CARILLOFF

CARILLOFF di Romina Ciuffa. La sua scatola portagioie porta gioie solo quando è chiusa, ma quando è chiusa lei non può ballare: che gioia è? 

A proposito di scatola armonica, la mia: quando la chiudi, la ballerina che rotola su se stessa si piega in due e non si sa più che fine fa e questo mi ha sempre dato soddisfazione. Pensa questa scema, naso contro i guanti e i gioielli, in apnea totale, si gonfia tutta si gonfia, sudando come un bestia nel corsetto, urlando come il brutto genio nella lampada: «Apri la scatola, voglio ballare cazzo!». Ma chi sei, le dico, ma chi ti conosce. Ma ti pare, una ballerina dentro casa. Ne serviva giusto un’altra di narcisista. Inscatolo e metto qualcosa di forte, che si addica al mio stato, Marilyn Manson, «Se non posso averti, non potrà nessuno». Se io non posso averti, ballerai a comando. Ora voglio stare per conto mio, la chiudo abbarbicata nel suo stupido tutù. Ho sempre odiato le cretine che non sanno aprire la loro scatola da sole. Per di più rosa.

Perché non mi sono fatta un orologio a cucù, dico io, delle bestie puoi fidarti molto più che delle donne. Avevo questo carillon come si hanno i carillon: non si sa perché. Stanno lì, da parte, li ricordi dall’infanzia ma non potresti mai dire chi li ha messi lì. Sarà stata l’amante di qualcuno dei miei nonni, zii, di mio padre, di una cugina gay non dichiarata o chissà. Questa stupida ballerina, quando apro, mostra di sapere della vita. Di me. Perché mi colpisce tutte le volte, esce come se io non sapessi. Mi sorprende. Ma gira sotto lo sprone della mia carica e questo non va: voglio un carillon indipendente, una ballerina che mi faccia danzare. Che esca dalla scatola mentre dormo.

Adoro questa sequenza, London’s Bridge is Falling down, canzonetta in voga nelle scuole materne inglesi dal 1744. Nel 1013 il London Bridge fu fatto bruciare da re Edredo d’Inghilterra e dal suo alleato norvegese Olav II per dividere l’esercito degli invasori danesi di re Svein Haraldsson; Snorri Sturluson nel 1225 scrisse la Saga di Olav Haraldson. Come lo ricostruiremo, my fair lady? Il ponte sta crollando, signora. Ma lei ha gli occhi distrutti dal panico. Conosco quegli occhi. Prendo la chiave e la rinchiudo con le gioie. Lock her up, Lock her up. Cessa di crollare il ponte, la mia ballerina riposa riversa sulle collanine. Il panico è passato, è più tranquilla ora ma la sento, sento le mie collanine e gli orecchini fare dling dling, come una scossa di terremoto minuscola che è la mia ballerina tremante. Ricostruirò questo ponte rosa mentre la scatoletta trema. Poi si calma. Dev’essersi addormentata. Da carillon a carilloff.

Passano i mesi e la riapro. Ballerina come stai? La tua serotonina? E l’amigdala, l’hai regolata intanto? Esce fuori, assonnata. Ha dimenticato del ponte, poi quel lampo nei suoi occhi cerulei, due puntini senza pupille. No, non è crollato. Ma fregatene. Sei al riparo, sei con me, sei nella scatola del carillon. Ballerina, tu balla, fregatene del ponte. Fai ciò che più ti piace, la felicità, esci dalla scatola. Mi guardi, come a dire: gira. Ho paura di farti girare, perché ho paura che avrai paura di nuovo. Lock her up. Ruoto velocemente il meccanismo. Lei ha le unghie curate, il trucco è leggero. Tende al cielo allungando le braccia e indica me.

Mi accorgo di meritare un uccello che esce fuori dall’orologio ogni 12 ore e fa cucù. Ne Il Silenzio degli Innocenti c’è un carillon come il mio nella stanza di una vittima di Hannibal Lecter. Questa scatoletta rosa piena di oche e fru fru accanto ai pezzi d’uomo di una cena avanzata si addice di più al mio crescere. Sapere che anche la scatola più rosa fuori è nera. Cari, on. Cari, off.

London Bridge is falling down, balla, soffre ma balla, un po’ trema. Rallento. Sta sudando di nuovo. Ha le mani fredde. Le sposto una collanina che le si è incastrata tra i piedi, delicatamente le pulisco la scatola delle gioie e intanto lei volteggia, mi guarda, lei che porta gioie e non sa dove siano, le gioie. Trema più forte. Il ponte sta per crollare, vedo che già non riesce più a concentrarsi sui suoi passi. Le sta tornando il panico. Non era stupida, ma terrorizzata. Il terrore che venga a mancare la terra sotto i piedi, che è il terrore di volare. La paura che ogni volta, danzando, il ponte crolli. I sensi di colpa. Qualcuno che la osserva da fuori. La sua scatola portagioie porta gioie solo quando è chiusa, ma quando è chiusa lei non può ballare: che gioia è?

Allora prendo e giro la rotella a sinistra, la faccio al contrario tutta quanta così il ponte è ricostruito. Le si illuminano gli occhi. Da cerulei a veri. Non ci avevamo mai pensato. Balla, senza paura balla, ci sono io qui fuori, io ti conduco, tu balla e ricostruisci questo ponte. Fra poco richiuderò il portagioie. Ma sai che lo riaprirò, ti caricherò e ti farò girar la testa, ti condurrò in un ballo dolce fino alla fine della notte. Sai che, mentre la tua scatola sarà chiusa, io non comprerò nessun orologio a cucù e spolvererò la tua scatoletta. (Romina Ciuffa)




CARO DIRETTORE, MI AIUTI A USCIRE DALLA CAVERNA

CARO DIRETTORE, MI AIUTI A USCIRE DALLA CAVERNA di Romina Ciuffa. C’è chi mi chiede di parlare di Renzi, chi di Gentiloni, chi di Grillo. C’è chi vuole un articolo sulla Raggi e sul degrado di Roma. Mi hanno consigliato di scrivere della denatalizzazione e delle nuove statistiche sul crollo demografico. Ciascuno mi ha, in cuor suo, dettato un articolo intero: esigenza estrema di dire la propria, necessità di parlare di tematiche di interesse generale che io potrei a mio modo svolgere. Dentro di me mi sentirei, lo dico sinceramente, di parlare della morte di George Michael, simbolo di un’intera generazione che vola via, forse vittima di un suicidio. Mi sentirei di parlare dell’abuso dei nuovi network, che nuovi non sono più, e di come siamo manipolati dalla «sindrome della spunta blu» di WhatsApp, delle nevrosi che ne conseguono, dei danni neurologici, psicologici e somatici che la comunicazione «smart» ha introdotto e indotto. C’è chi mi chiede di parlare del terrorismo, dell’Isis, dei foreign fighter, di Trump, di un 2016 bisestile che, a quanto sembra, ha fatto più vittime che carnefici. Lo farò. Ma poiché anche io ho delle richieste da farmi, oggi ho deciso di scrivere una lettera al direttore: una lettera a me stessa.

«Caro direttore, 

Le scrive un’accanita lettrice di Specchio Economico. Sono anni che vi seguo, con voi entrando nel mondo delle realtà aziendali e istituzionali, leggendo dalle vostre righe le parole di chi questo mondo lo crea e lo distrugge. Sono una quarantenne plurilaureata, mi ritengono una persona sensibile, mi definiscono geniale, ma quando invio il mio curriculum in giro mi tacciano: ‘overqualified’. Ne ho interpretato il timore di avere tra i piedi una lavoratrice troppo preparata, che potrebbe avanzare pretese. Ne ho letto una profonda crisi del sistema, che anziché premiare gli studiosi e i lavoratori li teme. Non mi soffermerò, in proposito, sull’infelice frase del ministro del Lavoro Giuliano Poletti sulla fuga dei cervelli («Conosco gente che è bene sia andata via, questo Paese non soffrirà a non averli tra i piedi»). Mala-educazione che imperversa, disattenzione verso gli altri, disintegrazione dell’umanizzazione. C’è un Bastian contrario che abita questo Paese dissestato.

Il 2016 è stato un anno di perdita per gran parte di noi. C’è chi ha visto morire i propri cari (personalmente ho appena perso il mio più caro amico, Francesco, finito fuori strada in moto sulla via Salaria a causa di una buca – capitolina, capitombolina, capitolare – che il giorno dopo, come da tradizione, è stata subito ricoperta). Ci sono state bombe e persone esplose, altre inesplose, gli attentati sono all’ordine del giorno e a Capodanno – tralascio le polemiche sul divieto romano di fare i botti tradizionali, che peraltro condividevo – ho festeggiato nella mia taverna, in pieno centro a Roma, davanti al camino. Glielo dico per raccontarle un aneddoto che si è verificato. Due invitate mi hanno chiamato terrorizzate informandomi della loro rinunzia a venire. Spiegavano: giunte davanti al portone, hanno visto un arabo gettare una borsa sotto una macchina. Lo hanno fermato, ma lui è scappato alla velocità della luce. Si tratta di due persone di elevato spessore culturale e sociale: lungi da loro ogni riferimento ad una fobia spicciola da uomo di strada o alla stereotipicità del pregiudizio. Hanno chiamato i carabinieri, poi mi hanno avvisato: per la paura che tale pacco contenesse una bomba, preferivano rientrare a casa. Le ho tranquillizzate: c’è un carabiniere a casa mia, risolviamo tutto (per dovere di cronaca, i carabinieri chiamati non sono mai arrivati). Nella mia temerarietà, ho passato al setaccio tutte le autovetture parcheggiate davanti al portone fino a trovare una borsa di Chanel del valore di circa mille euro; senza dubitare l’ho aperta e vi ho trovato moltissime carte di credito e documenti: apparteneva ad un medico libanese iscritto all’Università americana di Beirut. Il carabinere presente al mio veglione ha fatto il resto, risolvendo la situazione. Le due invitate hanno partecipato alla nostra cena. 

Solo poco dopo, sono uscita nuovamente dal portone e ho trovato un italiano ed una spagnola nudi, alle prese con un rapporto sessuale completo in mezzo alla strada, in pieno centro storico. Li ho dapprima fotografati, poi ho detto loro che avrebbero potuto continuare indisturbati. L’uomo si è alzato e mi ha proposto in maniera aggressiva un rapporto sessuale. Ha insistito violentemente. Ho declinato, lui si è alterato ancora di più e ha detto a lei, a gambe aperte, ‘torniamocene al locale’. Per le strade v’erano solo ubriaconi, il centro di Roma era paragonabile ad un settore del Risiko, oltre a ciò pericoloso, indegno, sporco, violento, viziato. Con questa mia lettera, caro direttore, vorrei solo che lei sapesse che, sia pure le tematiche delle aziende e dello stato della politica siano rilevanti, c’è un mostro che adombra le nostre città. E quello non sono io, sia pure ‘overqualified’.»

Cara lettrice, farò riferimento al mito della caverna di Platone: prigionieri convinti che le ombre che vedono siano la realtà. Ammesso che uno di essi riuscisse ad uscire dalla caverna, le forme portate dagli uomini verso l’esterno gli sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; se gli fosse indicata la fonte di luce, egli rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco, il sole, le stelle, preferirebbe volgersi verso le ombre. Poi, finalmente capace di fissare la luce e di comprendere il valore del sole e della verità, avrebbe un sussulto pietoso: rientrare e liberare i compagni. Ma dovrebbe riabituare la vista al buio per rientrare nella caverna e riconoscere i compagni, dai quali sarebbe deriso per i suoi occhi rovinati, in una temporanea inabilità che non gli consentirebbe, nell’immediato, di spiegar loro il senso di realtà provato. Platone giunge ad immaginare che questi ultimi possano essere mossi da un istinto omicida nei riguardi dell’amico “illuminato” pur di non subire il dolore dell’accecamento e la fatica della salita necessaria ad ammirare le cose descritte.

Parafraserò ciò che lei descrive in questo modo: la nostra, o piuttosto la «loro» Italia, è una caverna. Il mio augurio più forte è quello che lei, almeno lei, riesca ad uscirne, come fece il filosofo, per vedere la luce. Il ladro di Chanel, i due ninfomani ubriachi, l’assenza di controlli: quelle non sono che ombre. Uscendo dalla caverna le dirò ciò che vedo, la realtà: la sparizione della civiltà, l’adeguarsi ad una maleducazione sessuale e sentimentale, la pericolosità di uno Stato che non tutela i cittadini. Non mi venga a dire il ministro Minniti che lo stragista di Berlino è stato trovato in Italia grazie agli sforzi compiuti dalle Forze dell’ordine: è stato un caso. Le auguro, cara lettrice, di abituare gli occhi quanto prima ad una nuova luce, e di uscire dalla caverna senza nemmeno raccogliere i suoi quattro stracci. Fuori ci sarò io ad attenderla: ma il suo amico Francesco dalla Giunta Raggi non potrà riaverlo. In Italia gli attentati ce li facciamo da soli.  Romina Ciuffa




QUANDO DICO VOLA

QUANDO DICO VOLA

Quando dico “vola”,
non sprono alla fuga:
sprono all’atterraggio.

Romina Ciuffa, 30 dicembre 2016




IL CONFLITTO INOPPUGNABILE DENTRO DI NOI, DUBBIO AMLETICO O NEVROSI?

IL CONFLITTO INOPPUGNABILE DENTRO DI NOI, DUBBIO AMLETICO O NEVROSI? di ROMINA CIUFFA, psicologa. Il conflitto, quello che tutti abbiamo dentro. Niente di nuovo per nessuno di noi: il dubbio, lo stress decisionale, spesso l’angoscia. In psicologia il conflitto consiste nella presenza di assetti motivazionali contrastanti rispetto ad una meta. Di «oggetto-meta» aveva parlato il sociocognitivista Albert Bandura nel definire l’autoefficacia. Il gestaltista Kurt Lewin, fautore della teoria del campo, dà rilievo all’interazione tra persone e ambiente per studiare il comportamento – nella relazione C=f(P,A) ossia il comportamento come funzione di persona ed ambiente – analizza le valenze che possono essere date ad un determinato oggetto meta o a più di essi. Lewin definisce il conflitto come una competizione tra istanze affettive ed avversive, distingue tra conflitti adienti ed evitanti, o doppiamente adienti e doppiamente evitanti, a seconda che si presentino due tendenze appetitive (avvicinamento-avvicinamento), due avversative (evitamento-evitamento), una appetitiva e una avversiva (avvicinamento-evitamento), ossia due più tendenze che siano in sé sia appetitive che avversative, o più di due (doppio avvicinamento e doppio evitamento): è questo il caso delle mete ambivalenti.

In tutte queste ipotesi, sempre presenti e in modo molto complesso ed evidente nella realtà quotidiana, il soggetto tenderà – quando non a bloccarsi (è l’esempio dell’asino di Buridano) – a risolvere in un senso o nell’altro, quindi a predisporsi in modo da esaltare l’obiettivo scelto e denigrare quello trascurato per non tornare in conflitto, dunque semplificando solo determinati aspetti dell’oggetto-meta e mutando la propria posizione cognitiva ed emotiva. Ciò non avviene sempre, e il soggetto può tanto ritirarsi dalla decisione quanto oscillare nevroticamente tra le varie ipotesi. 

Fu il russo Ivan Pavlov, lo stesso che studiò le reazioni del cane in ambito comportamentista, a compiere studi sul conflitto eccitazione-inibizione negli animali in una situazione di nevrosi sperimentale indotta, in cui verificò il presentarsi di situazioni di turbe generali di ansia e disturbi alimentari, turbe nei rapporti sociali, manifestazioni psicosomatiche. Nell’uomo tali reazioni sono molto più evidenti, in un repertorio più ampio di sintomatologie. 

In ambito psicanalitico, il conflitto riveste un’importanza primaria: Sigmund Freud lo colloca tra istinto di vita e istinto di morte (Eros e Thanatos), tra Es e Super Io, tra principio di realtà e principio di piacere, e contrappone il conflitto manifesto ad un conflitto latente. Gli elementi manifesti, se presenti, svolgono una funzione di copertura dei conflitti latenti, con implicazioni di rilievo che includono lo sviluppo di psicopatologie anche molto gravi, cui Freud risponde con l’interpretazione dei sogni, le associazioni libere, il transfer, l’ipnosi, tecniche utili a far emergere le cause inconsce che il soggetto soffoca con meccanismi di difesa a partire dal più dirompente, quello della rimozione, non sufficiente ad eliminare il conflitto se non a livello conscio. 

Tra i cognitivisti, l’americano Leon Festinger si è espresso elaborando il concetto di «dissonanza cognitiva», quello stato generato dall’incoerenza tra due credenze od opinioni contemporaneamente esplicitate che si trovano a contrastare fra loro. Distinguendo dissonanze cognitive per incoerenza logica, per tendenze comportamentali del passato, per costumi culturali rispetto al contesto di riferimento, sostiene che un conflitto possa risolversi in tre modi: la modifica del comportamento, la modifica dell’atteggiamento o la modifica dell’ambiente. È il caso di colui che, disprezzando i ladri, acquisti un prodotto ad un prezzo tanto basso da non poter non pensare che esso provenga da atto illecito. Tale conflitto può risolversi attraverso una modifica cognitiva della credenza: smettere di disprezzare i ladri, o intervenendo sul comportamento: non comprare, in questo esempio essendo difficile mutare la situazione ambientale. È anche il caso del consumo di sigarette: colui che le assume sa che danneggiano la salute, dunque può smettere di fumare ovvero proseguire dando peso alle probabilità (solitamente valutate con euristiche alla Kahneman – routinarie, molto efficienti, poco consapevoli, automatiche e tendenti alla semplificazione – e non con algoritmi complessi come la formula di Bayes, anche detta teorema della probabilità delle cause) che fumare non sempre uccide, e che si tratta di un comportamento che molti hanno fino a tarda età senza riscontrare problemi incisivi, accettandone così anche il rischio. Festinger ricorda Fedro, che conclude la favola della volpe e dell’uva con un aggiustamento cognitivo: «Tanto era acerba». Importanti i suoi esperimenti su comportamenti compiacenti e ricompensatori.

 È il canadese Daniel Ellis Berlyne a contraddire gli altri studiosi quando parla di una marcata motivazione al conflitto che spinge l’uomo in tale direzione. Le proprietà collative degli stimoli, ossia la presenza di elementi di novità ed incongruenza con le precedenti conoscenze determinanti per l’attività cognitiva, attengono al confronto e possono essere messe in relazione con l’incertezza: un confronto con situazioni nuove e complesse porta ad un innalzamento dell’arousal, il livello di attivazione dell’organismo, e conduce all’esperienza che Berlyne ha chiamato «conflitto concettuale», che può aumentare eccessivamente l’arousal stesso. Con l’esplorazione specifica è possibile ridurre tale arousal, mentre effetto contrario si ottiene con l’esplorazione diversiva. 

La teoria di Berlyne a proposito della relazione tra le emozioni e i processi cognitivi ripropone un’idea di Wilhelm Wundt, espressa con la curva di Wundt-Berlyne la quale riassume le relazioni che intercorrono tra arousal e stato emotivo connesso a una data situazione, inteso come valore edonico della situazione dipendente dall’arousal: il valore positivo o negativo delle emozioni è funzione che inizialmente aumenta, quindi diminuisce con l’aumentare dell’arousal. 

Il conflitto si manifesta a livello intrapsichico sì, ma anche interpersonale, come nel caso di opinioni contrarie, e spesso a suscitarlo non è un oggetto ma un modello di comportamento. L’appartenenza a diverse categorie genera un conflitto tra ruoli, che viene esaltato dalle diverse regole, spesso incompatibili, da rispettare. Esempio utile è quello tra «testimone» e «amico» nel caso di incidente stradale (il ruolo «amico» mente per avvantaggiare il conoscente, il ruolo «testimone» dichiara il vero ma avvantaggia così lo sconosciuto che è stato urtato): alcuni hanno risposto al quesito conflittuale in termini di ruolo pubblico, altri di ruolo privato. 

Un conflitto denso di significati è quello intraevolutivo, nel passaggio da un’età all’altra (peraltro molto ben evidenziato da Erik Erikson), legato alle trasformazioni corporee e alla maturazione cognitiva. A tale conflitto è possibile rispondere con una terapia psicologica affinché il passaggio avvenga armonicamente, sia nei bambini, che passano attraverso «età critiche» più sensibili (per Erikson sperimentando conflitti fiducia-sfiducia, autonomia-vergogna e dubbio, iniziativa-senso di colpa, industriosità-inferiorità), sia negli adolescenti, divisi tra bisogno di contrapporsi alla famiglia con un proprio senso del sé e difficoltà ad accettare la crescita e il distacco dalle figure di accudimento (per il medesimo psicologo dello sviluppo, in tale fase il conflitto è tra identità e diffusione), sia negli adulti (in bilico tra intimità e isolamento contro generatività, poi tra stagnazione e autoassorbimento), sia negli anziani (nel conflitto eriksoniano tra integrità dell’Io e disperazione). 

Nell’area clinica l’applicazione riguarda il trattamento delle nevrosi, per cui diventa centrale favorire un processo di consapevolezza ed elaborazione dei termini del conflitto nevrotico. È utile dare una «narrazione», far emergere nel colloquio gli elementi di attrazione e repulsione e favorire un processo decisionale adeguato. L’elemento terapeutico nei colloqui clinici è sempre presente anche quando non si sia stabilito alcun contratto terapeutico ed il clinico non si sia posto esplicitamente nel ruolo di psicoterapeuta. Oltre al colloquio sono utili metodi psicometrici, quali test proiettivi (Rorschach e Tat sono i più utilizzati) che consentono di estrapolare i dati presenti inconsciamente, e test grafici. 

Anche i profili di Rubin possono rivelare l’entità di un conflitto, prestandosi a due possibilità di lettura: il soggetto, fissando a lungo le figure, alterna le due percezioni conflittuali sempre più velocemente finché l’immagine non si scomotizza (la scomotizzazione è quel meccanismo di difesa psicotico di negazione inconscia con cui il soggetto occulta o esclude dall’ambito della coscienza o memoria un ricordo penoso, ma anche intellettivamente inteso dalla psicologia cognitiva, la creazione di uno stereotipo ove si eviti di prestare attenzione ad alcuni dati disponibili in un certo contesto, dunque risolvendosi in una reazione alla dissonanza cognitiva attraverso fissazione cognitiva). I profili di Rubin sono conosciuti nell’illusione ottica della figura sfondo-vaso, tipica di conflitto.

Molti sono gli studi compiuti sul conflitto intrapsichico, quel dubbio «amletico» che, se seviziato, non accompagnato, non sorretto, non cognitivizzato, conduce ad una sofferenza talvolta inoppugnabile. Alcuni individui sono più propensi a nuotare nel conflitto, a bloccarsi, con o senza nevrosi conclamata. C’è chi dice che il segno zodiacale dei Gemelli ne sia il più afflitto. Altri sono più orientati ad agire da boia: un colpo secco, e non ci si pensi più (il segno del Toro, nell’esempio astrologico). Non sia però sottovalutato il problema: chi vive nel conflitto finisce per cronicizzarne i sintomi e le conseguenze sono devastanti. È collegato il tema della frustrazione, che approfondirò in un prossimo articolo. Romina Ciuffa




NON CHE TRASPARIRE

NON CHE TRASPARIRE

Non che trasparire
nasconda le cose, piuttosto
le amplifica e rende curiose
idee evanescenti di un senso
d’amore – quel forte rancore
dell’essersi resi invisibili
quando
si amava –
ed intanto
riflette su un vetro
l’immagine amata
lasciata nel retrobottega
del “dopo”, del “poi ci si vede”,
del “sei tu la sola
che amo ma”. Gola,
la sola che avrà questo nodo.
Parola.

Romina Ciuffa, 21 dicembre 2016




MORRO DOS PRAZERES: I COLORI DELLA FAVELA CHE HA UCCISO UN VENETO

MORRO DOS PRAZERES: I COLORI DELLA FAVELA CHE HA UCCISO UN VENETO di Romina Ciuffa. “Morro dos Prazeres” significa letteralmente “collina dei piaceri”. È una piccola, spettacolare favela a sud di Rio de Janeiro che si staglia a 275 metri, vicino il quartiere bohémienne di Santa Teresa, e da essa è visibile tutta la Rio più nordica sebbene ancora meridionale, dal Pão de Azucar al Botafogo, una delle viste più intense della città carioca, la cidade maravilhosa. Prazeres conta meno di 700 residenti. Il suo nome è un tributo a Madre Maria dei Piaceri, che tenne una messa alla base della collina dove una volta era una cappella (oggi v’è un blocco di appartamenti). Il suo passato non è dorato: è stato un Quilombo, ossia un punto in cui gli schiavi si rintanavano nel XIX secolo.

Nel 2008 è stata il set del film Elite Squad, il famosissimo Tropa de Elite. Non è facile giungervi, ed è parte dell’unità di “Escondinho/Prazeres”. Comunità “pacificata”, la polizia vi è entrata e, “teoricamente”, la favela è “tranquilla”. Che la polizia entri in una favela e la pacifichi non vuol dire che la favela sia pacificata. Nella maggior parte dei casi, pacificação non è affatto sinonimo di pace, tutt’altro: i residenti si sentono più insicuri. Il BOPE (Batalhão de Operações Policiais Especiais, ovvero Battaglione per le operazioni speciali di polizia) tende a confrontarsi con i cittadini in maniera più dura, ed essi si sentono paradossalmente più protetti dai narcotrafficanti. I tiroteios (gli scontri a fuoco) restano, cambiano solo gli addendi: se prima erano tra narcotrafficanti, poi sono tra narco e polizia, e i residenti sono meno tutelati. Questa è vox populi. E il povo si lamenta perché se prima poteva tenere le porte aperte e nessuno avrebbe rubato né commesso crimini, con l’entrata del BOPE le cose cambiano e iniziano i furti e gli stupri, non più assiduamente controllati dai precedenti detentori del potere (molti dei quali in carcere, altri latitanti, altri ancora nella comunità).

Mi soffermo oggi sul Morro dos Prazeres, che conosco bene, e ne pubblico il mio reportage fotografico, a poche ore dal caso di cronaca nera verificatosi alle 11 ora locale dell’8 dicembre: due motociclisti italiani, durante un viaggio previsto di 35 mila chilometri, dopo una visita al Cristo Redentore sarebbero entrati per sbaglio nell’area e fucilati. Dal Morro il Cristo è ben visibile.

Ma non basta un occhio a Dio: il veneto Roberto Bardella, di Jesolo, è morto, raggiunto dai colpi alla testa e al braccio; suo cugino Rino Polato (di Fossalta di Piave) si è salvato (dichiara alla polizia locale: “Roberto mi faceva notare quanto fosse degradato l’ambiente circostante. Ci siamo resi conto di aver imboccato una strada sbagliata”). Vestiti da centauri, sono forse stati scambiati per poliziotti. “Avremmo fatto trecento metri, quando abbiamo visto quel gruppo di uomini, tutti molto giovani, che sbarrava la strada e puntava le armi. Ho sentito un colpo sul casco e ho visto cadere Roberto che stava davanti. Mi sono fermato. Sono stato bloccato, strattonato e poi buttato giù dalla moto”. Poi, Polato è stato preso e tenuto per due ore in una vettura bianca, quindi rilasciato. Il suo telefono, scomparso, è stato poi ritrovato a pezzi. La Delegacia Especial de Apoio ao Turismo (Deat) lo ha accompagnato al Consolato italiano, e sabato 10 è rientrato in Italia. Solo.

Un incidente. Ma questo basti a confermare non la pericolosità del Brasile, quanto la pericolosità del turista. Rectius: la sua leggerezza. Non si creda – è un invito – che le palme bastino a rendere omaggio ad un Paese che resta emergente, sofferente, insoddisfatto, povero. I media hanno esaltato le Olimpiadi, i Mondiali, la Giornata dei Giovani e la presenza del Papa, le buone azioni del Governo, e mai hanno rivelato gli scandali effettivi che hanno distrutto intere comunità, l’aumento del costo della vita che ha reso impossibile la sopravvivenza di molti, l’esistenza di un grande, immenso, giro di spaccio nazionale ed internazionale. Non si può pensare al Brasile canticchiando Caetano Veloso, in un localetto fumante ascoltando un successo di Tom Jobim. Il Brasile non è bossanova. Il Brasile è questo: è il dolore di famiglie sfrattate, la scarsa educazione, l’analfabetizzazione. Quando per costo della vita si intende più il prezzo che vale una vita: ossia, nulla. Un iPhone, una motocicletta, ma anche solo una decina di reais. Non si visita una favela con leggerezza, non si cammina nelle spiagge di Jericoacoara di notte da sole, non si rischia la vita come l’hanno rischiata, e persa, gli ultimi italiani casi di cronaca nera più recenti. C’è sempre un errore alla base di tutto questo.

Ho vissuto nella favela della Rocinha e frequentato tutte le favelas di Rio de Janeiro. Sono stata sempre molto attenta e mi sono garantita protezione prima di tutto. Sono scampata a sparatorie e i colpi di fucile li ho visti passare sopra di me che correvo. La favela non è un Risiko, non è un gioco. Ma non lo è neanche Leblon, non lo è Ipanema, né Copacabana, che prolificano di ragazzini affamati di denaro. Bisogna, prima di affrontare un viaggio in Brasile, approntarsi una preparazione in sociologia, antropologia, psicologia, storia. Solo allora si potranno capire quelle che al turista medio sembrano le contraddizioni di un Paese, mentre a me sembrano solo elementi di coerenza. Sarebbe strano il contrario. Non si entra con una moto in una favela, regola numero uno. Salvo che non sia una moto della favela. Non si compra maconha (marijuana) nella favela, salvo che non si sia introdotti da un favelado di quella stessa favela. Non si passeggia allegramente in una favela con una macchina fotografica a lungo obiettivo, salvo che non si sia garantita protezione.

Il Morro dos Prazeres è una comunità colorata, ne danno conto le mie fotografie. Alzi gli occhi e vedi Cristo. Alcune case sono in vendita. L’atto di acquisto non è registrato nello Stato di Rio de Janeiro e non risulterà da nessuna parte, se non nel Registro della Favela. Smettetela di fare i gradassi: la favela non è un centro sociale. La favela è un luogo fatto di persone vere che soffrono fame e tubercolosi, che se è vero che non pagano la luce allo Stato perché hanno i gatos, i fili collegati in ogni punto dell’area che garantisce loro dell’autoconservazione, questo rientra nella sociologia del luogo. Cacciati dalla città, i poveracci si rifugiarono nei morros quando ancora la città non si era resa conto di quanto valessero quelle colline. Ora sono le più ambite dai grandi imprenditori, dali politici, dai ricchi. Il gap tra povertà e ricchezza è tra i più alti del mondo. Ogni singola comunità (favela) ha una vita a se stante, una storia a se stante, una genealogia a se stante. Sono attivi progetti e le comunità sono comunità di buoni. Non facciamoci influenzare dai media. Ma attenzione alla leggerezze.

Eccoli, i colori che ho visto nella collina dei piaceri, dove il pittore è Cristo: al link http://www.riomabrasil.com/morro-dos-prazeres/

(Romina Ciuffa)




AMERICAN EXPRESS: MELISSA PERETTI, DIVERSIFICAZIONE DEI PRODOTTI MA ANCHE DELLE DIVERSITÀ UMANE

American Express viene fondata a Buffalo nel 1850 da Henry Wells e William Fargo come società di trasporto valori. Il logo, un cane poggiato sopra un baule, è già un forte richiamo alla sicurezza e alla protezione. Di strada questo cane ne avrebbe fatta molta. Intanto, il marchio nel 1891 inventa il «travel cheque», primo strumento prepagato della storia che contribuisce al rapido processo di internazionalizzazione dell’azienda. È nel 1958 che viene creata la prima carta di credito, che già prima del suo lancio riceve oltre 250 mila richieste e a soli tre mesi dalla comparsa conta già 500 mila titolari negli Usa. In Italia, le carte di credito personali sono lanciate nel 1971, quelle dedicate alle aziende nel 1979, e risale agli anni 90 il programma di fidelizzazione «Club Membership Rewards». A fine 2003 l’Amex raggiunge una quota di oltre un milione di titolari di carta in Italia. Nel tempo American Express è diventata «più di una semplice carta», offrendo valore aggiunto per il semplice uso della stessa: dal programma di fidelizzazione al «cash back» per il prodotto più giovane, dalle miglia e i punti accumulabili ai benefici esclusivi offerti dai partners. Oggi in Italia la società sta beneficiando di grandi cambiamenti: innanzitutto un trasferimento della sede romana principale di Cinecittà a quella di Via Eiffel, tutta trasparente, che ha consentito un cambio epocale. È l’introduzione dello «smart working», ma non solo: è l’avvio di specifiche attività di «Diversity & Inclusion», come il programma «Women in the Pipeline and at the Top», per incrementare il numero di dirigenti donne, o il «Pride Network», per promuovere i temi di inclusione della comunità LGBT. Infatti la diversità è sempre stato uno degli elementi più forti dell’American Express. Quindi, la nomina di Melissa Ferretti Peretti, già in azienda da molti anni, come direttore generale per l’Italia, anche riconosciuta dal Premio Bellisario per la sua eccellenza. Specchio Economico lo conferma. I lettori di Specchio Economico potranno farlo attraverso questa intervista, che dà conto dell’importanza di chiamarsi American Express.

Domanda. Iniziamo proprio dalla sua nomina e dalla femminilità in questo ruolo: l’American Express è molto attiva nell’attenzione alla parità di genere. Cosa ci può dire?
Risposta. La cosa più interessante in realtà non è stata solo la nomina di una donna, ma la nomina di una persona giovane e italiana: le tre componenti insieme rendono tale nomina particolare, ma credo che se anche fosse stato nominato un giovane adulto italiano sarebbe stato altrettanto importante, ciò avrebbe costituito una novità positiva per il mondo della finanza, soprattutto avvenendo nell’ambito di un marchio già forte, non una start up bensì un’azienda che lavora in Italia dal 1901 e che è nata, in America, 166 anni fa, nel 1850, facendo cose ben diverse da quelle che facciamo oggi: trasportando i valori con le carovane dall’est all’ovest e già rappresentando i valori della sicurezza, della security, del trust, dell’affidabilità. Infatti era un cane poggiato sopra un baule a rappresentare il brand, ossia proprio il valore della protezione, che ci siamo portati dietro in tutti questi anni di storia. Il fatto che un’azienda con un ruolo così rilevante nella finanza da cent’anni scelga, alla guida di un mercato importante come l’Italia – fra i primi tre europei e fra i primi otto nel mondo per Amex – una persona cresciuta in azienda e italiana secondo me è un segno importante. Che io sia donna non lo trovo altrettanto interessante, sebbene ciò comunque avvenga in un momento in cui si discute tanto del ruolo della donna dopo l’entrata in vigore della legge sulle Pari opportunità. Ma questo ci fa parlare, per l’appunto, di un tema a noi molto caro, quello più generale della «diversity». Oggi come oggi non può esistere nessun ambiente che funzioni e che sia in grado di competere in maniera efficace ed efficiente in un contesto competitivo complesso, in continuo mutamento, globale, senza non soltanto accogliere, ma valorizzare ogni tipo di diversità.

D. Il 17 novembre l’American Express a Roma ha tenuto un evento specifico per la comunità LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender). Di cosa si è trattato?
R. È stato un evento interno all’azienda molto sentito, che non abbiamo fatto per avere visibilità sui giornali proprio perché la diversità è nel dna di American Express. Siamo un’azienda globale, presente in 130 Paesi con 166 mila dipendenti che, come è ovvio, sono tutti diversi tra loro, così come lo sono i nostri clienti, circa 130 milioni nel mondo. Già dall’inizio del 2013 in Italia abbiamo esteso tutti quanti i benefici del dipendente al partner dello stesso sesso, quindi ben prima della legge sulle unioni civili. È chiaro che un’azienda del genere non può non fare della diversità e dell’inclusione uno dei valori chiave. Ci siamo dedicati molto negli ultimi anni al tema del genere; personalmente, prima di diventare Country Manager, sono stata sponsor, all’interno di American Express, di un programma volto ad aumentare il numero delle donne nelle posizioni dirigenziali, con l’obiettivo di raggiungere in Italia il 50 per cento dell’impiego femminile. Siamo ora al 43 per cento, con una media italiana assestata attorno al 18 per cento.

D. Nella vostra nuova sede la disabilità è finalmente tutelata. Può parlarci di questo?
R. Ci stiamo dedicando molto alla disabilità soprattutto dopo il cambio di sede, da quella di Cinecittà a questa di Via Eiffel, che grazie alla conformazione dell’edificio ci ha permesso di creare un «work and talk», parlare e agire, e di avere finalmente un «building friendly» da ogni punto di vista. A Cinecittà erano presenti delle barriere architettoniche, trattandosi di un edificio costruito negli anni 70. Bisogna però pensare che il «private network», una rete interna per i dipendenti, in America esiste da vent’anni, essendo nato in Amex nel 1995, e l’impegno nel «Diversity & Inclusion» è iniziato nel 1985, quindi da 30 anni. I due network che si occupano di «diversity» – il Women’s Interest Network (Win) per le donne, e il Pride per l’orientamento sessuale, che in America esiste dal 1995 – adesso hanno il 40 per cento di dipendenti iscritti. Ho chiesto a tutti di iscriversi, LGBT e non LGBT, per attivare un’alleanza utile a portare avanti la parità dei diritti e la sensibilizzazione su tali temi, e ci saranno una serie di iniziative non soltanto interne all’azienda per facilitare l’inclusione da ogni punto di vista: sessuale, della disabilità, del genere. Questo tema è per noi più forte perché in Italia siamo indietro. La legge grazie al cielo è stata votata ma con trent’anni di ritardo, tanto che prima di essa a livello europeo l’Italia aveva un bollino rosso di «discriminazione». Se oggi è più facile parlare delle donne e della disabilità, ciò non accade in tema di orientamento sessuale, tanto da aver ricevuto attacchi su alcuni canali Twitter personali per aver pubblicato foto dell’evento LGBT, ma questo vuol dire solo che stiamo facendo qualcosa di giusto.

D. Nuova sede nuova vita? Cos’è il vostro «smart working»?
R. In quest’area abbiamo cercato innanzitutto di implementare lo «smart working». L’Italia è stato il primo Paese europeo di American Express a promuovere il lavoro «smart» dopo la Gran Bretagna così come per il Pride, quindi siamo un Paese all’interno dei mercati europei che si sta dimostrando estremamente innovativo, abbiamo vinto come prima azienda il premio «Smart working» del Politecnico di Milano nel 2014 proprio perché erano ancora pochissime le aziende ad occuparsene. Di fatto significa andare oltre la logica della presenza in ufficio e riuscire a gestire le persone attraverso gli obiettivi. Ciò avviene attraverso investimenti in spazi e tecnologia, in un ripensamento dei ruoli e dei luoghi aziendali. Oggi nessun dipendente ha una postazione fissa, solo alcuni ruoli la hanno, coloro che devono stare sempre in ufficio, che sono la minoranza: il 75 per cento delle persone deve prenotare sul sistema online la propria postazione sulla base dei suoi impegni in ufficio, e le scrivanie sono divenute «clean desk». Abbiamo eliminato anche tutta la carta. In linea di massima le persone lavorano da casa fino a due giorni a settimana, quindi il 30 per cento di esse non sono in ufficio e su mille dipendenti non ce ne sono mai più di 700: questa è un’ottima cosa da una parte perché siamo lontani dalla vecchie sede, dall’altra anche in funzione dell’impatto ambientale dei trasferimenti in una città come Roma. Inoltre abbiamo calcolato che, con questo sistema, si risparmiano alcuni giorni l’anno che altrimenti si trascorrerebbero solo effettuando gli spostamenti.

D. Cosa prevale nello «smart»?
R. Il concetto è quello della flessibilità: il leader deve essere in grado di stabilire una relazione con i propri collaboratori e di gestirli a seconda degli obiettivi, valutare così la loro prestazione in base alla stessa e non sul mero calcolo della presenza in ufficio. Questo rappresenta un cambiamento culturale molto forte, che porta a stabilire anche un rapporto di fiducia con il collaboratore, una maggiore responsabilizzazione, una partecipazione più sentita alle esigenze dell’azienda, in quanto senza controlli. Serve ovviamente la tecnologia che oggi come oggi consente di essere sempre connesso. Tutti hanno ovviamente il proprio computer aziendale e il telefono integrato. Anche la socialità, con gli spazi aziendali, è cambiata: le persone non hanno postazione fissa e ciò aiuta molto la collaborazione e la conoscenza, cadendo le barriere del quotidiano. Inoltre abbiamo ampliato tantissimo le aree comuni, creando salottini per le riunioni spontanee, cucine, e dando connessione wifi in ogni spazio, una grande rivoluzione che è stata estremamente facile e veloce. Non sarebbe ora più possibile tornare indietro. Questo è solo l’inizio, fra 10/15 anni da noi nessuno lavorerà più in ufficio, esisteranno però spazi dove sarà possibile fare riunioni con il proprio team, gli uffici tra l’altro costituiscono puntuali costi che non vengono tradotti in produttività. Lo «smart working» ha prodotto una serie di risultati positivi anche dal punto di vista della produttività stessa, l’assenteismo per malattia è diminuito del 6 per cento, i permessi del 20 per cento e così via solo a distanza di un anno. L’obiettivo è continuare a migliorare, e un team si dedica alla valutazione dello «smart working» per trovare modalità di ottimizzazione costante. Abbiamo anche messo a disposizione dei nostri impiegati una palestra, facendo un accordo con la One on One, società del Gruppo Tecnogym che ha creato lo spazio per noi e lo ha dotato di personal trainer e di tutto ciò che serve; infine, abbiamo inserito un parrucchiere e un centro benessere nella struttura. Stiamo cercando di realizzare spazi per bambini, un club dove i genitori possano portarli mentre lavorano.

D. Come vi occupate di formazione?
R. Abbiamo creato la Amex Academy per rispondere alle esigenze formative, integrando i corsi esterni con quelli interni, direttamente condotti dai nostri manager, di fatto anche arricchendo i curriculum dei nostri dipendenti che, attraverso le lezioni, possono imparare e proporsi per nuovi ruoli. Abbiamo anche lanciato un Master degree per senior talentuosi, una classe di 15 persone cui sono assegnati progetti da svolgere nel corso dei 6 mesi.

D. In questo anno e mezzo come Country Manager, cos’ha fatto?
R. Sono in American Express da 13 anni. Questo ruolo è la naturale prosecuzione del mio ruolo precedente, in questo sono stata molto facilitata, conoscendo già le persone e le attività. Venivamo da una situazione di stasi per una serie di ragioni legate soprattutto al contesto esterno economico. Ora siamo in forte ascesa anche grazie alla focalizzazione sul digitale e gli investimenti sul mercato: quest’anno stiamo investendo il 45 per cento in più rispetto all’anno scorso per acquisire nuovi clienti. Il portafoglio sta di nuovo crescendo mentre era stato statico per 7 anni, con una crescita di circa il 4 per cento, e il fatturato, che per noi corrisponde al «transato», è già cresciuto lo scorso anno del 3,5 per cento, mentre quest’anno stiamo raddoppiando. Sul digitale ci stiamo focalizzando nel migliorare la «customer experience» dei clienti.

D. In che modo affrontate la digitalizzazione?
R. American Express è il più grande network integrato di pagamenti nel mondo, processiamo milioni e milioni di transazioni al giorno, abbiamo milioni di dati da utilizzare in maniera intelligente per personalizzare sempre di più l’esperienza del cliente, dandogli un valore aggiunto, ad esempio inviando offerte sempre più in linea con le sue scelte. L’analisi dei dati ci consente di sapere cosa preferisce, così come la geolocalizzazione. Chiaro che la rivoluzione digitale sta facendo venir meno sempre di più il confine tra acquisto e pagamento, e il mobile sta estremizzando questo fenomeno. Un’azienda come la nostra non può e non vuole farsi identificare solo come mezzo di pagamento, altrimenti diventerebbe una «commodity» di semplice transazione, ma vuole essere vicina al cliente in tutto il processo di acquisto anche attraverso applicazioni mobili. Abbiamo lanciato anche in Italia una app per la fedeltà: la «loyalty» per noi è un elemento essenziale e per mantenerla dobbiamo costantemente essere nella direzione dei bisogni del cliente. Non innoviamo tanto per innovare, ma perché siamo convinti che in questo momento di grande evoluzione dell’industria dei pagamenti sopravviverà chi alla fine sarà in grado di dare un’esperienza diversa. Bisogna garantire un’esperienza facile, veloce, sicura, ma in più offrire credito con un apparato che sia in grado di valutare effettivamente la possibilità di concederlo. L’elemento che ci differenzia dagli altri è dunque il servizio: siamo riusciti ad arrivare ad un livello di sistematicità e di assoluta eccellenza. Gli stessi dipendenti Amex in tutto il mondo e indipendentemente dal ruolo sono valutati ai fini di un bonus del 25 per cento che dipende dai risultati in termini di soddisfazione sul servizio «refer to friend», ossia in che percentuale il cliente raccomanderebbe American Express ad un amico.

D. Tanta tecnologia, altrettanta sicurezza?
R. Abbiamo un servizio antifrode di nostra proprietà, e nostre persone che monitorano costantemente eventuali rischi di frode con sistemi evoluti, e credo che in questo siamo «best in class». Partiamo dalla buona fede del nostro cliente e immediatamente lo rimborsiamo di una perdita dovuta alla dichiarata clonazione della carta, al suo furto o altro. Questo ci contraddistingue da altri concorrenti: per noi il cliente non è assolutamente responsabile di nessuna frode effettuata sulla sua carta e all’istante, nel momento in cui il cliente ci chiama, riaccreditiamo la spesa fraudolenta sul suo conto. Ovviamente poi facciamo le verifiche idonee.

D. Perché la carta American Express è nella media è più costosa di altre carte? Questo non disincentiva i clienti?
R. Per tutti i servizi che diamo, ma non soltanto per questo. Va sottolineato in proposito: in Italia negli ultimi tre anni abbiamo investito circa 9 milioni di dollari per ridurre le commissioni soprattutto per i piccoli esercenti che hanno maggiormente risentito della crisi. Effettuiamo negoziazioni individuali e non collettive come fanno gli altri circuiti, e le commissioni vengono fissate sul tipo di business dei clienti. Il nostro obiettivo è quello di estendere l’uso della carta, quindi abbiamo agito coscientemente così aumentando il numero di clienti che quest’anno sono il 30 per cento in più rispetto a quelli acquisiti l’anno scorso. Cresciamo in maniera molto accelerata grazie agli investimenti, che misuriamo in dollari ma parliamo solo dell’Italia. Vogliamo mettere i nostri nuovi clienti nella condizioni di usare sempre la carta.

D. Quali sono i nuovi clienti tipici?
R. Abbiamo un’ampia fascia di prodotti, che partono dalle classi più alte con carte di un certo spessore e costo, fino a un target più giovane, dalle diverse esigenze, per i quali è stata coniata ad esempio una carta bianca dal costo di soli 35 euro ma che dà i medesimi benefici di ogni carta Amex, le protezioni assicurative, lo stesso servizio del programma «Membership Reward», la possibilità di scegliere cinque esercenti preferiti d cui poter accumulare tripli punti etc. Abbiamo poi le carte con i marchi storici per il target dei «frequent flyer» che viaggiano spesso e quindi sono interessati alle miglia; abbiamo lanciato anche la carta Italo proprio perché abbiamo visto che all’interno del territorio italiano molti si spostano con il treno e diamo la possibilità di trarne benefici; abbiamo la carta «Cash Back» che invece dei punti restituisce una percentuale dell’un per cento delle spese annuali, unica in Italia. Inoltre le carte possono essere usate «Revolving», ossia rateizzando la spesa per alcuni mesi o sulla base di una somma prestabilita dal cliente stesso. Non abbiamo quindi un cliente tipo, abbiamo un portafoglio di prodotti in grado di rispondere ai bisogni di qualsiasi tipologia di clientela. Abbiamo anche tanti altri servizi che si focalizzano nel risolvere le esigenze degli imprenditori, delle aziende, del mondo «corporate». In questo settore siamo leader del mercato. Siamo molto ottimisti e le opportunità in Italia sono ancora molte, il contante è ancora il re dei pagamenti, il 55 per cento di tutte le transazioni effettuate avviene in «cash», ma questo significa anche che c’è una grande opportunità di crescita.

D. Eppure, a differenza che in altre parti del mondo, gli esercenti si rifiutano di accettare la carta di credito per cifre piccole.
R. C’è una nuova normativa approvata da qualche mese, nell’ambito anche dell’implementazione della direttiva dei pagamenti europei, che obbliga gli esercenti e i professionisti a ricevere pagamenti con carta o bancomat per importi superiori a 5 euro. Sotto tale limite invece, l’accettazione della carta è a discrezione. Saranno fissate anche delle sanzioni.

D. Come influisce l’impiego delle carte di credito sulla crescita di un Paese?
R. La politica, il Governo, tutti sanno quanto in Italia sia importante colmare questo grande gap, che è a tutti gli effetti un gap alla crescita. Di fatto oggi la penetrazione bassa della plastica favorisce il nero, l’economia sommersa, costituisce punti di Pil perso. È un vincolo, un grande blocco che rallenta lo sviluppo economico del nostro Paese. In questo senso anche tante iniziative legislative che si stanno muovendo vanno in questa direzione.

D. A livello politico cosa potrebbe essere utile fare in questo settore?
R. Proseguire sulla strada delle riforme che favoriscano e impongano agli esercenti, ove necessario, di accettare pagamenti con plastica, anche finalizzando un sistema legato alle sanzioni, considerato che una legge senza sanzioni serve a poco, per poi consentire alle persone di poter utilizzare la carta di credito per qualsiasi pagamento. È fondamentale continuare con gli investimenti sulla banda larga ed ultra larga perché ci sono pezzi del Paese che ancora non sono collegati: è ovvio che per la diffusione dei pagamenti elettronici sia necessario un collegamento ad internet. Inoltre il «mobile commerce» e l’e-commerce saranno nei prossimi anni fondamentali per la crescita dell’impiego della plastica nei pagamenti.

D. Alfabetizzazione finanziaria: come stiamo messi?
R. È importante l’aspetto di una educazione in tal senso, il nostro Paese è estremamente indietro e si trova in una situazione angosciante; ci sono vari studi che lo confermano, in particolare lo studio del 2015, fatto da Standar&Poor’s insieme a Bank of Washington, ha intervistato gli italiani su alcuni elementi basici dell’educazione finanziaria, con domande molto semplici relative, ad esempio, alle modalità di valutazione della convenienza di un mutuo o su cos’è un interesse. L’Italia è uscita sessantatreesima, prima di noi Zambia, Benin, Senegal, Madagascar: questo è davvero molto grave. Siamo forse l’unico Paese europeo a non avere una strategia nazionale sull’educazione finanziaria, è un elemento di debolezza enorme, perché poi si verificano fatti come come la vendita di titoli tossici ed altro. Ma soprattutto perché la non conoscenza genera paura.

D. E cosa fa l’American Express per educare alla cultura finanziaria basica?
R. Abbiamo un team interno che richiama tutti i clienti nuovi per essere sicuri che abbiano capito i benefici di un prodotto, in alcuni casi lo vendiamo indirettamente ed il cliente non ha perfettamente chiara l’offerta. Ci capita chi pensa che ci sia un costo nel mero uso della carta, che si debba pagare una commissione, e questo è solo un esempio. In realtà la commissione la pagano gli esercenti. Il problema dell’alfabetizzazione finanziaria genera paura, come ho detto; in proposito ci sono una serie di progetti di legge in corso. Bisogna velocizzare tale processo, fare una legge e sviluppare una strategia per il nostro Paese che coltivi l’educazione finanziaria: solo con la conoscenza si potrà realmente crescere. Abbiamo finanziato un progetto per i bambini nelle scuole e i risultati di alcuni test somministrati ai genitori hanno portato a risultati imbarazzanti. Usare la carta oggi significa avere maggiori sicurezze, credito, vantaggi, valore aggiunto, offerte. Senza considerare che il contante ha un costo che è stato valutato dalla Banca d’Italia in circa 8/10 miliardi di euro ogni anno, per stamparlo, proteggerlo, trasportarlo etc. Senza pensare ai rischi che derivano dal suo uso.     (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Dicembre 2016




QUOTE NERE PER RIABILITARE L’UOMO NERO

QUOTE NERE PER RIABILITARE L’UOMO NERO di ROMINA CIUFFA. Proporrei delle «quote nere». La problematica dell’immigrazione, fuori dal discorso politico, è qualcosa che ci riguarda. Siamo a tutti gli effetti un Paese globalizzato, che non deve solamente fare i conti con il terrorismo e la manovalanza, gli immigrati che rubano e gli immigrati che rubano lavoro agli italiani. Dobbiamo riuscire anche noi a divenire un Paese mulatto. Checché Salvini ne dica, il mondo è fatto di diversità ed integrazione. Non possiamo azzerarci continuamente parlando di extracomunitari che uccidono, spacciano, rapinano. Un anti-luogo comune è quello che vede l’immigrato svolgere mansioni che l’italiano non considererebbe. Perché, allora, non educare gli extracomunitari con un programma di sostegno, richiamarli legalmente all’interno del nostro Paese con borse di studio, fornir loro una formazione adeguata ed un curriculum di rispetto perché possano prender parte alla vita del Paese?

I fiorentini, i genovesi, i milanesi, i romani, non hanno saputo far meglio. Perché non «obamizzare» anche l’Italia? Proprio oggi che in Occidente avanza la minaccia Trump-Salvini, sarebbe il caso di intervenire. Nessuna donna ha mai richiesto «quote rosa», bensì l’accettazione delle proprie competenze e la valutazione di intelligenze flessibili, multidimensionali, femminili. È stato loro assegnato il colore rosa come si assegna alle bambine e si pretende da queste, prima ancora che maturino una personalità propria, che si colorino di delicatezza e gonne. Nel corso della loro formazione hanno dimostrato parità quando non supremazia nelle posizioni rilevanti: è questa la modernità. Ora serve una politica per gli scafisti. Inutile bloccare gli accessi ed inutile dar modo ai media di coprire gli spazi vuoti con foto di barche affondate e bambini sanguinanti sulle spiagge di Lampedusa. Inutile bloccare la storia: essa si verifica. Ne è esempio l’Occidente più occidentale, quello americano, che ha dato mandato ad un afroamericano di governare per otto anni le sorti del Paese, e nulla si è potuto avverso l’integrazione. Lo stesso valga per la candidatura di Hillary Clinton: avrà pur vinto Donald, ma è innegabile quanto dalla caccia alle streghe sia stato fatto per trasformarle prima in fate, quindi in donne di comando.

Quote nere, ovvero la possibilità di assumere candidati provenienti dal fenomeno immigratorio e imparare dalle loro differenze, da prospettive che giungono da mondi lontani e possibili, sebbene poveri. Povertà non è sinonimo di terrorismo né di incompetenza, tutt’altro: dalla povertà nasce la forza più dirompente, in grado di superare gli ostacoli deteriori cui un miliardario come Lapo Elkann non è in grado di far fronte, riuscendo addirittura a simulare un rapimento per ottenere dalla famiglia una somma di (soli) 10 mila dollari. Questo dà ancor di più conto della necessità di introdurre nel sistema elementi nuovi, scindendoli dalle dinamiche della criminalità e della discriminazione, per creare opportunità di crescita nel Paese e al di fuori di esso.

L’Italia non deve nulla all’immigrazione, a nessun cittadino «ariano» deve richiedersi di risolvere i problemi dell’extracomunitario, ma può di certo servirsi di nuove idee e valorizzare le differenze proprio come è avvenuto nel processo che ha reso la donna più uomo e le ha conferito posizioni prima d’ora inimmaginabili. Un istituto di formazione «nera» potrebbe creare un esercito di buona condotta ed esperienza pronto a lavorare in un Paese come il nostro che, in ogni caso, si trova a dover integrare immigrati senza cultura, proprietari di un background doloroso che li rende sofferenti e, dunque, pericolosi. Salvo prova contraria. Perché, allora, non prendere atto del fatto che, a fronte di una fuga di cervelli dall’Italia, ve n’è una altrettanto vigorosa che conduce all’Italia stessa i cittadini di Paesi limitrofi? Perché non creare un’alleanza con l’Uomo nero, che tanto ha terrorizzato generazioni i bambini di ieri per il sol fatto di essere un uomo diverso? 

Immagino una start up governata dall’Uomo nero, dal passato controverso e dalle origini guerrafondaie. Un uomo che, giunto in Italia, possa essere messo nella condizione di imparare ciò che il suo Paese non gli ha insegnato. Alfabetizzazione prima di tutto. Quindi scuola dell’obbligo e studi universitari, corsi di formazione e – un impegno – quello dell’accettazione dell’Altro, senza contestazione di credi ed orientamenti. A condizioni di reciprocità. Il problema non è quello del crocefisso in classe o dell’uso del burka: chi sceglie di entrare in un Paese ne segue le vicissitudini e vi si lega nel rispetto di una storia che non va mutata. Ma l’accoglienza dell’Uomo nero, affiancata da un’educazione civica e laica che lasci prevalere i valori sulle credenze e sulle prese di posizione, può cambiare il nostro mondo. Può cambiare finanche noi stessi.

Non è forse vero che l’italiano si lamenta in continuazione dei suoi governanti, delle istituzioni, del vicino di casa? Non appartiene allora, tale atteggiamento, ad un’abitudine conclamata, quella volta all’insoddisfazione e alla eteropercezione del pericolo e della responsabilità? E i governanti, le istituzioni, il vicino di casa, non sono forse, nella proporzione più plausibile, italiani, bianchi, dialettali? Cosa c’è di sbagliato, dunque, a fare uno sforzo quasi extraterrestre – ossia uno sforzo che, pur dovendo impiegare centinaia di anni per giungere a compimento, richieda invece pochi lustri, un’età quasi astrale in un pianeta dove il tempo corre diversamente – e accettare l’Uomo nero proprio come si accetta il «colpo di Governo» di un fiorentino? Cosa distingue un fiorentino da un siriano: la sicurezza ch’egli non compia un attentato? Perché: non lo ha forse, in un certo qual senso, compiuto?

E perché non cominciare dai bambini? I quali sono aperti ad ogni forma di società e di apprendimento. Disfano questo processo di legittimazione delle diversità i genitori che in un Paese straniero, accogliente, pretendono di mantenere abitudini e credi dei propri universi di provenienza. Come se un asiatico volesse trasferirsi in Groenlandia mantenendo i vestiti tailandesi: in poco tempo, morirebbe di freddo. Prendiamone atto. Un valdostano non potrebbe trasferirsi a Rio de Janeiro indossando il consueto pellicciotto. Perché ciò non dovrebbe valere per la religione? Perché la coesistenza di razze deve seguire il destino dell’utopia? Perché non ipotizzare una struttura in grado di fare della diversità un valore aggiunto? In uno spazio-tempo in cui, attraverso i social network, la parola «amicizia» è divenuta un contenitore vuoto, quando nello stesso istante con un click si partecipa ai funerali di Fidel Castro, alla vittoria di Donald Trump e alla morte di un’intera squadra di calcio brasiliana a seguito di un disastro aereo, possiamo veramente continuare a credere che l’Uomo nero sia così cattivo? (Romina Ciuffa)




AUGURI AUDITORIUM, DA E CON L’AD JOSÉ DOSAL NORIEGA

ROMINA CIUFFA intervista JOSÉ R. DOSAL NORIEGA, amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma. Auguri Auditorium: il complesso compie 14 anni, la Fondazione Musica per Roma 12, la presidenza di Aurelio Regina 6, e il suo nuovo amministratore delegato, lo spagnolo José Ramón Dosal Noriega, ne ha appena compiuto uno di mandato. Nel corso del 2016 è stato messo a disposizione del pubblico un patrimonio di nomi, eventi ed emozioni che vanta pochi esempi nel mondo: dal 1° gennaio al 19 ottobre si sono registrati 258 mila spettatori per circa 490 eventi ed un incasso lordo di 8 milioni e 136 mila euro. Ma, nella migliore tradizione italiana, recentemente i media si sono scaraventati contro la nuova amministrazione, plausibilmente senza dati alla mano (la conferenza stampa di apertura della nuova stagione si è tenuta solo dopo), dando eco a critiche buie, distruttive e, soprattutto, corali non nel senso di «coro», bensì in quello del «copia-incolla». Ho posto le domande d’uopo direttamente all’amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma, i cui soci sono il Comune di Roma (che ha conferito in concessione d’uso per 99 anni l’immobile Auditorium alla Fondazione), la Camera di Commercio, la Provincia di Roma e la Regione Lazio.

Domanda. Cosa ha generato l’accanimento mediatico ottobrino avverso l’ultimo anno di Auditorium?
Risposta. Credo che sia naturale, nel momento in cui arriva un nuovo responsabile culturale in città e a capo di una struttura così importante, suscitare la curiosità della stampa. Tutte le critiche mi sono state utili e posso affermare oggi, ad un anno dal mio arrivo, che nulla è mutato nell’andamento dell’Auditorium, né biglietti né spettatori, e abbiamo anche un bilancio positivo. Non sono un politico, voglio solo lavorare e per il bene di questa nostra istituzione, con tutto il mio impegno.

D. Cinque erano gli obiettivi che si era prefissato: Auditorium 2.0, internazionalizzazione, territorio, giovani, Auditorium va in città. Può indicarcene i risultati?
R. Per «Auditorium 2.0» abbiamo inteso lavorare per essere sempre più vicini al pubblico più giovane attraverso i canali social come Facebook, Instagram, Twitter, cresciuti del 200 per cento. Siamo anche la prima istituzione culturale ad aver lanciato un canale Telegram ed un canale Spotify, in un solo anno. L’Auditorium ha un nuovo «visual» e immagine coordinata che richiama le stagioni. Inoltre abbiamo realizzato 8 flash mob in città per il format «Auditorium Va in Città» e preso contatti con grandi istituzioni culturali straniere. Per la nostra internazionalizzazione, faccio riferimento innanzitutto alla negoziazione di rilevanti scambi di coproduzione e contenuti con il Barbican Centre di Londra; con Madrid stiamo trovando un accordo; in Messico, abbiamo parlato con il ministro della Cultura Rafael Tovar y de Teresa, che essendo già stato ambasciatore in Italia conosce perfettamente Roma e l’Auditorium, e posso anticipare che c’è una trattativa volta a firmare un accordo di amicizia con il Cenart, Centro nazionale delle arti, istituzione messicana corrispondente alla nostra, e credo che questa possa essere la porta d’ingresso per l’Auditorium nei confronti dell’America Latina.

D. L’assessore alla Crescita culturale di Roma Capitale Luca Bergamo ha dichiarato che c’è poca partecipazione dei romani alle attività culturali. Come avete affrontato l’obiettivo «territorio»?
R. Abbiamo iniziato con un progetto di analisi del pubblico per capirne le esigenze e le aspettative. I primi intervistati sono stati i genitori. È emerso che il 95 per cento di essi vuole appuntamenti culturali all’interno dell’Auditorium. Abbiamo così avviato il format «Auditorium Family», dedicato ai bambini e alle famiglie con oltre 30 appuntamenti durante tutto l’anno. Un esempio per tutti, «GiocaJazz», nato per creare interesse e ispirare le nuove generazioni verso tutta la musica e le sue forme. Durante l’estate abbiamo lanciato «Luglio Suona Bene Kids», un servizio grazie al quale il genitore poteva assistere a un concerto mentre i propri bambini giocavano ed imparavano negli altri locali dell’Auditorium. Quello che io ho compreso dalle affermazioni di Bergamo è che tutte le istituzioni culturali di Roma devono fare qualcosa in più per coinvolgere la popolazione presente sul territorio. Ed è per questo che l’analisi del pubblico, dai più giovani, ai frequentatori assidui, continuerà nei prossimi mesi.

D. Perché secondo lei c’è questa difficoltà a Roma?
R. Questo pubblico vuole andare allo spettacolo, vederlo e poi tornare a casa. Sarebbe bello, invece, che rimanesse anche dopo, o che arrivasse in anticipo per partecipare ad altre attività prima dello show, cercando un’esperienza completa, non circoscritta al tempo di durata dello spettacolo. Bisogna, a mio parere, fare di un evento culturale o di un concerto un’esperienza culturale per godere di tutto il suo contenuto.

D. Questo non può dipendere anche dal fatto che lo spirito italiano di oggi è lamentoso, un po’ meno raggiante rispetto ad altri Stati?
R. C’è un leggero senso di paura dopo tutto quello che è successo, parlo degli attentati terroristici, c’è un «effetto Bataclan». Ma adesso, con la fiducia che abbiamo nelle istituzioni italiane, credo non debbano esserci timori relativi all’Auditorium, dimostratosi sicuro perché tutte le norme di sicurezza sono rispettate. Quello che vogliamo fare è trasmettere un’esperienza gioiosa alla gente di Roma per godere interamente dei nostri contenuti.

D. Non è forse la qualità che manca, un «effetto reality» che abbassa la qualità della cultura in generale?
R. Certo, è così. Oggi c’è un problema innanzitutto con i giovani, che con i tempi moderni sono abituati ad avere tutto e subito, la musica e le relazioni sociali sul telefonino. Manca il concetto della profondità del sapere quali siano le cose di qualità. La nostra scommessa, che è anche uno degli obiettivi che ci siamo prefissati, è lavorare per il giovane attraverso tutti i social network per avvicinarlo all’Auditorium, e anche questo fa parte dell’obiettivo «Auditorium 2.0». Proprio per questo abbiamo lanciato un programma molto semplice sotto l’hashtag #ILoveAuditorium, ossia una Carta Giovani con la quale offriamo a chi ha tra i 18 e i 35 anni uno sconto del 25 per cento sui biglietti di eventi e mostre, una visita guidata per due persone all’interno della struttura il sabato e la domenica, inviti alle nostre inaugurazioni, la possibilità di frequentare gli spazi espositivi, la migliore offerta dei pacchetti non dedicati ai giovani. Tutto questo funziona in modo semplicissimo: basta recarsi alla cassa con un documento di identità e si riceverà lo sconto. Da febbraio sarà possibile acquistare la carta online dopo aver ricevuto un codice utente.

D. Per i giovani c’è anche il «Recording Studio»: cos’è?
R. È l’iniziativa che permette al pubblico di assistere in presa diretta alle registrazioni della nostra etichetta discografica «Parco della Musica Record». Grande attenzione è dedicata ai giovani talenti e alle band emergenti, con un occhio particolare verso la musica jazz.

D. Cosa può dire dell’obiettivo «Auditorium va in città»?
R. Sono veramente felice per i flash mob che abbiamo fatto: siamo andati a Fontana di Trevi, all’aeroporto, al mercato di Testaccio, al Pantheon. Questo vuol dire portare l’Auditorium in città per far vedere alla gente quello che succede da noi.

D. Allora a cosa è dovuta tutta questa tensione che si è verificata?
R. Come ho detto all’inizio, credo sia stata eccessiva la preoccupazione da parte dei media romani rispetto ad un nuovo arrivo. Io rispondo con i dati: con la rassegna «Luglio Suona Bene», abbiamo avuto circa 85 mila spettatori, quasi 40 concerti, e per me è stato un grande successo. Ora abbiamo un’altra grande stagione davanti, come le ho raccontato. Invito tutti i giornalisti a parlarne perché sempre più romani e presenti in città possano venire e goderne.

D. Quindi un bilancio positivo?
R. Certo, anche in qualità. Lo scorso anno con il presidente Regina abbiamo pubblicamente spiegato la situazione tecnica della Fondazione, per cui avremmo dovuto affrontare costi esterni alla gestione corrente. Sottolineo che si è trattato solo di un problema tecnico e non di scarsa affluenza di pubblico. Il segreto di questo mestiere è trovare equilibrio tra il commerciale e il culturale ed è difficile trovare il giusto compromesso. La mia responsabilità è mantenere il livello di eccellenza che ha avuto sempre l’Auditorium.

D. Come sarà la nuova stagione?
R. Stiamo lavorando per il secondo anno e per la nuova programmazione. Credo che sarà un anno bellissimo, e sarà importante anche per la creazione del Polo Museale e la costruzione del Museo dell’Auditorium con la Collezione Sinopoli, la Villa Romana, gli strumenti musicali. Una cosa che mi ha colpito molto è aver ottenuto il nome «Flaminio Auditorium» per la stazione Flaminio di Roma; un’altra cosa interessante è stata la possibilità di impiegare lo strumento dell’art bonus per il mantenimento della struttura. Quest’anno faremo 11 festival, 170 ore di lezione, 250 concerti, più di 500 appuntamenti. La nuova stagione regalerà un’esperienza profonda allo spettatore, il programma è in continua evoluzione. Tra gli ultimi artisti confermati, Vinicio Capossela e Patti Smith, con un progetto in onore di Papa Francesco. Tra le novità importanti la direzione del Festival Equilibrio 2017 affidata a Roger Salas, e il Roma Rock, nuovo festival dedicato alle band emergenti.
D. Siete in trattativa anche con il nuovo premio Nobel per la letteratura, il musicista Bob Dylan.
R. Siamo in contatto con il suo management da prima del conferimento del premio, e sono sicuro che alla fine riusciremo ad averlo qui con noi.     (Romina Ciuffa)




GAETANO BLANDINI (SIAE): GLI AUTORI CREDONO NELLA NUOVA SIAE, NOI CREDIAMO NEGLI AUTORI

  • ROMINA CIUFFA intervista GAETANO BLANDINI, direttore generale della Siae. La SIAE, Società Italiana Autori ed Editori, è una società di gestione collettiva del diritto d’autore, cioè un ente costituito da associati (gli autori ed editori sono la sua base associativa) che si occupa dell’intermediazione dei diritti d’autore. Ogni anno rilascia più di 1,2 milioni di contratti di licenze per l’utilizzo delle opere che tutela, facilitando il riconoscimento dei diritti da parte di tutti coloro che intendono utilizzare quelle opere e garantendo agli autori e agli editori il pagamento del giusto compenso per il loro lavoro. Tecnicamente un Ente pubblico economico a base associativa, assicura interessi generali che sono tutelati dalla Costituzione, come la promozione della cultura, la libertà dell’arte, la protezione del lavoro intellettuale. Per questo la SIAE è sottoposta alla vigilanza della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero per i Beni e le Attività culturali e del Turismo e del Ministero dell’Economia e delle Finanze, come garanzia di trasparenza e di buona gestione nei confronti degli associati e degli stessi utilizzatori. È fuori dal perimetro della Finanza pubblica e non riceve finanziamenti diretti o indiretti da parte dello Stato; si dichiara un vero e proprio presidio di libertà, non ha scopo di lucro ed è totalmente indipendente nell’attività di impresa. «Il diritto d’autore non è una tassa ma è un diritto del lavoro», ribadisce la SIAE. Non esente da critiche, scandali e ribellioni nel mondo del diritto d’autore, anche in ragione di recenti sentenze europee sull’equo compenso e su antiche accuse di nepotismo, nonché sulla cessazione presidenziale di Gino Paoli per evasione fiscale, la SIAE comunque resta un caposaldo del mondo creativo che, in tempi recenti, sta trovando nuovi concorrenti, piattaforme private gratuite che consentono di registrare la propria opera e tutelarla. La SIAE a marzo 2015 ha scelto, per sostituire il suo «cielo in una stanza», Filippo Sugar, figlio di Caterina Caselli, il più giovane presidente mai eletto. Gaetano Blandini è il direttore generale, e risponde alle nostre domande per orientarci su un mercato sempre più complesso e competitivo.

Domanda. La SIAE ha un compito molto difficile, quasi impossibile: quello di combattere i download irrefrenabili e la pirateria e di tutelare il diritto di autore. In che modo lo fa?
Risposta. Siamo impegnati in prima linea per un mercato più equo e per la giusta remunerazione dei creatori di contenuti. Recentemente il mercato musicale ha registrato il sorpasso dello streaming sui download e SIAE si sta muovendo per la massima tutela anche in tal senso. Stiamo sviluppando un sistema tecnologico avanzato per gestire l’enorme volume di dati generato dalle licenze musicali online. Gli aventi diritto potranno così ricevere informazioni dettagliate sull’utilizzo delle loro opere anche sulle piattaforme digitali.

D. Perché gli autori tendono a riversarsi sul mercato libero senza iscriversi alla SIAE e utilizzando forme parallele di licenze «libere», assistendo peraltro al proliferare di nuovi operatori di protezione come Soundreef o come la nuova piattaforma web gratuita Patamu, startup che ha raggiunto quota 11 mila iscritti e protetto oltre 31 mila contenuti?
R. Non è così! Gli autori credono nella nuova SIAE e ciò è confermato dai dati. Nel 2015, abbiamo registrato 7.336 nuovi iscritti e per fine 2016 prevediamo di superare le 7.500 nuove adesioni. Siamo anche soddisfatti della significativa diminuzione del numero di dimissioni registrato negli ultimi due anni, segno di una rinnovata fiducia nella Società. Nel 2015 i dimissionari sono scesi a 734, ossia del 24 per cento rispetto all’anno precedente, e per il 2016 ad oggi ne abbiamo solo 332. Contiamo oltre 83 mila associati tra autori ed editori, di cui oltre 1.100 sono stranieri. La nostra Società è senza scopo di lucro, l’unico obiettivo è la tutela degli associati in Italia e all’estero. Gestiamo un repertorio di circa 45 milioni di opere e non facciamo alcuna discriminazione tra artisti popolari o meno popolari, giovani o meno giovani in tutti i settori della cultura. Il nostro lavoro non è paragonabile a quello di altre società a scopo di lucro. La SIAE collabora con più di 150 società di «collecting» internazionali ed è la settima nel mondo in termini di incassi. Siamo nel «board of directors» della CISAC (la Confédération Internationale des Sociétés d’Auteurs et Compositeurs, ndr), il più importante organismo globale che riunisce le società che tutelano il diritto d’autore a livello internazionale.

D. Recentemente gli under 30 possono iscriversi alla SIAE gratuitamente, ma la quota di iscrizione per gli altri risulta essere tra le più alte d’Europa. Come mai?
R. Gli under 31 e le startup editoriali, che operano da meno di due anni, possono iscriversi gratuitamente alla SIAE e hanno diritto di voto. Dal gennaio 2015 ad oggi si sono associati 6.589 nuovi giovani autori. Chi paga la quota associativa partecipa alla vita dell’associazione. Con una quota minima si può dare mandato. La tutela è la medesima ma non si concorre ad eleggere o essere eletti negli organi sociali.

D. Resta il monopolio in Italia non toccato con la direttiva Barnier, e restiamo l’unico caso europeo oltre alla Repubblica Ceca. Lo considera essenziale? Perché? Lo stesso ministro culturale Dario Franceschini ha fatto dietrofront e si è espresso più recentemente in favore della liberalizzazione del mercato.
R. È semmai vero il contrario. Il ministro è stato in giro per l’Europa e ha verificato che l’interesse di autori e utilizzatori è in associazioni come la SIAE. In Europa esistono altri monopoli legali oltre quelli citati, e molti altri sono monopoli di fatto. In quasi tutti i Paesi europei esiste, infatti, una sola società di riferimento per la gestione dei diritti musicali. Negli Stati Uniti – unica significativa eccezione nel mondo occidentale dove esistono più società di collecting musicale – lo US Copyright Office a febbraio 2015 ha fornito linee guida finalizzate a favorire l’aggregazione rispondendo così alle moltissime lamentele degli autori Usa che subiscono forti discriminazioni e differenti remunerazioni in base alle società di appartenenza. Il ministro Franceschini, come detto, si è posizionato in una visione strategica che SIAE condivide. Il futuro del diritto d’autore si gioca a livello internazionale perché le nuove piattaforme di distribuzione dei contenuti non sono più locali ma globali, vedi Google, Apple, YouTube, Spotify. Di fronte a questi distributori di contenuti globali, è chiaro che gli autori devono unirsi più che disperdersi.

D. In che modo funzionano le ripartizioni dei diritti? Per esempio, perché un brano trasmesso in pubblicità non porta introiti al suo autore?
R. Per ogni pubblicità l’autore incassa i diritti di sincronizzazione con una negoziazione diretta, perché SIAE non intermedia da Statuto tali diritti. Incassiamo da tutti i canali di utilizzazione del repertorio: radio e tv, multimediale online, live, cd e dvd, estero. Stipuliamo circa 1,2 milioni di contratti di licenza all’anno con oltre 500 mila utilizzatori sul territorio. Controlliamo oltre 35 mila eventi musicali a settimana rendicontando il repertorio suonato in ciascuno.

D. In che modo internet e YouTube hanno inciso sull’economia della SIAE, considerato che si è reso più facile l’accesso al pubblico e impossibile il controllo dei diritti?
R. Nel 2015 abbiamo registrato un fortissimo aumento degli incassi relativi alla multimedialità, pari al 47,4 per cento: un risultato questo ottenuto anche grazie al consorzio Armonia, hub internazionale che riunisce 9 società di collecting per la gestione centralizzata delle licenze online, di cui SIAE è tra i fondatori. All’epoca di YouTube, Spotify e delle altre piattaforme digitali, la partita del diritto d’autore si gioca sul piano internazionale e SIAE è l’unico soggetto in Italia in grado di negoziare con i digital service provider e rilasciare licenze multi-territoriali.

D. La SIAE Card dà alcune facilitazioni agli associati. Perché non estenderle a sconti sui concerti, teatri etc.?
R. I servizi che offriamo ai nostri iscritti sono in costante aggiornamento. A giugno abbiamo siglato un accordo importante con la Società di Mutuo Soccorso Cesare Pozzo che dà la possibilità agli associati SIAE di sottoscrivere piani di assistenza sanitaria integrativa a condizioni particolarmente vantaggiose. Le convezioni previste da SIAE Card spaziano da servizi assicurativi, alberghi e viaggi a servizi utili alle attività professionali di molti associati come studi di registrazione e aziende che vendono strumenti musicali. Dobbiamo fare certamente meglio, ma in questo le nostre forze sono più concentrate sulla digitalizzazione della nostra Società; questa è una priorità anche per i nostri associati.

D. Quali le principali differenze tra i sistemi di protezione di diritti in Europa e nel mondo rispetto alla SIAE?
R. La Direttiva 2014/26/UE «sulla gestione collettiva dei diritti d’autore e dei diritti connessi e sulla concessione di licenze multi-territoriali per i diritti su opere musicali per l’uso online nel mercato interno» ha l’obiettivo di armonizzare gli ordinamenti nazionali. In particolare, la Direttiva è intervenuta sull’assetto e la governance degli organismi di gestione, che devono essere controllati dai propri membri, come è già per SIAE, e sulla promozione di licenze multiterritoriali dei repertori. Il legislatore, di fatto, incentiva le società di collecting ad aggregarsi e a porsi some soggetto unico per gli utilizzatori. La SIAE è già da tempo perfettamente coerente con la Direttiva in questione, il nostro Statuto è stato riscritto nel 2012 proprio sulla base delle linee guida contenute nella allora prima Proposta di Direttiva.

D. Riguardo agli scandali sulle accuse di «nepotismo» – la SIAE era stata definita dai media un «ufficio di collocamento famigliare» – cosa è cambiato?
R. Credo si tratti di un’idea di SIAE falsata e non più corretta, di almeno 10 anni fa. In particolare nell’ultimo quinquennio SIAE ha ridotto i costi globali di circa 9 milioni di euro, pari al 4 per cento sul totale, il costo del personale si è ridotto di circa 10,5 milioni, pari all’11 per cento, i compensi dei mandatari sono diminuiti di 4 milioni, ossia dell’8,8 per cento, pur mantenendo il livello di servizio sul territorio. I costi di gestione e funzionamento sono diminuiti di 4 milioni, ossia del 17 cento. Negli ultimi anni SIAE ha destinato oltre 25 milioni all’attuazione del Piano strategico incentrato sulla definizione dei contratti di lavoro, sull’organizzazione e ottimizzazione dei processi in chiave digitale. Anche l’organico si è ridotto di oltre 120 risorse, pur garantendo i livelli occupazionali e favorendo la stabilizzazione di 115 dipendenti, per lo più giovani, selezionati da Università e Conservatori italiani.

D. In che modo la sua direzione si sta muovendo per dare più efficienza e credibilità all’azienda?
R. Anzitutto la governance di SIAE è affidata ad organi eletti dagli associati, ovvero l’Assemblea, il Consiglio di sorveglianza, il Consiglio di gestione e il Collegio dei revisori. Nell’ambito del Consiglio di sorveglianza sono costituite cinque commissioni consultive: Musica, Lirica, OLAF, Cinema e DOR. Negli ultimi anni SIAE ha destinato oltre 25 milioni di euro all’attuazione del Piano strategico incentrato sulla definizione dei contratti di lavoro, sull’organizzazione e ottimizzazione dei processi in chiave digitale. Il 15 luglio 2015 è stato lanciato il nuovo sito istituzionale SIAE, ed in contemporanea è stato creato un portale online dedicato alle feste private, semplificando anche l’impianto tariffario per i trattenimenti privati. Abbiamo attivato «mioBorderò», il portale del borderò digitale che consentirà di sostituire 1,4 milioni di borderò cartacei – tanti sono infatti i borderò che ogni anno SIAE riceve e lavora – con un evidente vantaggio anche dal punto di vista logistico ed ecologico. Abbiamo lanciato inoltre il nuovo Portale Autori ed Editori. Dal lato del cinema e della musica sono stati conclusi significativi accordi con importanti broadcaster che, dopo un lungo periodo, sono usciti da un sistema di proroga di contratti scaduti. Le nuove licenze sono state allineate alle attuali ed effettive utilizzazioni di repertorio, generando un significativo aumento degli incassi cinema e un incremento di quelli musica. Nel 2015 inoltre abbiamo stanziato i fondi per lo sviluppo del progetto Agenda Digitale, per un investimento totale di 16 milioni di euro.

D. Può indicare gli ultimi dati di bilancio e le previsioni per i prossimi mesi?
R. SIAE ha chiuso il 2015 con un fatturato di 782 milioni di euro, ossia con un aumento del 14 per cento rispetto al 2014, 724 milioni dei quali provenienti dal diritto d’autore e altri servizi di intermediazione per un incremento del 16 per cento. Questi dati confermano come oggi la Società sia una realtà radicalmente diversa dal passato, in grado di confrontarsi sui mercati globali con tutte le più importanti collecting estere. Il 2015 ha confermato la netta inversione di rotta di SIAE rispetto al passato, con un incremento del fatturato complessivo di circa 100 milioni di euro e un utile netto pari a 0,3 milioni di euro.

D. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha dichiarato l’illegittimità della disciplina italiana in materia di copia privata nella parte in cui impone di versare un «equo compenso» anche a chi acquista supporti e dispositivi per uso professionale, aggiungendo che la SIAE non poteva assolutamente sostenere di aver maturato la convinzione che la normativa in esame nel procedimento principale fosse conforme al diritto dell’Unione europea. In che modo sarà risolta la questione dei rimborsi?
R. La sentenza della Corte di Giustizia non mette in alcun modo in discussione la legittimità della copia privata né mette in discussione l’intero decreto Bondi o la correttezza dell’operato di SIAE. La Corte di Giustizia ha ritenuto che fosse incompatibile con la Direttiva europea esclusivamente un articolo, l’art. 4 dell’allegato tecnico del cosiddetto decreto Bondi del 30 dicembre 2009, per una parte, quindi, squisitamente tecnica e limitata negli effetti. L’incompatibilità, in particolare, discende dall’assenza nella disciplina della copia privata – per il resto confermata e rafforzata – di criteri predeterminati che indichino i casi di esenzione ex ante e cioè i casi in cui debba certamente riconoscersi, ex ante appunto, un utilizzo dei «device» manifestamente estraneo alla copia privata. Si tratta di una decisione che SIAE ovviamente rispetta e saluta con favore, posto che la fissazione di criteri ancora più precisi non potrà fare altro che rendere più agevole il lavoro di chi, come noi, opera nell’esclusivo interesse di autori, editori e degli stessi interpreti esecutori che giustamente ricevono, anche per il mezzo della copia privata, il legittimo compenso del proprio lavoro. SIAE è dunque pronta ad adeguare immediatamente la propria attività alle eventuali disposizioni che il Ministero vorrà adottare in materia, così come è pronta ad adeguarsi alle decisioni che il Consiglio di Stato vorrà adottare in ragione dei principi sanciti dalla Corte di Giustizia.

La SIAE conferma il proprio impegno contro il «secondary ticketing», fenomeno che danneggia gravemente i consumatori e i titolari del diritto d’autore. Il Consiglio di gestione ha approvato all’unanimità la modifica dell’art. 13 del «Permesso Spettacoli e Trattenimenti», inserendo una clausola che fa espresso divieto al titolare del permesso di fornire ticket di ingresso a piattaforme online e siti web del cosiddetto mercato secondario. Così la SIAE ha rafforzato il divieto alla rivendita dei biglietti a prezzo maggiorato rispetto a quello ufficiale.  La Società ha presentato un ricorso d’urgenza al Tribunale Civile di Roma e ha interessato della questione anche l’Agenzia delle Entrate per attività mirate volte a combattere un fenomeno che rappresenta un freno inaccettabile alla crescita economica, oltreché alle opportunità di lavoro nel settore dello spettacolo e della cultura.

La Società Italiana degli Autori ed Editori, in collaborazione con autori, artisti e operatori dello spettacolo, ha lanciato inoltre la petizione #noSecondaryTicketing, per tutelare i diritti dei propri associati e dei consumatori (soprattutto i più giovani) che si ritrovano a pagare anche fino a 10 volte in più i ticket di ingresso sul mercato parallelo. Il testo della petizione recita: «I concerti rappresentano un’occasione importante non solo per gli artisti che incontrano il loro pubblico ma anche per tutti coloro che lavorano con professionalità e passione alla riuscita dell’evento. Come autori, artisti e operatori dello spettacolo, siamo uniti contro chi specula sulla rivendita dei biglietti dei concerti attraverso alcuni siti web di secondary ticketing, una forma di ‘bagarinaggio online’. Il mercato secondario danneggia tutta la filiera, favorendo l’evasione e frenando opportunità di lavoro e di crescita economica nel settore dello spettacolo e della cultura. Siamo dalla parte del nostro pubblico che si ritrova ingiustamente a pagare anche fino a 10 volte in più i ticket di ingresso a causa di questo fenomeno. Promuoviamo la trasparenza del mercato e sosteniamo tutte le organizzazioni che danno valore al nostro lavoro e rispettano i consumatori. Per questo chiediamo l’abolizione del secondary ticketing attraverso l’oscuramento di tutte le piattaforme online che speculano sulla rivendita dei biglietti».

Continuano intanto le adesioni alla petizione, già sottoscritta da molti musicisti. In merito all’emendamento alla legge di bilancio per contrastare il fenomeno, presentato a novembre dal Governo, il presidente SIAE Filippo Sugar ha dichiarato: «Prendiamo atto con soddisfazione dell’emendamento alla legge di bilancio presentato dal Governo alla Camera dei Deputati per contrastare il secondary ticketing. La SIAE è già intervenuta nei giorni scorsi sollecitando regole chiare per la trasparenza del mercato della musica dal vivo a tutela dei consumatori, degli autori e di tutti coloro che operano nel settore, anche lanciando una petizione che è stata sottoscritta da tutti i più importanti autori italiani. Esprimo un particolare apprezzamento per l’intervento del ministro Dario Franceschini volto a stroncare un fenomeno intollerabile come quello del bagarinaggio online».      (Romina Ciuffa)