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SUL PEZZO

MI ODI O MI AMI?

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Ti amo o ti odio? Ti amo. Mi odi o mi ami? Mi odi. Va bene così, posso aspettare, posso provare, posso cambiare. Ma anche tu lo farai?

Non sempre è così semplice dare la risposta a questo interrogativo interno. Molte volte l’amore si trasforma in odio ma noi non riusciamo a riconoscerlo come tale, ed è un odio innamorato che non può più andare avanti. Le dinamiche nella coppia sono compromesse, è difficile per entrambe le parti confrontarsi con se stesse e tornare a trasformare l’odio in amore, cosa assai difficile, o l’odio in nulla, che è ancora più difficile: lasciarsi.

Il contrasto tra questi due giganti sfocia in una dissonanza cognitiva fortissima e porta la persona «innamorodiata» a resistere sperando che l’altra finalmente torni ad essere se stessa, ma la parte che odia non potrà più. Si innescano meccanismi talmente dolorosi da non lasciare scelta alla coppia se non di lasciarsi, e con rabbia, odio, ricordando poi questa relazione come la più brutta. In essa si impongono le stesse dinamiche della violenza: non è difficile trovare, tra queste persone, alcune che dicano che nella coppia si sentono come se avessero un «marito violento», per gli abusi a cui sono sottoposte. Chi odia a volte lo sa, tante altre volte non se ne rende conto e attribuisce tutte le colpe all’altro. Solitamente tale emozione si rinviene in entrambe le parti, è assolutamente speculare e si ciba dell’altro.

Qualunque cosa il partner dica non va bene, si interpreta, si passa il tempo insieme a compiere azioni emotivamente scellerate per far cadere l’altro e poter dire «ho ragione, vedi?», in un gatto che senza fine morde la propria coda, prima smagliante, ora spiluccata. Odi et amo, sono due sentimenti così simili sia pure di diverso colore, di opposto segno, tanto da rendersi spesso indivisibili. Quando l’amore diviene odio, o prevalgano in lui tali elementi, bisogna lasciare ma lasciare è l’unica cosa che non si riesce a fare, non per masochismo quanto per l’impossibilità di ammettere a se stessi che una storia, prima bella, possa finire in questo modo. Ma la storia è finita, e non si vuole lo sia, ci si aggrappa come a una zattera di vetri appuntiti in mezzo all’oceano in tempesta.

A questo punto, ci vuol amor proprio, va trovato. «Amor sui» è sapere chi si è e, nonostante questo, lottare per essere comunque se stessi. Autoaffermazione del sé naturale, un omaggio alla vita attraverso la «cura sui», può coincidere con un processo di guarigione che restituisce all’individuo autostima ed una forma a sé stante di egoismo bonario. Tale atteggiamento potrebbe mal interpretarsi per via di una morale falsata che giudica chi, pur di mettere se stesso al primo posto, si disinteressa dell’altro, restituendo una presenza dell’uomo individuale nella società, anche per il tramite di un’interpretazione di base cattolica, secondo cui un comportamento che non dà priorità all’amore spirituale è inteso come immorale. L’egoismo dell’amor proprio non è l’egoismo che il sostantivo che lo descrive evoca, non si contrappone all’altruismo. L’uno, infatti, non esclude l’altro, anzi lo premette e lo permette; non implica una predominanza sull’altro né ragioni etiche o moralistiche per declassarlo; è il riconoscimento della propria persona come entità distinta dagli altri, il torsolo dell’essere umano.

Amor proprio è ciò che consente di amare l’altro con lealtà e completezza. Una delle prescrizioni più ascoltate tanto in psicoterapia quanto nella società è quella che indica di amare prima se stessi se si vuole amare l’altro, invito ad accettarsi e ad accettare per prime le cose positive che la vita può dare, a costo di negarsi le emozioni forti del dolore e ripudiare gli amori difficili. In questi termini, l’amor sui appare collegato al senso della vita. «Via, fuggi!», ripete l’amor proprio, e in pochi ne seguono il consiglio. A questo punto, si capisce come l’amor proprio sappia dare, se non ascoltato, ferite perfette.

Continuerò a parlare dell’amor proprio, per oggi basta così.

Romina Ciuffa, 22 aprile 2025

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