Come si fa a lasciare? Esiste un manuale? C’è chi ci riesce di più, chi di meno, i primi lo fanno qua e là senza porsi il problema, capendo immediatamente che una storia non va e altrettanto immediatamente decidendo di non volere perdere tempo; i secondi non lo fanno né qua, né là. Lasciare è, in effetti, un superpotere e invidiabili sono coloro che lo hanno, che addirittura ne abusano, mentre gli altri si contorcono in amori dolorosi, che li logorano di giorno in giorno. C’è quella specie di dipendenza che va a mettersi tra il dito e la verità: non è più amore, è solo l’antichità del ricordo di cose che non sono più. Siamo cresciuti, come persone e come società, ed ora che abbiamo anche l’istituto del divorzio (a questo link) non dobbiamo necessariamente credere che l’amore sia eterno, soprattutto quegli amori che non ne hanno i requisiti sin dall’inizio, formati sul dolore di storie precedenti o nella piacevolezza di non essere più soli, ma dove gli interessi non sono comuni, le modalità di comunicazione sono estremamente diverse, i punti di vista sono contrari. L’amore non è eterno. Anche l’eternità è un superpotere, e in una sfida tra supereroi si scontrano Eternità e Fine per dare vita ad un nuovo capitolo, quello del restare o quello dell’andare. Dolore è per alcuni un toccasana, una canna di bambù attorno alla quale esso si avvita come una pianta per crescere e invadere del tutto la persona dolente che, abituatasi a questa presenza, la vuole sempre nella sua vita, complice un attaccamento instabile. Chi è in grado di sradicare questa pianta dal suo vaso può invadere nuovi mondi e tornare ad essere se stesso, in quella pace che si sente solo dopo una guerra, il fumo dei corpi caduti, i cavalli abbattuti, Amore finito, Dolore finito. Chi non ne è in grado, è spacciato.
Nei casi di dipendenza Dolore va, con coraggio, identificato con Amore, che tiene le sue redini e fa e disfa a suo piacimento. Quando regna Dolore, Dipendenza è nella casa e tutto viene chiamato con il suo nome: fare colazione insieme è Dipendenza, guardare la tv insieme è Dipendenza, sentirsi è Dipendenza. Dipendenza invade e permea tutto con le sue estremità urticanti e non consente a chi la sperimenta (di solito accanto ad un co-dipendente) di eliminarla. Sono urla che si gridano in silenzio all’interno dei sogni, la notte, quando l’altro dorme e Dolore si presenta più grande, più forte. In quei momenti, predomina il superpotere del restare mentre si vede l’altro inerme dormire accanto a sé, si sente la piacevolezza del suo zittirsi, la forza della sua presenza, il ricordo dei momenti dell’amore. Accade tutto questo mentre dentro c’è un fegato che batte più del cuore, che sa di non potere ancora un giorno resistere alle intemperie, sa che il suo malore proviene da quel gigante inerme. Poi arriva il giorno, e con il sole Dolore è più stringente, lasciare è il superpotere che la notte dovrebbe aver portato, eppure ancora non c’è. Lasciare non è cosa da poco, presuppone un’assenza-mancanza che è assordante. Essere lasciati è meglio, così molti «si fanno lasciare» – li dicono codardi, sono solo il risultato di una enorme paura, una strategia intelligente che, alla fine, non è poi così sbagliata: purché colga il punto.
Ecco così che la storia d’amore si trasforma in una storia di dolore, che non salva nessuno dei due partner seppure uno tenda a predominare. Non appena si tira troppo la corda, si teme di cadere nell’oceano del «senza di lui», un timore-terrore che non dà scampo. L’amore che si prova l’uno per l’altro è ormai troppo ricoperto di erbacce e foglie secche, tanto da non poterlo più vedere, sentire. Scappa un «ti amo» non appena ci si sente fragili, e questo dire è alla base di tutto, è ciò che manda avanti tutte le altre cose, riempirsi la bocca di questo è sentirsi immensi, pieni, e non ci si vuole rinunciare. Il dolore di amare coinvolge integralmente il dipendente affettivo – che non sa né può lasciare – in un cataclisma distruttivo: ogni qualvolta lo sguardo dell’amato si posi su altro, una parola di troppo o una parola di meno, una qualunque azione od omissione, egli è stravolto, non è paziente, non capisce, non perdona, è lupo ed agnello e tenta di nascondere l’incontenibile angoscia con altre azioni quali scenate di gelosia, litigate, sfuriate. Spesso si vergogna del suo stesso problema (che riconosce) e lo camuffa, mentendo. Per questo, è in grandi linee considerato un «pazzo» (e tale si considera), la sua autostima crolla. Dal canto suo, il controdipendente non riconoscerà l’angoscia che l’altro prova, concentrato a placare l’ira che quello per ogni cosa apporterà nel rapporto, e si convincerà che il suo partner sia solo molto nervoso, geloso, possessivo, esagerato, traendo forza narcisistica da questo, ma non per forza adocchierà la sua dipendenza e riuscirà a darle questo nome. Ne sarà divorato e non potrà aiutare se stesso o l’altro se non con l’estrema misura del porre fine alla relazione, se lo sa fare.
Chi non ha provato mai dipendenza o sentito la sua presenza all’interno di una relazione? Chi, nei dissidi con il partner, non si è domandato «perché non lo lascio?» rispondendosi «giammai»? Chi non ha amato a tal punto da sentirsi vincolato, stretto, apprensivo – chi, in breve, non ha mai provato, anche per un solo istante, la paura dell’amore tossico o l’amore tossico stesso? E chi, riconoscendolo in tempo, ha saputo mettere sé al primo posto, l’altro altrove? Eppure la tossicità rende l’amore una cosa immensa, primordiale, meravigliosa, piena di contraddizioni ma pur sempre piena. Colui che ha sperimentato l’amore tossico sa che sarà proprio quello l’amore che ricorderà. Essere proprietari legittimi di un amore tossico conferisce dei diritti sul dolore e sulla sofferenza, ma anche sulle emozioni più elevate, l’avvicinamento ad un sentimento celeste che rende giustizia allo sforzo umano di combattere avverso le difficoltà, senza rinunciare all’altro ma impegnandosi perché sparisca la dipendenza, la tossicità che riduce chi la prova ad un rubinetto che sgocciola, e resti solo quell’invidiabile, grandissimo amore, ma spurio.
Nel mito l’amore nasce da una ferita inflitta da Zeus a certi esseri tondi che si univano solo con la Terra e che, spezzati in due, per necessità cominciarono ad accoppiarsi tra loro come due metà con l’aiuto del dio Amore per sentirsi nuovamente interi, dunque per bisogno. Così la dipendenza di quelle figure mitologiche si trasmette all’umanità. Il mal d’amore della dipendenza è assunzione costante di droga, in questo caso di sostanze psichiche e corporali: serotonina, dopamina, ossitocina. Si sfama anche di urla, gelosia, possesso. Servono maggiori quantitativi di dosi e si finisce in circoli viziosi che ripiegano sempre nelle stesse dinamiche, tornando al punto di partenza; si cerca l’immediato alleviamento della tensione attraverso la presenza del partner, il suo occhio fisso su di sé, non si riesce ad uscire dal rapporto anche nei casi più gravi, un tradimento è consentito perché porta a riaffermare la forza della coppia. La temibile caratteristica del rapporto è il «craving», la forte brama di possedere l’altro in modalità «binge», grandi abbuffate che fanno stare bene come quando, nella notte, si apre il frigo e si divora ciò che contiene. Però non si lascia.
Imparare a lasciare andare è uno dei compiti più complessi dell’essere umano, che trova negli altri più che in se stesso ragione di vita. Lasciare chi si è amato è davvero quel supereroe destinato non a tessere una tela, come Spiderman, bensì a sfasciarla per poter ricominciare in un luogo più pulito, più sano, quello dove Dolore non c’è. Bisogna farsi aiutare, e farlo, anche se c’è Amore. Il primo periodo sarà orrendo, come nell’astinenza da droga, ci si chiuderà in se stessi, si proveranno attacchi di panico, si prenderanno benzodiazepine, ci si torturerà ogni minuto; lo saranno anche il secondo e il terzo periodo, tutto sembrerà infinito e insormontabile. Ma, piano piano, questo lascerà il posto ad una nuova vita dove dirsi «io non amo più» e sentire, finalmente, la mancanza di Amore, quella che si voleva sentire, la mancanza di Dolore, un moto di Libertà che restituisce un sé rinato, sì sofferto, addolorato, straziato ma pronto a stare da solo. Per un po’ o per sempre.
Romina Ciuffa, 20 aprile 2025
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