REPORTAGE AMATRICE. MAX DE TOMASSI: SE DOMO NON VA AL BRASILE È MARISA MONTE CHE VA A DOMO

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L’intervista di Romina Ciuffa a Max De Tomassi giornalista, esperto di Brasile e uno degli 8 residenti di Domo, dove ha portato in vacanza Marisa Monte pochi giorni prima del sisma.

Sono 69 le frazioni di Amatrice, la più distante è Domo, a 14 chilometri e 24 minuti secondo Google Map. Sita a 870 metri sul livello del mare, ha, d’inverno, 8 residenti. Tra questi il giornalista Rai Max De Tomassi, conduttore radiofonico della trasmissione «Brasil» e profondo conoscitore della cultura verdeoro. La sua casa è caduta, come le altre, il pagliaio, avente un tetto di legno, si è mantenuto. Si trovava all’interno dell’abitazione, alle 3:36 del 24 agosto, sua figlia Benedetta, che trovandosi in salone non è rimasta colpita dalle macerie che sono crollate nella sua camera da letto.

Domo ha una storia sismica interessante: infatti, nel 1639 era già stata completamente rasa a terra da un terremoto, e ricostruita. Ma più in là, dove ora si trova. Max De Tomassi mi descrive la situazione del suo «vilarejo», in portoghese brasiliano letteralmente «villaggio», e titolo di uno dei più noti brani della grandissima cantante Marisa Monte che proprio a Domo aveva trascorso, pochi giorni prima del sisma, le vacanze.

Domanda. Si è fatto molto parlare di Amatrice ma pochi si sono soffermati sulle frazioni che sono, comunque, rimaste colpite dal terremoto.
Risposta. È bene sottolineare l’importanza delle frazioni. Amatrice è un Comune di Rieti, recentemente il decreto ha dato determinate garanzie ai possessori di seconde case. A Domo, come nelle altre frazioni, molti posseggono una seconda casa, si tratta di una delle economie più importanti di Amatrice che riempie di persone tutto il territorio comunale per le vacanze estive ed invernali. Va enfatizzata l’importanza delle frazioni e quindi anche di un posto piccolo come Domo. Non ci sono frazioni particolarmente grandi, si possono trovare una quarantina di persone.

D. Lei è uno degli 8 residenti.
R. Sì, siamo 8, ma di frazioni come Domo ce ne sono tante. Domo è un posto unico, e qui subentra il campanilismo che è in ognuno di noi: quindi per me Domo è il posto più bello del mondo perché ci sono cresciuto, perché lì ho imparato ad andare in bicicletta, perché cacciavo le lucertole, raccoglievo i funghi con le castagne, facevo una vita libera. Domo è la libertà per tutti noi che ci siamo cresciuti e che ci siamo fatti grandi da quelle parti, Domo è il posto in cui i genitori aprono la porta di casa e dicono ai figli: «Torna a pranzo», e i figli rientrano soli perché non ci sono rischi di automobili o di altro tipo. È il posto ideale per meditare, per ritrovarsi, per fare le cose più semplici della vita, che sono anche le più belle: stare davanti al camino, fare passeggiate nel bosco, cercare le sorgenti di acqua purissima, pescare le trote con le mani, parlare con i pastori, mangiare formaggi appena fatti, in una dimensione d’uomo bucolica.

D. Domo è stata colpita dal sisma?
R. È stata colpita da un punto di vista architettonico. La maggior parte delle case sono inagibili, ma non ci sono stati morti.

D. Vi accorperanno nei moduli abitativi con altre frazioni?
R. Al Coc mi hanno detto che daranno moduli abitativi a chi ne farà richiesta e ne avrà il diritto, e li accorperanno in luoghi dove sarà più semplice fare opere di urbanizzazione.

Schermata 2016-11-02 a 13.18.18D. Una delle più grandi cantanti brasiliane, Marisa Monte, è venuta in vacanza a Domo pochi giorni prima.
R. A giugno mi trovavo in Brasile da lei, pranzavamo come sempre a casa sua, e mi ha manifestato il suo desiderio di fare un viaggio in Italia. Le ho proposto di venirmi a trovare in montagna, a Domo, per poi andare insieme al mare, in barca, per farle conoscere il Mediterraneo. Così è arrivata con suo marito e i suoi figli facendo una prima tappa a Venezia, città d’arte, passando per la montagna e quindi arrivando tutti insieme in Sardegna.

D. Ha avuto la fortuna di vedere luoghi che ora non esistono più.
R. Esatto, siamo stati anche a visitare Amatrice. Racconto un aneddoto: da poco mi ero tagliato i capelli dal mio barbiere di sempre, Pietro Serafini, di 84 anni, e incontrandolo lo salutai presentandolo. Così pensarono che sarebbe stata una esperienza farsi fare i capelli «all’italiana», e chiedemmo a Pietro se avesse due posti liberi per loro nel suo negozio. Lui li accolse con gioia e tagliò loro i capelli. Pietro, un simbolo di Amatrice, è morto sotto le macerie. Mi tagliava i capelli fin da quando avevo un anno, era lui ad avermi fatto il primo taglio.

D. La sua casa ha subito danni?
R. È inagibile, va abbattuta e ricostruita da zero.

D. Domo nel 1639 ha subito un altro terremoto, quindi era già stata ricostruita da capo.
R. Sì, ma era stata ricostruita in un’altra area: l’area del terremoto del 1639 adesso è solo un prato 400 metri più in là.

D. Sembrerebbe un triste destino.
R. È un’area sismica: non si può cambiare il destino spostandosi di 400 metri.

D. Ma oggi Domo non è completamente distrutta, si potrà ricostruire sopra lo stesso borgo.
R. Sì, inoltre le tecniche sono diverse, anche perché probabilmente la ricostruzione su case del 1600 sarebbe stata molto più complicata di oggi. Oggi si distrugge e si rifà.

D. Aggiungendo che ora c’è più cultura del terremoto, si potranno fare costruzioni antisismiche, anche se commettiamo spesso gli stessi errori.
R. Sì, ma consideriamo anche l’ignoranza dell’essere umano che dopo il primo terremoto ha costruito palazzi pensando che contro un tale cataclisma bastassero delle pareti profonde 60 centimetri. Con gli anni la legge è cambiata, ma le pareti e le mura sono rimaste le stesse di un tempo, nonostante la legge antisismica imponesse il tetto in cemento: eppure è stato proprio questo tipo di tetto che ha fatto crollare le case. Paradossalmente il mio pagliaio, avente un tetto di legno, non ha subito danni.

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D. Marisa Monte ha scritto una delle canzoni di maggior successo, «Vilarejo».
R. «Vilarejo» significa «villaggio», e già nel mio emotivo identificavo questo «vilarejo» di cui parlava il suo testo nella mia Domo. Quest’estate, quando eravamo a casa mia, sentivo Marisa parlare al telefono con la moglie di Caetano Veloso e le diceva proprio questo: che ci trovavamo in un vero e proprio «vilarejo», dove ci si conosce tutti, si mangia insieme, si vive in collettività.

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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EVANDRO DOS REIS: UN MICHAEL JACKSON DI “VERDEORO” COLATO

di ROMINA CIUFFAEvandro Dos Reis, chi non lo conosce? Tutti sanno che è stato, a Roma, uno dei fondatori del movimento brasiliano di questo millennio, importando dal Brasile la roda de samba che, con un altro folto gruppo di brasiliani, ha animato le notti prima della Fonderia, poi di molti altri luoghi e locali romani, come si fosse a Ramos, zona Nord di Rio de Janeiro, dove è attivo dal 20 gennaio del 1961 uno dei blocchi carnevaleschi più noti, quello dei Cacique de Ramos. Così Evandro, trasferitosi a Roma pieno di valigie musicali, ci ha trasportato da Roma a Ramos attraverso dei grandi capotribù, i Cacique de Roma. Da allora l’attività di questo paulista non è mai terminata in Italia, che grazie a lui ha conosciuto meglio non solo il Samba, nelle note della sua chitarra e del suo cavaco, ma anche il genere del Forrò, che Evandro predilige (oggi questa predilezione si è formalizzata nel gruppo neonato a San Paolo, i Matuto Baião) non mancando la tradizione della MPB, della quale Evandro Dos Reis ci rende partecipi da sempre. Tornato stabilmente in Brasile, trascorre vari mesi l’anno a Roma, facendo parte integrante e fondamentale dell’Orchestra di Piazza Vittorio, di recente essendo stato anche tra i protagonisti incontestabili del Roma Forrò Festival, figlio anche di quella generazione che al Beba do Samba di San Lorenzo ha avuto l’occasione di conoscere cosa voglia davvero dire “verde-oro”. Chi non conosce Evandro Dos Reis? Nessuno. Ma chi lo conosce bene, davvero? Pochi. Per questo, lo intervisto per dar conto di una realtà capiente che ci ha liberati dalle dissonanze, e sapere di Evandro cose in più: dov’è nato, cosa lo ha portato in Italia, etc.? E poi, chi è che sa che lui cominciò come i Jackson Five, nella band dei cugini, Tudo em Familia? Un brasiliano Michael Jackson, per noi “verdeoro colato”.

Evandro, puoi raccontare discorsivamente ed emotivamente la tua biografia? Sono nato a Osasco, in Brasile, in una famiglia di musicisti, mia mamma e le mie zie cantano benissimo, suo padre (mio nonno) e suo fratello suonano e costruiscono fisarmoniche, sono cresciuto ascoltando loro cantare nelle feste di famiglia, ma anche a pranzo o durante le faccende quotidiane. Quando ho fatto 6 anni mio cugino mi ha regalato uma chitarra classica e mio padre mi ha messo in uma scuola di musica dove ho studiato per 4 anni. A 10 anni sono entrato in Conservatorio, dove ho studiato per 7 anni; e nel mentre ho fondato la mia prima band Tudo em Familia assieme ai miei cugini, abbiamo fatto um sacco di concerti in giro per São Paulo e inciso un vinile in un festival di samba dove la prima canzone che io ho composto é arrivata quarta. A 17 anni mi sono iscritto alla Universidade Livre de Musica dove ho studiato per 4 anni e, appena finito, ho iniziato a lavorare in una nave da crociera. Lì ho conosciuto quella che poi sarebbe diventata mia moglie, e così sono finito in Italia.

In Italia quale è stata la tua esperienza? La prima persona con la quale ho lavorato in Italia è stato Giacomo Bondi, con lui ho collaborato come strumentista e come autore, e nel 2004 abbiamo inciso um cd, “Evandro Reis”, con delle mie canzoni arrangiate da lui. Tramite questo lavoro siamo stati invitati dal conduttore radiofonico di Rai Uno Max de Tomassi per fare un’intervista nella sua trasmissione Brasil: Max è stato ed è tutt’ora una persona con cui collaboro e chiacchiero volentieri di musica. Tramite lui ho lavorato prima con Franco Cava, suonando nella sua band in Italia, e poi com Jovanotti nella band che ha suonato al Live8.

In che modo sei entrato a far parte dell’Orchestra di Piazza Vittorio?  È una storia interessante: tre anni prima ero stato invitato da Mario Tronco a suonare con l’Orchestra di Piazza Vittorio (OPV) che in quel periodo aveva appena fatto il primo concerto, La cosa non si era conclusa e le nostre strade si erano divise, fino a quando due miei amici in vacanza dalla nave persero il treno che da Genova li avrebbe portati a Roma e, rimasti un giorno in più a Genova, la sera andarono a vedere l’OPV e a fine concerto, chiacchierando con il Maestro Tronco, hanno contestato il fatto che in un’Orchestra del genere non vi fosse un brasiliano. Mario parlò di me e loro, increduli, gli confidarono che il giorno seguente sarebbero stati ospiti a casa mia, così Mario gdiede loro il suo numero di telefono dicendo di chiamarlo. L’ho fatto e ci siamo dati appuntamento per settembre quando l’Orchestra avrebbe iniziato a registrare il suo secondo album “Sona”, senza sapere nel mentre che io suonavo nella band di Jovanotti e Jovanotti aveva invitato l’Orchestra a fare una partecipazione ad una canzone, così ci siamo rivisti proprio in occasione del Live8 e da lì è iniziata l’avventura più bella della mia vita: ho suonato con l’OPV per 8 anni e con essa ho realizzato tutti i sogni che un bambino che impara a suonare uno strumento musicale ha, ho inciso dischi incredibili, ho suonato nei più importanti palchi e del mondo, ho lavorato con produttori mondialmente conosciuti. L’Orchestra mi ha dato la possibilità di capire e conoscere musiche, culture, credenze e ideologie che porterò con me per sempre, ogni musicista che suona in quel gruppo potrebbe scrivere libri e libri di storie e conoscenze e convivere con questo: l’esperienza non ha prezzo! Il mio lavoro con l’Orchestra ha avuto un’interruzione nel 2012, la crisi aveva portato dei cambiamenti in Italia ed io nel mentre sentivo un’enorme curiosità di capire chi ero al di fuori del contesto di gruppo, L’Orchestra è comoda perchè ti fa sentire importante, ma volevo capire cosa avrei potuto combinare da solo, o semplicemente in un contesto diverso, così sono partito per una vacanza alla fine del 2012 ed ho deciso di restare in Brasile.

In sintesi: la mia storia con l’Orchestra di Piazza Vittorio comincia nel 2002 anche se il mio ingresso è stato nel 2005 dopo l’incontro sul palco del Live8 dove suonavo con Jovanotti e lui ha invitato l’Orchestra a partecipare alla presentazione, ho iniziato durante le registrazioni del disco Sona, poi nel 2006 e 2007 abbiamo girato il mondo con il disco ed il documentario, nel 2008 e 2009 abbiamo fatto il primo spettacolo teatrale, il Flauto Magico, dove io facevo uno dei 3 fanciulli, con il quale spettacolo abbiamo girato tanto; nel 2012 abbiamo fatto il disco Isola di Legno, con canzoni autorali  disco  che coincide con il mio ritorno al Brasile, fino al 2015 quando sono stato chiamato dal Maestro Mario a Roma per fare il Don Josè alla Carmen secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio.

Quali sono state le tue prime esperienze musicali? E come si è susseguita la tua carriera musicale fino ad oggi? Con i i miei cugini nel gruppo “Tudo em Familia” ho iniziato a suonare nei primi palchi “veri”, ho scritto le mie prime canzoni, ho inciso una canzone in un disco per la prima volta! La mia carriera musicale è stata piena di colpi di scena e molto intensa fino a qui, ho iniziato molto presto e tutto quello che io sono intelettualmente e ideologicamente parlando lodevo alla musica.

Chi sono stati i tuoi principali ispiratori? Musicisti o falegnami, genitori o insegnanti, bulli o matematici… che nomi? Da sempre sono ispirato dalle cose che mi circondano, sono sempre stato molto curioso ed ho sempre il perché dei bambini piccoli, la strada brasiliana, credo, sia stata la prima ispirazione, quando ero ragazzino si cresceva molto in fretta in Brasile, stavamo sempre per strada a giocare prima, amare e lavorare dopo, tutto molto velocemente. Ho da sempre preso ispirazione dalle cose che mi capitavano o incuriosivano, le mie storie d’amore (banale ma vero) sono state le prime ad uscire dalla mia mente per finire sulla carta, ma ho avuto anche muse ispiratrici della cui figura mi innamoravo, ma che non necessariamente divenivano storie d’amore, “Tatuagem” infatti, la prima canzone del disco della Matuto Baião l’ho scritta per una ragazza che ho visto ad un matrimonio, lei aveva un bellissimo tatuaggio sulla schiena. Poi ho scritto altre per lei che non ho ancora inciso e non siamo mai stati insieme… Scrivo spesso cose sul calcio, il calcio è troppo bello e non c’è bisogno di aggiungere altro.

Cosa ti ispira in questo momento? In questo perìodo sono molto ispirato dalla filosofia, il concetto delle cose: partendo dai greci fino al nostro periodo, leggo libri e libri, finisco uno che menziona un’altro e così via… Mario Sergio Cortella mi ispira molto, ma anche Clovis de Barros, tramite loro ho conosciuto Umberto Eco, ma anche Kant ed altri, a volte penso che impazzirò! Non ha fine questa cosa! Comunque l’ispirazione può partire nei modi più assurdi, ieri ero nella metropolitana e leggevo un post di un’amica, Carmel Dutra, che tornando da un viaggio spiegava la parola africana ubuntu che esprime una filosofia ed un antico concetto di etica: “Sono ciò che sono perché siamo tutti noi”. Alla fine lei ha scritto “porque sou o que sou pelo que nós somos”, sono ciò che sono per quello che siamo noi. Io ho commentato: “Ne uscirà fuori una bellìssima canzone”, e lei ha confermato: “Sarebbe bellissimo”. L’ispirazione tramite ciò che mi circonda!

La Banda Matuto Baião, appena nata, è il tuo passo musicale più recente, ed è un passo di Forrò. Puoi raccontare in che modo si è formata e cosa vi anima? La band è formata da 3 persone io, Tiago Nepomuceno e João Lopes, ci siamo conosciuti tramite Priscila D’Oro, assistente di direzione forrozeira e mia amiga del cuore che ho conosciuto a Roma. Quando siamo tornati in Brasile frequentavamo i forró di São Paulo e lei me li ha presentati, siamo diventati amici e condividevamo l’idea che la scena del “forró pé de serra” in Brasile non era molto creativa, ci sono molti musicisti e band valide ma molte cose sono semplicemente copie del lavoro fatto da Luiz Gonzaga. Noi volevamo fare un lavoro autorale, qualcosa che in grande o in piccolo contribuisse alla causa.

Sono brani autoriali: di cosa parlano? Chi li scrive? I brani li scriviamo io e Tiago Nepomuceno e i temi sono vari, ma in comune hanno la semplicità della vita quotidiana, cose semplici come il fatto di chi lavora tutta la settimana aspettando di andare al Forró nel fine settimana a ballare con una certa persona (“Passo a passo“), oppure di una persona che vive in campagna e riesce a vincere anche in un contesto urbano (“Resposta a saudade”), ecco, questioni di vita semplici, e a volte anche complicate. Obiettivamente, questo “penta”album ha una qualità molto elevata.

Il Forrò è sempre stato appannaggio di alcuni grandi (è proprio del Brasile “ripetere” brani altrui, differentemente dalle modalità italiane). Cosa ti/vi ha dato questo coraggio? Ho fatto sentire ad alcuni amici che hanno band o lavorano con il Forró i nostri brani quando ancora erano demo e la loro reazione era sempre meravigliata: “Tutti brani vostri? Non ci sono cover?”. Questo perché nel ambito del Forró esiste da sempre la filosofia di ri-registrare brani, a volte, con un arrangiamento molto simile alla versione originale. Noi pensiamo invece che è fondamentale avere un’identità di gruppo, nel disco è stata una scelta pensata anche per la quantità di musica che io e Tiago scriviamo, abbiamo molto materiale, ma anche nei nostri concerti a São Paulo le cover che facciamo sono pensate, sono meno conosciute e sono riarrangiate per avere la nostra impronta.

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Una sfida ad ampio margine, un “salto nel vuoto?”, o meglio: un Forrò acrobatico: sarà un successo in Brasile? C’è la possibilità che “vosso Forrò” possa essere ballato nel Pelourinho o alla Feira de São Cristòvão, o inserito nella programmazione accanto a “Esperando na Janela”? O più probabile nei club vip di San Paolo? Noi facciamo del nostro meglio per aprire un nostro spazio, più spazio riusciamo ad avere meglio è, in realtà il forro “pé de serra”, quello di Luis Gonzaga ha un pubblico specifico e fa più sucesso al sud del Brasile che al nord dove è nato. Quindi conquistare questo pubblico è il primo obiettivo.

Sappiamo che il Forrò è nordestino. Voi nascete più a sud (per non dire troppo più a est… fino a Roma). Com’è il panorama forrozeiro di San Paolo? São Paulo senza dubbio è il posto dove si balla più Forró “pé de serra” di tutto il Brasile, la stramaggioranza delle band di Forró sono di São Paulo, c’è Forrò dappertutto ma a San Paolo la cosa è veramente grande.

Che differenza c’è tra il Forrò paulista/paulistano e quello nordestino? Il Forró è venuto dal Nordest del Brasile ma è stato diffuso per il resto del Brasile tramite Rio de Janeiro negli anni 40 e ha avuto il primo momento di moda in tutto il Brasile negli anni 50, fino agli anni 70 ha sempre avuto una grande buona fetta di mercato, negli anni 70 e 80 è caduto a causa della crescita della bossa nova e della Jovem Guarda, in questo perìodo gli artisti si spostavano tra Rio e São Paulo dove molti nordestini venivano a tentare fortuna, ed andavano al Nordest nel periodo delle feste “juninas” (nel mese di giugno). Nei primi anni 90 è apparso al Nordest un nuovo tipo di Forró, non più con il trio sanfona (fisarmonica), zabumba e triangulo, ma con intere band, con batteria, basso, chitarra, ed una proposta molto più commerciale e molto meno autentica. Da allora al Nordest si suona più questo tipo di Forró mentre al Sudest è rimasta l’anima del Forrò tradizionale. Per carità, si suona il Forró tradizionale in tutto il Brasile e anche quello moderno si suona dapertutto ma sicuramente l’anima del Forró moderno è al nordest mentre il tradizionale è rimasto al sudest.

Puoi dirci cosa distingue questo “vosso” Forrò dal Forrò “deles”? Credo che il “nosso forrò” sia esattamente questo, un richiamo al Forrò che ho imparato dai miei genitori nordestini, un richiamo al Forró che é quello tradizionale, un omaggio ai compositori ed artisti che portano avanti una musica che è autentica brasiliana.

Perché “Matuto Baião”? Puoi spiegare al pubblico italiano il retroscena culturale, mentale, psicologico, ed anche nudo e crudo di questo nome? “Matuto” da noi è un persona che “non vive la vita di città”, una parola che molte volte è usata per un contadino o una persona che ignora certe cose come la tecnologia, al Nordest però si usa dire “matuto” a una persona intelligente “che pensa”, che “matuta”, riflette sulle cose. Io amo questa parola ed è stato il primo nome che Tiago ci ha suggerito. Mi fa pensare che il Baião, che è un ritmo, si sia personificato, o che il Baião è furbo, mi piace peensare a che faccia avrebbe avuto il “Matuto Baião”.

Cos’è il Baião? Baião è un ritmo brasiliano regionale, ballato al Nordest nelle feste popolari, registrato in vinile per la prima volta negli anni 30 con Luiz Gonzaga con la canzone omonima che spiega nel testo letteralmente “come si balla il baião”, da allora ballato in tutto il Brasile ma anche in molti posti del mondo, come Roma.

Sono solo 6 brani, in questa “Parte 1”. State procedendo a nuove composizioni? Dov’è possibile reperire il disco? Esiste un supporto fisico? Il disco è in tutte le piattaforme digitali, streaming o per download.

Avete in previsione un tour di presentazione in Brasile e/o in Europa/Italia? In Brasile stiamo suonando in posto importanti come il Remelexo a São Paulo, uno dei posti più importanti del Forrò “pé de serra”.

A Roma sei conosciuto molto per il Forrò, ma anche per aver portato, insieme ad altri brasiliani, la roda di samba dei Cacique de Roma. Puoi raccontarci come hai vissuto il Brasile romano, come lo hai visto evolvere e, dopo essere tornato in Brasile, come lo hai trovato ora che, di recente, sei tornato a farci visita? Roma è casa mia e per tanti versi mi piace molto che i brasiliani siano benvisti dal popolo italiano, mi piace che la nostra musica sia conosciuta dagli italiani, la comunità brasiliana a Roma è bella e folclorica, in generale ci si aiuta molto. La roda dei Caciques de Roma è stata una delle cose più belle che io abbia fatto nella vita, mi sono reso conto ancora di più quando sono tornato ed ho visto il Coletivo do Bigode, dove ci sono tante persone che suonavano con noi allora, mi piace ancora di più che quando ho visto per la prima volta tutti i musicisti erano italiani e la qualità della musica non ne rissentiva la mancanza di musicisti brasiliani. Questo è bello e fa capire il legato che i Caciques hanno lasciato.

Il Forrò in Italia: come lo trovi? Hai partecipato al Roma Forrò Festival. Com’è stata questa esperienza? Con chi hai avuto occasione di suonare? Sì, ho partecipato al Roma Forrò Festival e mi è piasciuto molto perché ho incontrato una comunità proveniente da tutta l’Europa apapssionata e che porta con avanti Francesca Maiolino il Forró autentico! Francesca sta facendo un gran lavoro con il Forró a Roma, la comunità è cresciuta molto e balla con maestria.

C’è qualche forrozeiro in Italia che è al livello di un forrozeiro brasiliano? Sì, ci sono persone che ballano il Forró alla grande in Italia o “meninão Ruggero” e la “menininha Martina” sono esempi ma potrei citarne molti altri, a partire da Francesca. Per me è bello vedere e far parte di questa realtà.

Come suona ai tuoi orecchi la pizzica? La pizzica è quasi una filosofia! È incredibile come si suona e come si balla, ho avuto la fortuna di suonare alla notte della taranta a Melpignano e la cosa è di un’altro mondo. Trovo che questa cultura regionale sia la motivazione per la quale voi imparate a ballare altri ritmi come la Salsa o il Forrò, siete un popolo di ballerini e di gente a cui piace fare festa, questo unito alla cultura poppolare forte che c’è in Italia vi aiuta molto a capirne altre manifestazioni simili.

Qual è l’obiettivo “sogno” che vorresti raggiungere? Credo di aver raggiunto molti di questi obiettivi, vorrei fare una carriera nella mia patria, ecco, questo sarebbe il sogno attuale.

Suonare… con chi? Un italiano/a e un brasiliano/a. E…? Se avessi avuto la possibilità avrei voluto suonare con Pino Daniele, ed in Brasile sicuramente con Gilberto Gil, il mio preferito.

Domanda per noi: come hai percepito “Rioma”? Ho scoperto Rioma conoscendo Romina!

Domanda a piacere (obbligatoria!) “Sei felice di quello che hai fatto fino ad ora con la musica?” Assolutamente sì.

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OLIMPIADI DA RIO A ROMA, PASSANDO PER LE PARALIMPIADI: UN SEMINARIO DELL’AMBASCIATA DEL BRASILE IN ITALIA

Schermata 2016-05-10 a 19.24.40Schermata 2016-05-10 a 19.24.46L’Ambasciata brasiliana in Italia guidata da Ricardo Neiva Tavares ha ospitato il seminario «100 giorni dai Giochi olimpici Rio 2016», per capire come si stanno svolgendo i lavori e fare il punto anche sulla candidatura romana 2024. Oltre all’Ambasciatore, sono presenti Fabio Porta, deputato italobrasiliano e presidente dell’Associazione di Amicizia Brasile-Italia, Domenico De Masi, sociologo e professore de La Sapienza di Roma con cittadinanza carioca onoraria, Sandro Fioravanti, vicedirettore di Rai Sport, Carlo Mornati, vicesegretario generale del Coni e capo missione Rio 2016, Luca Pancalli, vicepresidente del Comitato Roma 2024, Marco De Ponte, segretario generale ActionAid. Tutti moderati da Francesco Orofino, vicepresidente nazionale dell’Inarch.

Quest’ultimo afferma: «Mi sembra che possiamo essere certi che l’azione verso le Olimpiadi abbia riqualificato zone degradate della città, come l’area portuale, con opere architettoniche di grandissimo pregio, un esempio ne è il Museo del Domani firmato da un’artista come Santiago Calatrava, ma anche le opere del Parco Olimpico. La città è stata dotata di infrastrutture e ne è stato potenziato il trasporto pubblico, a partire dalla metropolitana, tutto questo attraverso lo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro con scelte di politica di rigenerazione legate al tema della sostenibilità ambientale come faro di riferimento per le opere da realizzare. Quindi siamo tutti convinti che dopo lo straordinario evento di festa e di sport Rio, grazie a questa occasione, sarà una città migliore in cui i cittadini potranno godere di un livello della qualità della vita sicuramente più alto. Oggi vorremmo lanciare anche un ponte verso la candidatura di Roma per ospitare le Olimpiadi del 2024, convinti che anche per la capitale italiana questa potrebbe rappresentare una straordinaria occasione di sviluppo e di riqualificazione».

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DOMENICO DE MASI. «Vorrei sottolineare alcuni punti di convergenza tra l’Italia e il Brasile. Ci sono due frasi che mi hanno sempre molto toccato, una di Tom Jobim e l’altra di Nelson Rodriguez. Il primo dice che il Brasile non è un Paese per principianti, e questo si potrebbe dire anche dell’Italia; Rodriguez invece dice che il Brasile non è popolare in Brasile, e neanche l’Italia è popolare in Italia. Questi due punti di vista ci accomunano perfettamente, che costituiscono per me due punti di forza, ad esempio, rispetto ai francesi che si elogiano per nascondere le loro debolezze. Vorrei ricordare cos’è il Brasile sotto il punto di vista dei dati statistici: su 196 Paesi, il Brasile è al decimo posto nella produzione industriale, nell’industria manifatturiera e nella produzione di metalli preziosi, mentre l’Italia occupa il nono posto nella produzione industriale, quasi una gara olimpica con il Brasile perché 10 anni fa eravamo noi al settimo posto e il Brasile all’undicesimo posto». Così prosegue De Masi: il Brasile oggi occupa l’ottavo posto per la produzione di servizi, di nichel, di alluminio e per il consumo di energia, che è uno degli indicatori più importanti per capire il livello di progresso di un Paese. È al sesto posto per il numero dei viaggi aerei, per il Pil, per il potere d’acquisto, per la produzione automobilistica. Da questi dati possiamo vedere che stiamo parlando di un Paese potentissimo che non ha nulla a che fare con l’immagine che di solito noi abbiamo della «repubblica della banane». Tra l’altro il Brasile è una democrazia profondamente consolidata sotto tutti gli aspetti costituzionali: è al quinto posto per la superficie, per il numero di abitanti, per la produzione agricola, per la produzione di cacao, per la produzione di stagno, di cotone e per la vendita di automobili. È al quarto posto tra le graduatorie delle città più grandi e San Paolo è la quarta città più grande del mondo, per la produzione di cereali, per la lunghezza della rete stradale. Il Brasile è al secondo posto per la produzione di olio di semi; al terzo posto nella produzione di carne e per frutta; occupa la prima posizione per la produzione di zucchero e caffè.
«Questo è un quadro che va dalla produzione rurale a quella metalmeccanica, in un Paese che ha una percentuale di giovani al di sotto dei 15 anni di età del 25 per cento che noi ci sogniamo, poiché la nostra è al 9 per cento. Al visitatore occasionale o quello abituale i punti deboli del Brasile non si nascondono, come non ci nascondiamo i punti deboli dell’Italia. Parlando del divario economico, il 10 per cento della popolazione bianca in Brasile possiede il 75 per cento della ricchezza, mentre nel 2007 in Italia, all’inizio della grande crisi, 10 famiglie di italiani avevano il potere di acquisto di 3 milioni e mezzo di italiani. Oggi le stesse 10 famiglie hanno un potere d’acquisto pari a quello di 6 milioni di italiani, quindi il divario da noi è aumentato».

«C’è poi l’analfabetismo–prosegue De Masi–ma bisogna anche dire che grazie all’impegno di Rudi Cardoso, moglie dell’ex presidente brasiliano Fernando Enrique Cardoso, e alla cosiddetta «borsa famiglia» rinnovata con i Governi successivi, il Brasile è anche il Paese che in questo momento nel mondo è al primo posto per la lotta all’analfabetismo. C’è poi la corruzione, ma come italiano non ho assolutamente la possibilità di infierire su questo punto. C’è la violenza, ma essendo io napoletano abitante di uno dei quattro epicentri delle multinazionali del crimine in Italia, ho poco da dire. Ci sono molti vantaggi per le imprese italiane che vanno in Brasile: il costo del denaro è al primo posto, a Milano un’ora di operaio costa 24 dollari mentre in Brasile ne costa 11. Inoltre il Brasile ha una rete e una catena di università da fare invidia, lo dico poiché le conosco personalmente avendovi tenuto molte lezioni. Il Brasile è anche portatore di uno stile e di una modernità nell’architettura che si vede anche nei musei».

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Eppure De Masi ha l’impressione che il Brasile, come l’Italia, non dia il meglio di sé. «A mio parere dà il meglio nell’antropologia, e per questo va ringraziata la storia: quando i portoghesi sono giunti in Brasile non hanno trovato il vuoto come sembrerebbe dalle storie del Brasile studiate dagli stessi brasiliani, che iniziano sempre dal 1500 e cioè dall’arrivo di Cabral: anche all’epoca di Omero e di Giulio Cesare il Brasile era abitato da una popolazione meravigliosa, a cui si deve la dolcezza del carattere e la passione per l’estetica. Era questa una popolazione che non aveva bisogno di lavorare per vivere perché arrivava tutto dalla natura, non aveva bisogno di combattere per dividersi le risorse, e quindi si dedicava prevalentemente a due elementi: la contemplazione della natura e l’estetica. Avere come eredità migliaia di anni in cui la popolazione era come quella ateniese di Pericle senza però la belligerenza, credo che sia stato un patrimonio strepitoso. L’arrivo dei portoghesi porta a una prima grande mescolanza, nascono i mamelucchi, poi arrivano gli africani e nascono i mulatti, poi arrivano gli italiani, i tedeschi, i libanesi, i giapponesi, ci sono 44 etnie con tantissime sfumature di colore».

«Tutto questo ha portato ai grandi punti di forza del Brasile, a partire dal concetto di accoglienza: mai il Brasile avrebbe costruito muri. Dal Brasile ci viene anche il concetto di solidarietà e il concetto di pace (40 etnie convivono insieme e vanno d’accordo mentre negli Stati Uniti ci sono le chiese per i neri e le chiese per i bianchi), è un Paese che ha 11 Paesi confinanti, e mentre noi con i nostri pochi Paesi confinanti in 500 anni abbiamo fatto 80 guerre, il Brasile ha fatto una sola guerra contro il Paraguay e devo dire che ci mise lo zampino anche Giuseppe Garibaldi. Un Paese che per 500 anni non si è addestrato alla guerra non ha bisogno di avere un grande esercito, non ha bisogno di alimentare aggressività nei confronti dei vicini. Tutto questo si vede nella dolcezza delle persone e nella filosofia del Brasile. Il mio grandissimo amico architetto Oscar Niemeyer ha scritto che ciò che conta non è l’architettura, ma la vita, gli amici, e questo mondo ingiusto che dobbiamo modificare. In questo momento il Brasile sta passando un brutto momento, un momento che assomiglia a quello italiano del 1992 con tutto quello ha comportato dopo, ma credo che le qualità intrinseche del Brasile siano tali da fargli ritrovare presto un punto nuovo di ripartenza, perché ha sempre avuto queste grandi capacità di resilienza».

«Per quanto riguarda la situazione attuale io dico che sta attraversando la sindrome di Galois; Evariste Galois è stato un grande matematico morto a 20 anni in un duello. A 16 anni aveva iniziato a scrivere sette grandi teoremi e la notte prima del duello in cui avrebbe trovato la morte, la passò a scrivere questi 7 teoremi anche se non aveva il tempo materiale per dimostrarli tutti, e di questi teoremi 5 ne sono stati dimostrati. Ci sono dei popoli che quando hanno un compito lo rinviano sempre fino a quando, alla fine, non se ne può fare a meno e si trova un colpo d’ala che risolve il problema; il popolo italiano è così, il popolo brasiliano è così, io sono sicuro che da questa situazione in cui noi ci troviamo insieme al Brasile ne verremo fuori con un colpo d’ala e ci saranno delle cose meravigliose. La storia del Brasile è una storia di stupore: quello che è venuto dopo è stato sempre migliore di quello che si sarebbe potuto immaginare, perciò sono certo che queste Olimpiadi avranno la forza per determinare questo colpo d’ala».

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SANDRO FIORAVANTI. «Le Olimpiadi trasformano le città, Barcellona si è aperta al mare per la prima volta nella propria storia grazie alle Olimpiadi, ma non è soltanto questo: l’Olimpiade ha sempre segnato qualcosa, come quella del 1960 in Italia che in qualche modo ha voluto riscattare l’idea di un’Italia differente, un’Italia che fino a poco tempo prima scambiava gli operai con il carbone. È questo un momento che ha una rilevanza assoluta, vi si rinvengono elementi e valori condivisi che si accorpano, in 16 giorni, in una sorta di Natale in cui esiste un villaggio globale meticcio in cui appare possibile convivere tra diversi, in un sentire comune. Nel 1948 abbiamo ricucito le ferite della guerra anche se non sono stati invitati alcuni perdenti, ma al di là di questo non invito degli sconfitti, c’è sempre stato un riunirsi e un ritrovare qualcosa, la stessa torcia olimpica del 1936 era stata autorizzata forse con altri fini ma nel 1948 l’Italia ricucì con questo percorso quelle ferite che la guerra aveva causato».

Tutto questo, secondo il vicedirettore di RaiSport, trova un filo conduttore nel 1964 quando per accendere il tripode fu impiegato un ragazzo nato lo stesso giorno che fu sganciata la bomba a Hiroshima a simboleggiare la rinascita del Giappone. «L’Olimpiade avrà un valore assoluto per il Brasile anche se esso non ha bisogno di riaffermare quello che dovette riaffermare Roma nel 1960, però certamente sarà importante raccontarlo in modo differente, perché ancora oggi Rio si ammanta di meravigliose bellezze e di questo sentire gioioso che appare nell’immaginario collettivo ma sicuramente ci sono cose che ancora non garbano e di cui addirittura si ha paura. Tutto questo sarà superato certamente nel periodo olimpico e mi auguro che abbia effetti anche nell’avvenire. Il nostro racconto sarà su 3 canali HD, per quanto riguarda il racconto televisivo sarà su 25 canali raggiungibili attraverso la rete, ci auguriamo di riuscire in questo racconto – sia pure molto concitato e concentrato dato che vi sono 46 discipline olimpiche da coprire in solo 16 giorni – a rendere gli elementi non solo del Paese ospitante ma anche dei Paesi ospitati, con tutti i messaggi annessi che un’Olimpiade lancia».

«Quella di Atlanta probabilmente è stata l’Olimpiade meno bella di tutta la storia recente per vari motivi. È forse da quel momento che le Olimpiadi sono divenute altro: basta vedere che per comprare i diritti televisivi fino al 2024 ci vuole un’enorme dispendio, diciamo che si è persa la misura del racconto, della trasmissione di un messaggio. La situazione non è ottimale da questo punto di vista. Le Paralimpiadi hanno mantenuto tutto questo intento: nel 60 le prime Paralimpiadi hanno guadagnato una sorta di sentire paritetico e noi le racconteremo in modo paritetico con gli stessi telecronisti e con lo stesso impegno. Spero che per il Brasile sia come è stato per Londra, dove gli stadi erano colmi durante le Paralimpiadi e probabilmente si è avvertito per la prima volta questo elemento, e cioè che si andava a vedere le gare e il competere, mentre 30 anni fa probabilmente si assisteva agli sport paraolimpici con una nota amara di compassione e commozione. Oggi chi è privo di una parte del corpo è come chi porta gli occhiali: un modo diverso di riuscire a fare le stesse cose, e talvolta addirittura meglio di chi i pezzi li ha tutti».

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CARLO MORNATI. Prosegue Carlo Mornati, vicesegretario generale del Coni e capo missione Rio 2016. «Stiamo facendo un grande sforzo perché Rio ci proietta alle Olimpiadi del 2016 ma ci fa da trampolino per quella che è la candidatura di Roma 2024, che è molto più vicina di quanto si possa immaginare poiché tutto si deciderà nel 2017. Il nostro sforzo è in linea con quello che è stato sempre fatto dal Comitato olimpico, che è uno dei Comitati olimpici più blasonati nel mondo. Siamo la quinta nazione per il numero di medaglie vinte e stiamo organizzando la nostra trasferta al meglio, con circa 300 atleti. Ciò significa che la delegazione sarà formata da uno staff di 650 persone. Ovviamente Rio de Janeiro rappresenta un messaggio ricco di simbolismo e anche la nostra spedizione vuole essere ricca di simboli a cominciare dalla nostra Casa Italia, una delle tante ‘ospitality house’ che costituiscono il punto di ritrovo per la comunità di appartenenza. Noi l’abbiamo voluto fare in maniera molto simbolica e significativa e sarà questo il modo in cui porteremo nel mondo il Made in Italy. Tornando al simbolismo olimpico, quando Pierre De Coubertin pensò alle Olimpiadi pensò sia a competizioni sportive sia a competizioni artistiche, presenti queste ultime dal 1912 a Stoccolma fino al 1948 accanto alle gare sportive».

«Ci siamo impegnati a fare in modo che Casa Italia sia un museo moderno che raccolga ciò che sono la cultura brasiliana e la cultura italiana. Portiamo anche la nostra tradizione culinaria contaminandola con la tradizione culinaria brasiliana perché abbiamo invitato sia degli che stellati italiani che brasiliani. Casa Italia sarà il nostro faro, perché la voglia e il desiderio di lasciare qualcosa è tanta, non è solo un evento sportivo di passaggio. Con Action Aid siamo impegnati da più anni e faremo in modo che 500 ragazzi con le loro famiglie della Rocinha saranno coinvolti in una sorta di educazione al cibo e allo sport lasciando una piccola testimonianza di quello che è stato il passaggio dell’Italia a Rio. Sono convinto che saranno dei grandissimi giochi a prescindere da quella che sarà la realizzazione infrastrutturale perché veramente c’è un calore umano che va oltre a quello che l’elemento agonistico in sé», conclude Mornati.

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LUCA PANCALLI. Luca Pancalli è un pentatleta, nuotatore, dirigente sportivo e politico italiano. Praticare attività sportiva ad altissimo livello nonostante sia costretto su una sedia a rotelle. «Vorrei fare una riflessione sulla dimensione paraolimpica che Rio sta preparando a ospitare subito dopo le olimpiadi, legata anche e soprattutto alla riqualificazione sociale e culturale. Credo che mai come oggi le Paralimpiadi rappresentino l’occasione strategica per un Paese di accelerare i processi di attenzione verso le fasce deboli della società che necessitano di grandi eventi per poter gridare al mondo ‘esistiamo anche noi’. Sono ormai tanti anni che mi occupo di dimensione paralimpica come presidente del Comitato italiano paralimpico ma anche a livello internazionale, ho visto negli ultimi 8 anni il progresso straordinario che ha fatto il Comitato paralimpico brasiliano sull’onda dell’assegnazione dei giochi del 2016. La dimensione paralimpica del Brasile 8 anni fa era quasi nulla, oggi invece è tra le prime nazioni al mondo, quindi dal punto di vista sociale sfuma la grande attenzione all’evento sportivo per appropriarsi della dimensione sociale poiché si genera una cultura della solidarietà e dell’inclusione».

«Probabilmente–prosegue Pancalli– assisteremo a degli straordinari giochi olimpici e forse ai più belli della storia dei Paralimpici, perché nella dimensione paralimpica il progresso è talmente veloce che Paralimpiade dopo Paralimpiade assistiamo a qualcosa di straordinario ed inimmaginabile dei nostri atleti. Sicuramente sarà anche un esempio per noi per quanto riguarda Roma 2024, poiché guardiamo a quelle città che hanno saputo sfruttare quest’occasione nell’idea di sviluppo urbanistico della città. Oggi siamo candidati e stiamo tentando di coltivare questo sogno di regalare a questa città un’occasione e un’opportunità. Se noi oggi vogliamo proiettare Roma nell’ambizione di regalare un sogno nel 2024, ciò è perché siamo fiduciosi che quello che stiamo facendo oggi come Paese e come città in futuro si possa realizzare come sogno. Roma non ha bisogno di punti di forza, Roma è Roma con i suoi 2700 anni di storia stratificati sulle proprie pietre, Roma è la città eterna capitale della cultura e della civiltà, ogni angolo di Roma ci racconta una storia, il punto di forza di Roma è la città stessa e noi romani dobbiamo convincerci del fatto che possiamo essere forti perché vogliamo prospettare un’Olimpiade della cultura, della bellezza, dell’innovazione, della sostenibilità».

«Pochi sanno che Roma rappresenta la città che ha maggiori spazi verdi in Europa. Vogliamo dare a Roma un’occasione di rilancio e un’opportunità organizzando e candidandoci per due grandi eventi sportivi ma soprattutto partendo da la dove le Olimpiadi del 1960 ci hanno portato, regalandoci la Via Olimpica, il sottopasso del Lungotevere, il Villaggio Olimpico e tutte le strutture infrastrutturali, lo Stadio Olimpico, lo Stadio dei Marmi, il Foro Italico. Ripartiamo paradossalmente da quelle cose che in qualche modo sono e rappresentano Roma 1960.Abbiamo già il 70 per cento degli impianti e possiamo ripartire imparando dagli errori del passato. Non serve costruire cattedrali nel deserto, serve costruire quello che è necessario per ospitare due grandi eventi sportivi, ma solo laddove questa infrastrutture sportive avranno ragion d’essere nel futuro perché, se non saranno accompagnate da piani economici gestionali e di sostenibilità nel post evento olimpico, saranno solo strutture temporanee non utili».

«Bisogna intervenire laddove è necessaria una rigenerazione urbana e infrastrutturale, si pensi all’area di Tor Vergata dove c’è ancora la ferita aperta della Vela di Calatrava, da noi individuata per ospitare il Villaggio Olimpico. Ci sono ancora altre infrastrutture che poi, terminate le Olimpiadi, saranno smontate mentre altre saranno usate dalla città riqualificando un’area che forse soltanto con l’evento olimpico e paralimpico avranno un senso. Non so quale amministrazione sarà in grado di immaginare di riqualificare quell’area senza l’occasione di un grande evento che attrae economie e risorse importanti. A me viene da sorridere quando mi si antepone il problema della buca all’organizzazione di un evento olimpico, la buca va a priori aggiustata, invece l’evento olimpico è un acceleratore rispetto a delle risposte che la città sta aspettando da troppi anni. I cittadini romani lo meritano».      (ROMINA CIUFFA)

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Anche su SpecchioEconomico – Giugno 2016

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BRASILE: CHE SUCCEDE? CON ICBIE EUROPA ONLUS LA DIFFERENZA TRA COLPO DI STATO ED IMPEACHMENT È SPIEGATA MEGLIO

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L’incontro «Brasile: che succede?», tenutosi a Roma il 16 aprile 2016 nelle sale dello Spin Time Lab di Via Statilia, ha messo in luce alcuni punti brasiliani di cui oggi si parla ma che molti stentano a comprendere: dal colpo di Stato all’impeachment del presidente Dilma Rousseff. Cosa sta davvero accadendo? Lo spiega l’Icbie Europa Onlus presieduta dall’avvocato Paolo Mauriello, figlia dell’Icbie Salvador, insieme a Rioma Brasil e all’associazione Meta Brasil costituita in Roma; relatori il professor Alfredo Copetti Neto dell’Università Statale del Paranà, Fabio Marcelli dell’Associazione dei Giuristi Democratici, Gislaine Marins di RAiZ-Movimento Cidadanista.

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L’Icbie brasiliana è stata pensata non solo come luogo di istruzione formale, ma come punto di scambio interculturale nonché sede operativa di riferimento sul territorio per la popolazione locale (soprattutto giovani). Lo scambio è inteso anche come dialogo culturale tra Italia, Europa, Sud e Nord America e luogo d’incontro tra persone provenienti da estrazioni sociali diverse, disposte a mettere al servizio della comunitá Icbie la propria professionalità e abilità artistica per contribuire allo sviluppo culturale, della formazione e dei mestieri, aumentando in tal modo le speranze e le prospettive future per una occupazione e un’inclusione sociale dei propri studenti, in un momento di grande crescita economica del Brasile. A Roma, essa opera come Icbie Europa.

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Mauriello spiega: «Vorremmo farci un’idea della reale situazione brasiliana. L’Icbie Europa, onlus che opera nell’edificio occupato dello Spin Time, ha pensato di organizzare un incontro specifico insieme a Rioma Brasil e Meta Brasil, per confrontarci sul Brasile che in qualche modo tanto amiamo. Effettivamente la situazione brasiliana, oltre a mutare velocemente, pone una serie di interrogativi, e ognuno dei nostri relatori li affronterà in maniera differente. In Brasile il confronto è a dir poco aspro e lo si capisce anche dalla prospettiva italiana. Sicuramente alcune delle cose che accadono in Brasile preoccupano noi dell’Icbie, ci spaventa vedere che vi è qualcuno che invoca apertamente il ritorno della dittatura o che evoca persone che ebbero un ruolo nefasto e losco durante la dittatura, questo ci dispiace. Preoccupa che in una parte della società brasiliana ci sia disappunto per il processo di inclusione che ha visto gli ex svantaggiati o poveri essere i protagonisti di questi ultimi anni. Non ci piacciono i fenomeni di malcostume e le ruberie che imperversano, e lo dico soprattutto per coloro che più hanno avuto a cuore le sorti del Partito dei lavoratori, il PT, assistendo a prese di posizione di personaggi che a non tutti piacciono».

Seguono gli interventi di Gislaine Marins, Alfredo Copetti Neto e Fabio Marcelli, come seguiti da Rioma.

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«A prescindere dalla posizione che un brasiliano possa avere riguardo a tutta questa vicenda, sicuramente è una situazione di sofferenza per noi». Gislaine Marins è membro di RAiZ, una nuova formazione politica e un nuovo movimento della sinistra brasiliana. Cita il discorso di Dilma Rousseff in cui la presidentessa presenta il documento della Commissione sulla verità sui crimini della dittatura militare selezionando tre affermazioni di Dilma: 1 – «Sono sicura che i lavori della Commissione sono il risultato dello sforzo della ricerca della verità, del rispetto della verità storica e dello stimolo alla riconciliazione del Paese con se stesso tramite la verità e la conoscenza. 2 – «Ora la verità permette che si possa dire, capire e sapere tutto, la verità significa l’opportunità di promuovere il nostro incontro con la storia del popolo». 3 – «Meritano la verità coloro che continuano a soffrire come se morissero di nuovo e sempre ogni giorno». Nell’affermare ciò Dilma si è trattenuta dal piangere. La dittatura è una cosa indegna, non accettabile in un Paese civile.

Una breve cronistoria. Due giorni dopo le elezioni la Camera boccia il decreto bolivariano che istituisce i consigli popolari. Il 2 novembre 2014 i manifestanti a San Paolo chiedono l’impeachment di Dilma con l’intervento militare per destituirla a cui partecipano 2.500 persone. Il 18 dicembre 2014 il Partito socialdemocratico (PSD) chiede al tribunale elettorale di revocare la vittoria di Dilma perché è accusata di fare campagna con i soldi della corruzione. Il 4 gennaio 2015 il Partito democratico brasiliano (PDB) ritira il sostegno incondizionato a Dilma in Senato. Il 15 marzo 2015 il Brasile vive giorni di proteste massive contro Dilma, circa 1,4 milioni di manifestanti; sono passati solo 4 mesi dalle 2.500 persone che chiedevano l’impeachment di Dilma e hanno messo in moto questa macchina. Il 13 giugno 2015 parte la campagna elettorale di Dilma mascherata da intervista, cosa che è stata vista come un’accusa. Il 28 settembre 2015 il presidente della Camera brasiliana Eduardo Cunha, del Partito del Movimento democratico brasiliano (PMDB) afferma che saranno discusse le richieste di impeachment di Dilma e il presidente della Camera può o rifiutare o accettare le richieste e dichiara che l’analisi è parte della valutazione decisionale che si sta effettuando.

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Il 7 dicembre 2015 Dilma è accusata di mentire e sabotare il PDB, anche se da gennaio il PDB ha abbandonato il sostegno a lei. Il 16 marzo 2016 le intercettazioni complicano la situazione di Dilma e Lula e la diffusione di una telefonata aggrava la crisi politica. Il 29 marzo 2016 il giudice Moro ammette dinnanzi al Tribunale superiore federale di avere sbagliato nelle intercettazioni di Lula e Dilma. Il 30 marzo 2016 il PDB rompe con Dilma, e questa è la terza volta, il Governo promette un impasto e vuole il vicepresidente come golpista. L’8 aprile 2016 Cunha minaccia di accettare nuove richieste di impeachment contro Dilma e la misura verrebbe presa se il Tribunale superiore federale accettasse il processo contro il medesimo, presidente dalla Camera dei Deputati e terzo nella linea successoria ovvero eventuale vicepresidente in caso di allontanamento definito della presidente Rousseff.  «Quindi–sottolinea Marins–da uomo che valuta la situazione, si passa a un uomo che mette in atto un ricatto: se fai il processo di impeachment contro me, io accetto nuove richieste di impeachment contro Dilma. Una denuncia presentata al Tribunale superiore federale afferma che il presidente della Camera ha commesso reato di corruzione; vorrei sottolineare che contro Dilma non c’è nessuna denuncia di reato».

Nella seconda parte del suo intervento Gislaine Martins presenta i protagonisti della notte del 17 aprile, cioè del discorso di Dilma, i quali, ogni volta che si avvicinavano al microfono, dicevano «Voto per Dio, la famiglia e gli amici». Il partito di Dio, in Brasile chiamato «partito della Bibbia», non è un vero è proprio partito bensì uno schieramento trasversale perché racchiude più partiti. Si tratta del BBB, acronimo per la Bancada do Boi, Bíblia e Bala (bue per latifondisti, Bibbia per Bíblia e proiettile della pistola per bola). Questi parlamentari sono favorevoli al porto d’armi e la maggior parte di essi ritiene che la povertà e la criminalità siano legate alla mancanza di uguali opportunità per tutti.

«In questo caso–spiega la Marins–le uguali opportunità sono una specie di meritocrazia, cioè non sono politiche di inclusione, ma politiche molto individualistiche in cui viene valutata la persona povera che, lavorando, riesce ad uscire dalla povertà, come se questo fosse una cosa semplice. Purtroppo la società umana non dà sempre queste opportunità. Sono contro la pena di morte, sono proibizionisti rispetto alle droghe e difendono il controllo sociale dell’omosessualità, per essi le persone non devono parlare troppo altrimenti potrebbero influenzare coloro che sono potenzialmente omosessuali. Credono che Dio migliori le persone, sostengono che gli adolescenti debbano essere puniti come gli adulti e sono sostenitori dell’abbassamento dell’età penale per i giovani. Sono inoltre favorevoli al libero mercato senza mediazioni dello Stato, difendono la riduzione della presenza di quest’ultimo nell’istruzione e nella sanità in cambio dell’abbassamento delle tasse, e per la riduzione dello Stato in genere nella vita dei cittadini nonché per gli aiuti di Stato per le aziende in difficoltà dato che sono il principale vettore dello sviluppo economico. Questi sono quelli che votano Dio, adesso vediamo quelli che votano per la famiglia. Cunha vota per la famiglia, ma sua figlia e sua moglie sono sotto inchiesta; chi fa campagna elettorale dona il ricavato a se stesso. Essendo sotto processo, Eduardo Cunha potrebbe assumere la presidenza?».
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Marins passa dalla discussione politica alla discussione tecnica: «Uno dei principali problemi è che in Brasile con troppa leggerezza si compie una separazione tra tecnicismi e politica, come se i primi non fossero profondamente legati alla seconda». Quindi conclude il suo intervento con un riflessione sul ruolo dei mezzi di informazione in questa crisi politica: «Se è vero che abbiamo urgentemente bisogno di una riforma politica che impedisca il finanziamento privato delle campagne elettorali e che riempia il vuoto degli elettori, giacché oggi i deputati entrano nella Camera per quota di partito e non per numero di voti ricevuti – è altrettanto vero che abbiamo bisogno di rivedere il binomio politica-informazione: non vogliamo in alcun modo censurare la libertà di opinione ma dobbiamo creare anticorpi alla manipolazione dei dati, alle false notizie, ai dossier, alle mistificazioni, all’egemonia di alcune grandi famiglie nelle concessioni televisive; dobbiamo abolire senza indugio l’apologia alla tortura e ai crimini compiuti dallo Stato; niente di tutto ciò ha a che fare con la libertà di opinione. Non possiamo più accettare ad ogni stagione politica l’invenzione di casi scandalistici montati per sensibilizzare e influenzare gli elettori sommergendoli di informazioni per convincerli o per confonderli a seconda del caso, con voluta ambiguità e vaghezza e false notizie costruite ad hoc. Secondo voi, dopo tutto ciò, dobbiamo essere ottimisti?».

Sì. Risponde: «Dobbiamo esserlo per per amore verso il Brasile e verso il nostro popolo. Il Brasile è la più grande democrazia ed economia del Sud America, la seconda economia delle Americhe dopo quella degli Usa, una delle 10 economie del mondo, se crollasse trascinerebbe anche altri Paesi in una crisi economica: a chi conviene rovesciare la nostra democrazia? Purtroppo una risposta è certa: serve ai corrotti che vogliono sfuggire al giudizio delle istituzioni e del popolo brasiliano. Aiutateci a salvare la nostra democrazia, che è un bene di tutti».

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«Vorrei mettere in evidenza la situazione da un punto di vista giuridico», esordisce il professor Alfredo Copetti Neto dell’Università Statale del Paranà. «È un colpo di Stato l’impeachment di questi giorni brasiliani? Io rispondo sì e no: sì perché le formule usate dal sistema giuridico per mettere in evidenza una situazione che è molto difficile da essere provata come crimine, in realtà ci fa pensare se questo sia veramente legittimo; e no perché il nostro sistema politico-giuridico permette evidentemente la procedura dell’impeachment».

Naturalmente ci sono vari problemi, aggiunge Copetti: il primo, che è un problema interno del Governo brasiliano, l’impeachment fatto secondo la Costituzione brasiliana, è secondo lui un sistema fragile «perché non dà le garanzie di una Costituzione utilmente rigida in una situazione come questa. Alla fine lasciamo al Parlamento la decisione se c’è o non c’è un crimine di responsabilità del presidente, ossia: ammettiamo la procedura d’impeachment dalla Camera dei deputati che poi la invia al Senato che può decidere se mantenere o no la posizione della Camera e poi il Senato emette il giudizio materiale del crimine con la presenza del presidente della Suprema Corte. Da questa situazione vediamo come lo strumento di impeachment sia fragile, ma–aggiunge il professore paranaense–questo è l’unico strumento che abbiamo. Il secondo problema è che il Brasile ha già avuto un impeachment nel 1992, il primo presidente eletto dopo tanti anni di potere militare». Fa riferimento a Fernando Collor de Mello, primo presidente eletto a suffragio diretto dopo 25 anni di dittatura: prese invano diverse iniziative per migliorare la situazione economica del Brasile, ma le accuse di corruzione, evasione fiscale ed esportazione di valuta mosse contro di lui e del suo Governo spinsero la Camera dei deputati ad aprire un procedimento di impeachment nei suoi confronti (29 settembre1992). Collor de Mello fu destituito il 29 dicembre 1992, e il Senato lo dichiarò incompatibile con gli uffici pubblici per otto anni.

Schermata 2016-04-29 a 19.14.20«Studio diritto da 15 anni e non ho visto nessun libro, dopo l’impeachment di Collor, in grado di raccontarci giuridicamente i problemi correlati, di delineare prospettive utili, e di insegnarci una procedura veramente solida, e questo è un problema serissimo. Stiamo affrontando il medesimo problema di 24 anni fa e abbiamo lasciato la decisione alla Corte Suprema». Secondo Copetti, questa è una situazione in cui deve ragionare non soltanto la comunità internazionale, ma anche i giuristi brasiliani. Il terzo problema cui fa riferimento il professore riguarda la questione politica: «Noi abbiamo un Parlamento estremamente corrotto e fascista. Nelle ultime elezioni sono stati eletti i parlamentari più conservatori fin dall’epoca del regime militare, i rappresentanti del BBB non hanno nessuna capacità politica di rappresentare un popolo democratico e soprattutto un’istituzione democratica come il Parlamento brasiliano. Se prendiamo il procedimento d’impeachment di Dilma Rousseff e se scaviamo a fondo, andiamo a sapere che il presidente della Camera dei deputati, Eduardo Cunha, è accusato di corruzione del pubblico ministero federale e l’accusa è stata accettata dalla Suprema Corte perché il partito dei lavoratori non l’ha appoggiato alla Camera dei deputati».

Bisogna anche dire–sottolinea–che purtroppo il Parlamento è il riflesso della società brasiliana. Si prendano ad esempio le «pedalades», ossia la possibilità di avere o non avere crimini di responsabilità sull’attitudine della presidente. Sì o no? «Giuridicamente ci sono argomenti per tutte e due; sì perché Dilma non ha rispettato la legge finanziaria annuale, ha fatto dei decreti e poi ha promulgato un’altra legge diversa dalla prima alterando l’avanzo primario, e questo è o non è un crimine di responsabilità?». La legge dell’impeachment che regola il processo è del 1950; nel 2000 ha avuto un’alterazione dove si stabilisce, in una forma non molto precisa, in cosa consta il crimine di responsabilità fiscale; nel 2001 questa legge è stata revocata con la legge sulla responsabilità fiscale che vieta di fare le «pedalades», ossia stabilire rapporti economici-finanziari con le banche pubbliche, per poi alterare la legge: essa dice solo tale pratica è vietata, ma non dice nulla sul crimine.

«Ovviamente i Paesi democratici devono rispettare la tassatività della legge penale, fattore primario e garantista di tutte le repubbliche democratiche del dopoguerra», prosegue. «In Brasile vogliono replicare il fenomeno italiano di Mani Pulite; io, che studio diritto da tanti anni non ho mai visto in Brasile una riforma promossa dal sistema giudiziario, c’è un vincolo che si stabilisce tra il potere giudiziario brasiliano e il potere golpista, e la popolazione purtroppo non capisce ciò che sta accadendo nel Paese: se questo processo verrà approvato dal Senato si ritornerà indietro di 30 anni. Molti giuristi brasiliani, tra cui io, stanno difendendo le istituzioni democratiche che si stanno indebolendo sempre di più e stiamo lasciando l’ultimo soffio di vita costituzionale, repubblicana e democratica, alla Suprema Corte, che vuole che i militari ritornino al Governo. Questo è un duro colpo per coloro che credono nella Costituzione e nell’uguaglianza. Senza una riforma politica in Brasile ci saranno altri impeachment. Dobbiamo lottare e resistere per il bene del Brasile».

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«Si chiedeva Copetti se questo può essere ritenuto o meno un colpo di Stato», riafferma Fabio Marcelli, dirigente dell’Associazione dei Giuristi democratici a livello nazionale, europeo e internazionale. «Penso che possa e debba essere definito un colpo di Stato, anche al di là delle disquisizioni giuridiche che si possono dare sul termine. Il colpo di Stato è un termine di natura essenzialmente politica ed è innegabile che quello che sta succedendo in Brasile è un tentativo di colpo di Stato. Peraltro non è la prima volta che ciò avviene in America Latina, poiché la storia ne è costellata, ma qui assistiamo da qualche anno a una nuova generazione di colpi di Stato, che possiamo definire ‘soft’ e che passano attraverso i Parlamenti e procedure di impeachment più o meno formalizzate. Ne sono un esempio i casi in Honduras e in Paraguay, nei quali i due presidenti, eletti a suffragio universale, ottenendo un grande successo stavano portando avanti delle politiche che sul piano interno e internazionale andavano ad urtare degli interessi fondamentali ad alcuni».

Prosegue: «Gli Stati Uniti non si sono rassegnati a perdere il ruolo di potenza dominante dell’emisfero, al di là dell’immagine che il presidente Barack Obama ha voluto dare recandosi a Cuba e pronunciando parole di conciliazione ed apertura. Ma gli Stati Uniti non sono Obama, ci sono apparati militari e diplomatici che hanno una politica definita su questa base: bisogna affossare i Governi progressisti dell’America Latina». Secondo il giurista democratico, il principale di questi Governi progressisti è proprio il Brasile, centro dell’America Latina: «Colpendo il Brasile si colpisce al cuore il rinnovamento progressista che si avvale di personaggi quali Cunha e Temer per fare un colpo di Stato ‘soft’ in Brasile. Tempo fa ho conosciuto l’ex presidente del Paraguay, Fernando Lugo, vittima di questa strategia soft; mi ha ricevuto proprio nel suo ufficio in Senato, perché essendo stato un colpo di Stato morbido non è stato né ammazzato né tradotto in carcere, ma ha mantenuto un posticino nella politica essendo stato cacciato da presidente. E mi ha detto di essere stato detronizzato nel momento in cui ha posto il problema della riforma agraria, fondamentale e di primaria importanza in tutti i Paesi latino-americani dove il latifondismo è importantissimo anche per la composizione della classe dominante».

Schermata 2016-04-29 a 19.12.42«Finché le vacche sono grasse–prosegue Marcelli–ci sono soldi da spendere, e possono essere dati dei soldi ai meno abbienti. Uno dei risultati positivi del PT è stato il fatto che la quota della popolazione in miseria in Brasile si è dimezzata: sono 36 milioni le persone che sono uscite dalla miseria. Con la crisi economica non ci sono più soldi da spendere, e non è un caso che l’accusa nei confronti di Dilma sia quella di aver truccato i dati fiscali. Mi colpisce il fatto che questi soldi Dilma li aveva spostati appunto per finanziare i programmi sociali, e ciò rende evidente il fastidio della destra che si domanda perché si continua a dare denaro ai poveri. Questa posizione porta a disastri sociali, perché venendo meno detti programmi, nel giro di pochi anni le persone povere aumenteranno vertiginosamente. Non voglio dire che questo Governo non abbia delle responsabilità, perché molte cose si potevano fare e non sono state fatte e il PT ha dovuto fare molti compromessi».

E ancora: «Un’osservazione interessante è che noi, come sinistra italiana, siamo sempre stati antipresidenzialisti, invece in America Latina c’è il paradosso che il sistema presidenziale più o meno d’imitazione statunitense porta a votare presidenti progressisti mentre il Parlamento è pieno di persone poco raccomandabili e di poteri forti. Il tema della riforma politica è stato posto da Dilma dopo la sua rielezione nel 2014 ed è proprio da quello che è partita la controffensiva. Bisogna far sì che i partiti siano davvero uno strumento di partecipazione democratica e popolare e non gruppi che fanno i propri comodi a spese dello Stato e del pubblico. Se ne può uscire con una mobilitazione popolare che in Brasile sta cominciando a venire fuori: questo golpe non può essere accettato passivamente, le piazze devono esser messe a sostegno della democrazia».     (ROMINA CIUFFA)

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Anche su SpecchioEconomico – Maggio 2016

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NICOLA CONTE: MA QUESTO È UN REGNO PIÙ CHE UNA CONTEA

di ROMINA CIUFFANicola Conte è uno dei produttori silenziosi del panorama italiano. Ma, in effetti, definirlo “silenzioso” e “italiano” non rende: infatti gli album da lui prodotti sono sempre stati all’apice della classe e della polivalenza, da Rosália de Souza a Chiara Civello, ed hanno sempre avuto l’internazionalità come trait d’union, come se questo metà-barese-metà-lucano avesse un Dna globalizzato molto prima dell’era di internet. Facile dire oggi “cavalco il mondo”, il cavallo di Conte era un pony dei primi anni 70 e sempre a quegli anni lui si è ispirato, dunque anche oggi la sua elettronica e le sue sonorità restano dei cavalli di battaglia degli anni d’oro della musica, quella fuori dai reality ma dentro la realtà. Wikipedia dice di lui “disc jokey”, e questa è l’orma più profonda della carriera di Conte, quella che lui schiaccia con vigore da sempre e che lo distingue. Ciò detto, non è solo il disc jockey a rappresentare la sua contea: chitarrista, produttore musicale, dalla bossanova al pop all’afro, oggi anche al crooning, non si è mai limitato (e dice che il suo non limitarsi costituisce anche un limite) all’Italia, che ritiene un luogo in cui l’impronta è meno evidente, ed ha mantenuto la sua visione globale nei secoli dei secoli della musicalità con la quale si è contraddistinto. Si è contornato di musicisti di ogni nazione, neri e bianchi (sono i colori che fanno l’arte), e ha creato un Combo, una band tutta sua che varia nei contenuti e nei componenti a seconda di chi e che c’è in giro, e dove lo porta il suo eclettismo.

Dal suo primo album Jet Sounds fonde  gli elementi propri del jazz con la club culture e dall’Europa parte alla volta dei club di San Francisco, Tokyo, Mosca; dal 2001 produce il primo album di Rosália De Souza (“Garota Moderna”), cui segue “Garota Diferente”, remix del primo: da DJ ha all’attivo oltre cento remix pubblicati. Collabora  con jazzisti del calibro di Gianluca Petrella, Fabrizio Bosso, Daniele Scannapieco, Rosario Giuliani, Till Brönner, Cristina Zavalloni, Nicola Stilo; è del 2008 l’album “Rituals”, nel quale incide due canzoni con Chiara Civello con la quale pubblica, di recente, Canzoni (vi cantano, in duetto con la Civello, anche Gilberto Gil, Chico Buarque, Ana Carolina, Esperalda Spaldin). Nel 2009 esce per Schema Records il doppio album “The modern sound of Nicola Conte – Versions in jazz-dub” con inediti e reworks, producendo anche il remix Tema de la Onda (Nicola Conte meets Aldemaro Romero). Nel 2010 esce per Edizioni Ishtar for Schema Records una versione rimasterizzata in 2 cd di “Other directions”, suo grande successo. Le altre novità e spezzoni della sua inesauribile vita me le racconta su Rioma. Perché qui si arriva a un regno, più che ad una contea. Rigorosamente ascoltare questo brano mentre si legge l’intervista.

Domanda. Quali sono le tue origini?
Risposta. Sono nato a Bari; mia madre è barese mentre mio padre è lucano di un paese in provincia di Potenza, Montemilone: sono metà barese e metà lucano. Mio padre andò a studiare a Pisa, quindi si trasferì a Bari per il suo lavoro di ingegnere, e fu a a Bari che conobbe mia madre. Così ho vissuto semre a Bari, tranne brevi periodi all’estero.

D. Su Wikipedia c’è scritto che sei nato a Bari nel 1964, “disk jockey e compositore italiano”.
R. Wikipedia forse lo scrivono le persone, e c’è una cosa che mi tormenta: parlano del fatto che le mie influenze sono le colonne sonore italiane, e indipendentemente dalla musica che suono sembra che abbia fatto sempre la stessa cosa, ma non è così.

D. Ma sei davvero un “disc jockey” o sei anche “altro”?
R. Per me la musica è legata al disco in vinile: sin da quando ero piccolo ho collezionato dischi. I miei hanno voluto che frequentassi l’università, ma mi ero così appassionato alla musica che per un periodo della mia vita, tra il liceo e l’università, l’idea che mi prendeva di più era quella di suonare il jazz nei club; io non sono mai stato un dj di intrattenimento e la mia idea era proprio quella di fare jazz, cosa che ho fatto quando a Bari è nato il Fez Club. Così scorse la mia vita negli anni immediatamente precedenti a quelli più “sperimentali”. Ma è dalle scuole medie che coltivo la mia passione per la chitarra, prendendo lezioni di chitarra classica.

D. Quindi, a dirla tutta, tu parti dal jazz e dalla chitarra classica, più che dal clubbing?
R. Sì, ma ho ascoltato di tutto. Moltissimo rock, anche quello degli 70; e frequentando come facevo amici più grandi di me conoscevo musica fantastica, “per adulti”. Poi ho lasciato completamente la musica, in parte per la questione dell’università, in parte perché nella mia famiglia non era ben visto che io suonassi. Così ho frequentato la Facoltà di Scienze Politiche, ma ho anche cominciato a fare il dj. La cosa è partita e mi sono concentrato su quello. Da lì sono arrivate le prime produzioni discografiche con i gruppi che facevano parte del giro del Fez Club; dopo qualche anno la scena del Fez cominciava ad esaurirsi, e decisi di produrre direttamente dischi a mio nome. Il primo che ho fatto, Jet Sounds, uscito nel 2000, è un disco da dj con dei campioni, lavorando con i musicisti presenti nella scena barese.

D. Come ha reagito il pubblico al primo album di Conte produttore?
R. È subito uscito in tutto il mondo, dall’America al Giappone, e naturalmente anche in Europa. Da quel punto in poi non mi sono fermato più, ho fatto moltissimi remix, fino a quando arrivò il disco, uscito sotto l’egida Blue Note: sto parlando di Other Directions, del 2004.
Nicola Conte Other Directions

D. È proprio il caso di dire “altre direzioni”.
R. La svolta c’era già stata, nel senso che avevo abbandonato i campioni ed un certo tipo di elettronica legata al genere musicale degli anni 60 e 70. Così alla fine è diventato un progetto live acustico, nel quale rimisi insieme tutti gli amici dell’ultimo periodo del Fez Club, tra cui Gianluca Petrella, Fabrizio Bosso, Rosario Giuliani, Lorenzo Tucci, Daniele Scannapieco, Pietro Lussu, Pietro Ciancaglini, Nicola Stilo, Pierpaolo Bisogno, Till Bronner, Cristina Zavalloni, Bembe Segue, Lucia Minetti, Lisa Bassenge. Con tutti questi nomi divenne un gruppo dal vivo, e iniziammo a fare concerti. Dovevo immaginare la mia presenza all’interno del progetto, e fu così che arrivò il momento di riprendere gli studi della chitarra e di carlarmi in questo tipo di realtà. Diciamo che dal 2004 a oggi è stata questa la cosa principale che ho fatto, anche se continuo a fare dj set.

D. Si può dire, allora, che in effetti è stata la tua componente DJ a spingerti oltre?
R. Una delle cose più importanti nella mia carriera è stata la fortuna di avere sin da subito un sound originale che ha influenzato molti altri, ed è quello che poi ho sempre cercato di mantenere durante il tempo, magari cambiando le forme espressive ma sempre cercando di avere come principale obiettivo quello della riconoscibilità. Il mio senso estetico si è formato negli anni, e la cosa che per me è stata sempre rilevante è il fatto che dietro il mio lavoro c’è un percorso intellettuale e culturale molto profondo. Ossia, conosco bene le cose che amo, le approfondisco continuamente e sono sempre alla ricerca di informazioni e di cose che non conosco. Questa per me è la mia evoluzione costante. E non essere mai contento di quello che faccio mi proietta verso quello che accadrà domani, in una ricerca continua.

D. La tua evoluzione dipende dalla ricerca costante, ossia dal tuo carattere; ma quanto dipende anche dagli altri, come produttore?
R. L’altra cosa molto importante per me, secondo la mia percezione, è quella di avere intorno a me persone che stimo moltissimo, non solo musicisti di alto livello ma anche amici, che dal punto di vista umano e non meramente musicale siano in grado di dare qualcosa. Se poi andiamo a vedere i musicisti presenti nei miei dischi, ci si rende conto del fatto che la mia idea di musica non può prescindere dalla grandezza degli interpreti: nel momento in cui si ha una visione musicale, bisogna anche essere capaci di trovare gli interpreti giusti. Cioé: anche questa è una ricerca continua.

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D. Parlando di produzione, Chiara Civello spicca tra le ultime collaborazioni: il 6 maggio 2014 è uscito “Canzoni” (distribuzione Sony Music), il nuovo album che per la prima volta la vede nelle vesti di sola interprete, 17 brani del repertorio italiano e un sound più internazionale e contemporaneo, che spazia dal blue eyed soul al jazz alla bossa nova, da te prodotto artisticamente alla guida di un team di musicisti di alto livello come lo svedese Magnus Lindgren al sax, il finlandese Teppo Makynen alla batteria, Luca Alemanno al basso, Pietro Lussu al piano, Gaetano Partipilo al sax alto e il chitarrista brasiliano, con Chiara sin dal primo disco, Guilherme Monteiro.
R. L’avventura con Chiara è stata molto stimolante fin dall’inizio. Innanzitutto amo molto Chiara, questo da sempre: credo che sia l’unica cantante italiana che abbia una dimensione internazionale, non solo per la bravura, ma per la sua stessa forma mentis.

D. Oltre a lei chi?
R. Ce ne sono altre che sono bravissime, seppure in una dimensione diversa, come per esempio Alice Ricciardi, cantante straordinaria, che ho inserito nel ruolo di voce jazz della mia band; ma ce ne sono anche altre, come Cristina Zavalloni. Si tratta di donne soprattutto di classe, con un grandissimo charme, e di artiste che non hanno scelto la strada più semplice.

D. E quale sarebbe la strada più semplice oggi?
R. È quella di fare dei mainstream, cioè di fare una musica pop pensata per l’Italia e che vive in Italia e basta; invece credo che per chi abbia veramente un grande spessore artistico l’Italia sia molto limitante, nel senso che oggi non puoi pensare di vivere il tuo percorso artistico a livello nazionale, io stesso me ne sono allontanato sin dall’inizio. Ovviamente questo per me in diversi periodi è stato anche un limite, nel senso che la musica che faccio, a seconda dei vari periodi, può aver avuto poco appeal in Italia, ma è stata una scelta consapevole e voluta.

D. La tua musica ha sempre avuto un sound molto diverso, molto straniero.
R. Sì, molto internazionale: mi sento cittadino del mondo e non riesco ad autoconfinarmi soltanto nella dimensione italiana. Questo da sempre, fin da quando ero piccolo: per esempio Londra per me è stato un polo di attrazione fortissimo fin da quando avevo 12-13 anni.

D. Cos’è il Combo?
R. Il Combo è il gruppo stabile che ho da oltre 10 anni, caratterizzato da una formazione variabile nel senso che non sono solo 5-6 persone, ma sono almeno 10-12. Ciò dipende dal fatto che ogni volta che vado in studio per le prove il gruppo si arricchisce di nuovi elementi perché, a seconda dei vari periodi e dei vari dischi, arrivano nuove personalità e la musica cambia anche in base a chi c’è in quel momento nel gruppo. C’è una dimensione del gruppo che è molto internazionale, a partire da Magnus Lindgren, sassofonista svedese, Logan Richardson afroamericano che vive a Parigi, quindi un trombettista tedesco ed un altro francese, e tutti gli italiani più bravi, da Fabrizio Bosso a Flavio Boltro e Giovanni Amato, e molti altri che continuano a ruotare. Ed anche se alcuni non suonano più perché sono legati a un determinato momento, ne arrivano degli altri, alcuni meno noti ma bravissimi, come ad esempio Francesco Lento. Anche di batteristi ne sono passati tanti, tra cui l’italiano Marco Valeri. Da circa 5 anni a questa parte la musica della band si è orientata sempre più verso un’ispirazione afroamericana ed è diventata molto più black, ad esempio con il percussionista Abdissa “Mamba” Assefa e la cantante americana Tasha. La musica ha dei colori, ed in base a quali colori e a quali sfumature prende in determinati momenti creativi cambia anche la conformazione del gruppo.

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D. Si dice che tu hai scoperto e prodotto Rosália de Souza: il suo primo disco aveva la sua voce, il secondo era un rifacimento del primo versione remix, da “Garota Moderna” a “Garota Diferente”. In tema brasiliano, da Rosália a Chiara quant’acqua sotto i ponti è passata? 

R. Ci sono molte affinità tra il progetto che iniziai con Rosália e quello con Chiara, però ci sono anche molte differenze nel senso che con Rosália c’era lei e basta, ho dovuto quindi costruire tutto il suo immaginario musicale in quel disco, e che tutt’ora rimane in lei. Quando poi  si creò un gruppo dal vivo per lei, io non entrai perché non era il mio gruppo: il mio gruppo non era ancora nato, stiamo parlando del 2001-2002, ma avevo una serie di musicisti che comunque lavoravano con me. Il suo gruppo durò un anno e mezzo, in quello che secondo me è stato il periodo artisticamente più felice per lei. Invece con Chiara il mio coinvolgimento è stato a 360 gradi, nel senso che è stato non solo immaginare un sound e crearlo in studio, ma riunire un gruppo di musicisti intorno a lei, in un’idea di disco che fosse diretta emanazione poi di concerti, un’esperienza per me molto bella perché io avevo sempre suonato la mia musica, da solo o con il mio gruppo, ed ho trovato interessante affrontare questo discorso facendo canzoni italiane e suonando insieme a lei con la band in una dimensione più pop rispetto a quello che avevo fatto fino ad allora. Anche se ovviamente l’idea di pop che abbiamo io e Chiara è comunque molto alta.

D. Progetti per il futuro?
R. Da circa tre anni sto lavorando a un progetto elettronico che si chiama Black Spirit, non è ancora uscito nulla ma abbiamo fatto dei live; oltre ad un amico Dj di Bari che proviene dalla tecno pura berlinese, sono coinvolt, Andrea Fiorito e Gianluca Petrella. Da questa idea ne sta nascendo un’altra, ancora con Gianluca Petrella e aggiungendo Giovanni Guidi. Ora ho prodotto il disco per un’amica che ho dai tempi del Fez barese, Stefania Di Pierro, dal titolo “Natural”, con brani in portoghese brasiliano, per l’etichetta inglese Far Out Recording (qui sotto per l’ascolto), e a settembre uscirà un album nero crooner (ndr: il crooner è un cantante che interpreta canzoni melodiche in chiave confidenziale) con Marvin Park: ne sono produttore e lavoriamo con il Combo. (ROMINA CIUFFA)

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GUI HARGREAVES: DA MINAS GERAIS HAIKU (俳句) E MUSICA, LA GRANDEZZA DELLA SINTESI EMOTIVA

di ROMINA CIUFFAGui Hargreaves è di per sé già un “Haiku”. Conciso, indipendente, fatto in una metrica magica, diversa. Il nome “Gui”, che proviene da Guillherme, già è dimostrativo della teoria della riduzione. Riportare al piccolo, alla minuscolinità. Più piccoli si è, più si entra nei luoghi e si ha modo di visualizzarli nella loro immensità. Conoscendo l’umiltà e disconoscendo la vanagloria. Così questo mineiro, che giunge oggi per pochi giorni in Italia a promuovere il suo primo, indipendente come lui, cd: un ep, ovviamente, disco “breve”, pochi brani per dare il senso della sua arte, della sua grandezza nel minimo delle parole necessarie ad esprimersi. Sensibilità alta, voce lucida, sensoriale attitudine. E poi, per stringere ancora: perché una band, quando si può fare un piccolo disco in piccolo? Da solo: voce e chitarra. Perché ne sia più facile la promozione, per non esser legato a qualcosa di troppo grande, ingestibile, per poter muoversi con facilità. Ma non da solo: piccolo non vuol dire solo. Per scegliere i brani ha messo a punto un evento, nel dicembre 2015, e vi ha convocato tutti coloro che lo hanno accompagnato nel suo percorso musicale, chiedendo loro di votare tra i brani da inserire. Pragmatico. Anche io lo contatto sapendo che è in Italia da sole poche ore e, in pochi minuti, pragmatico come un haiku, è da me. Dirompente come un haiku, che leggi una prima volta e da quella in poi lo si leggerà ogni volta differentemente tanto che – consiglio – si legga e ricordi il primo senso per poi confrontarlo con quello di una delle volte successive: ciò, a mio avviso, dà la misura della mutabilità della percezione sull’apparenza. Lo haiku (in portoghese haikai) – linguaggio sensoriale che cattura emozioni e immagini in una metrica dettata da “more” (non sillabe) – riesce a rappresentare, oltre alla magia della parola, la sensibilità di questo mineiro, che stringatamente è tutto: esplosione di gioia e nel contempo di forza, quella di un Leone (del 31 luglio) nato nell’inverno brasiliano del 1991, che al suo primo disco affianca il suo primo libro. Così escono Braseiro, l’ep, e Diminuto, il libro. Gui (si pronuncia “ghì”), a sfregio del suo complesso cognome, elimina fronzoli lessicali e retorica, e suggestiona in un batter di ciglio. In (poche) parole e in (molta) musica. In un mondo che corre ed è global, lui scrive: “Distanza – a millimetri siamo – a chilometri”.

Domanda. Quali sono le tue origini e le origini della tua musica?
Risposta.
Sono nato a Juiz de Fora, Minas Gerais, il 31 luglio 1991, vivo da sempre a Belo Horizonte, canto e ho studiato canto da piccolo, tanto che mi esibisco dal vivo da quando avevo appena 12 anni. Eppure ho cominciato a comporre solo a 20 anni, quando presi per la prima volta in mano una chitarra ed ebbi voglia di comporre e lavorare con la musica, interamente dedicandomi ad essa. Ho sempre cantato di tutto, ma non specialmente samba: eppure, una volta impugnata la chitarra, è arrivata la composizione del samba. Avevo già provato il violino senza grandi risultati, e studiato flauto dolce e trasversale: a 7 anni mia madre mi iscrisse a un corso di flauto e la mia insegnante riteneva strano che fossi più portato a comporre che a suonare il flauto. Verso i 20 anni, stanco di suonare la chitarra elettrica, ho preso l’acustica di mio padre, rendendomi conto solo allora di quale fosse davvero la mia passione: comporre con la chitarra.

D. Cosa ti ha portato in Italia e in che modo hai conosciuto Francesca della Monica, insegnante che da anni conduce una ricerca sulle diverse tecniche della voce, tradizionali e sperimentali, e, in particolare, quelle collegate alle notazioni non convenzionali della nuova musica?
R.
Ho cercato qualcuno che mi aiutasse a fare degli show, una persona che si occupasse della mia direzione artistica. Conobbi Francesca della Monica, che stava tenendo un corso di canto a Belo Horizonte, e cominciai a studiare con lei. È lei la ragione per cui sono qui in Italia. Lavora molto in Brasile ed ogni volta che viene la seguo per imparare da lei. A settembre scorso abbiamo fatto una settimana intera di lezioni intensive a San Paolo, e approfondito il mio modo di comporre, parlato molto per confrontare le nostre idee e opinioni sulla mia carriera e la mia musica. Così mi ha invitato in Italia.

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D. In Italia, dove ti trovi al momento, quali sono i programmi: un tour, lezioni, turismo o che altro?
R.
Non ho in mente un vero e proprio tour, nel senso di concerti pianificati. A Roma ho suonato al Contestaccio, mentre venerdì 8 aprile è il turno di Ostia al locale Jolie, all’interno del Cineland; poi sarò a Firenze, quindi mi trasferirò un mese a Siracusa dove, grazie a Francesca, ho trovato una residenza artistica, e dal 20 aprile vi trascorrerò un mese intero. Quindi tornerò a Roma per poi ripartire per San Paulo e BH.

D. Residenza artistica: di cosa si tratta?
R.
Si chiama Moon, acronimo di Move Ortigia Out of Normality, e suonerò lì dove anche risiederò fino a fine maggio, in uno scambio di arte e cultura.

NDR: Moon nasce per dare un palcoscenico all’arte con una telefonata. Luogo fisico, centro culturale, bar, bistrot, laboratorio di danza, teatro e auditorium, spazio espositivo, luogo di incontro. Concreto e virtuale. Rivista web, spazio digitale, crocevia di informazioni, arti, culture, saperi.  Una comunità di soggetti che desiderano condividere visioni, progetti, idee, proposte e azioni. Una piattaforma di creazione collaborativa di contenuti che connette persone, progetti e iniziative dedicati all’innovazione artistica, culturale e sociale. Ha sede nell’isola di Ortigia, nell’antica città greca di Siracusa, luogo unico, cuore pulsante di storia e tradizioni siciliane e mediterranee, e vuole dialogare con le persone che lo amano e vengono qui da tutto il mondo. È anche la luna, e un punto di vista originale sulla realtà che ci circonda, perché la Terra vista dalla Luna è diversa. Promuove la libera circolazione dei saperi, propone le arti come luogo del cambiamento e della condivisione, incoraggia stili di vita ecologici e sostenibili a partire dall’alimentazione, offre spazi di confronto, studio e coworking, invita alla partecipazione dei cittadini, incentiva la cura e lo sviluppo dei beni comuni, diffonde l’uso del digitale a fini artistici e sociali, accoglie i creativi di ogni campo per collaborare, produrre e diffondere.

ba1b7eb9b8ad142948e3b9dce300b4c6_L copiaD. Sei anche un poeta, specializzato nella forma letteraria dell’Haiku. Scrive nell’orecchia del tuo ultimo e primo libro “Diminuto” Laura Cohen Rabelo: “È possibile leggere un libro di poesie come leggere un romanzo, percorrendo le pagine dall’inizio alla fine, identificando in esso una narrazione unica suddivisa in capitoli. Un insieme di poesie può essere letto anche per consultazione, come un oracolo o un manuale di istruzione – apriamo il libro ad una pagina qualunque alla ricerca di un significato -. Il libro può anche esser letto dalla fine, o in direzioni aleatorie, perambulando tra le pagine (…). I libri di poesia si trasformano così in una specie di antidoto ad ogni situazione, come nella Teogonia di Esiodo la musa canta per fermare mali e afflizioni. Di fatto, chi vede il poeta mentre scrive crede nel poderoso canto della musa: come fosse posseduto da una voce esteriore lui prende un quaderno e vi annota un’idea urgente. Da questa idea sorge una poesia. Nonostante la sua componente magica, il processo di costruzione del libro ‘Diminuto’ è stato un lavoro complesso e lento., cominciato con Guillherme che scriveva incessantemente, fino a comporre circa una cinquantina di haiku, sempre contando nelle dita le corrette misure delle sillabe (…)”. Perché l’haiku? Come lo hai scoperto?
R.
Sì, scrivo anche poesia e ho lanciato il mio primo libro nel 2014, “Diminuto”. Ad esso mi sono dedicato attraverso lo studio della forma dell’Haiku. Non ero ancora felice del risultato delle mie poesie come le avevo scritte a primo completamento del libro, bensì ero contento nel momento che fossero ridotte. Così decisi di far “dimagrire” questo libro, e mi ricordai del primo poema che scrissi quando avevo 12 anni in una corso di Haiku fatto quando andavo a scuola a Belo Horizonte, tenuto dal poeta Renato Negrão. Mi ricordai di questo:

Haiku

E decisi di scrivere un libro di Haiku. Un biglietto da visita per i  libri che ho intenzione di scrivere. La scrittrice Laura Cohen Rabelo, mia amica, stava formando una società con una casa editrice, la Impressões de Minas, creando una collana chiamata Leme, e cercavano il primo libro da pubblicare.

D. Lo haiku (俳句) è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo, generalmente composto da tre versi per complessive diciassette “more”, non sillabe, secondo lo schema 5/7/5. Il tuo libro si chiama “Diminuto”: cos’è per te??
R.
In questo movimento di taglio e ricomposizione, le poesie diminuite riescono a creare il massimo senso con il minimo di parole. Leggere una poesia per la prima volta non è come leggerla la seconda o la terza, e nonostante abbia convissuto con questo libro in un lungo processo temporale, resta per me sempre una cosa nuova: un colpo, un brivido, una paura, una bugia, una verità, calore nel cuore.

D. Nella poesia lo haiku, e coerentemente nella musica l’ep, ossia un “piccolo album”. Si chiama “Braseiro”, ossia brace. Qualcosa che cuoce, che brucia, che si mangia. Perché?
R.
Avevo questa immagine in testa, volevo lanciare un messaggio conciso e coerente, con forza sufficiente per significare qualcosa anche nella sua piccolezza. Inoltre assomiglia alla parola “Brasile”, ed è l’idea di un piccolo Brasile che sto portando con me, fuori. Cercavo canzoni da incidere tra le moltissime mie. Ho scelto di pubblicarle solo chitarra e voce per poter muovermi facilmente nella promozione, senza una band che dovesse sempre accompagnarmi.

D. Come hai scelto, tra i tanti, i brani da inserire in questo ep?
R.
Lo scorso dicembre ho fatto un evento in BH con le persone che mi hanno accompagnato maggiormente in questo mio viaggio musicale, in uno show con oltre 15 canzoni dopo il quale ho chiesto loro di scegliere 6 canzoni che avrei inserito nell’ep, come una votazione. Le preferite sono state le 6 che ho inserito: Na bera, Recado, Praia do futuro, Ponte do Zamba, Rosa Verão. Ho solo ritoccato l’ordine.

D. Che genere di musica è inserita nel tuo album?
R.
Sono polivalente, mi piacciono il rock, la classica, l’elettronica, il tropicalismo, la bossa. Ma non perché siano brani chitarra e voce che possono essere inseriti nella bossanova: sarebbe come dire che un pittore di oggi è modernista solo in quanto è moderno. C’è una scena molto grande in Brasile che ancora non ha un nome, e molti vi si stanno riferendo già come ad una “nuova MPB”. Questo nome comunque ancora non c’è, o non è ufficiale. In ogni caso sono anch’io parte di quella generazione che si include in questo movimento artistico.

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D. Che rapporti hai con l’Europa, con l’Italia?
R.
Madre di origine inglese, da cui il mio cognome Hargreaves, padre di origine italiana, di Cuccaro Vetere in provincia di Salerno. Da giovane ho studiato in Inghilterra, e lì ho potuto avvicinarmi alle mie origini materne. Volevo ricercare le mie origini e mi mancava la seconda parte, quella italiana. In questo mio viaggio, voglio trovare il tempo per andare a Cuccaro Vetere a fare  un salto nel trascorso della mia famiglia paterna.

D. A chi ti ispiri?
R.
È la domanda pù difficile. A questa non so mai rispondere, ma dirò che un’influenza l’ho avuta da Ryuichi Sakamoto, Nana Caymmi, Gustav Malher, Frank Sinatra. Imitavo Sinatra da quando avevo 5 anni. A 7 anni ero a dormire a casa di un compagno di classe e, durante la notte, andai in cucina a prendere un bicchiere d’acqua; i genitori del mio amico stavano guardando il Tg, che riportava della morte di Frank Sinatra. Mi cadde i l bicchiere dalle mani e mi misi a piangere. Dovettero chiamare i miei genitori e dire che non la smettevo più, solo perché era morto Frank Sinatra.

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FRA SIDIVAL FILA, NOMEN OMEN: FILA, TESSE E PREGA NELLO STUDIO PIÙ BELLO DEL MONDO

Schermata 2016-03-24 a 19.21.47romina ciuffa

Nomen omen. Sidival Fila fila. Ed è il suo quello che è stato definito «lo studio più bello del mondo»: lo è. Uno studio metafisico, immerso nella romanità più pura, dove a 360 gradi si vede il mondo, si sovrastano il Colosseo e tutti gli imperatori, raggiungibile solo camminando lungo la Via Sacra. Sito all’ultimo piano del convento di San Bonaventura, immerso nel verde, vasti giardini ed albe e tramonti che porterebbero chiunque ad una spiritualità superiore. Infatti Sidival è, innanzitutto, un uomo di religione: un frate. Ma la sua spiritualità, la vocazione, l’ha ricevuta prima di conoscere Bonaventura, comunque dopo essere giunto, con un aereo da San Paolo, a Roma, per compiere il suo più grande sogno: visitare Parigi e conoscere il Novecento francese. A Parigi non è mai arrivato: Roma lo ha fermato vincolandolo misticamente alla sua eternità.

Schermata 2016-03-24 a 19.21.53Per raggiungere il grande tavolo da lavoro, dove fra Fila fila, egli deve compiere molte scale, agguantato da una maglia di divinità ed antichità. I suoi pezzi sono tessuti sulle tele che le famiglie conservano nei cassetti della nonna, e che gli portano come gli portassero non solo gioielli di casa, ma i propri stessi antenati. Quelle grandi tele anticamente usate nelle sartorie, o come tovaglie, lunghe decine di metri: le prende e da esse tira fuori opere d’arte unica. Perché contengono la storia affettiva di intere generazioni, le aspettative di nozze novecentesche, i traumi delle guerre. Ne ricava grandissimi o minuscoli quadri, molti dei quali, cambiando la luce che vi è proiettata, cambiano magicamente il disegno. Proprio come nell’odierna tecnologia Fila è riuscito, con le sue sole mani e la sua tecnica, più unica che rara, a rendersi programmatore 3D di una sapiente arte mistica, monocromatica e nel medesimo tempo cangiante, immobile ma nel contempo in pieno dinamismo, giochi di ombre che rendono un colore mille colori, tessiture accartocciate, piegate, ondulate, alterate, ferite. Come in un quadro di realtà virtuale.

Si ispira ai suoi Lucio Fontana, Enrico Castellani, Alberto Burri, ma è Giotto, l’allievo che supera il maestro: e se non lo supera, se ne distacca e crea la propria unicità amanuense. La spiritualità che esce da questo certosino, infinito lavoro, si estende ed abbraccia tutto il Colle Palatino, la storia del mondo, la storia privata di ciascuno di noi. Ecco perché, prima di tutto, Sidival Fila è un frate, e prima ancora era un uomo che si è convertito una volta conosciuta Roma e che ha messo da parte l’arte. Impara l’arte e mettila da parte, poi torna da lei una volta pronto. E, quando ha imparato da Dio ad amare il pragmatismo umano e si è convertito, ecco tornare l’arte. Sant’Ambrogio scrive: «Non credere, dunque, solamente agli occhi del corpo. Si vede meglio quello che è invisibile, perché quello che si vede con gli occhi del corpo è temporale; invece quello che non si vede è eterno. E l’eterno si percepisce meglio con lo spirito e con l’intelligenza che con gli occhi». Dice Sidival: «Arte e preghiera sono il luogo della lotta, della fatica dove l’uomo si misura con l’oltre da sé, e questa distanza incolmabile è sorgente di sofferenza e fatica. Spesso invece si intende che l’arte sia evasione o gioco, e la preghiera fuga dalla realtà. Ma un rapporto si costruisce nella fatica, nella diversità di chi vuole dialogare, così nella preghiera».

Sidival Fila Romina Ciuffa

Nato in Brasile nello Stato del Paranà nel 1962, già da adolescente si appassiona alle arti plastiche, prediligendo la pittura. Ama la tradizione medievale trecentesca, rinascimentale e barocca, ma si sente personalmente attratto dai moderni, dall’impressionismo e dal cubismo. Trasferitosi a San Paolo per gli studi, frequenta spesso i musei di questa città e dipinge guardando soprattutto ai movimenti artistici del primo Novecento europeo. Nel 1985, alla ricerca della sua identità artistica e personale, Sidival si trasferisce in Italia per approfondire la sua conoscenza della pittura e della scultura. Dopo qualche anno dal suo arrivo e varie esperienze lavorative, deciderà di ascoltare la sua vocazione alla vita religiosa, abbandonando così tutti i suoi progetti personali, ed entrando nell’Ordine dei Frati Minori di San Francesco d’Assisi. Nel 1999 è ordinato sacerdote a Roma, dove esercita il suo ministero al Policlinico Agostino Gemelli, al carcere di Rebibbia come volontario, in seguito nel convento di Vitorchiano e in quello di Frascati.

Per diciotto anni non si dedicherà più all’arte.

Gradualmente, attraverso piccoli lavori di restauro, si riavvicina all’arte. Nel 2006 ricomincia a dipingere, guardando specialmente l’Action Painting di Jackson Pollock, e sentendo affinità con l’arte informale europea e con lo Spazialismo. In questi primi anni di «vita nuova artistica», crea opere di grande intensità e rigore formale, tutte realizzate grazie al recupero di materiali poveri oppure obsoleti: carta, legno, tele, vecchie tele e stoffe, svariati metalli, materassi consunti, gesso. Nel 2007 realizza una prima mostra personale nel convento San Bonaventura di Frascati. Nel 2009 viene presentata a Roma per la prima volta con una piccola personale nella galleria Le Passage du Russie, presso il medesimo Hotel, che attira sul suo lavoro curiosità e attenzione da parte del mondo artistico della capitale. Attirando anche un collezionismo estero che lo porta a Monaco, nella Galerie du Gildo Pastor Center con la mostra «L’Eloquence de la Metiere». È invitato inoltre nell’ambito della manifestazione «Life in Gubbio», ad esibire le sue opere con la personale «Oltre la trama»; tre sue opere sono i premi assegnati dalla manifestazione rispettivamente a Dario Fo per la letteratura, a Gigi Proietti per il teatro e a Nicola Piovani per la musica.

Tra le più importanti collettive è invitato, nel 2010, alla mostra «Trasparenze: l’Arte per le energie rinnovabili» presso il Macro Testaccio di Roma (in seguito approdata a Napoli presso il Madre, Museo d’Arte Donna Regina), dedicata allo sviluppo sostenibile e all’impegno per riscattare il pianeta dal degrado ambientale; nel 2011, alla mostra «Lo splendore della Verità, la bellezza della Carità, Omaggio degli artisti a Benedetto XVI per il 600 di sacerdozio», a cura del Pontificium Consilium de Cultura. Nel 2012 la Galleria Ulisse dedica la mostra «Dittico sull’orlo dell’infinito» ad Agostino Bonalumi e Sidival Fila e molte sue opere fanno parte di una personale, «Le pieghe della luce», nello spazio ex Gil di Roma. Nel 2014 è invitato a partecipare al progetto «Atelier d’artista» della Galleria nazionale d’Arte moderna e contemporanea (Gnam) di Roma con un video permanente che presenta il suo lavoro artistico. Le sue opere fanno parte di importanti collezioni private in Francia, nel Principato di Monaco, in Svizzera, in Brasile e a New York. In Italia sue opere sono presenti, ad esempio, nella collezione della Fondazione Puglisi Cosentino di Catania e nella Collezione d’Arte contemporanea dei Musei Vaticani.

Sidival Fila sembrerebbe nato per questo, fila come il suo nome. «Il cielo si apre su Roma e continua a gridare – qui devono reiniziare i colori» (Davide Rondoni). Pregando.

Schermata 2016-03-24 a 19.22.48Domanda. Perché l’Italia?
Risposta. Sono venuto in Italia nel 1985 attratto dalla cultura italiana, ma soprattutto dalla cultura europea. In realtà l’obiettivo del mio viaggio europeo era la Francia. Ho sempre ritenuto che quello che è stato il Rinascimento in Italia nel Cinquecento, è stato il Novecento in Francia per l’arte moderna. Il tutto senza grosse ambizioni: volevo soltanto vivere e stare qui in questo ambiente culturale. Ma arrivai a Roma e me ne innamorai. Il primo volo fu una rotta San Paolo-Roma, e il paradosso è che a Parigi non sono ancora mai stato, dopo oltre 30 anni.

D. Roma è la capitale della religione. C’entra qualcosa con la sua conversione?
R. In realtà venni in Europa per lavorare, non ero religioso né pensavo a questo. Stando in Italia dopo circa un mese trovai lavoro prima in un piccolo ristorante, poi in un locale al Gianicolo, infine in un bar brasiliano di Trastevere. Avevo 23 anni.

D. E quando è avvenuta la vocazione?
R. All’età di 25 anni ho avuto la vocazione, mi sono riavvicinato al cristianesimo per poi trovare in questo riavvicinamento il desiderio della vita in un convento.

D. Come è avvenuto questo?
R. Ho preso contatto con una parte di me che non funzionava, non è successo nulla di esterno. Sebbene la mia vita fosse in sostanza felice, sentivo che in una parte di me portavo la morte dentro, e questa morte era proprio la distanza nel rapporto con Dio. In questa mia prima parte di vocazione c’è stato un cambiamento radicale in cui ho vissuto l’esclusione di tutto quello che secondo me non era Dio, sono entrato in convento e ho dovuto lasciare da parte i miei progetti personali, soprattutto l’arte.

D. In che anno è entrato in convento?
R. Nel 1990. Poi sono state diverse le tappe formative: sono stato a Vitorchiano e a Frascati, quindi da Frascati sono venuto a Roma, a San Bonaventura, poi al Gemelli e da lì un’altra volta a Vitorchiano, poi di nuovo Frascati. È stato un percorso personale e spirituale molto lungo nella prima fase, mentre nella seconda fase sono divenuto formatore.

D. Quando si è avvicinato all’arte?
R. Nel 2005, quasi per gioco e per il desiderio di ammirare i quadri di Van Gogh e guardare film su Jackson Pollock e sulla sua tecnica, sempre portando avanti i miei impegni religiosi come formatore. Il mio riavvicinamento all’arte è avvenuto senza pretese e senza nessun progetto, era piuttosto un mio bisogno personale quello di contattare la mia parte artistica conciliandola con gli impegni religiosi.

D. Come riesce a conciliare le attività religiose con la sua arte?
R. Il mio lavoro artistico è fatto principalmente dopo cena, dedicando all’arte gli ultimi rimasugli di energia spesi durante tutta la giornata. Ciò potrebbe sembrare controproduttivo ma è proprio questo che mi rende contemporaneo: tutti i nostri contemporanei sono stressati, hanno poco tempo libero e sono tirati a destra e a sinistra ma devono anche sopravvivere in questo caos, e anch’io mi sento contemporaneo perché, come le altre, la mia vita è fatta di lacerazioni che ricadono, e si riflettono, nello stesso mio linguaggio, in quello che io faccio, in quello che io sono. Il tempo che impiego per andare negli ospedali lo potrei usare per l’arte, ma quando vado negli ospedali nutro il mio essere e questo nutrimento poi diventa la mia arte. Non si possono scindere queste due cose, anche perché altrimenti rimarrebbe solo tecnica artistica, e non emozioni di vita vissuta.

D. Come ha vissuto la religione in Brasile?
R. Da ragazzo frequentavo la chiesa come chierichetto, ma non per esperienza personale quanto per tradizione e per cultura, anche se io credevo in Dio, quindi andare in chiesa era un modo per espletare il senso della ritualità senza esprimere in alcuno modo un linguaggio personale. Con la conversione invece ho scoperto tale modalità e l’Italia mi è stata d’aiuto, poiché ho trovato il linguaggio con cui esprimermi anche attraverso la vita del convento, del ritiro, della storia, dell’eremo, dei monumenti storici, dell’arte. Sono stato molto aiutato nella mia conversione dalla cultura che ho acquisito in Italia e che anche mi ha permesso di divenire me stesso.

D. Com’è vissuto in Brasile il cattolicesimo?
R. Dal punto di vista dottrinale è uguale, il patrimonio della fede e quello religioso è lo stesso. C’è solo un ambiente più protestante, ma non inteso come protestantesimo storico europeo bensì come una grande varietà di letture e di interpretazioni difficilmente conciliabili tra loro; invece nel protestantesimo europeo ci sono dei punti in comuni con la chiesa. Forse in Brasile non c’è il retaggio culturale e il peso religioso che c’è in Europa, e quindi la religione si riversa più sul sociale e sulla gente; in Brasile c’è una «leggerezza religiosa» diversa anche perché la storia del Brasile stesso è diversa e il peso culturale della religione è molto più ridotto.

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D. Da quanto manca dal Brasile?
R. Ci sono stato pochi mesi fa, ma non ci andavo da 4 anni. Io vivo dove sto, quando vado in Brasile mi sento a casa ma quando sono qui non ci penso.

D. Altre esperienze al di fuori dell’Italia?
R. Sono stato in Mozambico, in Jugoslavia; poi prima di entrare in convento sono stato in Spagna, Grecia, Austria, Svizzera, Inghilterra, Germania.

D. Sono stati viaggi in ambito religioso?
R. In realtà culturali, perché in Inghilterra e in Germania sono andato per imparare la lingua, ma ero già frate.

D. Cos’è un frate rispetto a un prete?
R. Il frate di per sé è un religioso che conduce una vita religiosa, mentre il prete è autorizzato al ministero sacerdotale. Poi un frate può diventare frate-sacerdote, che è il mio caso.

D. Il suo è considerato «lo studio più bello del mondo». Come si è trovato qui?
R. A settembre saranno 8 anni dal mio arrivo a San Bonaventura, per il trasferimento da Frascati dovuto al lavoro che facevo al Gemelli; anche il convento di Frascati è dedicato a San Bonaventura, ed hanno lo stesso santo protettore, ma il convento romano è stato fondato da Beato Bonaventura da Barcellona, mentre l’altro, quello frascatano, da San Bonaventura da Bagnoregio. Qui da noi, sul Palatino, c’è attività pastorale giovanile e vocazionale e vengono molti giovani da fuori per i corsi di formazione.

D. Che tipo di corsi di formazione?
R. Per esempio sacra scrittura, francescanesimo o maturità umana.

D. Non solo corsi vocazionali dunque?
R. Esatto, sono corsi spirituali aperti a tutti i giovani suddivisi in due ambiti: uno specifico per la formazione dei giovani e uno specifico vocazionale, che consentono in questo modo un approccio costruttivo verso la fede. Io non ho rapporti diretti con i giovani perché la mia funzione qui è essere tutore della chiesa per i matrimoni e per la manutenzione del convento, però ho un gruppo di terziari francescani che hanno scelto di dedicare la propria vita alla spiritualità di San Francesco essendo però laici, alcuni di loro sono anche sposati.

D. Cosa faceva al Gemelli?
R. Per tre anni sono stato il cappellano del Gemelli ed ero residente lì, poi sono stato trasferito qui ma al Gemelli andavo comunque tutti i giorni facendo il pendolare. Poi per 4 anni, dal 1999 al 2001, ho prestato le mie funzioni nel carcere di Rebibbia e ci andavo tutte le domeniche come volontario.

D. Come mai ha a disposizione questo studio e queste belle sale?
R. In questo spazio prima c’era una biblioteca seicentesca che, per lavori di consolidamento, è stata smantellata e portata in un altro convento. Questo spazio di conseguenza non era più agibile e per 5 anni è rimasto vuoto e inutilizzato. Il Provinciale che mi ha mandato qui mi ha appoggiato in questa mia vita artistica, dato che conciliavo l’arte e la fede, e voleva che continuassi con questa mia attività, così mi ha assegnato lo spazio nel piano terra che era molto più piccolo. Quando ho dovuto togliere i quadri dallo studio nel piano terra perché doveva essere usato per altre cose, li ho appoggiati qui sopra dove noi siamo adesso. Allora questo era un magazzino, poi piano piano mi sono organizzato e adesso è diventato il mio studio. Con i nostri risparmi siamo riusciti a fare dei piccoli interventi e mentre i quadri sono partiti in Francia per una mostra a Lille, a febbraio di quest’anno, ed altri sono stati trasferiti a gennaio per una mostra nella Galleria Portinari dell’Ambasciata brasiliana a Roma, in Piazza Navona, ho colto l’occasione insieme ai ragazzi di imbiancare tutto e mettere la luce.

D. Dove si trovano ora quei quadri?
R. A Lille, ospitati in una mostra molto importante finanziata dal Ministero della cultura francese nel Centro nazionale di ricerca, arte e cinema contemporaneo. La mostra è visitabile fino all’8 maggio prossimo.

D. Oltre a ispirarsi allo Spazialismo e a Pollock, come è arrivato a fare «arte tessile»?
R. Lavorando sulla materia, sui colori, sul recupero di oggetti di modo che la materia fosse molto eloquente e presente; nelle mie opere di transizione mi sono reso conto che le «canalette», ossia i solchi cuciti nella stoffa che avevo costruito si stavano allentando, e per evitare ciò ho cucito le canalette. La materia diventava così molto espressiva e rudimentale, creavo una forma che mi interessava ed ho così cominciato a creare quadri con delle grosse cuciture più in funzione della forma che della poetica che vuole esprimere l’opera. Ho poi avuto modo di approfondire questo processo di sviluppo che permette di creare uno stile che sia soltanto mio, perché come ricerca non c’è nulla di simile, anche se il filo è un materiale molto impiegato da diversi artisti. Quindi, da un concetto espressivo e materico ho fatto la ricerca sulla luce, sul colore, sulle vibrazioni cromatiche, sulla tridimensionalità: i miei quadri diventano ologrammi a seconda di dove colpisce la luce. Ed è proprio questo che stupisce la gente che guarda le mie opere. Siamo abituati, con i computer, a vedere delle trasformazioni spaventose, ma quello che meraviglia le persone è vedere un materiale che è tradizionale, fatto a mano con una tecnica artigianale, che ha però in sé le caratteristiche della tecnologia; quindi l’ambito particolare della mia ricerca è quello di creare una tridimensionalità cromatica e un’astrazione del colore.

D. Questi quadri hanno committenti ed un giro economico?
R. Sì, sono opere che stanno entrando nelle collezioni internazionali.

D. Le quotazioni dei suoi quadri sono alte?
R. Dipende dall’opera, possono arrivare anche a 70 mila euro.

D. E come vengono usati i soldi ricavati dalla vendita?
R. I soldi che rimangono a disposizione, a dire il vero, sono molto pochi, perché più della metà del ricavato va a pagare le tasse allo Stato. Il restante va al mantenimento del convento e a vari progetti di beneficenza per i bambini del Terzo mondo. Ne abbiamo vari e siamo impegnati su più fronti. Purtroppo l’Italia non aiuta, con la tassazione.        (Romina Ciuffa)

riproduzione riservata rioma brasil
foto GIOSETTA CIUFFA
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Anche su Specchio Economico – Aprile 2016
www.specchioeconomico.com
(nello sfondo della copertina di Specchio Economico, un’opera di Sidival Fila)

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AMBASCIATORE CELSO AMORIM: BRASILE, DAL MEDIORENTE ALL’EUROPA PASSANDO COME MINISTRO DI FRANCO, LULA E DILMA

Uno degli uomini che ha fatto la storia del Brasile: proveniente da Santos (San Paolo), ma residente a Rio de Janeiro, Copacabana, una carriera prima accademica come professore di lingua portoghese per l’Istituto Rio Branco e di Scienze politiche e relazioni internazionali per l’Università di Brasilia, oltre che membro dell’area Affari internazionali dell’Istituto di Studi avanzati dell’Università di San Paolo; quindi una carriera cinematografica che lo porta a capo dell’Embrafilme, impresa statale, come direttore generale, ma anche cineasta; è però chiamato, e per due volte, a svolgere l’incarico di ministro degli Esteri: dieci anni, di cui due sotto il presidente Itamar Franco, otto sotto «Lula». Quindi ministro della Difesa con Dilma Rousseff, ed ambasciatore. Oltre che scrittore (tre libri: «Conversa com jovens diplomatas» (2011), «Breves narrativas diplomáticas» (2013), e l’ultimo, recentissimo «Teerã, Ramalá e Doha – Memórias da Política Externa Ativa e Altiva» (2015), ha ricevuto il premio «Bravo Business» dalla rivista «Latin Trade» nella categoria «leader innovativo dell’anno» ed è stato definito da David Rothkopf, sulla rivista americana «Foreign Policy», il «miglior ministro del mondo». È Celso Amorim.

Domanda. Se fossi una studentessa di diplomazia, come mi insegnerebbe le relazioni internazionali?
Risposta. Direi innanzitutto di leggere i miei libri, perché in essi ho definito le priorità della politica estera brasiliana negli anni in cui sono stato ministro, soprattutto quelli in cui ho ricoperto tale incarico per il presidente Lula. Parlo delle relazioni del Brasile con l’America del Sud, ma anche con altri Paesi in via di sviluppo come l’India, il Sud Africa, della creazione del gruppo dell’Ibas, del Brics, dei rapporti del Brasile con i Paesi arabi, delle nostre iniziative o partecipazioni ad iniziative relative al Medioriente, del programma nucleare iraniano, in generale di tutti i temi più rilevanti quali le relazioni commerciali globali nell’ambito dell’Omc, l’Organizzazione mondiale del commercio, in cui il Brasile ha avuto un ruolo predominante soprattutto in un certo periodo di tempo. È tutto scritto lì.

D. È uscito di recente il suo ultimo libro, «Teerã, Ramalá e Doha: Memórias da Política Externa Ativa e Altiva» («Teheran, Ramallah e Doha: memorie della politica esterna attiva ed alta», dove «altiva» è sinonimo di elevatezza).
R. È diviso in tre parti, ossia tre racconti diplomatici. Il primo è incentrato sulla Dichiarazione di Teheran del 17 maggio 2010 attraverso la quale Brasile e Turchia si sono resi protagonisti dell’accordo con l’Iran per lo scambio di uranio in relazione al programma nucleare, rispondendo ad una sollecitazione iniziale dei Paesi occidentali. Il secondo riguarda Ramalà, un simbolo per indicare il nostro avvicinamento ai Paesi mediorientali e principalmente arabi, ma anche la partecipazione ad iniziative legate alla pace tra Palestina e Israele insieme al riconoscimento, da parte del Brasile, dello Stato palestinese; da cui il titolo «Ramalà», che vuole essere una sintesi di questo procedimento, giacché è Gerusalemme ad esser considerata la capitale, non Ramalà, che invece è la sede amministrativa del Governo palestinese. Il terzo racconto riguarda Doha, la terza capitale del Medioriente, con la quale il Brasile ha rapporti commerciali molto intensi ed io particolarmente ne sono stato molto coinvolto durante i miei incarichi governativi. Nel caso di Doha inizialmente ero ambasciatore del Brasile nell’Omc, poi ministro degli Affari esteri ma anche capo delle delegazioni brasiliane nelle relazioni commerciali. Uno dei passi più significativi della Dichiarazione di Doha che fece partire le negoziazioni era stata la Dichiarazione sulla proprietà intellettuale e la salute, la quale concesse flessibilità ai Paesi in via di sviluppo per la produzione di medicine generiche, e riuscimmo ad ottenere un abbassamento dei prezzi per malattie come Aids, tubercolosi, malaria ed altre; partecipai alle varie trattative in tema di sussidi agricoli ed altre questioni di interesse del Brasile e di altri Paesi, e creammo a quel tempo un G20, differente da quello dei leader, che ebbe molta influenza nelle negoziazioni che, se prima erano incentrate solo sui Paesi ricchi, divennero appannaggio anche dei Paesi in via di sviluppo. In generale i tre temi del mio libro costituiscono la sintesi di ciò che un Paese definito emergente è riuscito a fare in otto anni di Governo. L’unico tema veramente importante che non ho inserito in questo libro è l’America Latina, invece presente in altri libri che ho scritto sul Sud America.

D. Cosa pensa della situazione che oggi vede il Medioriente protagonista nella scena globale e, soprattutto, occidentale?
R. È una situazione molto complessa. Oggi il grande tema è, senza dubbio, quello della Siria e dello Stato islamico. Credo che il lato positivo sia nella sopravvenuta consapevolezza che per la negoziazione sia necessaria la presenza di tutti gli attori principali per l’accordo nucleare con l’Iran, includendo l’Iran stesso: il fatto che ci sia un dialogo è una cosa nuova. La questione mediorentale è anche legata a quella dell’immigrazione verso l’Europa, pertanto è un tema che ha ripercussione sugli europei, ma ciò che spesso le persone dimenticano è che assume centralità la questione della Palestina e che la non-soluzione del problema palestinese finisce per generare frustrazioni e risentimenti che producono situazioni come quella che stiamo vivendo ora. Ovviamente è un problema complesso che non può essere ridotto a unità, ma indubbiamente si è andato generando un sentimento di alienazione in gran parte dei cittadini degli Stati arabi e di quegli arabi che sono residenti in Europa, ciò causando le conseguenze che ben conosciamo.

D. Il presidente Dilma Rousseff aveva dichiarato di esser pronta ad accogliere, in Brasile, i rifugiati provenienti dall’Europa e dai Paesi dai quali fuggono, generando anche delle polemiche a riguardo.
R. Il Brasile ha una tradizione di accoglienza, anche prima degli attacchi di Parigi eravamo flessibili rispetto all’entrata di rifugiati in particolar modo provenienti dalla Siria. Il nostro è un Paese di immigrazione, che ha, tra siriani e libanesi, probabilmente 10 milioni di residenti. Abbiamo sempre accolto rifugiati, siano politici siano economici, come, nel caso europeo, spagnoli, portoghesi, italiani ed altri.

D. Discorso a parte merita il caso Battisti, condannato con sentenza passata in giudicato per 4 omicidi a due ergastoli; problema di differente natura quello della sua estradizione, che però in comune con il tema «accoglienza» riguarda la presenza di un europeo, nel qual caso italiano, in Brasile, con decisioni di natura più diplomatica che politica.
R. Credo di non dover entrare nel merito di questa questione, ma ritengo necessario rispettare le decisioni sovrane di un Paese.

D. Il Governo Dilma è contrario alla nomina di Dani Dayan, ex capo dei coloni nei territori della West Bank, come ambasciatore israeliano a Brasilia; e soprattutto ha dato luogo ad incidente diplomatico il fatto che, prima di comunicare il nome per i canali ufficiali, ciò sia stato reso pubblico tramite Twitter. Come esperto di diplomazia, cosa ne pensa?
R. Non rappresento più il Governo oggi, e parlo solo in base ad una mia personale analisi: credo che la reazione brasiliana sia stata corretta, il Brasile fino ad oggi non ha comunicato una decisione, ma in ambito diplomatico l’attesa di una risposta equivale ad una risposta negativa, in questo caso per due ragioni: una di forma e l’altra di contenuto. Quella di forma è importante quanto quella di contenuto in questa fattispecie; infatti, non sono state seguite le normali procedure, ossia il post su Twitter ha preceduto una richiesta confidenziale da parte dell’autorità competente, e con un aggravante: Dayan non è un ambasciatore qualunque, in quanto è stato il leader degli insediamenti israeliani in Palestina, dunque espressione di una politica che il Governo brasiliano condanna. In realtà, credo che questa non sia stata solo una «gaffe» diplomatica, bensì una mossa israeliana avente l’intento di collocarci all’interno di un «fatto consumato», e anche se indirettamente il Brasile si troverebbe ad accettare la posizione israeliana sulla Palestina, senza rispettare l’Accordo di Oslo: di questo passo la stessa idea di uno Stato palestinese comincerebbe ad essere utopia, e questo non è concepibile. Credo che il Governo brasiliano abbia agito correttamente tanto per la forma, quanto per la sostanza politica, ossia per ciò che rappresenta tale atto. Non si tratta di un ambasciatore appartenente all’opposizione, o che semplicemente abbia idee differenti dalle nostre: si tratta piuttosto di una questione centrale per la soluzione del problema mediorientale.

D. E dell’umanità.
R. Il punto dell’umanità è centrale: avevo sul mio tavolo durante il mio ministero, ed ho messo nella copertina di un mio libro, una mappa del 1511 fatta da un cartografo italiano che rappresentava Betlemme al centro del mondo, per la nascita di Gesù.

D. Può raccontare la sua politica estera e la sua visione ad un non brasiliano?
R. Sono stato ministro degli Esteri due volte, la prima con il presidente Itamar Franco, la seconda con il presidente «Lula»; successivamente, con il presidente Dilma, sono stato ministro della Difesa. La mia visione del Brasile, e non tutti devono essere d’accordo con me, è che il Brasile è un Paese che sta crescendo e tentando di affermare il proprio posto nel mondo; nel contempo il mondo sta cambiando e questi cambiamenti generano opportunità di una maggiore presenza brasiliana. Non siamo più nella bipolarità della Guerra Fredda, né nell’unipolarità dell’immediato dopoguerra: è un mondo più diversificato, più «multipolare», mi piace definirlo. Credo che il Brasile, anche unito al Sud America e ad altri Paesi emergenti, può costituire un polo di questa nuova configurazione. A mio avviso il fatto che vi siano vari poli di potere è salutare: dobbiamo e possiamo contribuire. Credo che, attraverso l’integrazione sudamericana, attraverso la cooperazione con altri Paesi emergenti, attraverso la formazione di gruppi come l’Ibas, ossia India, Brasile e Africa del Sud, o il Brics, ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, attraverso l’avvicinamento ai Paesi arabi e il mantenimento di buoni rapporti con l’Europa e gli Usa, attraverso tutte queste azioni la politica estera brasiliana negli ultimi anni sia riuscita a contribuire ad un mondo che dia più opportunità e nel quale vi sia meno egemonia. Non è un processo rapido: la storia delle relazioni internazionali non si misura per anni o decadi, ma a volte per secoli. È però un piccolo impulso in una certa direzione che ci sembra migliore, quella di un mondo multipolare che segua norme internazionali e più giuste. La definizione di «giusto» può variare da Paese a Paese, ma vogliamo norme più equilibrate che trasformino l’uso della forza, soprattutto quello unilaterale come è avvenuto in Irak e in Libia, e lo rendano sempre meno frequente.

D. Possiamo dire che oggi il Brasile è più ricco?
R. Economicamente, possiamo dire che è più ricco se prendiamo un periodo di almeno venti anni, se non quaranta. Negli ultimi dieci anni stiamo vivendo una recessione, ma ciò accade, è un momento difficile per il mondo intero. Il Brasile è riuscito ad evitare che questa crisi, iniziata nel 2009, lo colpisse in maniera profonda, ma adesso è giunta anche da noi e dobbiamo affrontarla, è il momento di dimostrare la nostra resilienza, la capacità di adattarci e cambiare nonostante gli ostacoli. Ci riusciremo, perché il Brasile, da quando sono una persona adulta, è riuscito a vincere tre grandi ostacoli: il primo è stato l’autoritarismo, la politica della dittatura militare; il secondo, quello dell’instabilità economica, l’inflazione per quasi 50 anni; il terzo, ancora in corso, quello della riduzione delle diseguaglianze. Il Brasile non è un Paese povero, bensì di reddito medio nell’insieme, ma è un Paese molto «disuguale»; questa disuguaglianza sta diminuendo molto soprattutto con i Governi di Lula e Dilma. Con Lula si notò in misura maggiore in quanto era quella un’epoca di grande sviluppo economico, ma il processo continua. Sì, il popolo brasiliano è più ricco, perché un maggior numero di persone partecipano al mercato, arrivano all’università, per tale ragione hanno accesso a impieghi migliori, e questo è il cambiamento più grande.

D. Cosa pensa dei grandi eventi che si sono tenuti e che si stanno ancora per tenere, dalla Giornata mondiale dei giovani che ha portato il Papa a Rio de Janeiro, ai Mondiali di calcio del 2014 fino alle Olimpiadi che stiamo aspettando per giugno? Essi non sono stati per i brasiliani anche un grande problema sotto molti punti di vista, come hanno dimostrato le rivolte chiamate «O gigante acordou»?
R. Non li vedo come un grande problema. Credo che la maggioranza dei brasiliani è stata felice di ospitare questi eventi, e li ha apprezzati. È chiaro che è sempre possibile muovere critiche, come questa: perché spendere soldi per uno stadio anziché per un ospedale? Le cose non sono in realtà escludentisi, abbiamo portato gente, turisti, mercato, e se a Rio, dove io risiedo, oggi vedo molti più stranieri che nel passato è per questi motivi. Ci sono anche molti più turisti brasiliani. Curiosamente non molti italiani: più francesi e tedeschi. Forse perché, essendo gli italiani molto simili ai brasiliani, non è facile distinguerli bene. Credo che tali eventi abbiano contribuito a riprogettare il Brasile, è una cosa eccezionale per qualunque Paese: in circa sei anni la visita del Papa, la Coppa del Mondo e le Olimpiadi. È anche incredibile che il Brasile, per essere scelto come ospite delle Olimpiadi, ha gareggiato con gli Usa, con Madrid e con Tokyo, tre Paesi del G7. Ed è stato scelto, probabilmente perché possiede questo potere di attrattiva che gli americani definiscono «soft power». Ma esso non basta: sono stato ministro della Difesa e so bene che per poter usare il «soft power» è necessario avere una base di «hard power».

D. Come si difende il Brasile?
R. Abbiamo 17 mila chilometri di frontiere con altri Paesi, 10 vicini, e non abbiamo una guerra con alcuno di essi da 150 anni: è sintomo di una diplomazia capace. Abbiamo 8 mila chilometri di litorale marittimo, e anche questo richiede buoni strumenti difensivi oltre che diplomatici, parte di una grande strategia.

D. Come vede l’Italia, dal punto di vista di un brasiliano, di un uomo politico e diplomatico, e delle varie persone che lei è?
R. Come brasiliano e come umanista, l’Italia è un Paese formidabile. Ripeto sempre che uno degli elementi della mia formazione è stato il cinema italiano dell’epoca del Neorealismo, per le lezioni che da esso ho appreso non solo di cinema, del quale sono appassionato, ma anche di umanesimo, insegnamenti sui valori umani. Questo è straordinario. Per non parlare dell’arte. Come uomo politico, vedo che l’Italia e il Brasile hanno molti punti in comune: il modo di guardare ad esempio. Vedo che l’Italia, anche in situazioni molto complesse come quella irachena, ha una posizione più moderata ma, a differenza del Brasile, è membro della Nato. Il Brasile non è membro di alcuna alleanza militare, e questo già crea una differenza di prospettiva. Abbiamo altre differenze, che credo siano minori e normali, come nel caso della riforma del Consiglio di sicurezza o in questioni commerciali. Ho sempre ritenuto, comunque, l’Italia un Paese moderato, alla ricerca di soluzioni pacifiche; ciononostante, il fatto di essere membro della Nato crea, a mio avviso, alcune limitazioni. Sto parlando come persona indipendente, in quanto oggi non appartengo ad alcun Governo e ciò mi dà modo di fare queste dichiarazioni: credo che l’Italia non avrebbe partecipato, di per sé, all’attacco in Libia, come è accaduto. Ha partecipato in ragione dell’alleanza con la Francia, l’Inghilterra, gli Usa, e l’Italia, membro della Nato, ha dovuto prendervi parte. Come credo che avrebbe idee più moderate sull’Irak ed altre questioni. L’Italia è un Paese importante, e potrebbe avere un ruolo maggiore nel G20 internazionale, quello dei leader, rispetto a certi temi, anche politici o relativi alla pace e alla sicurezza. Credo anche che, nella questione dell’immigrazione, essa abbia una mentalità più aperta di molti altri Paesi europei, e ciò è un punto a favore dell’Italia. Il Brasile ora sta appoggiando la candidatura italiana per il Consiglio di sicurezza e ciò dimostra che, a prescindere dalle differenze, riconosciamo il valore e l’importanza di questo Paese.

D. Nota una differenza tra la diplomazia italiana e la diplomazia brasiliana?
R. Ogni diplomazia rispecchia naturalmente il popolo e la formazione. Il Brasile è un Paese in cui è presente una grande pluralità e tale elemento influenza e modifica il Brasile, che fortunatamente è fuori dai grandi conflitti mondiali, solo sfiorando la seconda guerra mondiale; l’Italia, invece, ha partecipato alle due guerre mondiali. L’Italia è un Paese ricco, il Brasile si sta sviluppando, e questo crea differenze che si riflettono nella diplomazia, ma non tanto nello stile. È molto facile e naturale il linguaggio di un diplomatico italiano, simile al nostro. Subiamo certamente il fascino italiano della cultura e della teoria politica, Machiavelli e Gramsci per citarne solo due, indispensabili.

D. Cosa farà nel futuro, dopo gli anni di Governo e i precedenti di cinema?
R. Ho tre figli che fanno cinema, una quarta che lavora in un’organizzazione internazionale. Il cinema lo lascio ai primi tre, io oggi resto uno spettatore.

D. Cosa la portò al cinema?
R. Studiavo ed ero appassionato di filosofia, e a quei tempi il cinema non era solo arte: in Brasile esso costituiva un vero e proprio strumento di cambiamento sociale, di trasformazione. Il cinema ha fatto sì che i paulisti e i carioca, gli abitanti di San Paolo e di Rio de Janeiro, conoscessero il «Nordest» del Brasile e la sua povertà, ad esempio. Anche la politica era molto legata al cinema. Entrai però nella carriera diplomatica che ho condotto, insieme all’essere ministro, per oltre 50 anni. Ora tengo lezioni, partecipo a conferenze alle quali sono invitato o commissioni, anche nell’ambito delle Nazioni Unite, su questioni legate a problemi globali di salute ma anche calcio, perche siamo sempre brasiliani; sono stato capo dell’Osservatorio elettorale dell’Oea, l’Organizzazione degli Stati americani ad Haiti. Un libro è costituito da una prefazione, una storia ed un epilogo: io mi trovo nella fase dell’epilogo, ho sempre lavorato per lo Stato e per organismi internazionali, ma non lavorerei, pur rispettandola, in un’impresa privata. Sono servitore dello Stato.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Marzo 2016




TURISMO INTELLIGENTE E CULTURALE: LE NUOVE SFIDE E PROSPETTIVE PER IL BRASILE E L’ITALIA SECONDO GEOGRAFI ED ACCADEMICI

Brasile e Italia, quale politica turistica? Glaucio José Marafon, Marcelo Antonio Sotratti e Marina Faccioli, nel libro «Turismo e território no Brasil e na Itália-Novas perspectivas, novos desafios», raccolgono gli interventi di geografi ed universitari: è questo il risultato di un lavoro di cooperazione tra l’Istituto di Geografia Igeog della Uerj, l’Università dello Stato di Rio de Janeiro, e il Dipartimento del Turismo dell’Università di Roma Tor Vergata. Cinque testi brasiliani e cinque italiani.

Nuove prospettive e nuove sfide al centro anche del convegno del 2 febbraio 2016, ospitato a Palazzo Pamphilj, sede dell’Ambasciata del Brasile in Italia. Presenti i geografi Marafon, dall’Università Uerj di Rio de Janeiro, e Faccioli, dall’Università di Roma Tor Vergata, il professor Aniello Angelo Avella, che del libro ha scritto la prefazione e si presenta a nome dell’Istituto italiano di cultura di Rio de Janeiro; con essi dibattono André Cortez per l’Ufficio Promozione commerciale, Investimenti e Turismo dell’Ambasciata, segretario del settore politico e dei rapporti con il Parlamento (sono con lui Flaminia Mantegazza e Ana Paula Torres), Ottavia Ricci per il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Giuseppe Imbesi dalla Sapienza di Roma, Stefano Landi dalla Luiss-Guido Carli, Stefano Sassi, giornalista ed economista, e Maurizio Vanni, dall’Università del Museo sociale argentino di Buenos Aires. L’incontro è arricchito dalla presentazione del video speciale della Rai «I 450 anni di Rio de Janeiro e il contributo degli italiani».

Contribuiscono al testo alcuni professori dell’Igeog: Amanda Danelli Costa, Clara Carvalho de Lemos, Marcelo Antonio Sotratti, Rafael Angelo Fortunato, Vanina Heidy Matos Silva; da Tor Vergata Alessandro Macchia, dalla Sapienza e la Politecnica marchigiana Paola Nicoletta Imbesi, le ricercatrici Anna Tanzarella e Francesca Spagnuolo; e Christovam Barcellos per la Fundação Oswaldo Cruz. Il libro è edito dalla stessa Uerj.

ANIELLO ANGELO AVELLA. «Navegar é preciso», bisogna navigare. Così Avella introduce il volume, citando Fernando Pessoa. E specifica: viaggiare sì, ma intelligentemente. Il turismo culturale, fenomeno di grande attualità («espressione resa problematica dalla difficoltà di definire e conciliare i termini turismo e cultura», specifica), merita di essere studiato nei suoi diversi aspetti, tra i quali hanno rilievo i «motivi legati alla tradizione del viaggio culturale e alle sue implicazioni socioeconomiche, utili a mostrare i meccanismi per mezzo dei quali è possibile usufruire della cultura come momento di ozio».

È altresì necessario ricordare la peculiarità del «nuovo» a cui porta il viaggio, creando relazioni tra persone e popolazioni differenti e situazioni di socialità che producono trasformazioni delle identità sociali. Ciò causa, secondo il professore filobrasiliano, la messa in discussione del proprio stile di vita e dell’immagine di sé agli occhi degli altri.

Del Brasile Avella è un grande esperto: professore di Storia della cultura dei Paesi di lingua portoghese nella Facoltà di Lettere e filosofia di Roma Tor Vergata, responsabile scientifico della cattedra Agustina Bessa-Luís istituita presso la stessa facoltà dall’Instituto Camões (Ministeri della Cultura e degli Affari esteri del Portogallo), «visiting professor» nella Universidade do Estado do Rio de Janeiro (Uerj), coordinatore degli accordi di cooperazione scientifica di Roma Tor Vergata con le università brasiliane. Oltre a ciò, è associato al Consiglio Nazionale delle Ricerche e fondatore dell’Associazione eurolinguistica Sud; è socio della più antica istituzione culturale del Brasile, l’Instituto histórico e geográfico brasileiro, fondato nel 1838; è membro dei consigli scientifici ed editoriali di riviste internazionali; ha ricevuto nel 2004 il riconoscimento della «Medaglia Tiradentes» dall’Assemblea legislativa dello Stato di Rio de Janeiro. È autore di numerose pubblicazioni nell’ambito delle relazioni culturali fra l’Italia e i Paesi di lingua portoghese, in particolare il Brasile. Per il quale consiglia, al «visitatore intelligente», una guida speciale: la collezione che Don Pedro donò al Brasile stesso subito dopo la morte della moglie napoletana, Teresa Cristina di Borbone, dalla quale prende il nome. 20 mila pezzi, da libri rari a fotografie d’epoca e quadri di grandi autori italiani (ci sono anche Tiziano, Annibale Carracci e Salvator Rosa), collocati a Rio de Janeiro tra la Biblioteca nazionale, il Museo storico nazionale e l’Istituto storico e geografico brasiliano (IHGB).

Riporta Avella che, grazie all’imperatrice napoletana, in Brasile si rinvengono anche elementi di arte etrusca e pompeiana, che lei portò con sé nel bagaglio sulla nave che la condusse a Rio nel 1843. Oltre a ciò, la statua del greco Antinoo, che lei donò, nel 1880, all’Accademia di Belle Arti di Rio, oggi trasferita nel Museo nazionale delle Belle Arti. Per l’esperto è proprio la borbonica Teresa Cristina uno dei principali punti di giuntura per la cultura italo-brasiliana, e fu lei a rendere Rio de Janeiro punto di partenza e di arrivo delle escursioni oltreoceaniche nei campi della musica, della letteratura, del teatro, delle arti plastiche, con implicazioni politiche e sociali. Per questo il Secondo Impero fu, secondo lo studioso, un momento decisivo (l’espressione è di Antonio Candido) nella costruzione del sistema di relazioni politiche, sociali e culturali tra Brasile e Italia, quando queste da episodiche divennero sistemiche.

Ricorda anche Nísia Floresta (1810-1885), educatrice e poetessa brasiliana pioniera del femminismo in Brasile, direttrice di un collegio a Rio de Janeiro e autrice di numerose pubblicazioni in difesa di donne, indios e schiavi. Nata nel Rio Grande do Sul, avendo abitato anche nel Pernambuco e a Rio de Janeiro, si trasferì nel 1849 in Europa (Portogallo, Inghilterra, Italia, Grecia ed altro) fino addirittura a morire a Rouen, in Francia.

Primo forte collegamento: è il 1859 quando a Firenze pubblica «Scintille d’un’anima brasiliana», cinque saggi («Il Brasile», «L’abisso sotto i fiori della civiltà», «La donna», «Viaggio magnetico» e «Una passeggiata al giardino di Lussemburgo»); ed è il 1864 quando a Parigi è dato alle stampe il primo volume di «Trois ans en Italie, suivis d’un voyage en Grèce», dove la scrittrice affronta i problemi politici e sociali italiani e riflette sulla storia e le manifestazioni culturali locali. Per il prefattore del libro curato da Marafon, Sotratti e Faccioli, quello di Floresta costituisce un diario di viaggio valido per lo studio della storia italiana dal punto di vista dei dominati.

Anche Carlos Magalhães de Azeredo, fondatore dell’Accademia brasiliana di Lettere, parla della «divina Roma» nelle sue memorie ricordando gli anni in cui vi abitò nell’ultima decade dell’800, mentre Cecília Meireles ne contempla le rovine tra i suoi «Poemas italianos» del 1953: per lei Roma è il principio di tutto. Quindi Murilo Mendes, Haroldo de Campos, Antonio Callado, Silvano Santiago etc. Senza dimenticare Sérgio Buarque de Holanda, che insegnò a Roma tra il 1952 e il 1954, padre di Chico. Sì, proprio quel Chico Buarque destinato a divenire, da vivo, la leggenda non postuma del Brasile nel mondo, patrono di una nuova spiritualità basata sulle parole: esiliato nella capitale italiana nel 1969, ci conobbe per vie «di traverso». Rientrato in Brasile, questo tropicalista non avrebbe più dimenticato l’Italia, e il ristorante «Il Moro» a Fontana di Trevi.

MARINA FACCIOLI. Stereotipi. Affronta questo tema la geografa Marina Faccioli, tra i coordinatori del libro italo-brasiliano. Laureata in Geografia alla Sapienza di Roma con una tesi sullo sviluppo dell’area metropolitana romana, dottorato di ricerca in Geografia urbana e regionale, ricercatrice per l’Istituto di Geografia economica a Verona, professore associato di Geografia nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Tor Vergata, ha studiato le relazioni fra trasformazioni del processo produttivo e forme di riqualificazione delle risorse culturali localizzate, con specifico interesse per un’analisi in chiave regionalista. Filo conduttore della sua attività di ricerca è il tema della valenza culturale che il sistema territoriale locale è in grado di esprimere quale soggetto di forte coesione socio-economica, con particolare riguardo alla definizione e alla qualificazione di una cultura urbana di carattere postindustriale.

«Non credo che i nostri giovani vadano in Brasile in cerca di stereotipi. Dico sempre che non si conosce una città guardando i monumenti ma girando per le strade, e sono convinta che i giovani siano intelligenti, formati, attenti e sensibili a questo». Aggiunge: «Facendo lezione ai ragazzi brasiliani ho trovato delle differenze con i nostri». Innanzitutto disponibilità e fidelizzazione nei confronti degli italiani, da una parte insita nella storia, dall’altra data dall’eco dell’industria italiana, che «ha insegnato molto in Brasile». Altre diversità riscontrate sono nel «senso della terra, che noi non conosciamo: non abbiamo una storia agricola come quella dei brasiliani, appartenenti a un modello istituzionale di agricoltura familiare».

L’attaccamento alla terra, secondo la geografa, ha condizionato e orientato le modalità di politica turistica accolte dai brasiliani, ossia un turismo nelle campagne diverso da quello agrituristico tipico dell’Italia. Questa differente attitudine raccoglie la domanda dei visitatori che vogliono conoscere qualcosa di più degli stereotipi. Da anni, riferisce, sono attive esperienze di turismo etico in campagna, dove si va a conoscere lo stile di vita a partire da una formula di turismo solidale. «Il loro attaccamento alla terra mi ha stupito, perché sta nella capacità di autopromuoversi».

Rio non esisterebbe se non ci fossero le favelas, sostiene la relatrice. «Sulle favelas si è costruita la città», non si tratta di insediamenti, e lì «le persone oggi si autopromuovono e partecipano al gioco collettivo della valorizzazione turistica della favela stessa. Molti studenti vi si trasferiscono per studiare, proprio perché l’Italia non offre prospettive nel settore, i turisti a Roma continuano a diminuire, e non per gli attacchi terroristici. Dovremmo imparare anche noi a fare politica turistica. Intanto i ragazzi hanno cominciato a lavorare nelle favelas aprendo ristoranti e portando italianità».

Riguardo al mare, «dovremmo imparare dai brasiliani, noi che non riusciamo a valorizzare Ostia e rendiamo il litorale romano un pezzo staccato dalla città». Il mare «non basta più come spiaggia, sole, acqua» ma deve divenire il «pezzo di una grande città». Ciò porta oltre le diversità, è un processo identitario che si costruisce in tanti luoghi diversi. «Ho faticato a far capire ai brasiliani la nostra passione per il localismo, poiché hanno dimensioni tali che si parla di natura, foreste, terra e parchi». E di disponibilità culturale, conclude.

CLAUDIO JOSÈ MARAFON. Ricardo Vieiralves, rettore della Uerj, ha incentivato il lavoro congiunto con l’Università di Tor Vergata e, a partire dal 2010, è stata frequente la presenza di professori italiani nei corsi carioca in Geografia e in Turismo, spiega a Specchio Economico il professor Marafon. Questo ha portato comunque a una riflessione: il Brasile è un Paese che riceve ancora pochi turisti stranieri. «La politica del Ministero brasiliano va nel senso di ampliare i numeri dando maggiore visibilità al territorio brasiliano, per renderlo più attrattivo. Detto obiettivo–specifica Marafon–passa per una politica di sicurezza e divulgazione, giacché spesso l’immagine del Brasile è associata a violenza». E ciò non è necessariamente vero, sottolinea il professore.

Turismo sociale, turismo di avventura, natura: questi ed altri elementi garantiscono al Brasile «di poter ricevere sempre più visitatori da tutto il mondo». Ma la politica deve adeguarsi, ed è ciò che l’incontro di questi esperti mira a evidenziare. Infatti, il Brasile è noto solo per alcune delle innumerevoli attrattive.
Però il costo della vita sale anche per il turista: dopo i grandi eventi, e in prossimità del successivo, i Giochi olimpici 2016 che si terranno a partire da giugno, esso è cresciuto senza compassione.

Cosa pensa Marafon di questo? Costituisce un problema? «Stiamo vivendo una crisi molto forte che ha svalorizzato la nostra moneta, il reale: oggi infatti, un euro corrisponde a circa 5 reali. Per il brasiliano la vita è senza dubbio più cara, ma ciò torna a favore del nostro turismo–spiega–. Per il turista internazionale, infatti, è ora più economico recarsi in Brasile, e questo va visto come un vantaggio che abbiamo».

FLAMINIA MANTEGAZZA. Flaminia Mantegazza, responsabile dell’Ufficio Turismo dell’Ambasciata del Brasile, guidato da André Cortes, parla del «Brasile diverso», del Brasile come «esplosione della natura». Così: «Sono solita dire che l’Italia è un museo culturale a cielo aperto, il Brasile è invece un museo naturale. Nel miscuglio di razze presenti, 30 milioni sono gli italiani. Abbiamo ammirazione per la natura–prosegue–e insieme la necessità di valorizzare ciò che è nostro». Una tradizione che «chi è già stato in Brasile percepisce: quello che c’è fuori lo prendiamo e lo trasformiamo».

Si sofferma, quindi, sulla geografia. «Il Brasile è a 12 ore di volo dall’Italia, che racchiude 28 volte. L’influsso turistico brasiliano in Italia è il settimo, mentre gli italiani che visitano il Brasile sono terzi, superati da Francia e Germania. Il Brasile–prosegue Mantegazza–occupa la prima posizione per le risorse naturali, ma solo la ventottesima nell’indice di competitività internazionale. E siamo qui in Italia anche per imparare questo».

Non si può dire di conoscere tutto il Brasile, per estensione il quinto nel mondo con 8,5 milioni di chilometri quadrati, diviso in 5 regioni e sei bioma: Amazzonia, Cerrado, Pantanal, Caatinga, Pampa e Mata Atlântica. Ne fa un quadro veloce la responsabile dell’Ufficio Turismo: «L’Amazzonia è enorme, il fiume ha una dimensione di 6200 chilometri quadrati e da una sponda non si vede l’altra; esso va dai 3 ai 15 chilometri, ha 1100 affluenti e racchiude ogni specie di pesci. In tutto il Brasile si trovano ancora riserve indigene, non solo in Amazzonia ma anche nel Sud-Est e nella zona di Rio dove abitano le tribù». Queste sono, per la relatrice, le giuste esperienze da fare per un turismo sostenibile, con la possibilità di pernottare in palafitte immerse nella natura. Nel bioma amazzonico la spiaggia è visibile con la bassa marea del fiume, e i suoi alberi altissimi creano l’umidità necessaria a far sì che l’ecosistema si riproduca.

Il Cerrado è un bioma che «rappresenta il 23 per cento del territorio e attraversa 15 dei 27 Stati. Caratterizzato da arbusti bassi con una buccia dura e rami contorti e sparsi, ricco di animali e piante, ha una produzione e un’economia delle quali vivono 30 milioni di persone».

Della Foresta Atlantica fanno parte, tra l’altro, il Corcovado e Rio de Janeiro, infatti «al loro interno si trova la foresta che separa la parte Sud dalla parte Nord. Nel percorso di questo bioma vivono 120 milioni di persone e 10 tribù indigene, e da qui proviene il 70 per cento del Pil brasiliano. Cerchiamo di proteggere la foresta, ma essa è molto diminuita: oggi le istituzioni sono impegnate a preservarla. La Foresta Atlantica scorre e taglia tutto il litorale di Bahia».

La Caatinga è «una zona di cactus e piante grasse di foresta non molto fitta, che rappresenta il Nord-Est sconosciuto; comprende 10 Stati e il 10 per cento del territorio popolato da 27 milioni di persone. I cactus fanno parte di un ecosistema particolare perché si possono mangiare o bere». Invece in un altro bioma, quello della Pampa, ultimo Stato nella frontiera con Paraguay e Argentina comprendente il Rio Grande do Sul, «si trova una vegetazione diversa, con piante al di sopra dei 500-800 metri dal livello del mare, ottima per l’allevamento di bestiame. Qui sono le Cascate di Iguazù e molte altre belezze».

«Il bioma del Pantanal, invece–spiega ancora–comprende entrambi i biomi dell’Amazzonia e della Foresta Atlantica, i quali si contagiano a vicenda, creando un’esuberanza di territorio vergine piena di grotte e fiumi incontaminati con 263 specie di pesci e 2 mila specie di piante acquatiche. Dal 2 all’11 aprile 2016 ospiterà l’Adventure Week, frutto della grande tendenza brasiliana per il turismo di avventura e il turismo naturale».
E, ricorda, nel 2018 il Brasile ospiterà la Conferenza mondiale sull’acqua: esso, pur nei suoi problemi di siccità, raccoglie circa il 12 per cento di tutta l’acqua dolce del pianeta. «Certo che l’ecosistema è devastato. Sebbene riusciamo a mantenere tutto ancora in vita, non sappiamo fino a quando. C’è una grande coscienza delle autorità e del popolo, ma sappiamo anche che l’interesse economico, purtroppo, va oltre».

STEFANO SASSI. «Parlo sempre volentieri del Brasile anche se ritengo che sia una delle cose più difficili da fare». Così introduce il suo intervento il giornalista ed economista Stefano Sassi. «Non dobbiamo dimenticarci che stiamo parlando di un continente e non di uno Stato. Non si può parlare del Brasile pensando solo a Rio de Janeiro, anzi: forse la cosa meno brasiliana del Brasile è proprio Rio de Janeiro, che ritengo la più bella città dopo Roma. Non per i monumenti ma per la natura: quando i portoghesi arrivarono, videro questo fiume che brillava oro e capirono la bellezza del posto. È l’unica città nel mondo che ha all’interno un parco nazionale, scimmie e serpenti e, fino alla metà degli anni Ottanta, anche otto giaguari che sono stati spostati perché, affamati, scendevano nelle favelas».

Oggi si parla di cambiare l’immagine del Brasile, prosegue il giornalista. «Ho letto che i brasiliani cercano di dare l’appellativo di ‘viaggio intelligente’ alla visita in Brasile. Ma quando parliamo di cultura del Brasile dobbiamo decidere che cosa intendiamo per cultura. I 500 mila brasiliani che ogni anno vengono in Italia sanno esattamente che cosa vengono a vedere, i 200 mila italiani che vanno in Brasile non lo sanno. Al di là della fotografia particolare che tutti conosciamo, quella delle spiagge, le palme, le belle ragazze: ma il Brasile non è questo, o non è solo questo. Fino a qualche tempo fa non sapevo che vi sono reperti etruschi portati da una borbona, come non sapevo per esempio che in Brasile c’è la più grossa isola idromarina del mondo, più grande della Svizzera, con oltre 1 milione e 100 mila capi di bufali allo stato brado».

Sassi si sofferma a descrivere ciò che in Italia si sa meno del Brasile, dal genere musicale del Forrò (ben oltre il Toquinho che tutti sono abituati a conoscere), località che sono patrimonio dell’umanità (cita Minas Gerais), completamente conservate, indios, conventi francescani, alligatori. «C’è un problema di informazione. La lacuna è di voi brasiliani, che dovete far conoscere il vostro Paese, dire che cosa avete, perché il turista sceglie sulla base di quello che sa. Il Brasile andrebbe visitato in lungo e largo, ma ci vuole una vita».    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Febbraio 2016

 

 




JOSÉ R. DOSAL NORIEGA: FONDAZIONE MUSICA PER ROMA, L’AUDITORIUM DI “PIANO” SEMPRE PIÙ VELOCE

di ROMINA CIUFFA. «Cerco un Paese innocente», scriveva Giuseppe Ungaretti nella poesia «Girovago». Oggi arriva a Roma uno spagnolo nato a Città del Messico, José Ramon Dosal Noriega. Succede a Carlo Fuortes (dal 21 dicembre 2013 sovrintendente della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma Capitale) e si predispone alla guida dell’Auditorium Parco della Musica: è lui il nuovo amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma, realtà giuridica nata il 19 luglio 2004 nel passaggio dall’originaria forma di società per azioni con la quale venne istituita nel 1999, in effetti la prima grande trasformazione di una spa in Fondazione consentita dalla riforma del nuovo diritto societario. Quattro i soci fondatori: il Comune di Roma, che ha conferito in concessione d’uso per 99 anni l’immobile Auditorium alla Fondazione, la Camera di Commercio, la Provincia di Roma e la Regione Lazio. Per Statuto il presidente è nominato dal sindaco di Roma, dura in carica quattro anni, può essere confermato; il vicepresidente è nominato dalla Cciaa.

Il Consiglio di amministrazione è oggi composto da soli 5 membri, compresi il presidente ed il vicepresidente, nominati tre dal sindaco, uno dalla Cciaa, uno dalla Regione Lazio. Una riduzione, quella da 16 a 5 membri, che non ha mancato di suscitare polemiche: il 14 agosto è infatti entrata in vigore la legge n. 125 approvata il 6 agosto, convertendo il decreto legge n. 78 del 2015 in materia di enti territoriali e obbligando il brusco taglio dei consiglieri di amministrazione, senza che l’allora sindaco di Roma Ignazio Marino, in partenza per gli Usa, firmasse tempestivamente l’ordinanza sindacale a conferma delle 16 nomine indicate il 10 agosto.

Fuori così, dal Consiglio di amministrazione musical-romano, tra gli altri, Luigi Abete, Gianni Letta, Giovanni Malagò, Paola Santarelli, Sabrina Florio, Umberto Croppi, Nicola Maccanico.
Restano, con Dosal Noriega, il presidente Aurelio Regina (azionista alla guida di Manifatture Sigaro Toscano) e la consigliera Azzurra Caltagirone (presidente della Fgc spa e vicepresidente della Caltagirone Editore spa), nomi indicati dal Comune di Roma; Lavinia Biagiotti Cigna (vicepresidente del Gruppo Biagiotti), nominata vicepresidente dalla Camera di Commercio; e il consigliere Valter Mainetti (amministratore delegato e azionista di riferimento di Sorgente Group), quale rappresentante della Regione Lazio in seno alla Fondazione.

Oltre ad essi per statuto, il presidente della Fondazione Accademia Nazionale di Santa Cecilia partecipa alle sedute del Consiglio di amministrazione quale invitato permanente senza diritto di voto: è Michele Dall’Ongaro. Nell’Auditorium ha infatti trovato la propria casa Santa Cecilia, una delle più antiche istituzioni musicali nel mondo, fondata ufficialmente nel 1585: la sala omonima, che all’interno dell’Auditorium ospita la sua stagione sinfonica, è tra le più grandi sale da concerto europee.

La nomina dell’amministratore delegato è il frutto dell’emissione di un bando internazionale; presente nella rosa dei cinque finalisti, Dosal Noriega è stato eletto dal Consiglio di amministrazione a norma di statuto. Allora il sindaco capitolino, che compiva uno degli ultimi atti del proprio mandato, l’accoglieva sottolineando come l’ingresso del manager spagnolo, scelto tra personalità importanti e prestigiose riconosciute in tutto il mondo, fosse «un’innovazione nel segno della trasparenza e della qualità, della competenza e delle capacità professionali». Il Paese «innocente» di Ungaretti? Quel Paese ungarettiano è, per Dosal Noriega, proprio il nostro, sebbene stenterebbe a crederlo un italiano. Secondo lo spagnolo, «il problema è che la gente di Roma non sa quello che ha, ma fuori si sa che cos’è l’Auditorium e si sa quello che è Roma». Si sente a casa, dopo aver velocemente studiato l’italiano e meno velocemente imparato tutto ciò che ci fosse da sapere sull’Auditorium e l’Italia per vincere la gara: «Siamo a casa nostra. Tutti siamo a casa, qui all’Auditorium, perché questa è la casa di tutti: è della musica, della cultura, dell’arte, di Roma. Della vecchia Roma, non la città conosciuta ma la capitale dell’Impero, dove sono nati cultura, diritto, giustizia». Una lunga esperienza, riconosciutagli nell’ambito di una gara dalle caratteristiche internazionali nella quale si è confrontato con ben 140 manager che, come lui, hanno presentato la candidatura a guidare una delle istituzioni culturali più prestigiose in Italia e, per la proprietà transitiva, nel mondo. 

Chi è, allora, questo straniero?

Dosal Noriega si è occupato della direzione e organizzazione di spettacoli musicali e di danza per importanti teatri in Spagna e in Argentina: il Lope de Vega di Madrid, il Coliseo di Buenos Aires, il Barcelona Teatre Musical. Dal 2003, è l’amministratore delegato della Producciones Renacimiento, specializzata nella produzione di grandi concerti musicali, spettacoli teatrali, appuntamenti sportivi, eventi per imprese e istituzioni; nella commercializzazione di diritti di ogni tipo (sponsorizzazione, marketing, autore, tv, immagine); nella creazione ed attuazione di campagne pubblicitarie. Dal 2005 al 2007 è stato direttore generale della Madrid Deportes y Espectaculos, concessionaria della gestione del Palazzo dello Sport della Regione Madrid, e dal 2001 al 2003 amministratore delegato e direttore generale della Corporacion Interamericana de Entretenimiento.

Ora, a Roma. La situazione al suo arrivo è quella fotografata nel bilancio 2014, in positivo per il dodicesimo anno consecutivo: un utile prima delle imposte pari a 39.147 euro, un margine operativo lordo di 557.590 euro. Nel corso del 2014, all’interno dell’Auditorium sono stati realizzati dalla sola Fondazione Musica per Roma 589 eventi, di cui 564 di natura culturale e 25 di natura congressuale. Agli eventi proposti da Musica per Roma hanno partecipato 613.126 spettatori (erano 612.851 l’anno precedente); gli spettatori di appuntamenti soggetti a Siae sono risultati 341.974 (+4,22 rispetto al 2013), i partecipanti a mostre, festival e altri eventi culturali sono stati oltre 271 mila. Gli incassi della biglietteria risultano pari a 5.276.940 euro.

Domanda. Benvenuto a Roma, benvenuto all’Auditorium. Cosa significa per lei essere qui?
Risposta. È stato come se Santa Cecilia mi chiamasse a dirigere l’orchestra: questa è la massima ispirazione di un gestore culturale. In questo Auditorium c’è un’identità unica, prima di tutto per essere progetto di Renzo Piano, quindi per la maniera in cui esso è stato costruito e la disposizione tecnica delle sue sale, infine per tutta l’attività che è ospitata in questi ambienti. A Roma non si sa ciò che si ha, fuori sì. È veramente un onore e un orgoglio per me aver partecipato a questa gara in un processo chiaro e trasparente: ho compiuto uno sforzo immenso per superare centinaia di candidati che, come me, aspiravano a gestire questo Auditorium.

D. Come si è svolta la gara che l’ha portata a Roma?
R. È stata difficilissima, i candidati arrivavano da tutto il mondo e ho dovuto studiare davvero tantissimo. Ho prima presentato la domanda via internet, mi è stata notificata la ricezione del curriculum e, dopo la prima scrematura, si è svolto un primo incontro su Skype, e a seguire un incontro conoscitivo: un colloquio di lavoro vero e proprio che si è svolto a Roma e si è trasformato in un esame di finanza dalla durata di 4 ore. Mi hanno praticamente osservato dalla testa ai piedi, come vestivo e come parlavo. Siamo rimasti in 5 e questa rosa di finalisti è stata data al Comune di Roma, che poi ha fatto la scelta. Il 15 giugno 2015 ho ricevuto la chiamata del sindaco di Roma in persona che mi comunicava la vittoria: è stata la telefonata più bella della mia vita, il momento più importante della mia carriera professionale. È questa la massima ispirazione di un gestore culturale.

D. Quale è stato il primo impatto nel momento del suo insediamento effettivo?
R. Quello che ho notato qui è la presenza di una bellissima squadra, ho trovato personale con un grado di professionalità elevatissimo e un modello di gestione impeccabile. Devo ringraziare il mio predecessore Fuortes per aver lasciato una tavola ben disposta. La linea editoriale che ho incontrato è quella giusta per un’istituzione del genere.

D. Cosa farà per noi? In che modo proseguirà o cambierà l’opera di Fuortes e del precedente consiglio di amministrazione?
R. Il mio apporto sarà diretto in 5 punti fondamentali. Il primo va in direzione di un equilibrio tra parte commerciale e parte culturale: tutti sappiamo che la cultura è cara e che un contenuto di tipo commerciale è più facile da impiegare dal punto di vista finanziario, e ciò rileva il ruolo che ha la cultura nell’equilibrio e nel supporto all’economia di una città e di un Paese. Il secondo punto è quello della redditività: dobbiamo compiere un grande sforzo verso il dimensionamento dell’attività, generare un’offerta editoriale interessante in grado di attirare qui un pubblico lieto di scambiare il proprio denaro con contenuti culturali di alto livello. Come terzo punto, avvicineremo l’Auditorium a Roma. Ho notato che la gente lo ama, ma non basta: dobbiamo renderlo di tutti. Questa è anche la ragione per cui abbiamo fatto una pista del ghiaccio ed una programmazione vicina alla gente: bisogna dare un senso di appartenenza dell’Auditorium. Come quarto punto, ci impegneremo fortemente ad accompagnare ogni tipo di attività capitolina, anche sportiva, culturale e della moda: l’Auditorium deve essere lo specchio di tutte le attività che si svolgono a Roma, non solo quelle musicali ed artistiche. La settimana della moda romana, ad esempio, dovrà avere nell’Auditorium uno specchio, che noi dobbiamo preparare nell’ambito di una linea editoriale che si unisca ai nostri più consueti contenuti di intrattenimento. La moda non è arte, non è cultura? E la cultura, a mio avviso, è la congiunzione tra esperienza ed anima, che offre la possibilità di sfruttare i personali gusti e le emozioni. Il quinto punto è quello dell’internazionalizzazione: tutto il mio impegno sarà profilato verso una proiezione internazionale del contenuto editoriale, che dovrà essere universale. La cultura non richiede passaporto.

D. Dall’occhio della sua significativa esperienza internazionale – Buenos Aires, Madrid, Barcellona, Città del Messico – cosa vede eccellere in Roma?
R. Una cosa importantissima che posso definire in due parole: profondità e concetto, che costituiscono il vero valore aggiunto della cultura italiana a 360 gradi. Un esempio: Santa Cecilia, con più di un secolo di storia, rappresenta la musica classica e ne è la custode, e la cultura italiana costituisce la culla in cui è nato tutto e da cui tutto è partito, che ha influenzato il mondo intero distinguendosi per la profondità, la verità e la varietà. L’Opera è nata qui, ed è un mio impegno rispettare questo e, come sarà mio impegno, diffondere ancora di più le attività dell’Auditorium facendo comunicazione in ambito internazionale. A questo proposito stiamo parlando con il Conaculta, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes de México, e con la Spagna per un interscambio di contenuti. Per dar seguito al quinto punto della mia gestione porterò avanti questi e altri scambi culturali.

D. Il taglio dei consiglieri che c’è stato, quindi il ritorno a cinque, ha prodotto molte polemiche, anche in ragione del fatto che il sindaco uscente potesse essere responsabile di non aver agito tempestivamente rispetto alla legge con una ordinanza di nomina. Cosa ne pensa?
R. In generale bisogna guardare alle cose da una prospettiva pratica: innanzitutto penso che un Consiglio formato da cinque persone sia più maneggevole, quindi va benissimo così. Ma non posso dire se in futuro sarà meglio o peggio l’aver modificato l’idea di avere in esso molte persone di elevata rilevanza nel panorama culturale italiano. Adesso posso solo affermare che mi impegnerò al massimo per stabilire una relazione con esse, perché il progetto che abbiamo è importante e quindi ho bisogno di tutto il supporto possibile. Dal punto di vista tecnico-giuridico la mia opinione non è importante, quello che penso è che necessitiamo di tutto questo talento e forza per prendere il cammino della redditività.

D. Come saranno coinvolti in questo i privati?
R. Questa è l’eterna battaglia: dobbiamo fare cultura senza redditività o dobbiamo invitare i privati? La cultura è cultura, non è né privata né pubblica. Posso promettere che i privati avranno un coinvolgimento molto significativo, perché dobbiamo trasformare i finanziamenti privati in cultura, sempre rispettando il principio di indipendenza finanziaria, di autonomia e di rispetto della linea editoriale dell’Auditorium.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Gennaio 2016