute, la quale concesse flessibilità ai Paesi in via di sviluppo per la produzione di medicine generiche, e riuscimmo ad ottenere un abbassamento dei prezzi per malattie come Aids, tubercolosi, malaria ed altre; partecipai alle varie trattative in tema di sussidi agricoli ed altre questioni di interesse del Brasile e di altri Paesi, e creammo a quel tempo un G20, differente da quello dei leader, che ebbe molta influenza nelle negoziazioni che, se prima erano incentrate solo sui Paesi ricchi, divennero appannaggio anche dei Paesi in via di sviluppo. In generale i tre temi del mio libro costituiscono la sintesi di ciò che un Paese definito emergente è riuscito a fare in otto anni di Governo. L’unico tema veramente importante che non ho inserito in questo libro è l’America Latina, invece presente in altri libri che ho scritto sul Sud America.

D. Cosa pensa della situazione che oggi vede il Medioriente protagonista nella scena globale e, soprattutto, occidentale?
R. È una situazione molto complessa. Oggi il grande tema è, senza dubbio, quello della Siria e dello Stato islamico. Credo che il lato positivo sia nella sopravvenuta consapevolezza che per la negoziazione sia necessaria la presenza di tutti gli attori principali per l’accordo nucleare con l’Iran, includendo l’Iran stesso: il fatto che ci sia un dialogo è una cosa nuova. La questione mediorentale è anche legata a quella dell’immigrazione verso l’Europa, pertanto è un tema che ha ripercussione sugli europei, ma ciò che spesso le persone dimenticano è che assume centralità la questione della Palestina e che la non-soluzione del problema palestinese finisce per generare frustrazioni e risentimenti che producono situazioni come quella che stiamo vivendo ora. Ovviamente è un problema complesso che non può essere ridotto a unità, ma indubbiamente si è andato generando un sentimento di alienazione in gran parte dei cittadini degli Stati arabi e di quegli arabi che sono residenti in Europa, ciò causando le conseguenze che ben conosciamo.

D. Il presidente Dilma Rousseff aveva dichiarato di esser pronta ad accogliere, in Brasile, i rifugiati provenienti dall’Europa e dai Paesi dai quali fuggono, generando anche delle polemiche a riguardo.
R. Il Brasile ha una tradizione di accoglienza, anche prima degli attacchi di Parigi eravamo flessibili rispetto all’entrata di rifugiati in particolar modo provenienti dalla Siria. Il nostro è un Paese di immigrazione, che ha, tra siriani e libanesi, probabilmente 10 milioni di residenti. Abbiamo sempre accolto rifugiati, siano politici siano economici, come, nel caso europeo, spagnoli, portoghesi, italiani ed altri.

D. Discorso a parte merita il caso Battisti, condannato con sentenza passata in giudicato per 4 omicidi a due ergastoli; problema di differente natura quello della sua estradizione, che però in comune con il tema «accoglienza» riguarda la presenza di un europeo, nel qual caso italiano, in Brasile, con decisioni di natura più diplomatica che politica.
R. Credo di non dover entrare nel merito di questa questione, ma ritengo necessario rispettare le decisioni sovrane di un Paese.

D. Il Governo Dilma è contrario alla nomina di Dani Dayan, ex capo dei coloni nei territori della West Bank, come ambasciatore israeliano a Brasilia; e soprattutto ha dato luogo ad incidente diplomatico il fatto che, prima di comunicare il nome per i canali ufficiali, ciò sia stato reso pubblico tramite Twitter. Come esperto di diplomazia, cosa ne pensa?
R. Non rappresento più il Governo oggi, e parlo solo in base ad una mia personale analisi: credo che la reazione brasiliana sia stata corretta, il Brasile fino ad oggi non ha comunicato una decisione, ma in ambito diplomatico l’attesa di una risposta equivale ad una risposta negativa, in questo caso per due ragioni: una di forma e l’altra di contenuto. Quella di forma è importante quanto quella di contenuto in questa fattispecie; infatti, non sono state seguite le normali procedure, ossia il post su Twitter ha preceduto una richiesta confidenziale da parte dell’autorità competente, e con un aggravante: Dayan non è un ambasciatore qualunque, in quanto è stato il leader degli insediamenti israeliani in Palestina, dunque espressione di una politica che il Governo brasiliano condanna. In realtà, credo che questa non sia stata solo una «gaffe» diplomatica, bensì una mossa israeliana avente l’intento di collocarci all’interno di un «fatto consumato», e anche se indirettamente il Brasile si troverebbe ad accettare la posizione israeliana sulla Palestina, senza rispettare l’Accordo di Oslo: di questo passo la stessa idea di uno Stato palestinese comincerebbe ad essere utopia, e questo non è concepibile. Credo che il Governo brasiliano abbia agito correttamente tanto per la forma, quanto per la sostanza politica, ossia per ciò che rappresenta tale atto. Non si tratta di un ambasciatore appartenente all’opposizione, o che semplicemente abbia idee differenti dalle nostre: si tratta piuttosto di una questione centrale per la soluzione del problema mediorientale.

D. E dell’umanità.
R. Il punto dell’umanità è centrale: avevo sul mio tavolo durante il mio ministero, ed ho messo nella copertina di un mio libro, una mappa del 1511 fatta da un cartografo italiano che rappresentava Betlemme al centro del mondo, per la nascita di Gesù.

D. Può raccontare la sua politica estera e la sua visione ad un non brasiliano?
R. Sono stato ministro degli Esteri due volte, la prima con il presidente Itamar Franco, la seconda con il presidente «Lula»; successivamente, con il presidente Dilma, sono stato ministro della Difesa. La mia visione del Brasile, e non tutti devono essere d’accordo con me, è che il Brasile è un Paese che sta crescendo e tentando di affermare il proprio posto nel mondo; nel contempo il mondo sta cambiando e questi cambiamenti generano opportunità di una maggiore presenza brasiliana. Non siamo più nella bipolarità della Guerra Fredda, né nell’unipolarità dell’immediato dopoguerra: è un mondo più diversificato, più «multipolare», mi piace definirlo. Credo che il Brasile, anche unito al Sud America e ad altri Paesi emergenti, può costituire un polo di questa nuova configurazione. A mio avviso il fatto che vi siano vari poli di potere è salutare: dobbiamo e possiamo contribuire. Credo che, attraverso l’integrazione sudamericana, attraverso la cooperazione con altri Paesi emergenti, attraverso la formazione di gruppi come l’Ibas, ossia India, Brasile e Africa del Sud, o il Brics, ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, attraverso l’avvicinamento ai Paesi arabi e il mantenimento di buoni rapporti con l’Europa e gli Usa, attraverso tutte queste azioni la politica estera brasiliana negli ultimi anni sia riuscita a contribuire ad un mondo che dia più opportunità e nel quale vi sia meno egemonia. Non è un processo rapido: la storia delle relazioni internazionali non si misura per anni o decadi, ma a volte per secoli. È però un piccolo impulso in una certa direzione che ci sembra migliore, quella di un mondo multipolare che segua norme internazionali e più giuste. La definizione di «giusto» può variare da Paese a Paese, ma vogliamo norme più equilibrate che trasformino l’uso della forza, soprattutto quello unilaterale come è avvenuto in Irak e in Libia, e lo rendano sempre meno frequente.

D. Possiamo dire che oggi il Brasile è più ricco?
R. Economicamente, possiamo dire che è più ricco se prendiamo un periodo di almeno venti anni, se non quaranta. Negli ultimi dieci anni stiamo vivendo una recessione, ma ciò accade, è un momento difficile per il mondo intero. Il Brasile è riuscito ad evitare che questa crisi, iniziata nel 2009, lo colpisse in maniera profonda, ma adesso è giunta anche da noi e dobbiamo affrontarla, è il momento di dimostrare la nostra resilienza, la capacità di adattarci e cambiare nonostante gli ostacoli. Ci riusciremo, perché il Brasile, da quando sono una persona adulta, è riuscito a vincere tre grandi ostacoli: il primo è stato l’autoritarismo, la politica della dittatura militare; il secondo, quello dell’instabilità economica, l’inflazione per quasi 50 anni; il terzo, ancora in corso, quello della riduzione delle diseguaglianze. Il Brasile non è un Paese povero, bensì di reddito medio nell’insieme, ma è un Paese molto «disuguale»; questa disuguaglianza sta diminuendo molto soprattutto con i Governi di Lula e Dilma. Con Lula si notò in misura maggiore in quanto era quella un’epoca di grande sviluppo economico, ma il processo continua. Sì, il popolo brasiliano è più ricco, perché un maggior numero di persone partecipano al mercato, arrivano all’università, per tale ragione hanno accesso a impieghi migliori, e questo è il cambiamento più grande.

D. Cosa pensa dei grandi eventi che si sono tenuti e che si stanno ancora per tenere, dalla Giornata mondiale dei giovani che ha portato il Papa a Rio de Janeiro, ai Mondiali di calcio del 2014 fino alle Olimpiadi che stiamo aspettando per giugno? Essi non sono stati per i brasiliani anche un grande problema sotto molti punti di vista, come hanno dimostrato le rivolte chiamate «O gigante acordou»?
R. Non li vedo come un grande problema. Credo che la maggioranza dei brasiliani è stata felice di ospitare questi eventi, e li ha apprezzati. È chiaro che è sempre possibile muovere critiche, come questa: perché spendere soldi per uno stadio anziché per un ospedale? Le cose non sono in realtà escludentisi, abbiamo portato gente, turisti, mercato, e se a Rio, dove io risiedo, oggi vedo molti più stranieri che nel passato è per questi motivi. Ci sono anche molti più turisti brasiliani. Curiosamente non molti italiani: più francesi e tedeschi. Forse perché, essendo gli italiani molto simili ai brasiliani, non è facile distinguerli bene. Credo che tali eventi abbiano contribuito a riprogettare il Brasile, è una cosa eccezionale per qualunque Paese: in circa sei anni la visita del Papa, la Coppa del Mondo e le Olimpiadi. È anche incredibile che il Brasile, per essere scelto come ospite delle Olimpiadi, ha gareggiato con gli Usa, con Madrid e con Tokyo, tre Paesi del G7. Ed è stato scelto, probabilmente perché possiede questo potere di attrattiva che gli americani definiscono «soft power». Ma esso non basta: sono stato ministro della Difesa e so bene che per poter usare il «soft power» è necessario avere una base di «hard power».

D. Come si difende il Brasile?
R. Abbiamo 17 mila chilometri di frontiere con altri Paesi, 10 vicini, e non abbiamo una guerra con alcuno di essi da 150 anni: è sintomo di una diplomazia capace. Abbiamo 8 mila chilometri di litorale marittimo, e anche questo richiede buoni strumenti difensivi oltre che diplomatici, parte di una grande strategia.

D. Come vede l’Italia, dal punto di vista di un brasiliano, di un uomo politico e diplomatico, e delle varie persone che lei è?
R. Come brasiliano e come umanista, l’Italia è un Paese formidabile. Ripeto sempre che uno degli elementi della mia formazione è stato il cinema italiano dell’epoca del Neorealismo, per le lezioni che da esso ho appreso non solo di cinema, del quale sono appassionato, ma anche di umanesimo, insegnamenti sui valori umani. Questo è straordinario. Per non parlare dell’arte. Come uomo politico, vedo che l’Italia e il Brasile hanno molti punti in comune: il modo di guardare ad esempio. Vedo che l’Italia, anche in situazioni molto complesse come quella irachena, ha una posizione più moderata ma, a differenza del Brasile, è membro della Nato. Il Brasile non è membro di alcuna alleanza militare, e questo già crea una differenza di prospettiva. Abbiamo altre differenze, che credo siano minori e normali, come nel caso della riforma del Consiglio di sicurezza o in questioni commerciali. Ho sempre ritenuto, comunque, l’Italia un Paese moderato, alla ricerca di soluzioni pacifiche; ciononostante, il fatto di essere membro della Nato crea, a mio avviso, alcune limitazioni. Sto parlando come persona indipendente, in quanto oggi non appartengo ad alcun Governo e ciò mi dà modo di fare queste dichiarazioni: credo che l’Italia non avrebbe partecipato, di per sé, all’attacco in Libia, come è accaduto. Ha partecipato in ragione dell’alleanza con la Francia, l’Inghilterra, gli Usa, e l’Italia, membro della Nato, ha dovuto prendervi parte. Come credo che avrebbe idee più moderate sull’Irak ed altre questioni. L’Italia è un Paese importante, e potrebbe avere un ruolo maggiore nel G20 internazionale, quello dei leader, rispetto a certi temi, anche politici o relativi alla pace e alla sicurezza. Credo anche che, nella questione dell’immigrazione, essa abbia una mentalità più aperta di molti altri Paesi europei, e ciò è un punto a favore dell’Italia. Il Brasile ora sta appoggiando la candidatura italiana per il Consiglio di sicurezza e ciò dimostra che, a prescindere dalle differenze, riconosciamo il valore e l’importanza di questo Paese.

D. Nota una differenza tra la diplomazia italiana e la diplomazia brasiliana?
R. Ogni diplomazia rispecchia naturalmente il popolo e la formazione. Il Brasile è un Paese in cui è presente una grande pluralità e tale elemento influenza e modifica il Brasile, che fortunatamente è fuori dai grandi conflitti mondiali, solo sfiorando la seconda guerra mondiale; l’Italia, invece, ha partecipato alle due guerre mondiali. L’Italia è un Paese ricco, il Brasile si sta sviluppando, e questo crea differenze che si riflettono nella diplomazia, ma non tanto nello stile. È molto facile e naturale il linguaggio di un diplomatico italiano, simile al nostro. Subiamo certamente il fascino italiano della cultura e della teoria politica, Machiavelli e Gramsci per citarne solo due, indispensabili.

D. Cosa farà nel futuro, dopo gli anni di Governo e i precedenti di cinema?
R. Ho tre figli che fanno cinema, una quarta che lavora in un’organizzazione internazionale. Il cinema lo lascio ai primi tre, io oggi resto uno spettatore.

D. Cosa la portò al cinema?
R. Studiavo ed ero appassionato di filosofia, e a quei tempi il cinema non era solo arte: in Brasile esso costituiva un vero e proprio strumento di cambiamento sociale, di trasformazione. Il cinema ha fatto sì che i paulisti e i carioca, gli abitanti di San Paolo e di Rio de Janeiro, conoscessero il «Nordest» del Brasile e la sua povertà, ad esempio. Anche la politica era molto legata al cinema. Entrai però nella carriera diplomatica che ho condotto, insieme all’essere ministro, per oltre 50 anni. Ora tengo lezioni, partecipo a conferenze alle quali sono invitato o commissioni, anche nell’ambito delle Nazioni Unite, su questioni legate a problemi globali di salute ma anche calcio, perche siamo sempre brasiliani; sono stato capo dell’Osservatorio elettorale dell’Oea, l’Organizzazione degli Stati americani ad Haiti. Un libro è costituito da una prefazione, una storia ed un epilogo: io mi trovo nella fase dell’epilogo, ho sempre lavorato per lo Stato e per organismi internazionali, ma non lavorerei, pur rispettandola, in un’impresa privata. Sono servitore dello Stato.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Marzo 2016




MAX DE TOMASSI: ECCO COME “CONDUCO” IL BRASILE DA CARDOSO A DILMA, DA GIL A CAETANO, DALLA ROCINHA A GAVEA

Schermata 2015-03-13 a 13.23.12di ROMINA CIUFFA

UNA CONVERSAZIONE TRA ROMINA CIUFFA E MAX DE TOMASSI SULLA NUOVA ERA BRASILIANA E L’EVOLUZIONE DEL BRASILE DEGLI ULTIMI 30 ANNI. Il padre gli regalò, per la maturità classica, un biglietto per il Brasile. Rimase 3 mesi a Rio de Janeiro. Durante la conduzione di un piccolo programma radiofonico a Roma, aveva già conosciuto la manager dei più grandi artisti brasiliani, che contattò una volta giunto a Rio; lei subito lo prese sotto la sua ala protettrice. Famosissima per essere stata la zia dei due rivoluzionari del movimento tropicalista, Gilberto Gil e Caetano Veloso, in quanto zia delle due cugine carnali che i cantanti sposarono, era conosciuta con il nome di Tia Léa, «zia Lea» appunto. Lui è Max De Tomassi, più unico che raro giornalista italiano specializzato nel verdeoro, esperto conduttore di «Brasil», programma di Radio Rai Uno a cura e per la regia di Danilo Gionta. Trasmissione nata nel 2001 quasi per scommessa, allora già in onda da tanti anni su altre emittenti, De Tomassi la propose alla Rai, e iniziò semplicemente coprendo lo spazio lasciato libero nel periodo estivo da un programma di satira. Per poi divenire il riferimento principale, per di più ad origine pubblica, della cultura brasiliana in Italia.

Schermata 2015-03-13 a 13.23.39Domanda. Il Brasile, per quanto grande, è una «nicchia». Come si spiega l’interesse della Rai a portare avanti una trasmissione come «Brasil»?
Risposta. Mi domando sempre qual è il fenomeno che fa sì che il nostro sia il programma musicale più ascoltato di Radio Uno, anche considerando che va in onda la notte della domenica solo a partire dalla mezzanotte, e che è un programma di nicchia all’interno di una programmazione musicale che copre i vari generi. Certo il Brasile propone una vastità di stili musicali di qualità encomiabile, e produce forse la musica più creativa del mondo. A livello di download e poadcast, ossia l’ascolto in streaming delle puntate, abbiamo cifre eclatanti, superiori a tanti programmi di Radio Uno pur essendo in onda solo una volta a settimana. Fino allo scorso anno andavamo in onda tutti i giorni con «Brasil – Suoni e culture dal mondo», ed avevamo alti numeri.

D. Prima del 2001, anno in cui iniziò la sua conduzione di «Brasil», era già coinvolto con la realtà brasiliana?
R. Non esattamente. Lavoravo nel mondo della comunicazione, avevo iniziato in tv nel 1985, ma fare televisione in Italia è difficile se non si appartiene a una certa lobby. Ho fatto il conduttore, il regista, l’autore, ho lavorato per 5 anni a Tele Montecarlo quando i brasiliani comprarono la rete, quindi altri 5 anni in una televisione tematica quando in Italia si cominciava ad andare sul satellite. La Telecom mise in piedi una struttura «stream» che poi venne venduta a Sky, lì realizzavo programmi di cultura, pur essendo assenti gli interlocutori di una televisione di spessore. La radio e la Rai mi hanno dato quello che ho sempre desiderato.

D. Quali sono i cambiamenti che ha percepito nel corso degli ultimi anni nei suoi molteplici viaggi in Brasile?
R. Solo quindici anni fa il Brasile era un Paese del terzo mondo, oggi è la quinta potenza mondiale: abbiamo un periodo storico temporale troppo limitato per poter individuare con esattezza questi cambiamenti. Ma il primo e più consistente è senz’altro l’arrivo al Governo di Fernando Henrique Cardoso, due volte presidente del Brasile dal 1995 al 2003, più sociologo che politico, il quale ha dato finalmente al Brasile gli strumenti per diventare un Paese progredito dal punto di vista sociale, economico e politico. L’ha fatto convincendo non la classe politica, ma i grandi proprietari terrieri e i ricchi del Brasile a guardare all’estero per guadagnare di più, attraverso l’esportazione o l’inclusione di partner stranieri. Giustificazione che ha permesso a un sociologo di operare affinché potesse avvenire un cambio sociale, realizzato poi in concreto dal presidente Lula con il Partido dos Trabalhadores (PT) nella prima decade del nuovo millennio attraverso le rivoluzioni sociali, le leggi ed altro messo in atto dalla corrente più a sinistra del mondo politico brasiliano, ma con gli strumenti già forniti da Cardoso.

Schermata 2015-03-13 a 13.24.31D. È Lula che ne ha preso i meriti?
R. Lula era un personaggio atteso da tantissimi anni, aveva avuto diverse candidature come presidente della Repubblica, e quando fu eletto in effetti le cose cambiarono; ma gran parte della spinta proveniva anche dalla nuova possibilità di dare ai brasiliani una dignità e un’indipendenza economica che prima non c’erano. Paradossalmente quello che gli imprenditori e i latifondisti si aspettavano era più un richiamo verso l’estero che una risorsa interna; le migliori risorse economiche non sono arrivate tanto dagli investimenti stranieri quanto dal maggior potere d’acquisto della società, mentre il valore del Real cresceva. Così il prodotto interno si è alzato.

D. Questo stesso meccanismo economico, unito ai fatti collegati ai megaeventi, ha però condotto a un innalzamento del costo della vita e, se le classi medie ne sono state toccate solo relativamente, il livello di povertà è aumentato insieme alla distanza creatasi tra i livelli più bassi della scala sociale e i benestanti, o coloro che hanno tratto vantaggio dalla crescita.
R. È chiaro che, una volta che il prodotto interno è schizzato in alto, è salito il costo della vita; ma credo che la povertà non si sia accresciuta, poiché anche le classi più povere hanno cominciato ad avere nuove e maggiori possibilità di lavoro. Con il consumismo immediatamente subentra la spirale del credito, e il guadagno concretizzato con contratti a tempo indeterminato o con occupazioni da libero professionista ha fornito una certa indipendenza economica e ha spinto a spendere; la rateizzazione ha fatto il resto, in larga misura responsabile di far spendere alla gente più di quanto non guadagnasse.

D. La rateizzazione del credito, molto in uso in Brasile tanto che nei negozi è più comune trovare i prezzi già divisi in rate che non il totale, creando l’illusione di un affare, non rischia in questi casi di essere un’arma a doppio taglio?
R. Non sono un consumista, e mi piacerebbe che tutti comprassero il minimo indispensabile perché sono convinto che la salute di una nazione e di un popolo non si misura da ciò che si produce né da ciò che viene venduto, bensì dal livello qualitativo della sanità, dell’istruzione, della cultura. Il meccanismo della parcellizzazione sulle carte di credito, che consente ai brasiliani di rateizzare il pagamento di qualunque cosa e che in Italia ancora non ha preso piede, porta l’inflazione e il consumismo a una versione «2.0», ossia aggiornata, ed io la considero una cosa intollerabile.

Schermata 2015-03-13 a 13.24.05D. Istruzione, cultura, sanità ed altro: è tutto molto carente ed è indubbiamente in questo che si misura il vero benessere di un popolo. Eppure il Brasile ha messo in primo piano investimenti di altro tipo, come turismo e megaeventi.
R.  Ma la classe politica meno abbiente ha usato la vetrina gigantesca che il campionato di calcio forniva per attuare dimostrazioni anche abbastanza eclatanti in piazza e reclamare quello che è giusto che il popolo brasiliano reclami, manifestando la necessità di avere un’economia meno frenetica e il desiderio di dare più attenzione alla sanità e al trasporto pubblico. Ricordiamo che il Brasile non ha una rete di trasporto interno su rotaia, ha esclusivamente una rete di trasporto aerea con le sue limitazioni, e su gomma, ma le strade non sono all’altezza delle nostre. L’intero Paese è esteso per 8 milioni e mezzo di chilometri quadrati, è quasi 30 volte l’Italia, è il quinto maggiore del mondo in estensione, ha 200 milioni di abitanti, è dunque una realtà gigantesca che da sola contiene il 22 per cento della terra coltivabile del pianeta, come fosse un immenso giardino dal quale il mondo riesce a cogliere l’alimentazione, quindi è un Paese che, dal punto di vista delle risorse, va trattato «con le pinze». E non parliamo di risorse economiche e tecnologiche, ma di quelle basilari. Il 12 per cento delle riserve di acqua dolce mondiale si trovano in Brasile: la prossima guerra non sarà quella sul petrolio, ma quella sull’acqua.

D. E il petrolio?
R. I brasiliani hanno scoperto il pre-sal, il più grande giacimento di petrolio che rende il Paese totalmente indipendente dal punto di vista energetico, con 600 chilometri di estensione a 2 mila metri di crosta salina sotto l’acqua. Solo grazie alla crescita del Paese sono riusciti a trovare internamente la tecnologia per bucare questo strato di sale ed arrivare ai giacimenti. Il petrolio poi è di una qualità eccellente.

D. Eppure il Paese si è rivoltato contro le «megaspese» per i megaeventi. È giusto investire quei capitali in questo modo, in questo momento?
R. Non riesco a capire se è giusto o sbagliato fare grandi investimenti sul Campionato mondiale di calcio o sulle Olimpiadi, perché non riesco a capire quale possa essere il volume di ritorno: questo potremo dirlo solo in seguito, quando sapremo se spendere soldi per gli stadi e non per gli ospedali o altro oggi possa innalzare le possibilità generali di domani.

D. Da tutto il mondo, l’Italia ai primi posti, c’è una migrazione verso il Brasile, non solo giovanili fughe ma veri e propri insediamenti societari. Conviene?
R. Italiani, inglesi, americani, australiani, giapponesi, cinesi, tutti. Il Brasile ha città gigantesche quali Rio e San Paolo, ma la densità di popolazione è bassa e aprire fabbriche e attività fuori dai centri urbani dal punto di vista strutturale è possibile, anche di fronte a costi di realizzazione molto bassi. Il Brasile continua ad essere un Paese abbastanza conveniente, è in città che i prezzi sono eccessivi.

D. C’è più lavoro in Brasile al momento, per i giovani brasiliani e italiani che non abbiano una base societaria?
R. Non so dirlo con esattezza, di certo il mondo delle professioni in Brasile è molto vasto, e le start up e le nuove iniziative sono sempre benvenute. Oltre a questo, secondo me si può contare sul fatto che il nostro è ancora adesso un Paese molto stimato dai brasiliani nonostante tutto quello che è successo in Italia, nonostante ciò che è stato fatto nell’attuale e nel passato Governo, nonostante i grandi equivoci che ci sono stati recentemente, un esempio per tutti il caso Battisti. Il Brasile continua a guardare con grande esterofilia molti Paesi del mondo, ma fra tutti l’Italia è particolarmente amata e forse sopravvalutata. Il made in Italy è sempre una garanzia.

D. Oggi è ancora più forte il collegamento tra Italia e Brasile, essendo il 2015 l’anno dell’Expo che si terrà in Italia su uno dei temi in cui il Brasile è tra i principali interlocutori mondiali: «Nutrire il pianeta, energia per la vita».
R. Il Brasile è il più grande produttore di soia e di arance del mondo grazie a questa immensa versatilità agricola, e non si può pensare al futuro del mondo senza pensare al futuro del Brasile.

Schermata 2015-03-13 a 13.24.53D. Lei è un esperto delle tematiche brasiliane, ma certamente tra le tante prevale la musica, quella di un Paese che ha pochi eguali, in fatto di gusto e notorietà, nel mondo. Come si è evoluto il mercato discografico nel tempo?
R. L’ho visto evolversi e decadere. Sono entrato in Brasile 33 anni fa, nel 1982, e si vendevano milioni di dischi. Il Brasile allora era il quinto mercato discografico mondiale. Adesso, con internet e YouTube, c’è una frammentazione del mercato musicale, ormai parliamo della vendita di «fonogrammi» non più sul supporto fisico ma su canali quali Spotify e piattaforme digitali, a volte il download è gratuito e sempre si ha la possibilità di guardare video online. Io non accetterei di «guardare una canzone» su YouTube.

D. Sembrerebbe un discorso elitario: le priorità sono mutevoli e al momento, o comunque non più come prima, non si spendono (o non si hanno) soldi per acquistare cd o tracce musicali se si ha l’alternativa gratuita.
R. La musica non può prescindere dal supporto per le informazioni e soprattutto per la qualità sonora, ma ora non siamo in grado di capire ciò che è meglio e ciò che è peggio, ciò che è giusto lasciare indietro e ciò che è giusto mantenere, è questa la grande incertezza umana che rispecchia il grande disorientamento sociale.

D. Il boom economico sperimentato dal Brasile ha contribuito al mercato discografico o ha concentrato la ricchezza solo su alcuni grandi nomi, anche considerata la costante tendenza brasiliana a mitizzare i propri grandi idoli, da Tom Jobim a Caetano Veloso e tutti gli altri?
R. A prescindere dalle vendite, il mercato musicale brasiliano adesso alla punta dell’iceberg non ha Caetano, Gilberto Gil o Chico Buarque de Hollanda, ma fenomeni diversi come la musica country, che è la maggiore venditrice di dischi, o altri generi musicali, i successi dell’estate, la musica usa e getta. Per fortuna, al contrario di quanto accade da noi che vediamo sparire i grandi autori e interpreti a favore dei reality, in Brasile c’è un WWF che difende i grandi autori in via d’estinzione.

Schermata 2015-03-13 a 13.25.30D. Quindi c’è spazio per il nuovo cantautorato e non solo per le interpretazioni dei grandi successi, cosa molto tipica in Brasile tanto da essere un «must» per chiunque faccia musica?
R. È anche vero che i grandi nomi della musica brasiliana continuano ad incidere e ad essere estremamente creativi, artisti come Ney Matogrosso che a più di 70 anni sperimentano ancora. Caetano Veloso potrebbe essere paragonato al nostro Gianni Morandi, ma quest’ultimo non ha mai fatto né fa la sperimentazione che fa Caetano. Quello di Mina, ad esempio, è un falso sperimentare, atipico e asettico, non essendo lei presente in prima persona nella sperimentazione. Un conto è ascoltare i nuovi autori, cosa che nessuno garantisce lei faccia davvero, un conto è confrontarsi, e lei è assente dalle scene. I brasiliani continuano ad essere i primi nella creatività anche perché sono aperti all’incontro anche casuale con i giovani, ai quali aprono molte strade.

D. Ha un’idea sulla pacificazione delle favelas operata dalle forze dell’ordine?
R. Non si può dire niente sulla pacificazione se non cose positive. Le favelas grazie alla pacificazione sono state rese più vivibili sia per coloro che le abitano, sia per coloro che vengono da fuori, fermo restando che stigmatizzo e non approvo l’atteggiamento dei turisti che prendono le favelas per zoo. Pensosamente, per comprare prodotti di cosmetica vado nelle favelas perché hanno un sistema di distribuzione più pratico rispetto ai negozi nel centro di Rio de Janeiro, mi trovo bene e pago con la carta di credito.

D. In quale favela in particolare?
R. La Rocinha.

D. Anche durante una semplice cena nella Rocinha, vedo in continuazione agenti armati, e le pattuglie passano con fucili spianati che escono da tutti i finestrini. Parlando personalmente con gli abitanti («moradores») della Rocinha, mi è stato da tutti riferito che da quando le unità di polizia pacificatrice (UPP) sono entrate nel territorio non si può più dormire con la porta aperta, i furti e le rapine sono all’ordine del giorno, la favela non è più sicura. Questo discorso è estendibile a tutte le altre comunità. Come giustifica questo e i numerosi e sanguinari scontri tra polizia e «moradores», non solo trafficanti, ma anche semplici residenti?
R. Non credo a una sola parola di quello che mi arriva, posso credere solo a ciò che vedo. Il dubbio è se la polizia brasiliana possa o meno difendere il diritto del cittadino. Sui social network si vedono video tragici in cui i poliziotti picchiano chiunque accomunandoli sotto il nome di delinquenti comuni. In generale diciamo che il Brasile, con le riforme sociali e con questo avanzamento economico, auspica un miglioramento dei servizi di sicurezza, della sanità e del trasporto, questo è il primo obiettivo.

D. Hanno sgombrato coattivamente le comunità, ossia le favelas, non dando alternative agli abitanti. È d’accordo?
R. Per carità, non è stata un’azione da elogiare, ma ci sarà stato un motivo per cui è stata compiuta, nella sua tragicità. Prendere una famiglia che ha una baracca, costruita con tanta sofferenza, e sradicarla da un posto solo perché da un punto di vista estetico non è elegante, è sbagliato; ma è pur vero che per la crescita in un Paese tanta gente si deve sacrificare, e i poveri sono quelli che cadono prima.

D. Uno dei quartieri più residenziali e ricchi di Rio de Janeiro è Gavea, che confina con la Rocinha trattandosi di una collina colonizzata in un lato dalla favela, nell’altro dalla città. È plausibile che Gavea via via si estenda dall’altro lato e si residenzializzi, sgomberandola, la Rocinha?
R. In realtà il procedimento è stato inverso: negli anni 90 le casupole della Rocinha erano appena sul cucuzzolo della montagna, adesso stanno scendendo e si stanno espandendo.    (Romina Ciuffa)

 

Anche su Specchio Economico – Marzo 2015
www.specchioeconomico.com
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AMBASCIATA BRASILIANA. CELPE-BRAS PER POCHI E RAPIDI: CHIUSE DI NUOVO LE ISCRIZIONI ALL’UNICO ESAME DI LINGUA UFFICIALE

di ROMINA CIUFFA (anche su http://www.riomabrasil.com/diploma-celpe-bras-per-pochi-intimi-di-nuovo-chiuse-le-iscrizioni-allesame-di-lingua/). Chiuse per l’ennesima volta in un battibaleno le iscrizioni al test del Celpe-Bras, unico in Italia, neanche fosse un concorso per posti di lavoro. A chi ha presente la televisione a premi, Celpe-Bras potrebbe sembrare il titolo di uno di quei programmi in cui anche solo partecipare è impossibile, e in cui il montepremi è sottoposto a dinamiche di fortuna, ma in questo caso il montepremi non vale altrettanto: si tratta del semplice accesso all’esame di lingua brasiliana ufficiale, unico in Italia, consentito ogni 6 mesi solo a 50 fortunati. L’attestato di conoscenza della lingua portoghese per stranieri è rilasciato dal Ministero dell’educazione brasiliano che certifica il livello di conoscenza della lingua. Si tratta dell’unica certificazione di competenza brasiliana in portoghese come lingua straniera riconosciuta ufficialmente. In Italia, l’esame è svolto nel Centro culturale Brasile-Italia dell’Ambasciata del Brasile a Roma, unica istituzione ammessa per esso.

La situazione è la seguente: le prove d’esame sono fissate due volte l’anno, in aprile e in ottobre. Sono solo 50 gli ammessi a sostenere ciascuna prova, ma l’iscrizione è pressoché impossibile poiché, non appena aprono i termini per le nuove iscrizioni, in poco meno di una giornata tale numero si completa. Anche in quest’ultima sessione, nessuno di coloro che, in eccesso del numero di 50, attendevano con l’ansia legata alla necessità di avere tale attestazione, è riuscito nell’impresa pluriennale di iscriversi all’esame Celpe-Bras, né agli altri. Esclusi anche e soprattutto coloro che non hanno una connessione internet o non sono pratici dell’online, o che durante il giorno lavorano e non posso guardare con fissità il sito dell’Itamaraty. L’accesso a quella finestra di pochi minuti in cui il Brasile apre le porte della propria lingua non è per tutti.

La frustrazione è massima e, in un momento in cui il verdeoro si è aperto, ciò è inconcepibile. Considerato che il Celpe-Bras è, internazionalmente, l’unica certificazione «accettata in aziende e istituzioni di insegnamento come comprovante la competenza in lingua portoghese e in Brasile è richiesta dalle università per l’ingresso in corsi di laurea e in programmi di post-laurea», questa constatazione rende impossibile la vita di coloro che si dedicano alle attività connesse e impiegano tempo, risorse ed energie, al Brasile, Paese che oggi chiede aiuto alla globalizzazione: il «Brics» comincia proprio con la sua iniziale e mostra una situazione economica in via di sviluppo, una grande popolazione, un immenso territorio, abbondanti risorse naturali strategiche, forte crescita del prodotto interno e della quota nel commercio mondiale.

Il Brasile costantemente invita l’Italia a portare know how, operatività, cervelli quando non anche le mani, e l’Italia lo segue con dedizione, quando non devozione: non si tratta di sola energia verde, si tratta soprattutto di energia mentale. Sono in un numero spropositato gli italiani che si occupano di Brasile, il nostro made in Italy ha una competenza elevata. Ma gli italiani non possono – se non in numero di 50 a semestre – acquisire l’utile, quando non indispensabile, certificazione linguistica del Celpe-Bras, salvo essere tra i primi 50 ad effettuare il «click» sul sito due volte l’anno.

Se l’Italia vincolasse l’eventualità dell’accesso all’eolica al click dei 50 Paesi più veloci, considerando l’evoluzione tecnologica, il Brasile se l’aggiudicherebbe? Il montepremi è ben più alto, proprio per questo il paragone è calzante: qui si tratta solo dell’accesso ad un esame di lingua, che in ogni Paese del mondo è a disposizione di tutti e in diversi momenti. Non ci sono posti di lavoro, non è un concorso per notai.     (ROMINA CIUFFA)