LGBT: CARA CIRINNÀ, MA CHI “SÌ” CREDE DI ESSERE?

LGBT: CARA CIRINNÀ, MA CHI “SÌ” CREDE DI ESSERE? di Romina Ciuffa. Ciò che innanzitutto colpisce di Monica Cirinnà, senatrice (per il momento) del Partito democratico, è il suo avvio cattolico in una famiglia di valori conservatori, tanto da frequentare una scuola di suore della Capitale. Suore che non sapevano che quella Monica avrebbe poi condotto la battaglia per le coppie omosessuali che, l’11 maggio 2016, sarebbe divenuta normativa attraverso il decreto legge che prende il suo nome, intitolato “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, introducendo l’unione civile tra omosessuali quale specifica formazione sociale e la disciplina sulla convivenza di fatto sia gay che etero.


Già dai tempi delle suore la Cirinnà decise di trasferirsi al Liceo Classico “Tacito” di Roma, partecipando al movimento studentesco e, nel tempo, facendo proprie le istanze animaliste: dopo alcuni anni di collaborazione alla cattedra di Procedura Penale di Franco Cordero, è stata lei a fondare l’Arca, l’Associazione romana per la cura degli animali, “con l’obiettivo di prendersi cura delle colonie feline e dei gatti e di assistere i loro amici umani – a Roma detti gattari – in tutte le situazioni difficili”, oltre ad aver combattuto per l’approvazione, poi avvenuta, di una legge che anche in Italia vietasse la soppressione di cani e gatti nei canili comunali (di questo periodo, e in veste di Verde, la nomina, ad opera del sindaco Francesco Rutelli, come consigliera delegata alle Politiche per i diritti degli animali e vicepresidente della Commissione Ambiente). Fin qui tutto bene. Tutto bene anche nella sua successiva nomina come presidente della Commissione delle Elette, legata ai problemi connessi ai diritti delle donne e alla valorizzazione della differenza di genere, e partecipando alla nascita della Casa Internazionale delle Donne, nel complesso monumentale del Buon Pastore di Trastevere a Roma. È suo il contributo per la trasformazione dello zoo di Roma in Bioparco, come quello per la creazione dell’oasi felina in luogo del vecchio canile di Porta Portese e per l’emanazione (reggente Walter Veltroni) del Regolamento capitolino per la tutela degli animali.

Icona gay, a questo punto. E se gli animali potessero parlare, probabilmente anche icona animale. Il popolo LGBT ha bisogno di punti di riferimento, ed è indubbio che il Partito democratico ha svolto, nella sua persona e – perché negarlo – in quella del precedente sindaco capitolino Ignazio Marino, nonché in altri sporadici personaggi, un lavoro ineccepibile, che ha portato l’Italia quasi ai livelli europei. Ora è possibile per gli omosessuali, nonché per i conviventi more uxorio, fare liste di “nozze”, mutata mutandis liste di “unioni civili”, nei negozi vicini al Campidoglio: al centro di Roma, insomma. E questo non è poco. Grati a quei “rivoluzionari” della sinistra che hanno lottato per avvicinare l’Italia all’Europa e al mondo anche dal punto di vista delle scelte sessuali e famigliari, andando oltre una Costituzione dalla lettura cattolica. Perché, vorrei ricordarlo, il nostro testo fondamentale all’art. 29 stabilisce, tra i principii fondamentali, il seguente dettato: 

  • La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
  • Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare

Specifico: non v’è nessun riferimento alla religione. È riconosciuta una famiglia fondata sul matrimonio. Il punto qui è dare al matrimonio una definizione. Se in esso includiamo, infatti, la possibilità che esso si svolga tra persone appartenenti allo stesso sesso, allora la norma dell’art. 29 tutelerà anche questa tipologia matrimoniale e garantirà ai coniugi (a quel punto, sostantivo neutro) eguaglianza morale e giuridica. Il problema legato all’art. 29 Cost. è proprio quello del suo collocamento all’interno di un sistema più vasto che definisce la famiglia solo in un certo modo. Il merito della Cirinnà (leggasi: di tutti coloro che hanno partecipato alla proposta, discussione, emanazione del decreto portante il suo nome, ben lungi dall’essere una battaglia personale della senatrice come l’uomo di strada è portato a credere ma frutto di un’attività complessa e partecipata) è quello di aver dato al concetto di famiglia un’accezione più amplia, al concetto di matrimonio una interpretazione moderna. 

O preferisco dire antica, se è vero che sin dai Greci, dai Latini, dai nostri antenati più lontani, l’omosessualità era moderna, la vita eterosessuale era concepita nel senso di una vita riproduttiva e non era legata necessariamente al concetto di amore, giacché le coppie matrimoniali erano formate dai genitori alla nascita dei pargoli ed a questi imposte, e – è cosa nota – gli uomini erano tenuti a far pratica sessuale con i fanciulli per potersi far trovare pronti ad una vita sessuale. Ce ne parlano Erodoto, Senofonte, Platone, quanti altri, dei quali non possiamo solo prendere ciò che ci fa comodo: le Storie del primo; le pratiche di guerra del secondo; l’amor platonico, la giustizia, la teoria delle idee, la filosofia del terzo. Non possiamo soprassedere alla allor comune pederastia di cui essi ci rendono edotti (da non confondere con la “nostra” pedofilia, la pederastia assecondava una relazione stabilita tra una persona adulta e un adolescente al di fuori dell’ambito familiare, che prescindeva dal desiderio sessuale nei confronti di un impubere: il sessuologo Erwin J. Haeberle ne critica così l’uso “moderno, risultante da un fraintendimento del termine originale e dall’ignoranza nei riguardi delle sue più profonde implicazioni storiche”). Il ragazzo apprendeva virtù che avrebbero fatto di lui un uomo adulto durante un periodo di isolamento in cui avrebbe convissuto con un uomo, nella cui compagnia era introdotto alle regole della vita sociale: l’adulto sarebbe stato al tempo stesso maestro e amante. Antichità.

Tornando alle nostre modernità, e senza entrare nel merito della discussione, la Costituzione non definisce il sesso dei coniugi. Lo fa il Codice civile, ma esso è legge ordinaria, proprio come il decreto Cirinnà di pari livello, con le conseguenze che ne derivano e che saranno anche definite dalla giurisprudenza che produrremo (non mancheranno giudizi dinnanzi alla Corte costituzionale).

Fin qui tutto bene. Il problema non è nel precipitare, ma nell’atterrare.

Io capisco, e sono perfettamente consapevole, che l’impegno politico non è discutibile. Senatrice del PD, renziana, Cirinnà non può non appoggiare le scelte del suo Segretario. Il punto deteriore, a mio parere, è la strumentalizzazione. In campagna referendaria, fortunatamente volta al termine, tutto è concesso, ed è normale il suo appoggio al Sì. Ciò che mi permetto di non condividere, e che di fatto non condivido, è l’aver fatto dei LBGT un esercito per la riforma costituzionale. Lunghi post sui suoi canali di social network dando per scontato il voto della “sua” comunità-esercito per un Sì, anche strumentalizzando il “sì” matrimoniale in funzione della campagna renziana. Il motto “Basta un sì”si affianca in via strumentale all’immagine di una coppia omosessuale che ha potuto, grazie al Ddl Cirinnà, “dire sì”: ma è un “sì, lo voglio”. Voglio sposare la persona che amo.

Non è la stessa cosa. Il popolo LGBT deve poter votare sì o no formandosi una coscienza personale che prescinda dalla possibilità, attualmente concessagli, di fare pubblicazioni in Campidoglio. Non è la stessa cosa modificare drasticamente la Costituzione e, intanto, formarsi una famiglia. Sono due punti che vanno completamente scissi e ragionati in termini di riflessione personale. Non si può votare Sì perché Vladimir Luxuria voterà Sì, o perché la condottiera Cirinnà ha fatto proseliti. La legge che ella ha contribuito ad emanare (rectius decreto legge) è un atto di eguaglianza e di equità, l’applicazione pura e semplice del secondo comma dell’art. 3 del nostro testo costituzionale che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pragmatismo e alla concretezza di un’eguaglianza formalmente canonizzata nel primo comma (per questo i due dettati sono conosciuti come, il primo, principio di uguaglianza formale, il secondo, principio di uguaglianza sostanziale). In poche parole, un “atto dovuto” da un politico che sente il mondo.

Questa riforma non ha nulla a che vedere, direttamente o indirettamente, con la popolazione LGBT. Fare seguaci ed attirare masse gay e transgender verso il Sì renziano con la ridondanza del motto “Basta un Sì” impiegato per la legalizzazione delle coppie civili è una manovra politica di basso livello sebbene di alto impatto, se è vero che la maggior parte di essi voterà proprio in senso positivo alla sostituzione costituzionale. Bisogna imparare a comprendere quando si è strumenti di un gioco più grande, più infido, più infimo, sottile, sbagliato. Negli Stati Uniti è in questo modo che ha vinto Donald Trump: manovrando il populismo, l’ignoranza, la necessità di essere rappresentati e di appoggiare chi sembra essere più simile. Ancora: l’impiego dei social network, l’appoggio dei media, l’importanza di chiamarsi Ernesto ed essere sposato con Ernesto2. Sentirsi rappresentati non comporta la condivisione sic et simpliciter delle idee del rappresentante, ci vuole riflessione reale: l’importanza di chiamarsi Onesto (è di Oscar Wilde stesso il doppio senso su “earnest”, Ernesto ed onesto). La modifica della Costituzione non si gioca sull’orientamento sessuale. È umiliante vedere costruire, da parte del PD, truppe di omosessuali pronti a combattere per la causa partitodemocratica, solo perché la Cirinnà con la sua chioma bionda monta un cavallo bianco. 

Questa strumentalizzazione, cara Monica, la riporta a quel collegio di suore lontano nel tempo, dal quale lei scappò per studiare l’umanesimo al Tacito di Roma. Sa quando le suore usavano la religione per indicarle i passi da seguire? Ricorda i sensi di colpa che le muovevano? Sa dirmi quante volte si è chiesta, con fastidio, astio o almeno curiosità morbosa, perché esse vestissero tutte uguali e lasciassero da parte ogni istanza identitaria, ogni modalità di identificazione di se stesse rispetto alle altre, per seguire Dio? 

Monica, non è quello che sta facendo ora con la comunità LGBT? Vuole davvero strumentalizzare la religione dei diritti per rendere tutti i suoi proseliti identici, persone che vogliono sposarsi pure loro, che vogliono adottare figli pure loro, che vogliono farne pure loro, che vogliono usare bagni giustificati sul gender, senza attribuire ai medesimi una taratura di uomini e donne intelligenti, in grado di pensare, riflettere, scegliere a prescindere dal suo decreto legge; vuole di fatto lei stessa – una “paladina” – renderli tutti identificabili con un unico scopo: il suo? (Romina Ciuffa)




DIPENDENZE AFFETTIVE: IO E LO STATO, UN AMOR NON CORRISPOSTO

DIPENDENZE AFFETTIVE: IO E LO STATO, UN AMOR NON CORRISPOSTO di Romina Ciuffa. Lo ammetto. Mi sveglio con una sana e robusta paura. Apro gli occhi tutte le mattine come trasformata in un grosso insetto, tardo a riconoscermi, a volte attendo qualche minuto prima di dare un’occhiata al mio riflesso proiettato, che è distante dalla mia introiezione. Si tratta di quel senso di alienazione e non appartenenza al luogo che mi ospita, che è mio, al letto da condividere, che è mio, e all’esistenza che mi attraversa, che è mia. Un senso di alienazione e di non appartenenza generato dal soprassalto al mondo che vivo, che non è mio.

“E si mise all’opera per spostare, con una oscillazione sempre uniforme, il corpo in tutta la sua lunghezza fuori del letto. Lasciandosi cadere in questa maniera, il capo, che cadendo voleva tenere ben sollevato, doveva rimanere logicamente illeso. La schiena sembrava essere dura, e cadendo sul tappeto non si sarebbe forse danneggiata. La preoccupazione più grave era per lo schianto che sarebbe avvenuto (…)” (Franz Kafka, La metamorfosi). Il risveglio e l’incontro con l’inconscio notturno. Lo schianto occidentale più operativo nella metamorfosi quotidiana è lavoro-amore. E un teorema: quando si ha l’amore il lavoro passa in secondo piano; quando si ha il lavoro, metti da parte l’amore, arriverà. Dedicati totalmente al lavoro. Qualcosa tipo:

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Quoto integralmente la madre di Phil Collins, non si aspetti l’amore. Nel frattempo la società ci dice: “Vattene!”, e noi prendiamo esempio da Stoccolma fino al Nebraska, per dire: me ne vado (poi però restiamo). Non è una colpa, è il mondo che va avanti, che ci insegna che, come animali, dopo lo svezzamento dobbiamo renderci responsabili. Giusto (negli altri Paesi), sebbene perfettibile (nel nostro). Ma perché allora, quando ti svegli con la paura, pensi sempre a casa? Perché non vi sono punti di riferimento. 

Vorrei in questa sede approfondire il rapporto lavoro-amore per dare conto della dipendenza affettiva che va accentuandosi non più come una intrinseca, leggera, essenziale dote dell’amore, bensì come disturbo psichiatrico tra le fila di giovani e adulti. Non più come un virtuosismo romantico, ma come un mea culpa che tormenta chi non crede all’amore libero. Una dipendenza affettiva che, nata sana, via via si è trasformata – metamorfosi kafkiana – in quello scarafaggio che sostituisce una mattina il giovane Gregor Samsa. La dipendenza affettiva così va prendendo qui e là le forme di un disturbo bipolare in bilico tra episodi maniacali e depressivi, un disturbo depressivo maggiore, una distimia, un disturbo ossessivo-compulsivo, un disturbo psicosomatico. Anche in comorbilità. Mi fermo a questi cinque, elencati con chiarezza dal DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali maggiormente in uso tra psicologi e psichiatri, pur non essendo esaustivi. Siffatta metamorfizzazione del fenomeno amoroso in disturbo psichiatrico sottopelle è il frutto, innanzitutto, della nostra nuova società.

Il discorso è italiano. Il lavoro: carente. Quando presente, sottopagato. Quando pagato, a termine. Proprio lui, che dovrebbe essere “dipendente”, non lo è. Quest’assenza di lavoro dipendente si trasforma nella presenza di amore dipendente. Primaria fonte non di guadagno bensì di insoddisfazioni e frustrazioni, il (non)lavoro è, in Italia, la panacea dei mali. Faccio riferimento ai giovani e agli adulti, pur sottolineando che i primi hanno una marcia in più potendo accedere a un numero maggiore e più variegato di incarichi e mansioni che un adulto non può né deve accettare (come si può chiedere ad un ricercatore ultraquarantenne di fare il cameriere in un bar?). Senza tacere il fattore “speranza”, tradotto in termini politico-economici come “aspettativa di vita”: il giovane ha più tempo davanti a sé ed una minore responsabilizzazione dettata dall’età, vuole viaggiare, intende e deve sperimentare, ha meno ambizioni specifiche in quanto più libero, non ha ancora investito gran parte della propria vita in un progetto unico. Sotto il profilo dell’amore, ha bisogno e curiosità di fare esperienze, tende a dimenticare facilmente una storia finita o a lasciarsi alle spalle ottime opportunità romantiche perché non le vive come tali, preso a guardare avanti. È abituato a un lavoro intercambiabile, sa che la laurea è un pezzo di carta disfunzionale, conosce i linguaggi di programmazione del computer e vive in chat. Ha un collo da giraffa e mangia solo le foglie più alte degli alberi. L’adulto è stanco, fisicamente e psicologicamente: assiste ai cambiamenti del corpo, ha già ascoltato troppi politici parlare, ha assistito alla franca ingiustizia dei licenziamenti, nella migliore delle ipotesi ha rifiutato la cocaina che gli è stata offerta, è solo. Il collo è quello dello struzzo, che nasconde sotto terra sebbene lo abbia ben lungo e abile.

Prendiamo l’orologio biologico, ingestibile strumento di cui ci ha dotati il nostro dna. Una donna trascorre la decade trentenaria sentendosi domandare: “A quando un figlio?”, ne compie 40 e si autointerroga: “Dovrei farlo? Non sono pronta, ma dovrei farlo?”, verso i 45 giunge a Barcellona e programma una inseminazione artificiale, quando non rinuncia alla maternità o non accetta altro compromesso. Tic tac. Gli uomini non sono messi meglio. Hanno indubbiamente più età per fare figli, nessun orologio biologico al polso, ma non credono nella filiarità e più frequentemente optano per la libertà. La maggior parte di essi si lascia lasciare dalla storica compagna ormai quarantenne che preme per una gravidanza. “Noi sessualmente eravamo affamati, i giovani d’oggi non lo sono più. Noi le portavamo a ballare”, sento dire in un bar. Le coppie omosessuali sono le più favorite. Sebbene si debbano formare e mantenere unite, come tutte le altre. Ma per loro, libertà è fare un figlio, esattamente l’opposto della coppia eterosessuale: l’avvicinamento di un diritto mai prima riconosciuto lo rende favorito. Lo stesso valga per il matrimonio, ora possibile anche in Italia, che lo rende più appetibile alla coppia gay che non alla coppia classica.

Tic tac. La dipendenza affettiva si crea una volta che si afferri la paura di rimanere soli, e ciò solitamente avviene con il passaggio ad un’età più adulta. Non andremo a riprendere Freud, non andremo a cercare nel padre la causa di un vuoto affettivo o nella madre l’impossibilità a vivere rapporti autentici. Più semplicemente, in un discorso sociologico che colloca la persona all’interno di un mondo relazionale, la dipendenza affettiva si crea per l’assenza di sicurezze nell’attualità, di relazioni vere, complete, durature, stabili, protettive, non virtuali. Il mestiere più ricco è appannaggio dello psichiatra, lo psicoterapeuta perde alcuni colpi non potendo prescrivere farmaci che ad oggi sono un must. V’è necessità di cambiare presto le cose con un serotoninergico, ingollare ansiolitici, usare un toccasana. Chi è contrario ai farmaci si iscrive a yoga, meditazione, prende ayahuasca, mangia bio, usa Fiori di Bach. Non è così che devono andare le cose. È l’alba dei morti viventi: si cammina per le strade senza una meta affettiva effettiva, vera, zombie che soffrono dipendenze affettive e svolgono lavori non consoni. L’impossibilità di reagire ad una relazione finita, o terminare una storia, buttarsi a capofitto nel lavoro perché assente o non satisfattorio, accentua la problematicità del fenomeno. L’amore non è corrisposto. Non è corrisposto da parte dello Stato, che non ci ama.

La società di internet ha peggiorato il quadro in maniera esponenziale, conferendo a tutti le basi ideali per divenire ossessivo-compulsivi da manuale: il controllo via Facebook dei profili, la scansione precisa dei “mi piace” e, prima fra tutti, la “spunta blu”, ossia la “visualizzazione” su WhatsApp, macchina infernale creata dal Diavolo, che dà conto del fatto che la persona destinataria di un messaggio lo abbia letto, i tempi trascorsi prima che si sia risposto. L’online è la causa primaria della malattia affettiva di questo millennio. “Gettati a capofitto sul lavoro”. Ma prima, per liberarti dalle dipendenze affettive, sciogliti dall’incontinenza virtuale, slaccia i nodi nautici del porto per navigare in modo etimologico, con una navis, la nave latina, e non in modo virtuale, con un computer. Impara ad attendere, come un capitano di mare, e che l’unica spunta blu sia un’onda del mare. Non sottovalutarti. Non ascoltare nemmeno chi dice: “Se non ti ama non ti merita”, perché dall’altro lato come da questo c’è chi ha paura e necessita di tempo. L’amore libero non esiste, fantascienza del nuovo millennio che ha generato mostri di indipendenza pur di sopperire all’assenza di sicurezze, i mostri del “non ho bisogno di nessuno”. L’oggetto dell’amore tornerà, se lo si ama ancora; è lo Stato che non tornerà. 

Si tratta del sesto e settimo degli stadi di sviluppo psicosociale elaborati dallo psicanalista Erik Erikson. Nel sesto stadio, l’età giovanile, v’è una contrapposizione tra intimità ed isolamento: un corretto sviluppo tende verso la prima. Il giovane avverte la necessità di una relazione intima appagante (passione, amore, progetto di vita, amicizia); ove non riesca a trovare l’intimità eriksoniana, vivrà un forte senso di isolamento e solitudine. Questo complicherà il passaggio al settimo stadio, quello dell’età adulta, in cui la contrapposizione è tra i due poli generatività-stagnazione: la crisi che la persona è chiamata a superare in questa difficile fase riguarda la procreazione, non intesa solo in senso letterale bensì ampliata alla necessità intrinsecamente umana di lasciare qualcosa alle generazioni successive (con un mestiere quale scrittore, insegnante, ricercatore, artista et altera). La procreazione consiste nella realizzazione personale a fini futuristici, sia essa di tipo lavorativo sia essa di tipo filiare, sempre nel senso dell’offrire un contributo che favorirà le nuove generazioni, per avere una continuità individuale postuma che dia senso all’attuale e una trascendentalità alla vita. L’insuccesso in questo compito di sviluppo porterà a sperimentare un senso di stagnazione, immobilità e inutilità riferita alla propria esistenza. Ed ecco, l’adulto è depresso.

Procreazione dunque nel senso di generazione. Lavoro e amore sono strettamente collegati e il problema della dipendenza affettiva non può essere scisso dal dramma esistenziale del proprio contributo professionale, artistico, lavorativo. Per superare uno stato di dipendenza affettiva, l’ossessione verso un oggetto d’amore, è necessario sviluppare generatività in altri settori. Ciò non è facile se il problema è già divenuto disturbo, sia esso mania, depressione, ossessione, somatoformazione. Generatività in Italia è impossibile. Nel nuovo adulto l’orologio biologico non batte solo o per forza il tempo della genitorialità, ma anche quello della pro-creatività, il senso di sentirsi validamente esistenti, la percezione della propria funzionalità nella società, la fiducia nelle istituzioni e nelle persone, la tensione verso un futuro sereno, il sentimento di protezione verso se stessi e verso l’altro, uno stipendio. Una volta venuti a mancare tali tasselli – perché il primo a non amare l’uomo è lo Stato, il secondo a non amarlo è se stesso – si passerà all’ottavo stadio di psicosviluppo, che vede contrapporsi i due poli integrità dell’io-disperazione: pericoloso momento di un bilancio al quale anche la Corte dei Conti dovrebbe partecipare, essendo, nella mia teoria, lo Stato chiamato in causa direttamente nella crisi affettiva dilagante, nel senso dell’amor non corrisposto.  

Come si può spostare un oggetto d’amore desiderato su altro se, amando l’Italia, lei non ci corrisponde? La nostra dipendenza affettiva nei suoi riguardi supera la normalità e diviene patologia, che viene spostata sul legame in campo strettamente sentimentale; spostamento che pregiudica la formazione di legami stabili, duraturi, sani, verso i quali si ha una proiezione dell’instabilità introiettata. Tale dipendenza scatena due vie: la necessità di fuga o, all’estremo opposto, la soluzione di figliare per dare un senso alla vita e creare un legame affettivo stabile in quanto di sangue. Proprio per questo quando si ha paura si tende a tornare a casa, perché è lì che sono i legami sanguinei. Come in amore l’idealizzazione partecipa di questo processo. Noi non amiamo questa Italia, bensì l’Italia di Michelangelo, Bernini, l’Italia dei borghi, l’odore dei camini accesi, l’agriturismo, Asiago, Mondello, vera e propria idealizzazione simile a quella che operiamo pensando alla persona che amiamo non più corrisposti, focalizzandoci nostalgicamente sui momenti di gloria di quella relazione. La storia con il nostro Paese è finita, ma possiamo recuperare la nostra forza per amare qualcun altro. Tanto che da quando è stato promulgato il divorzio breve, è aumentato il numero di matrimoni civili, a fini pensionistici e per tutelare i figli: possiamo divorziare con il nostro Paese? Possiamo smettere di amarlo non corrisposti? 

Quando si sveglia da insetto, Gregor se ne rende conto eppure il primo pensiero del nuovo scarafaggio va comunque alla sua vita, a quanto essa sia priva di autentiche gioie. Non pensa a ciò che è diventato, un gigantesco, orrido mostro, ma all’inutilità di se stesso, l’inutilità di Gregor uomo. Quindi, guarda l’orologio a muro e si accorge di aver dormito troppo, che ha fretta. Tic tac.  (Romina Ciuffa)




IL REFERENDUM VE LO SPIEGO IO

IL REFERENDUM VE LO SPIEGO IO di Romina Ciuffa. Io non dico se bisogna votare sì o no. Io direi di votare no. Ho le mie ragioni, che la ragione conosce. Non si tratta, come si mormora, di togliere legittimazione al Governo Renzi, al Pd, alla solita Maria Elena Boschi: ciò è secondario. Non si può votare sì o no per spodestare, o per passioni: la funzionalità prima di tutto. Per me si tratta della Costituzione, che sin dal nome fa riferimento a qualcosa che è costitutivo. Un uomo ha una costituzione sana, robusta, ma anche fragile: una costituzione che lo contraddistingue nel proprio dna. Poco si può fare contro il fattore costitutivo, se non seguirlo per non avvertire frustrazione, e migliorare gli aspetti che sono migliorabili. La genetica familiare vince sulla scienza, per quanto possiamo già clonare capretti un uomo di sana e robusta costituzione può andare in palestra, colui che invece ha problemi al cuore no. Quest’ultimo potrà, invece, fare altri esercizi, pur mantenendo attenzione e controllo, e dovrà fumare poco o niente. 

Inizio in questo modo per dire che noi siamo figli del nostro dna costitutivo, e siamo tutti figli della nostra Costituzione, promulgata nel 1947, il 22 dicembre, sotto il segno del Capricorno (cuspide Sagittario): segno di terra, grande diplomatico, responsabile, anche materialista, crede in un potere più alto (sono i principi fondamentali della Premessa), a volte snob, ambizioso, infinitamente paziente, non impulsivo, mai di fretta, la sua costituzione fisica tende a irrobustirsi quando invecchia. Non poteva che essere del Capricorno una Costituzione destinata a supplire agli errori della guerra, tanto che già il decreto legge luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944 fu emanato dal governo Bonomi a pochi giorni di distanza dalla liberazione di Roma, stabilendo che alla fine della guerra sarebbe stata eletta a suffragio universale, diretto e segreto, un’Assemblea costituente per scegliere la forma dello Stato e dare al Paese un nuovo testo costituzionale. Lo stesso che avrebbe partorito sin dall’art. 1 una Repubblica democratica fondata sul lavoro, ed una sovranità appartenente al popolo, perché fosse esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione.  Questa riforma sarebbe del Sagittario: incapace di rimanere fermi, pronto a partire per una nuova avventura, a volte inquieto, in cerca di qualcosa che sfugge, con una freccia puntata verso l’alto, vero e proprio collegamento tra passato e futuro. Ma come?

Vorrei prima specificare ai non addetti ai lavori che tutto trae origine dall’art. 138 della nostra Costituzione, che prevede il procedimento per l’approvazione di leggi di revisione costituzionale e di altre leggi costituzionali, ossia per modificare la Costituzione. Ma lo stesso articolo 138 è stato oggetto di molta riflessione dottrinale: e se cambiassimo l’art. 138? Pura dittatura. Darò una risposta veloce, per sintetizzare anni di discussioni: non sono modificabili, mai, (e da persona sana di mente), i principi fondamentali e tutti quegli aspetti della Costituzione che provengano da più in alto, ossia dall’essenza umana e democratica. Perché altrimenti potrebbe essere modificata anche la norma dell’art. 139 secondo cui “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”: semplicemente modificando prima l’art. 139 con la procedura dell’art. 138, quindi modificando l’art. 1 che stabilisce la forma repubblicana. 

Ora, facciamo finta che la Costituzione sia un libro. La riforma proposta dall’attuale Governo attraverso referendum, come richiede l’art. 138 della Costituzione, consiste in un vero e proprio editing. Immaginiamo che il poeta invii la nuova raccolta al proprio editore per la pubblicazione, e che il ragazzetto addetto ai manoscritti della casa editrice in questione vi dia una letta e lo corregga di punto in bianco, trasformandolo in prosa e rinviandolo al poeta. Immaginiamo che sia inviato, ancora, un noir avente ad oggetto un complesso complotto internazionale, e che la ragazzetta addetta all’editing muti le pagine finali del testo e dalla nuova prosa emerga che l’assassino sia il maggiordomo, di sherlockiana memoria: prevedibile, scontato, inopportuno. Non si mette mano al testo di uno scrittore. Non si trasforma la poesia in prosa. 

E la Costituzione è pura poesia. Si può discutere sull’attualità di alcune sue norme, ma la verità è che ciascuna di esse è affidata alla interpretazione della giurisprudenza costituzionale, che può apportare le modifiche necessarie, sentenziando affinché si rendano al passo coi tempi e siano lette nel modo ad uopo. 

Trasformare una poesia del premio Nobel polacco Wisława Szymborska in un libro di Fabio Volo è da assassini. Questo sta facendo Matteo (così lo chiamano certi giornali, per nome proprio). Prendo le distanze: questo sta facendo il premier Renzi, distrugge un’opera d’arte. La distrugge letteralmente. Non farò discorsi di sinistra né di destra. Obiettivamente, non è normale sostituire l’art. 70 classico, “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”, con “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati. Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. L’esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. I disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione. I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti. Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera dei deputati». No, non si può fare. Non si può prendere una delle norme più democratiche e poetiche del nostro Paese e trasformarla in un libro di Fabio Volo o di Ligabue. Inoltre, non può essere stato il maggiordomo. Dev’essere stato Renzi.

Questa modifica è stata “spiegata” al popolino con la stringa “Superamento del bicameralismo perfettamente paritario” (traduco io: supremazia di una Camera sull’altra, o su quel poco che ne rimane), e il Fabio Volo fiorentino ha dichiarato a suo favore: “Il procedimento legislativo diventa più snello, si ferma l’abuso della decretazione d’urgenza cui neanche noi possiamo dichiararci immuni, senza che si tocchi il sistema di pesi e di contrappesi. Si interviene sul Titolo V rendendo lo Stato più responsabile, si elimina il bicameralismo perfetto che era considerato da tutte le forze politiche un tabù da abbattere”. Rabbrividisco. La procedura risulterebbe molto più complessa, innanzitutto. Ma c’è di più: le molte navette che sono fatte tra una Camera e l’altra possono essere risolte senza una riforma costituzionale, bensì attraverso l’uso della prassi. Come nel question time, il tempo nel quale i ministri danno in Parlamento risposte immediate alle interrogazioni dei parlamentari, non potendosi dilungare oltre misura. Una nuova prassi che dovrebbe essere sostenuta dalla volontà di ridurre i tempi di legiferazione per dare al cittadino ciò che merita: tempismo e adeguatezza. 

Ma soprattutto rabbrividisco nel sentire il premier-maggiordomo intenzionato a mettere un freno, attraverso questa norma fallace, alla decretazione d’urgenza: la decretazione d’urgenza è, a tutti gli effetti, un abuso del Governo. È esattamente lì che l’Esecutivo viola la Costituzione da anni: in particolare, abusando dell’art. 77 viola l’art. 70. Mi spiego per i non addetti ai lavori. L’art. 77 attribuisce all’Esecutivo un potere eccezionale (non nel senso di grande, bensì nel senso che esso costituisce un’eccezione alla regola). Mentre l’art. 70 attribuisce il potere legislativo alle Camere collettivamente, l’art. 77 ribadisce la regola: il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. In questo primo comma fissa la norma abilitativa dei decreti legislativi. Quindi, nel secondo comma apre uno spiraglio alla decretazione d’urgenza, consapevole che la macchina parlamentare potrebbe – in casi eccezionali – risultare lenta, e stabilisce che, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo possa adottare, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge. Deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. Al comma successivo, i decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti. 

Voilà: fatta la legge (costituzionale), trovato l’inganno (costituzionale). Renzi & Co. vogliono farci credere che voler mettere un freno alla decretazione d’urgenza sia una buona cosa, quando però, a ben vedere, la decretazione d’urgenza è un abuso del Governo. Pertanto, semplicemente smetta di abusarne, e usi lo strumento dell’art. 77 in modo dignitoso. Tanto che sarebbero ridotti i tempi del procedimento legislativo in caso di DDL in materia di bilancio e in quelli in cui è prevista la clausola di supremazia, e non solo: il Governo può chiedere la votazione di altri DDL entro e non oltre 70 giorni (escludendo solo alcuni tipi di legge, come le leggi elettorali e di ratifica dei trattati). Che Dio ci aiuti: il Governo può battere il tempo al Parlamento, rappresentante del popolo? Ma esso è potere esecutivo, dovrebbe eseguire, non comandarsela.

Inoltre la riforma ridetermina le norme riguardanti l’iniziativa legislativa modificando l’attuale art. 71 Cost.: la dà solo alla Camera dei Deputati, ed alza il quorum per le leggi di iniziativa popolare a ben 150.000 firme (ma per favorire la partecipazione dei cittadini alla politica verrà introdotto il referendum popolare propositivo…). Per proporre un referendum, invece, serviranno 800 mila firme, contro le 500 mila attuali. Praticamente la riforma renderà impossibile l’iniziativa popolare, violando così gli stessi principi fondamentali della Costituzione.

Per non parlare della stringa referendaria: “Riduzione del numero dei senatori e taglio delle spese”. Non c’è bisogno di ridurre il numero dei parlamentari, è sufficiente, più che sufficiente, tagliare gli stipendi di tutti i nostri rappresentanti nonché dell’Esecutivo. Più che semplice: banale. Ma no: si vuole ridurre i senatori da 335 a 100, di cui 5 saranno scelti dal Presidente della Repubblica e 5 dalle Regioni “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”. Gli altri membri del nuovo Senato delle Autonomie non saranno eletti dai cittadini, bensì scelti dalle Regioni e dalle Città Metropolitane tra i sindaci (in numero di 21) e i consiglieri regionali (74). La legge costituzionale Boschi prevede per i senatori l’azzeramento delle indennità per la loro carica (circa 10.385 euro mensili), ma essi sono già pagati per le funzioni che svolgono presso gli Enti Locali. Potrebbe restare il beneficio del rimborso per le spese di soggiorno a Roma. Il punto è che il punto non è questo. Il bicameralismo in Italia è necessario alla democrazia, è necessario che il nostro potere legislativo resti un giano bifronte che possa confrontarsi. L’eliminazione del Senato non può essere la soluzione per supplire all’eccesso di danarizzazione delle cariche pubbliche. Il “mi candido” italiano equivale al “mi arricchisco”. Questo deve cambiare. Molti sindaci dei paesi sono pagati a rimborso spese, alcune cariche pubbliche vengono svolte quasi in forma di volontariato. La rappresentanza di un Paese, poi, dovrebbe essere data a laureati, con curricula molto suggestivi e altrettanto veritieri, a coloro che abbiano dimostrato o che possano dimostrare un’intelligenza attiva e un attivismo intelligente. In tal caso la meritocrazia premierebbe gli eletti, ma comunque fino ad un certo punto: esigere stipendi esagerati a carico del pubblico è sinonimo di un disinteresse verso il proprio Paese che per ciò solo andrebbe condannato. Ma come spiegare che anche Virginia Raggi, attuale sindaco di Roma, prima caldeggiava il taglio degli stipendi, poi come primi atti da prima cittadina ne ha aumentato qualcuno?

Non proseguirò nella disamina degli altri articoli, almeno per ora. Solo un veloce accenno alla norma che aggiungerebbe, all’art. 55, la chiosa: “Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza”. Norma che si evince già dall’art. 3 della Costituzione, comma 1 (uguaglianza formale), e comma 2 (uguaglianza sostanziale). Un doppione di cui le donne non hanno bisogno, ma forse Renzi sì per conquistare l’elettorato femminile (oltreché la Boschi). 

 Io voterei NO a questa riforma perché:

– dà potere legislativo all’Esecutivo e ne priva il Legislativo;

– è mosso da un ragazzo di appena 41 anni che pasticcia sul compito in classe…

– …e che non è stato nominato, lui per primo, nel rispetto delle norme costituzionali, dunque si trova al potere senza legittimazione, violando ciò che ora vuole modificare (in altri tempi si sarebbe parlato di dittatura); 

– alla dittatura si può giungere, per l’appunto, attraverso l’approvazione delle norme oggetto di questo referendum, che > noto bene > è confermativo, dunque non richiede maggioranza per essere approvato: detto anche costituzionale o sospensivo, esso prescinde dal quorum, saranno conteggiati i voti validamente espressi indipendentemente se abbia partecipato o meno alla consultazione la maggioranza degli aventi diritto, pertanto l’astensionismo non va praticato in questo caso;

– è mosso da un ministro per le Riforme costituzionali (Maria Elena Boschi) che è già stato al centro di polemiche e vicende che avrebbero dovuto delegittimarlo e, pertanto, è viziato anche qui;

– l’Italicum non va, genericamente in quanto già oggetto di molte remissioni dinnanzi alla Corte costituzionale;

– i tagli alle spese dovrebbero partire direttamente dai rappresentanti, la Casta. Non c’è uguaglianza se nel privato si ricorre a parcellari che danno un limite massimo d’onorari e codici deontologici, nel codice civile è dato l’istituto della rescissione per eliminare retroattivamente gli effetti di un contratto se vi è una sproporzione fra le prestazioni contrapposte che consegue all’abuso delle condizioni di debolezza, mentre nel pubblico – e proprio tra chi ci rappresenta – c’è un sinallagma violato in vari punti;

– non si può trasformare una poesia in un libro di Fabio Volo o Ligabue.

Leggete la Costituzione, da inizio a fine. Poi andate a votare. Allora saprete chiaramente che nel testo del 1947 (e modifiche al Titolo V), c’è già tutto ciò cui aneliamo. Non c’è bisogno di metter mano alla nostra Costituzione, come alla poesia di un premio Nobel, Wisława Szymborska, che per prima scriveva: «Sono, ma non devo esserlo, una figlia del secolo». (Romina Ciuffa)




DROGHIAMOCI SULLE ALI DELLA LEGALIZZAZIONE

DROGHIAMOCI SULLE ALI DELLA LEG-ALI-ZZAZIONE di Romina Ciuffa. Pervasi dal braccio di ferro tra Hillary Clinton e Donald Trump, grande mela in bocca a colpi di Adamo ed Eva (l’amore tra i due è simile: la tentazione di conquistare l’America è più grande di quella del serpente divino) perdiamo di vista altre questioni che sono all’esame degli americani. Prima fra tutti la legalizzazione della marijuana: gli stellati blu e rossi sono infatti chiamati oggi a decidere se fumare liberamente spinelli ad uso ricreativo. Vexata quaestio, che da sempre vede in opposizione da un lato le esigenze dell’inviolabilità dei diritti e delle libertà, secondo cui non c’è nessuno che, in uno Stato democratico (anche ove conservatore, che comunque è solo una tonalità della democrazia), possa vietare a un cittadino (abitante di una città, e solo per questo oggetto di e soggetto a regole) di compiere su se stesso le azioni che ritenga funzionali, anche quelle disfunzionali. Un esempio lampante, quello dell’aborto: il miliardario americano proporrà alla Corte Suprema un giudice conservatore che si “destreggerà” l’argomento in senso restrittivo, l’ex first lady – in quanto donna e in quanto democratica – tutelerà il diritto all’aborto oltre a “sinistreggiarsi” nelle questioni umane, gay friendly, femminili quando non femmniste. Dall’altro lato, innegabile, la consapevolezza che, allo scoccare della liberalizzazione della marijuana, quest’ultima consentirà un incasso governativo non indifferente con un ROI (ritorno dell’investimento) che è il caso di definire stupefacente. Certo togliendo (ma davvero?) il mercato dalle mani dei trafficanti (chi fuma legga: l’erba sarà più buona), ma mettendolo nelle mani dei politici (associati dall’uomo di strada e pro forma a droghe pesanti, soprattutto al consumo di cocaina). Un po’ come il nostro monopolio delle sigarette: meglio comprarle al tabacchi che per strada da un africano sotto gli occhi della polizia.

I diritti li abbiamo. Non mi spaventano. Ricordo ogni mattina, appena mi alzo e subito dopo le preghiere, l’articolo 2 della Costituzione italiana che già nel 1947, primo dopoguerra, riconosceva e garantiva (attraverso la Repubblica) i diritti inviolabili dell’uomo. Ma anche l’articolo 32, che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (e garantisce cure gratuite agli indigenti). In materia di legalizzazione della marijuana, queste due norme vanno lette in combinato disposto, come fossero una sola. E deve farsi un rinvio formale al concetto di salute, mutevole nel tempo: cos’è oggi la salute? La marijuana fa bene?

Sì, la marijuana fa bene. A scopi curativi. Nulla quaestio.

Procediamo: la marijuana fa bene, a scopo ricreativo? Da una risposta approssimativa e rapida, da tavolata, diremmo di sì: fa ridere, fa socializzare, fa addormentare. Aggiungo però: fa stordire, fa guidare male, ricrea una situazione comparabile allo stato d’ubriachezza. Causa sedazione, stato stuporoso, sonno. Prima eccezione: ma l’alcol è legale. Perché allora non una droga leggera? Entrambi – alcol e stupefacenti, più in generale sostanze con effetti psicoattivi – sono inseriti nel DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, sistema nosografico per i disturbi mentali e psicopatologici più utilizzati da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, nella pratica clinica e nella ricerca. Ogni disturbo è suddiviso in varie classi, e ciascuno di essi ha una dedica: “Disturbi correlati ad alcol o altre sostanze”, ossia è possibile che un disturbo mentale, anche grave, possa essere causato dall’uso o abuso di sostanze farmacologicamente attive, in cui è presente un agente chimico che produce effetti sull’organismo alterando le normali funzioni biologiche, psicologiche e mentali, modificando il tono dell’umore, i processi cognitivi di vigilanza, attenzione, memoria, la percezione sensoriale, e non da ultimi i comportamenti, spesso provocando temporanee o irreversibili modificazioni delle funzioni cerebrali. 
Tornando a noi. Fa bene la marijuana usata non a scopo terapeutico e perché l’alcol è legale? Non c’è un motivo ben preciso, oltre a ricordare il superato proibizionismo americano. Indubbiamente, bere un bicchiere di vino non induce a berne un secondo; fare un tiro da uno spinello impone con effetti immediati all’organismo di farne un secondo e proseguire. La dipendenza è immediata, anche se transitoria. Se ad essere colpito è l’abuso, non già l’uso, allora si può con certezza dire che è più semplice per un giovane responsabile non abusare di alcool che non abusare di cannabis o marijuana, che sono come le ciliegie: una tira l’altra. 
Ma tornando ai diritti inviolabili ed al collegamento con il diritto alla salute, potremmo comunque rivendicare allo Stato molta della nostra salute che non ci viene garantita (un esempio fra tutti: la mala sanità italiana), ed è altresì assurdo che lo Stato non paghi alle donne gli assorbenti mensili. Ma la questione non viene passata al vaglio, in quanto è più importante soffermarci, a tavola, a disquisire sulla necessità che vi sia una legalizzazione delle droghe cosiddette leggere. USA: sono 4 gli Stati che acconsentono all’uso quasi libero della marijuana, Colorado, Alaska, Washington ed Oregon; sono chiamati invece a votare, nella giornata di oggi, Arizona, California, Nevada, Maine e Massachusetts. Si tratta di referendum per l’uso delle droghe leggere a scopo ricreativo, prescindendo dagli Stati che già lo hanno ammesso a scopo medico.

A New York, oggi basta fare una telefonata ad un amico di fiducia, che darà per scontata la nostra richiesta. Ad un orario ben precisato giungerà il delivery: un ragazzetto ben vestito, non troppo, ma che possa sembrare un professionista, uno stagista, non uno spacciatore dei nostri. Giungerà forse in skate, comunque con uno zainetto. Citofonerà in casa ed entrerà. Si parlerà del più e del meno per un po’, come buoni amici. Lo si inviterà a sedere sul divano. Non uscirà dalla casa per un po’, per non destare sospetti, e per un momento avrete il vostro migliore amico ospite, a lui offrirete un succo di frutta o dei pasticcini. Così lui aprirà la sua valigetta, contenuta nello zainetto, e vi brilleranno gli occhi: sarà amplissima la scelta. Una serie di tubetti ben confezionati, con nome e foto che contraddistinguono le spezie. Il frontman vi indicherà gli effetti di ciascuna di esse: lei fa più ridere, lei è più forte, lei è più calmante e così via. Un avviso: la cannabis si trova raramente e costa molto. Ma si può richiedere e comprare con facilità. Così lui, il vostro migliore amico dallo zainetto verde, vi farà provare la vostra scelta e, soprattutto, la proverà con voi. Come la guardia del corpo di un boss mafioso che prova il suo piatto prima, per verificare che non sia avvelenato. Potete provarne varie. Quindi, sceglierete la vostra, la pagherete, e dopo altre chiacchiere il vostro migliore amico andrà via. Alla prossima. Non ci sono africani per strada, il rischio penale è troppo alto. Non di certo quello che c’è in Italia, dove i nostri spacciatori sono lasciati a spacciare davanti alla polizia che retate non fa. D’altronde, negli States essere ubriachi alla guida di un’autovettura costituisce reato penale.

Io non mi preoccupo della concettualizzazione dello spaccio legale. Io mi preoccupo delle persone. Conosco la società in cui mi trovo e so che è una società in cui non si hanno limiti, né li hanno i politici, né li hanno i cittadini. Mi spiego meglio: so che se le droghe “leggere” fossero legalizzate, liberalizzate, non sarebbe quel mondo ideale alla “vogliamoci bene”, un nuovo ’68, un Che Guevara piegato alla causa, centri sociali finalmente puliti, case popolari e lotti di Garbatella impiegati per davvero dalle nonne che li hanno avuti per diritti quesito. So anche che si instaurerebbe un regime fastidioso, quello della politica, che spenderebbe i suoi bla bla bla per impossessarsi delle migliori partite di marijuana, o appaltarle ai nipoti con gara pubblica. Quale droga vogliamo fumare? Come vogliamo intossicarci?

In Italia non è possibile dimenticare la psicologia dell’utenza: se ci danno una mano, ci prendiamo un braccio. Se ci danno una canna, torniamo a casa con il lanternino. Non siamo ad Amsterdam, non siamo olandesi che lavorano, hanno uno stipendio concreto, un apparato governativo funzionante, regole e limiti. Qui non ci siamo messi la cintura fino a poco tempo fa, mentre in tutta Europa era obbligatoria, ed ancora giriamo con dei gingilli in macchina da inserire al suo posto per non farla suonare. Noi andiamo ad Amsterdam a farcele, le canne. Ma qui il costo delle sigarette è aumentato, la gente fuma tabacco per risparmiare e compra cartine e filtri dal bengalese che gira per i locali e per le strade. Inoltre non esistono più pacchetti di sigarette da 10, “per tutelare i più giovani che, avendo meno disponibilità finanziaria, avranno così più difficoltà a comprarle”: no, perché vendere pacchetti da 20 sigarette conviene di più, dà un incasso maggiore e obbliga a non scegliere. Così, improvvisamente, mi viene in mente Rio de Janeiro, dove almeno il brasiliano di strada e le edicole stesse mi vendono una sigaretta o due, se voglio, e sono io a scegliere il numero del mio consumo. Ovviamente ad un costo maggiore, ma di mia opzione.

Non mi fido dell’Italia. Le droghe non sono a scopo “ricreativo”: la ricreazione si fa con un film, con gli amici, con un libro, suonando, scrivendo, vivendo, emozionandosi. Non tarpandosi le ali, che con la leg”ali”zzazione sono solo il centro di una parola che i nostri nonni non avevano nemmeno in mente, presi com’erano a superare guerre, a coltivare terre, ad educare i figli, a guardarsi negli occhi, ad affrontare i problemi.  (Romina Ciuffa)




ME NE VADO ERGO SUM

ME NE VADO ERGO SUM di Romina Ciuffa. Io me ne vado. Ergo sum. State facendo di tutto per cacciarci. Ci avete cresciuto con le lire, non con i flauti. Nella mitologia greca il dio Hermes uccise una tartaruga all’interno di una grotta, e nel suo carapace tese sette corde di budello di pecora costruendo la prima lira, che regalò ad Apollo al quale aveva rubato i nervi dei buoi per fabbricarla. Il dio del Sole, al suo suono, si commosse a tal punto da offrirgli un anello d’oro (primo sinallagma); regalò poi la lira ad Orfeo, cantore che piegò, suonandola, gli animali e tutta la natura. Tanto fece associare la lira alle virtù apollinee di moderazione ed equilibrio, in contrapposizione al flauto dioniseo che si associava ad estasi e celebrazione.

Così ci avete cresciuto con moderazione ed equilibrio, lira e Apollo, un dopoguerra che avete temuto e che vi ha fatto moderare ed equilibrare. Durò poco: una volta sbloccati dalle vostre prima razionali, poi irrazionali paure (simili a quelle derivanti dal disturbo post traumatico da stress, che segue una guerra o un evento di portata negativa), siete passati al flauto dioniseo: l’euro. Estasi e celebrazione. Dopo averci fatto fare l’Erasmus, avete invidiato i giovani che potevano trascorrere mesi di studio all’estero con le borse di studio delle università, e siete voluti entrare in Europa anche voi. Ci avete coinvolto in questa impresa e vi siete dati a Dioniso, il dio notturno, quello delle marachelle e delle baccanti. Avete così festeggiato con veline e olgettine, avete scambiato la lira per il flauto, vi siete sentiti europei mentre i vostri figli si interrogavano sul proprio futuro.

Avete bevuto vino made in Italy, spacciandolo per commercio ed export, avete liberato i sensi, vi siete atteggiati a grandi, una confraternita legata a Bruxelles, intanto l’Europa cresceva e Londra pensava. Avete giocato a fare gli ambidestri, usare entrambe le mani, prima la destra, poi la sinistra, poi la destra, poi la sinistra, accaparrandovi maggioranza e opposizione e mischiandovi. È un’ambidestra che vi parla: a volte sbaglio mano e cado dalla bicicletta, perché non ricordo qual’è quella giusta da usare in quella circostanza, scrivo con entrambe, arrotolo gli spaghetti con entrambe ma mangio il sushi solo con la sinistra. Ci sono cose che si possono fare solo se si è in grado, e voi, i politici, gli imprenditori, le lobbies, non siete ambidestri. Si è mancini o destrorsi quando si governa una nazione, si prendono delle posizioni e non ci si può permettere di cadere dalla bicicletta del Paese.

Con l’euro abbiamo visto restringersi i nostri contanti come fossero stati sbadatamente lasciati nei pantaloni in lavatrice. Abbiamo assistito, impotenti, alla rovina delle pensioni dei nostri nonni, dei nostri genitori, ed abbiamo perso ogni speranza di riceverne nel futuro. L’Italia continua a ripetersi che la crisi sta finendo, ed è proprio come quando una storia d’amore finisce e del dolore ci si ripete come ossessi: «Passerà». Ma si sa che l’unico modo per cui cessi è il chiodo schiaccia chiodo. Questo chiodo, inoltre, dovrà tenere un quadro di qualità, non un disegnino. La crisi non finirà senza un grande disegno, un Van Gogh, se europeo, un Caravaggio, per il made in Italy, con un chiodo che regga.

Io me ne vado, qui lo dico e qui lo nego. Nessuna intenzione di suonare questo flauto traverso, che di traverso va. Il flauto è uno strumento che nasce dalla bruttezza del dio Pan, invaghitosi della fanciulla Siringa la quale, inorridita dal di lui aspetto caprino, chiese a suo padre – la divinità fluviale Ladone – di trasformarla in modo che Pan non potesse riconoscerla. Così divenne una canna della palude, ma il suo innamorato, presente alla trasformazione, non la lasciò andar via e, sofferente, sospirò. Riporta Ovidio, nelle sue «Metamorfosi»: «(…) come Pan, quando credeva d’aver ghermito ormai Siringa, stringesse, in luogo del suo corpo, un ciuffo di canne palustri e si sciogliesse in sospiri: allora il vento, vibrando nelle canne, produsse un suono delicato, simile a un lamento e il dio incantato dalla dolcezza tutta nuova di quella musica». Così continuerò a parlarti, disse il dio. Un lamento. E noi, come la ninfa Siringa, costretti in una palude, trasformati nelle canne dell’euro dove soffiano i venti avversi dei governanti, che si fingono pieni d’amore per noi.

Ho nostalgia della lira, ammiro gli inglesi che si sono resi conto che più che una comunità quella europea è una comune fatta di «freakettoni» che non fanno altro che campare sulle spalle altrui. La fuga dei cervelli è una pena meritata. Nessuno ci ha dato il buon esempio. Appartengo a quella generazione di quarantenni che hanno vissuto senza telefonini ed internet per i primi venti anni di vita, che hanno sperato, che hanno visto Roma sotto la neve del 1985, e che improvvisamente si sono ritrovati a leggere i «tweet» del presidente del Consiglio, a vedere le foto del sindaco Raggi su Instagram, ad ascoltare Bruno Vespa e Gigi Marzullo tutte le notti come un supplizio, ritrovandoseli nella bolletta della luce.

Mi vergogno degli adulti di oggi, flautisti d’eccezione, che sperperano il mio patrimonio artistico, culturale, economico, intellettuale, danneggiandomi. Che per primi «postano» su Facebook, avallando il consumismo zuckerberkiano (ma, sottolineo, Mark Elliot Zuckerberg è del 1984, con la fortuna di essere nato in America e non a Little Italy). Me ne vado dall’Italia innanzitutto col cuore, che è già via. La cardiologia fa passi da gigante, ma non miracoli. L’Italia non si ama più, si suda. Io vado via, con la coda tra le gambe, per salvaguardarle dalle buche che non sono mai coperte. Me ne vado con il cervello, perché è già altrove che mi trovo. Non ascolto i comizi, non credo alle manovre mediatiche, non mi interesso di politica. Personalmente, suono il pianoforte: abituata a tasti bianchi e tasti neri, conosco le difficoltà e so affrontarle come si affrontano i diesis e i bemolle anche delle scale più complesse.

Io me ne vado, se non fate qualcosa per cambiare il mondo che governate e che vi tenete, se non la smettete di spartirvi il bottino, se non finanziate la ricerca, se non date, invece di creare, posti di lavoro: i vostri. Se non leggete i nostri curricula, se non proponete contratti su rimborso spese, al nero, stagionali. Io me ne vado a Londra a fare la cameriera e studiare il siciliano o il napoletano, sono certa di avere, a quarant’anni, più possibilità di essere notata lì che non prezzata qui. Avevo, per un attimo solo lo ammetto, avuto fiducia in un presidente che mi è coetaneo, era l’unica scusa che mi davo per accettare il suo «colpo di Stato», prendersi il potere senza elezioni e gestire un gioco referendario, al momento, che mi rende pentita dei miei studi di Giurisprudenza, quando mi insegnarono l’Assemblea costituente e mi indicarono da chi fosse composta. Non avrei mai immaginato che l’Italia potesse cadere così in basso. Ve la meritate, la fuga dei cervelli. Perché oggi «me ne vado, ergo sum» è l’unico brocardo.  (ROMINA CIUFFA)




REPORTAGE AMATRICE. NUOVE SCOSSE: NAMAZU IL PESCEGATTO È SVEGLIO OPPURE I NOSTRI ARCHITETTI E POLITICI DORMONO?

REPORTAGE AMATRICE. Nuove scosse stanno animando la nostra terra. Il 30 ottobre ha portato via quanto più potesse portare, e siamo in preda ad ulteriori assestamenti tellurici. Uno fra tanti: Castelluccio di Norcia, gioiello del «piccolo Tibet» italiano, non c’è più. Così molto del nostro patrimonio culturale, e psicologico. Epicentro più umbro-marchigiano, verso l’Adriatico. Elementare teorema aritmetico, studiato alle elementari: cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non muta. Ecco qui, di nuovo tempesta mediatica e un terremoto che si è sentito caldamente ovunque, c’è chi lo ha avvertito anche in Austria.

Per i giapponesi avvezzi, è colpa del grande pescegatto Namazu, che vive nel fango, sotto il territorio di Shinosa e Hidachi: è lui che, muovendo la coda, scuote il nostro mondo. Porta lunghi baffi e ha una lunga coda. Il suo corpo giace sotto l’intero arcipelago giapponese. Si dice che il dio Kadori tenga fermo Namazu con una zucca. Si dice anche che il dio del tuono, Kashima, con una grossa pietra riesca ad immobilizzarlo schiacciandolo a terra, e si verifichino terremoti quando il dio è stanco. Dal terremoto di Edo (Tokio) del 1855, anche conosciuto come «Grande Terremoto di Ansei», Namazu è visto come un giustiziere che punisce l’avidità umana costringendo alla ridistribuzione della ricchezza. Quanta ricchezza sta ridistribuendo Namazu in Italia?

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E non sarebbe male, a ben vedere, una effettiva ridistribuzione. Sebbene questa debba avvenire sul piano politico e socioeconomico, e non dovremmo attendere gli incubi di un pescegatto incontrollabile. Bisognerebbe scegliere luoghi specifici, perché tale redistribuzione sia equa. Invece, al momento, in Italia sembrerebbe che né sul piano politico, né sul piano mitologico, si riesca ad ottenere un equilibrio. Le scosse ottobrine e quelle successive (il rischio è alto e prevedibile) non hanno avuto a livello di morti l’impatto forte del primo terremoto, quello che ha avuto, in agosto, epicentro ad Amatrice, ma Roma, l’Italia, sono sotto schiaffo come non lo erano dal 1980. Ci sentiamo come quelle popolazioni dell’Asia, sempre sotto l’occhio del ciclone, di uno Tsunami dal bel nome di donna. Abbiamo subito assistito al classico pellegrinaggio del presidente del Consiglio Renzi a Camerino, quale emozione per quei piccoli marchigiani che mai avrebbero avuto altrimenti l’onore di avere, davanti alla casa distrutta, lui in persona, il capo, quello che siede alla destra di Obama e che fa pappa e ciccia con tutti i governanti mondiali. Li ho sentiti dire, in accento forte: «Però ci aiuti sul serio eh», «Fate in fretta». Mi viene in mente la riforma della Costituzione che un sì nel prossimo referendum varerebbe, il cui slogan primario è: «Vuoi che le cose cambino? Vuoi che i politici guadagnino di meno?», e mi domando perché presentarsi nei Comuni colpiti senza una busta per gli sfollati, come quelle delle nonne a Natale, senza aspettare il referendum. Le promesse del Governo sono tante, alte come gli stipendi dei loro rappresentanti.

Siamo decisamente nella presa di un enorme pescegatto. Contro la natura non possiamo nulla, né contro la politica. Il dio Kashima è stanchissimo, piegato, deve riposare. Anche noi. Namazu è, comunque, «yonaoshi daimyojin», la divinità della riparazione del mondo, avente il compito di riportare il mondo verso una maggiore stabilità. Un patto di stabilità insomma. I cataclismi fanno riflettere. Uccidono. Scuotono. E più cataclismi rendono saggi, temperati, riportano una greca «sophrosyne», la salvezza dell’anima. Ci ricordano chi siamo, da dove veniamo. Ma prima di giungere alla trascendentalità delle conseguenze, si passa per stadi psicologici non semplici. Ansia, paura, terrore, disturbi psichiatrici fino al DPTS, il disturbo post traumatico da stress, che può condurre a flashback, «numbing» (intorpidimento), evitamento,  incubi, «hyperarousal» (iperattivazione psicofisiologica), quando non ad abusi di alcool, droga, farmaci, psicofarmaci. Non a caso, per Eschilo la saggezza della sophrosyne si conquista attraverso la sofferenza («pàthei màthos», impara soffrendo).

Vogliamo credere in un dio superiore che ridistribuisce ricchezze? O vogliamo cominciare a capire che è come nei casi di incidenti aerei: l’errore è sempre del pilota? L’aereo è fatto per volare, se precipita il problema è umano. Un po’ come quei piccioni che rimangono schiacciati dalle auto in centro. Mutata mutandis: in un Paese ad alto rischio sismico, non ha senso continuare ad applaudire la Nuvola di Massimiliano Fuksas o l’Auditorium di Renzo Piano. Gli architetti servono ad altro. È esattamente come dare il Nobel a Bob Dylan o Dario Fo: perdere il senso della realtà. Un Nobel, allora, anche al pescegatto.  (Romina Ciuffa)

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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REPORTAGE AMATRICE. TUTTI I SUOI OROLOGI SONO FERMI ALLE 3:36

REPORTAGE AMATRICE. Da Amatrice è possibile vedere quattro regioni: il Lazio (di appartenenza), l’Abruzzo, le Marche e l’Umbria. Dalle quattro regioni non è più possibile vedere Amatrice. Il sisma del 24 agosto ha fermato tutti gli orologi amatriciani alle ore 3:36 della notte. Ciascuno di noi ricorderà sempre cosa stava facendo a quell’ora di notte, quando quella scossa di terremoto, non l’unica (finora ne sono quasi 2 mila), ha portato via 292 morti e ha raso al suolo, con essi, il tessuto economico, sociale e psicologico del luogo. Non solo Amatrice: Accumoli e Arquata sono le aree più colpite. Ma sono 69 le frazioni di Amatrice coinvolte. La scossa principale si è sentita anche a Roma e in tutto il territorio limitrofo. Era dal 6 aprile 2009 alle ore 3:32 della mattina che l’Italia non sperimentava la «litost» di un evento simile (parola ceca intraducibile che realizza lo stato di tormento creato dall’improvvisa realizzazione della propria miseria), e nemmeno a farlo apposta la terra ha scelto un orario simile per colpire le due aree e per bloccare gli orologi per sempre.

C’è chi dice che senza orologio non c’è futuro: eppure, ad Amatrice, è proprio l’orologio della piazza principale che ora, dopo il crollo degli edifici adiacenti, è tornato visibile, prima coperto dal bar di Alessandro, con cui parlo in occasione della mia visita ad Amatrice. Siamo seduti alla mensa con tutti i cittadini, che non possono più, per il momento, impiegare il metano e non hanno acqua calda. Si lavano «a pezzi». L’elettricità c’è. Si mangia tutti insieme in questo tendone sociale. Il pranzo è buono, ci sono, a scelta, due primi, due secondi, il dolce, le bevande, ed anche cibo per celiaci. Ci sono anche varie televisioni dalle quali è trasmessa musica. Ogni settimana a rotazione si installa sul posto la Protezione civile di una Regione differente, a me tocca la Toscana. Sono ospite per un caffè con macchinetta elettrica a casa di Rinaldo e Amalia, quasi in centro eppure non scalfita dal terremoto: dalle grandi vetrate si possono vedere le montagne innevate in una giornata fredda in cui ad Amatrice le minime registrano un grado. Rinaldo, barbiere, taglia i capelli ad un cliente nel suo camper, adibito a negozio.

La mensa nella tendopoli di Amatrice

Ora le tendopoli sono state smantellate, tranne quella di Campo Saletta, a 15 chilometri da Amatrice, e sono partite le picchettature per le abitazioni a tempo che, mi dice il sindaco Sergio Pirozzi, saranno consegnate entro Pasqua, non oltre. Rinaldo e Amalia hanno perso gran parte della famiglia, ma non la loro figlia, quindi sorridono. La andiamo a prendere a scuola, quella scuola che è stata donata dal Trentino grazie alla veloce mossa del sindaco che, subito dopo il terremoto, ha parlato con la Protezione civile della Regione e si è immediatamente accordato per la creazione del cosiddetto «Campo Trentino», una scuola colorata e sicura che ha consentito ai bambini di cominciare regolarmente le lezioni. Il liceo, invece, al momento è ospitato dal Palazzetto dello sport, ma presto sarà spostato nei nuovi moduli che sono in costruzione all’interno dello stesso Campo Trentino, dove presto giungerà anche Save the Children con altri progetti di emergenza relativi ad un parco ricreativo che include anche campi di tennis e di calcio.

I residenti si recano dallo psicologo quasi tutti i giorni, a ritmi cadenzati, e i bambini hanno anche interventi terapeutici di gruppo. L’approccio impiegato è l’Emdr, acronimo per Eye Movement Desensitization and Reprocessing, ossia la desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, utile a risolvere i problemi connessi al disturbo post traumatico da stress focalizzandosi esclusivamente sul ricordo dell’esperienza traumatica: si tratta di un protocollo che si sviluppa in varie fasi di ricordo e rievocazione delle esperienze negative, nel tentativo di far abituare (desensibilizzare) il paziente ai ricordi traumatici, distraendolo (rielaborazione adattiva del ricordo) con movimenti ritmici degli occhi oppure con tamburellamento delle dita o stimolazione sonora.

È una giornata comunque positiva: il Governo ha emesso, l’11 ottobre, un decreto contenente interventi a favore delle popolazioni colpite dal sisma. Beneficiari dei contributi saranno tutti i cittadini delle regioni Lazio, Abruzzo, Marche e Umbria, che hanno subito un danno documentato ad abitazioni ed attività produttive a causa del sisma. Per una ricostruzione e un rilancio dell’economia efficaci, sono state scelte delle aree all’interno delle quali si sono concentrati gli sforzi per la ricostruzione, coprendo per le aree interne al sisma al 100 per cento i danni ad abitazioni principali (prima casa), attività produttive, finanche abitazioni non principali (seconda casa), mentre per tutti i danni puntuali fuori dalle aree definite il 100 per cento per le abitazioni principali e per le abitazioni non principali (in questo caso nei centri storici e nei borghi caratteristici), e per le attività produttive il 50 per cento per le abitazioni non principali al di fuori dai centri storici e dai borghi caratteristici.

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La “zona rossa”, ossia la zona che non c’è più

La trasparenza è stata messa al primo posto: la Banca pagherà con risorse dello Stato direttamente i professionisti e le imprese che hanno eseguito i lavori di ricostruzione senza bisogno di nessun anticipo da parte del cittadino. Le imprese devono essere iscritte nelle cosiddette «white list» e devono essere in regola con tutti gli adempimenti di legge. Il beneficiario presenterà domanda e documentazione all’Ufficio speciale per la ricostruzione, che verificherà tutti i requisiti e la congruità del progetto e del contributo che verrà concesso con decreto del vicecommissario. Saranno predisposti controlli e verifiche sull’andamento dei lavori. Per favorire il rapido rientro nelle abitazioni e la ripresa delle attività produttive negli edifici con danni lievi è prevista una procedura semplificata. L’unico adempimento a carico del cittadino beneficiario consiste nella scelta della banca di riferimento. Saranno integralmente coperti i costi per la riparazione di tutti gli edifici e le opere pubbliche, i beni culturali e gli edifici di culto, ed attivato un sistema rafforzato di controllo dell’Anac, l’Autorità anticorruzione, sulle procedure di gara.

Sono previste misure di sostegno per tutte le attività economiche nell’area colpita dal sisma per le quali sarà predisposto, con il meccanismo delle aree interne, un programma di rilancio e sviluppo. Sono altresì previste misure di sostegno al reddito dei lavoratori che hanno momentaneamente perso il lavoro a causa del sisma. Per la popolazione e le imprese delle aree colpite è previsto il differimento e la rateizzazione degli adempimenti fiscali e contributivi. La governance della ricostruzione è costituita dal commissario straordinario (Vasco Errani), quattro vicecommissari straordinari (presidenti delle Regioni), quattro comitati istituzionali composti dai presidenti delle Regioni, dai presidenti delle Province e dai sindaci interessati. In ogni Regione è costituito un Ufficio speciale per la ricostruzione composto da ciascuna Regione e dai Comuni interessati. L’Ufficio speciale per la ricostruzione si occupa del rilascio dei contributi, dell’istruttoria della pratica, dei titoli abitativi edilizi e della gestione delle opere pubbliche relative alla Regione di competenza.

Intanto il Consiglio comunale ha approvato il regolamento per l’erogazione di contributi straordinari per i lavoratori: mille euro per i titolari di attività, 800 per i lavoratori dipendenti e 500 per i liberi professionisti, che saranno erogati con un assegno mensile fino a un massimo di sei mesi e solo a coloro che non hanno altre fonti di reddito.

Alla zona rossa, il centro di Amatrice, completamente raso suolo, si accede solo con il casco ed un’autorizzazione. Un corpo è stato inviato in Romania per errore: si pensava appartenesse all’inquilino del piano di sopra. Ma ora è tornato a casa, una casa che non ha più.    (ROMINA CIUFFA)




REPORTAGE AMATRICE: FLY ROMA, QUEI VOLI SOLID-ALI

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Originale contributo quello del Fly Roma, campo di volo a est di Roma tra i più noti nel centro Italia. Il suo presidente Italo Marini ha promosso un’iniziativa di solidarietà per Amatrice indicendo due giorni di volo per tutti. I piloti iscritti all’Associazione, e molti altri giunti da fuori per dare aiuto fattivo, sono montati sui propri aerei ed elicotteri per far volare i visitatori dell’aviosuperficie, che sono giunti numerosi ed hanno apprezzato enormemente l’iniziativa. In questo modo è stata data la possibilità a tutti di provare il volo, in aeroplano e in elicottero, a prezzi bassissimi; le spese del carburante e della manutenzione dei velivoli sono state tutte a carico dei piloti, che dunque hanno contribuito non solo operativamente bensì anche economicamente, e in questo modo sono stati raccolti i fondi destinati alle popolazioni colpite.

Le due originali giornate hanno previsto anche la presenza di cavalli trainati da carrozze, grazie al contributo di Pasquale Macchione e dei suoi collaboratori, che hanno reso la giornata ancora più originale e speciale. Altri fondi sono stati raccolti attraverso un bar ed un ristorante, creati per l’occasione, in modo da coinvolgere anche convivialmente gli ospiti dell’aviosuperficie. Italo Marini ha dichiarato: «Sono molto soddisfatto  del risultato, ma potremmo tutti i giorni fare di più. Volando, siamo sempre attaccati al cielo e ci piace pensare di avvicinarci a nostro modo alle tante vittime del sisma, toccando il cielo mentre la terra trema. Ma quando atterriamo, dobbiamo esser vicini a coloro che sono salvi». (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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REPORTAGE AMATRICE. MARCO PEZZOPANE: ECCO COME I GIOVANI IMPRENDITORI ITALIANI AIUTANO AMATRICE

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Papa Giovanni XXIII aveva detto: «Molti oggi parlano dei giovani; ma non molti, ci pare, parlano ai giovani». Eppure hanno molto da dire, e da fare. Possono fare tanto di più, peraltro, animati da un senso della vita più vincente, costruito sulle credenze e sui valori, ma soprattutto sull’età che dà loro la forza di lottare di più. Così, ad Amatrice, molti sono stati i giovani che si sono impegnati a risolvere problemi, di ogni tipo e natura. Ne scegliamo uno che ne rappresenta molti, Marco Pezzopane, presidente del Gruppo dei Giovani Imprenditori di Rieti, che dal giorno del sisma lavora per alleviare le sofferenze pratiche delle popolazioni del luogo, di sua competenza territoriale. Aquilano, ha già provato sulla sua pelle cosa sia un terremoto a casa propria. La raccolta fondi dei Giovani Imprenditori di tutta Italia è avvenuta ed avviene giornalmente attraverso eventi e gruppi su WhatsApp, nelle forme più moderne, ma anche con la presenza costante sul posto. Questi under 40 hanno contribuito a far giocare i bambini della scuola amatriciana e sono intervenuti pragmaticamente su ogni esigenza fatta loro presente, per il tramite di Pezzopane, dal Centro operativo comunale di Amatrice.

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Domanda. Innanzitutto, cos’è il Gruppo Giovani Imprenditori?
Risposta. Il Gruppo riunisce tutti coloro che hanno un’età inferiore ai 40 anni ed hanno un’azienda propria o sono figli di imprenditori e figure analoghe. Le nostre attività sono tendenzialmente legate al mondo della scuola e delle start up che hanno avuto uno sviluppo dovuto principalmente a fenomeni di «social networking», e che si coadiuvano e creano eventi per cercare di favorire l’incontro con le aziende ed il mondo produttivo in generale.

D. In che modo affrontate i problemi della scuola?
R. Storicamente il Gruppo Giovani, al fine di favorire un giusto rapporto tra gli studenti e il mondo del lavoro, va presso le scuole e cerca di diffondere quella che è la cultura d’impresa, ossia le necessità che le imprese hanno quando cercano personale. La scuola per oggetto sociale non riesce a dare quel tipo di informazioni, quindi molto spesso quando ci troviamo a fare dei colloqui troviamo persone impreparate che non sanno relazionarsi con chi vuole loro offrire un lavoro, così ampliamo la conoscenza scolastica su come promuovere se stessi affinché l’addetto alle risorse umane nell’ambito di un colloquio lavorativo possa prendere in considerazione la professionalità di chi si propone. E sebbene la professionalità per un giovane che è entrato da poco nel mondo del lavoro non è in effetti presente, ci sono delle caratteristiche che si possono mettere in evidenza.

Schermata 2016-10-31 a 19.19.28D. Da quanto tempo esiste il Gruppo dei Giovani Imprenditori?
R. Da quarant’anni. Il Gruppo fa sempre capo a Confindustria a livello nazionale, e tutte le Confindustrie a livello territoriale hanno le proprie sedi. Il primo presidente nazionale del Gruppo dei Giovani Imprenditori è stato Luigi Abete, nel 1976.

D. Come si svolgono le attività a livello nazionale?
R. Teniamo grandi eventi, come quello di Santa Margherita Ligure e il congresso di Capri, due momenti molto importanti nei quali noi giovani imprenditori portiamo istanze che a volte sono di rottura, a volte sono propositive, cioè chiediamo alla parte istituzionale che cosa vorremmo che il Governo facesse per favorire l’imprenditoria giovanile e, in generale, la crescita del Paese. A livello territoriale cerchiamo di replicare quello stesso modello organizzando eventi che possano stimolare le istituzioni regionali e locali affinché si compia la promozione dell’imprenditori giovanile, tanto è vero che molti risultati li abbiamo ottenuti proprio essendo di supporto all’attività istituzionale dei Governi che quotidianamente ci accompagnano nella nostra vita. Operiamo come Unindustria, che è stata la prima Confindustria a livello locale su base regionale: inizialmente per ogni provincia c’era una Confindustria, mentre ora, con la sparizione delle province e la modifica del titolo V della Costituzione, i nostri senior hanno avuto l’intuizione di ammettere che relazionarsi con l’istituzione locale non aveva più senso perché tantissime funzioni solo sono in capo alla Regione, ed ha creato un’unica Confindustria locale, però su base regionale, spostando sulle Regioni il livello di rappresentanza. Così ad oggi il presidente di Unindustria, attualmente Filippo Tortoriello, porta le istanze di tutti i territori del Lazio direttamente al presidente della Regione, Nicola Zingaretti, cosa che prima era più difficile perché non era tra i due ruoli riconosciuto lo stesso grado istituzionale trovandosi su due piani diversi, uno regionale ed uno locale. È stata una grande rivoluzione che si riflette anche sul nostro statuto; anche le altre Confindustrie locali si stanno aggregando per innalzare il livello delle relazioni tra Regioni e la Confindustria a livello regionale.

D. All’ultimo vostro recente congresso tenutosi a Capri avete parlato di Amatrice. In che termini?
R. Ne abbiamo parlato formalmente e abbiamo portato avanti la nostra raccolta fondi. Subito dopo il terremoto, con il presidente regionale Fausto Bianchi abbiamo deciso che la nostra associazione benefica «Impresa da bambini» diventasse l’organo interregionale, ovvero nazionale, di raccolta fondi per tutti i giovani imprenditori d’Italia. L’associazione è nata per fare opere di beneficienza all’interno della Regione Lazio. Grazie a questa iniziativa in tutti gli eventi locali, regionali e nazionali del Gruppo siamo in grado di portare avanti la nostra raccolta fondi, e in una lettera il presidente nazionale dei Giovani Imprenditori di Confindustria Marco Gay dichiara che parte di questi fondi andranno ai bambini delle popolazioni terremotate. Stiamo valutando alcuni progetti che ci sono stati proposti. Una volta terminata la raccolta fondi vedremo a quanto ammonterà il nostro budget e ne disporremmo parte a favore di Amatrice, Accumoli e Arquata. A dicembre terremo l’evento «Interregionale del Centro», una «macroconfindustria» che riunisce le 4 regioni centrali Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo, e parleremo di alcuni temi anche relativi al sisma, oltre ad effettuare ancora una volta una raccolta fondi da destinare a «Impresa da bambini».

Schermata 2016-10-31 a 19.20.19D. Quali progetti specifici avete adottato per Amatrice?
R. Il progetto che è nato subito dopo il terremoto è «Adotta una scuola», attraverso il quale ci impegniamo per apportare benefici all’attività scolastica rivolta specificamente ai bambini. Le cose da fare qui sul territorio sono tante, è chiaro che noi ci dedicheremo ad un piccolo aspetto, il mondo della scuola, ma daremo anche visibilità all’esterno; il 13 settembre in occasione dell’apertura dell’anno scolastico ad Amatrice è venuto il presidente Marco Gay, ed ha incontrato il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, il commissario straordinario Vasco Errani, il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi, ed è stato un momento di condivisione e di sostegno verso queste popolazioni. In particolare il Gruppo del Lazio ha fatto una buona raccolta e da subito si è attivato il nostro supporto avendo io un contatto con il Coc: il Centro operativo comunale mi indicava le necessità più urgenti e noi provvedevamo, ad esempio nel fornire gasolio, acqua potabile, cartoleria di vario genere per le scuole, frigoriferi e congelatori. Nel giro di 48 ore consegnavamo il tutto. Siamo stati i primi a portare, come Gruppo Giovani di Confindustria, delle cose qui ad Amatrice, e il presidente nazionale è stato il primo a venire qui nei territori a prendere coscienza della portata del sisma.

D. Come avete provveduto alla consegna del materiale alla scuola?
R. C’è stata un’assoluta vicinanza da parte di tutti, ho ricevuto supporto e disponibilità, è stato un movimento spontaneo venuto dal cuore verso le popolazioni colpite, e quando abbiamo consegnato i giocattoli ai bambini è stata un cosa stupenda e commovente. Il mio lavoro è stato quello di organizzare e di seguire l’evolversi delle situazioni, quindi coordinare al più possibile le richieste che venivano dal Coc e poi, con l’apertura dell’anno scolastico, procedere alla raccolta dei giochi e fare sì che tutto potesse funzionare. Trascorrevo ad Amatrice quattro giorni a settimana per vedere come procedevano i lavori a scuola.

D. Avete coinvolto il sindaco?
R. Sergio Pirozzi sarà ospite a Capri in videoconferenza, perché l’idea è quella di mantenere l’attenzione alta su queste zone, anche perché la fase post terremoto non è finita, anzi, è appena iniziata.

D. Quanti giovani siete?
R. Sul Lazio siamo circa 220 iscritti, ma siamo tutti coinvolti, non solo noi del Lazio.

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D. Lei, aquilano, ha vissuto due terremoti. Ha notato delle differenze particolari?
R. Differenze non ce ne sono, noto solo una grandissima forza di volontà e un carattere forte delle popolazioni, anche se la ricostruzione sarà un processo che li accompagnerà per molto tempo.

D. Per quanto riguarda la prevenzione cosa ha da dire?
R. Sulla prevenzione io auspico che parta il progetto di Casa Italia, che è stato ipotizzato e che è necessario. Se per le macchine ogni quattro anni è obbligatoria la revisione, perché non dovrebbe esserlo anche per la casa? Questo è il dilemma che si è posto il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente, in realtà è una cosa di buon senso perché bisogna creare la cultura della sicurezza, bisogna avere la coscienza che la casa in cui viviamo è a tutti gli effetti sicura.

D. Sono i giovani che devono maggiormente inserirsi in questo processo di evoluzione culturale.
R. Se noi siamo ancora di più parte diligente in questo percorso, sicuramente la generazione che verrà dopo noi ne avrà giovamento.

D. Ma non si capisce perché questo non è stato ancora fatto.
R. Guardiamo avanti. Io non guardo nello specchietto retrovisore. Non è stato fatto? Va bene, ma guardiamo avanti. Non significa che da oggi non si possa fare.

D. Le istituzioni hanno reagito bene dal suo punto di vista?
R. Sì, ritengo ci sia stata una buona risposta e si sente che c’è una grande sensibilità, e questo aiuta.

(di ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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REPORTAGE AMATRICE. SINDACO SERGIO PIROZZI: NON PARLIAMO DI IERI NÉ DI OGGI, PARLIAMO DI DOMANI

Schermata 2016-11-02 a 13.58.34Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice, allenatore di calcio, parla non di «terremotati» ma di «sfrattati a tempo», perché guarda al futuro e sa che questa è solo una situazione transitoria. Al suo secondo mandato. I morti non torneranno in vita, ma Amatrice risorgerà. Lo incontriamo al Coc, il Centro operativo comunale di Amatrice, dove si è insediato, oltre il sindaco, il gruppo emergenza, cuore pulsante del coordinamento del lavoro di tutti i soccorritori e degli addetti alla gestione post sisma in loco.

Domanda. Sono appena stati stanziati 35 milioni di euro per l’emergenza e già altri 220 milioni per la ricostruzione. Pensa di aver ottenuto il giusto?
Risposta. Il decreto è stato importante perché ha tenuto conto di un fattore economico del territorio. Mi riferisco al mondo delle seconde case che ad Amatrice era predominante poiché su 6.200 abitazioni ben 5 mila erano seconde case, per cui tutto quello che era il mondo economico si reggeva su chi veniva qui nei periodi estivi e in quelli invernali. Feci presente subito che era imprescindibile, nella fase di attuazione del decreto, che si tenesse conto di questa realtà, per cui aver strappato la contribuzione al 100 per cento sia per le prime che per le seconde case è un punto di partenza. Dissi che, se non si fosse intervenuti in tal senso, sarebbe stato utile ricevere il TFR in modo da andare via tutti.

D. Quanto serve?
R. Quattro miliardi e mezzo, tre miliardi e mezzo per i privati e un miliardo per gli edifici pubblici; gli aiuti che arrivano a noi sono per il sostegno alla gente.

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D. È stato anche un grande danno all’economia. Com’è tutelata?
R. Nel decreto per la prima volta si sono considerate le strutture temporanee, parlo del mondo dell’imprenditoria e del commercio che non c’è più avendo noi perso il 92 per cento delle attività, le quali erano tutte all’interno del centro storico. Con questo decreto sarà lo Stato a farsene carico. Noi siamo partiti immediatamente con la scuola, mentre la consegna delle case a tempo dovrà avvenire a Pasqua, ma dobbiamo riattivare tutto il tessuto economico. L’intervento deliberato dal Governo è stata una vittoria: non è mai stato un assalto alla diligenza, bensì un fatto che partiva da un’esigenza di chi vive la realtà e sa quali sono le problematiche e come devono essere affrontate. È chiaro che senza questo decreto oggi saremmo via tutti.

D. Invece così è più probabile che rimaniate tutti, e che tornino coloro che si sono spostati in altri Comuni.
R. Rimangono i residenti, tornerà il mondo delle seconde case, che veniva qui ad Amatrice perché c’erano servizi, commercio, artigianato e molto altro.

D. Era una cittadina molto attiva?
R. Sì, contava più di 1.200 posti letto tra alberghi, bed and breakfast, agriturismi, era un mondo in crescita, da poco era ripartito anche il caseificio che era stato chiuso 5 anni fa. Adesso la sfida sarà ricostruire bene. Se non ci fossero state queste misure, che io avevo caldeggiato dall’inizio, sarebbe stata la morte di Amatrice.

D. È stato facile ottenerle?
R. Erano logiche. Bisogna avere la capacità di chiedere il giusto, questo era un elemento indispensabile grazie al quale abbiamo ottenuto quanto spettava. Ci siamo visti parecchie volte con il commissario straordinario per la ricostruzione Vasco Errani per trattare questi argomenti.

Schermata 2016-11-02 a 13.57.54D. In questo momento come funziona Amatrice?
R. Al momento non c’è più niente, la gente lavora alla ricostruzione. Ho portato al Consiglio comunale un regolamento per dare un contributo a chi ha perso tutto, e parlo del mondo che non ha tutele come quello delle partite Iva e dei commercianti, regolamento che prevede per tali categorie un contributo fino a Pasqua, quando saranno consegnate le case temporanee.

D. Ci sono ancora degli sciami sismici?
R. Sì, ma siamo abituati.

D. Se siete abituati, perché non c’era prevenzione?
R. Su questo argomento di stupidaggini ne ho sentite tante. Qua sono crollati gli edifici pubblici, ma anche tantissimi privati. È stato un terremoto la cui portata è stata la più elevata degli ultimi 400 anni: a noi il terremoto de L’Aquila, che abbiamo sentito, non aveva fatto niente. È facile parlare di prevenzione, ma la verità è che qui c’è stato un evento catastrofico che ha fatto 236 morti, e nella cosiddetta «zona rossa» non è rimasto più niente.

D. Lei ha perso la casa?
R. No, ha riportato solo alcuni danni. Io abito in periferia, ma comunque in una zona attaccata al centro. Ho perso però tanti amici, non ho l’acqua calda, non ho il metano, ma questo non è un problema individuale, è un problema di tutti, e in questa fase bisogna convivere con tutte le problematiche.

D. Nessuno nasce sindaco di una città terremotata.
R. Io preferisco dire «sfrattato a tempo», perché se sei terremotato lo sei per tutta la vita. Noi vogliamo cambiare e riportare in vita Amatrice.

D. Quali sono le prospettive?
R. Qui c’è da ricostruire tutto, ma dopo la morte c’è sempre una vita e questa potrebbe essere anche l’occasione per una rinascita, per una presa di coscienza collettiva, per rendere più bella Amatrice di com’era. Ci vorrà tempo, ci vorrà pazienza, ci vorrà amore, ci vorrà la capacità di non mettere il problema personale davanti al problema collettivo. Dobbiamo fare come i nostri padri, che sono stati artefici della rinascita dell’Italia dopo la guerra mondiale: se ci sono riusciti loro, perché non dovremmo riuscirci noi?

D. Sulla tempistica per la consegna dei moduli abitativi lei ha dato il termine di Pasqua: sarà rispettato?
R. Sì, anche perché a Pasqua c’è il giorno della resurrezione, e non c’è modo migliore per rispettarlo. Ci saranno moduli abitativi di emergenza fatti bene, ma per la vera ricostruzione ci vorrà tempo.

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D. La struttura del Coc, il Centro operativo comunale, costituisce al momento il punto di riferimento della popolazione. È stata messa in piedi per l’occasione?
R. La struttura già c’era ed ospitava la sede del Liceo scientifico, adesso è invece stata adibita alle esigenze dell’emergenza. Abbiamo solo questo, ma stanno consegnando altri moduli e ne faremo un ufficio ad hoc in cui io possa lavorare meglio.

D. Cosa sta imparando da Amatrice?
R. In questa fase la grande lezione per tutti è questa: noi giornalmente andiamo a duemila e non diamo il giusto valore a tante cose. Dopo questa esperienza riusciremo ad apprezzare tante piccole cose come ad esempio la doccia, l’acqua, un paio di scarpe, io mi sono sognato per quindici giorni la Coca Cola. In un mondo dove tutto si consuma ad una velocità eccessiva e non si dà valore a niente, forse questo è stato un grande insegnamento per me e mi auguro che sarà per i miei figli e per le giovani generazioni, perché in un attimo puoi perdere tutto quello che hai creato in una vita. La sera da solo, quando vado a letto, mi salgono i ricordi. Questo era un Comune con 100 mega in fibra, wi-fi gratuito, la raccolta differenziata era al 63 per cento, eravamo uno dei borghi più belli d’Italia. Se si è sindaco di una piccola comunità poi, si conoscono tutti, e coloro che sono morti per me non erano numeri, erano il fornaio, il macellaio, l’amico d’infanzia, il barbiere. Io non so se questa esperienza mi renderà migliore, ma sicuramente è un grosso bagaglio.

D. Tutti i contributi delle raccolte fondi arrivano davvero?
R. Noi abbiamo un conto corrente dedicato per l’emergenza terremoto, altri versamenti vanno direttamente sul fondo della Protezione Civile che è stata molto presente. Sono successe cose straordinarie, una fra tante: un ristoratore di New York, emigrato italiano, ha fatto una serata a base di pasta all’amatriciana, che è il nostro piatto, ed è venuto personalmente a consegnarmi un assegno di 3 mila dollari americani.

D. Chi ha perso tutto dove si trova adesso?
R. Tanti qui sono andati nelle seconde case che erano agibili, ma c’è un profondo senso di appartenenza al territorio.

D. I media come si comportano?
R. Ho letto poco perché qui non ci arrivano i giornali, anche perché le edicole non ci sono più. Io per primo ho perso la mia edicola-cartoleria. Ma è meglio non leggere, perché se leggi ti viene il sangue cattivo e invece devi essere concentrato non sul passato e sul presente, ma direttamente sul futuro. Ho avuto la fortuna di non leggere i giornali.

D. Il Trentino ha fatto la scuola. Come mai arriva da lì questo progetto?
R. Perché mi sono sbrigato. Ad Arquata stanno ancora in tenda. Ho fatto subito la presa di possesso dell’area e ho detto che bisognava partire dalla scuola. La Regione in quei primi giorni era ad Amatrice con la sua Protezione civile, e mi sono subito accordato con loro. In questi casi non si può perdere un attimo di tempo, bisogna fare, bisogna muoversi. (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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