FIERACAVALLI, MARCO DI PAOLA: FISE, LO SPORT EQUESTRE È SENZ’ALTRO UNA DELLE RISORSE DA «CAVALCARE»

VIA COL VENETO – di ROMINA CIUFFA

L’arte equestre è il perfezionamento delle cose semplici (Nuno Oliveira, universalmente considerato l’ultimo dei grandi maestri dell’equitazione). Ed è anche una grande risorsa di ecosostenibilità ed educazione. Fieracavalli è l’evento di riferimento in Italia, ma per il mondo, e da ben 119 anni si tiene nella città scaligera: il binomio Verona-cavallo è un’identità culturale, storica ed economica con origini molto antiche. Difficile, se non addirittura impossibile, immaginare questa città senza i suoi cavalli, simbolo della sua essenza e della sua internazionalità. Da sempre punto di riferimento nell’allevamento e nella commercializzazione dei prodotti di allevamento equino, per questa zona geografica prima tappa storica fondamentale è il 1772, anno in cui Bibbiena progettò e seguì la costruzione del primo quartiere fieristico per cavalli, muli, asini e bardotti. Per più di 100 anni qui si svolsero concorsi ippici con relativo mercato dei migliori esemplari, fino ad arrivare alla fatidica tappa del 1898.

Quell’anno ebbe inizio la moderna storia fieristica scaligera: la prima edizione della Fiera dei Cavalli e dell’Agricoltura. Da semplice mercato equino ha subìto nel corso degli anni uno sviluppo esponenziale, diventando ufficialmente nel 1950 Fiera internazionale e affermandosi come manifestazione leader del panorama equestre mondiale. D’altro canto Verona, per collocazione geografica, si trova al centro degli assi commerciali portanti che collegano i grandi mercati europei ed è ancora oggi punto nevralgico di smistamento di merci e di persone. La presenza di questo importante appuntamento annuale ha influenzato profondamente la zona geografica di riferimento portando allo sviluppo di numerose piccole e medie imprese manifatturiere, nate inizialmente come supporto al mondo equestre e alle sue variegate attività. Fondamentale è l’abilità della manifestazione di mantenere vive le tradizioni nobili e antiche del cavallo, soprattutto a partire dal dopoguerra, momento in cui la notevole crescita economica ed agricola lo ha parzialmente emarginato dalla vita dell’uomo.

Fieracavalli è, oggi, un «catalizzatore d’interesse» per coloro che attraverso il cavallo si riconoscono in un nuovo modo di concepire la vita, legando insieme sport, arte, solidarietà, storia, tempo libero, turismo e avventura. Giunta a fine ottobre alla sua 119esima edizione, consolida il primato di manifestazione di riferimento in Europa per il settore equestre: superati anche quest’anno i 160 mila visitatori, arrivati a Verona in quattro giorni, e dall’estero il 16,5 per cento in rappresentanza di 63 Paesi. Duecento gli eventi che hanno animato i 12 padiglioni della fiera, tra gare sportive di altissimo livello come la Jumping Verona, competizioni morfologiche, discipline western, show e attività didattiche. La prossima edizione, la numero 120, è già stata fissata dal 25 al 28 ottobre 2018.

Del settore equestre parla uno dei suoi principali rappresentanti, Marco Di Paola, presidente della Fise, la Federazione Italiana Sport Equestri, fondata a Roma nel 1926.

Domanda. Fieracavalli 2017, un bilancio. Ed una previsione per il 2018, anno in cui compirà ben 120 anni. Cosa è accaduto in tutti questi anni? E soprattutto, cosa accadrà?
Risposta. Il bilancio non può che essere positivo. Fieracavalli 2017 ha dimostrato l’ottimo stato di salute del nostro movimento sportivo. Inoltre la Fiera di Verona è all’altezza delle aspettative, coma ha dimostrato anche la 119esima edizione. L’appuntamento è molto apprezzato dai nostri appassionati. Il 2018 segnerà un grande e importantissimo traguardo per Verona Fiere: dovremo aspettarci delle sorprese, ma ne parleremo a breve dopo che sarà definitivamente archiviata anche per gli addetti ai lavori l’edizione di quest’anno. La Fise e la dirigenza della Fiera lavorano a un progetto molto ambizioso.

D. Critiche a Fieracavalli provenienti dal pubblico: si torni a pensare ai cavalli e non ai panini. Il senso è: la Fiera sta diventando più un bancomat di settore, agli espositori è chiesto un «dazio» elevato, al pubblico l’entrata costa cara, e dentro le spese sono alte anche per mangiare; mentre, alla fine, i cavalli sono pochi, ed è tutto incentrato sullo «spettacolo». Questo mi è stato riferito da molti che ho ascoltato per le strade della Fiera in quei giorni. Non hanno tutti i torti. Come risponde?
R. La Fise in realtà non è direttamente coinvolta in questa fase degli aspetti organizzativi. Ritengo pertanto che a questa domanda possa rispondere la Fiera. Ritengo altresì che Fieracavalli sia ormai diventata una delle fiere più importanti al mondo, per l’offerta che propone. Ogni anno unisce in una sola settimana tutto ciò che ruota intorno al mondo del cavallo. Bisognerebbe verificare quello che succede in appuntamenti analoghi in altre nazioni, come Francia per Equita Lyon o Germania per Equitana. Non credo ci si discosti molto, anzi. Inoltre le presenze dimostrano che gli appassionati non disertano l’appuntamento.

D. Recente insediamento nella presidenza e, nel programma, un bel cambio di marcia: quale? Quali i problemi trovati irrisolti? Quale le prime azioni già compiute? Come si distinguerà il suo mandato?
R. Sicuramente un bel cambio di marcia per rendere la federazione molto più «smart» e utile a produrre servizi a tutti i tesserati. La Federazione è uscita da una gestione commissariale ma sta procedendo a passo veloce verso una definitiva ripresa. Non posso dire di aver trovato particolari criticità, se non il fatto di dover ottemperare al piano di risanamento. È certamente una difficoltà, perché siamo costretti ad accantonare annualmente delle risorse che avremmo potuto investire diversamente, ma dobbiamo seguire le indicazioni del CONI. Ciò non vuol dire che siamo particolarmente limitati nelle diverse iniziative. La nostra è una federazione florida. Siamo riusciti, infatti, ad abbattere la pressione relativa alle tasse federali sugli istruttori, sui tesserati che portano medaglie con i loro sacrifici sportivi e attraverso la riduzione delle tasse di sponsorizzazione. Stiamo lavorando al progetto delle affiliazioni, che partirà dal 2018, consentendo un abbattimento dei costi, necessario per dare respiro a chi deve occuparsi della base. Dovrebbero essere altri a giudicare, però se dovessi dire per cosa si distinguerà il mio mandato, direi certamente per aver dato vita a una federazione che sta vicino al tesserato e pronta a gestire l’ente a due velocità, stando attenta alle esigenze della base, ma anche a quelle dello sport di vertice.

D. Lo sport, tra i primi quello equestre, riveste un ruolo educativo particolare nei confronti dei giovani. Cosa fate per la formazione e l’educazione?
R. Lo sport in genere ricopre un ruolo educativo, il nostro credo abbia in questo senso un valore aggiunto, perché si pratica con un altro essere vivente: l’atleta cavallo. Stiamo lavorando al progetto di formazione e con grande attenzione a quella dei nostri educatori di base, ovvero coloro che hanno a che fare con i bambini. Attraverso il Progetto Pony Fan Club i nostri tecnici federali stanno girando l’Italia, per spiegare l’iniziativa della federazione, volta sì a incrementare i numeri attraverso la pratica dei giochi pony, ma volta anche e soprattutto all’impiego di una nuova metodologia di insegnamento. L’equitazione in quanto sport deve necessariamente modernizzarsi e adeguarsi alle esigenze dei giovani. È inutile girarci intorno. I nostri istruttori sono dei veri educatori e devono cooperare con i genitori e, perché no, anche con la scuola per la crescita dei giovani.

D. I tesserati che non praticano agonismo di vertice, ossia gli amatori, sono il 93,22 per cento e sono loro che fanno vivere tutta la federazione, ma le risorse finanziarie e tecniche dei dipartimenti è speso per servire la minima percentuale di patentati che gareggiano ad alto livello internazionale. Da una parte ciò è congruo, per dare visibilità al professionismo e al settore equestre, dall’altra è incompatibile con il senso della rappresentanza tout court. Quali misure prenderà?
R. È evidente che il ruolo principale di una federazione è quello di vincere medaglie. Delegati a questo compito, è chiaro, sono le prime squadre del nostro sport. Le vittorie sono molto utili per dare visibilità al nostro sport, basti pensare che grazie a queste siamo nuovamente presenti nelle testate giornalistiche che contano. Più media si interessano di noi. Abbiamo creato una grande base di amatori, ma non solo, basti pensare a quanti oggi tengono il cavallo a casa, nelle campagne. Il cavallo attira e avvicina tanta gente al nostro sport. È proprio grazie al fatto che la stampa ci conferisce più attenzione che la crescita del nostro sport può essere registrata anche a livello di base. Abbiamo restituito l’importanza che meritano, per esempio, a manifestazioni come le Ponyadi o Ponylandia, interamente dedicate al mondo dei giovani che sostengono il nostro sport attraverso la passione e il sacrificio. Le medaglie servono sia per assolvere alla nostra missione sportiva sia per dare più visibilità al nostro sport.

D. Come la federazione tutela le istanze delle varie categorie rappresentate?
R. La nostra è una federazione molto attenta alle esigenze dei propri tesserati. Attraverso i nostri dipartimenti dialoghiamo con i vari ministeri interessati, mi riferisco alle problematiche dei trasporti dei cavalli, della salute etc. Proprio in questi mesi stiamo lavorando a stretto contatto con il ministero della Salute per le vicende che riguardano il trasporto dei cavalli e il famoso modello 4. Sono state cambiate le regole, nell’era della digitalizzazione, i nostri dipartimenti sono a lavoro per trovare le migliori soluzioni con le varie istituzioni e poi comunicare direttamente con i tesserati.

D. Firmato l’accordo con l’Istituto per il Credito sportivo e l’iniziativa «Top of the sport». Di cosa si tratta, nello specifico?
R. Si tratta di una nuova grande opportunità di sviluppo per gli sport equestri. La nostra è stata la prima federazione a stipulare l’accordo con l’ICS dopo la presentazione alla Giunta nazionale del CONI. Si tratta di un’iniziativa che garantisce, per i prossimi tre anni, a tutte le associazioni affiliate la possibilità di usufruire di finanziamenti denominati «mutui light» della durata massima di 7 anni per un credito erogato dalla banca dello sport da 10 mila a 60 mila euro. Tutti gli affiliati potranno fare richiesta attraverso una procedura istruttoria semplificata e con la sola garanzia nella misura dell’80 per cento concessa da parte del Fondo di garanzia, fondo dello Stato in gestione al Credito sportivo. L’Istituto del credito sportivo si è impegnato a garantire finanziamenti per un importo massimo di 3 milioni di euro anche per investimenti in centri federali, impianti di preparazione olimpica e attrezzature top. Credo sia un’opportunità volta alla crescita che il nostro mondo non può farsi sfuggire.

D. È prossima l’assemblea generale della FEI, Fédération Equestre Internationale. In che modo la Fise è considerata, e quali gli argomenti che porterete alla platea internazionale?
R. Cesare Croce è il nostro rappresentante per i rapporti internazionali, quindi non solo per la FEI, ma anche per la EEF (Federazione Equestre Europea). Croce, già presidente della Fise per ben tre quadrienni, è la persona più adatta a ricoprire questo incarico, per la competenza, il carisma e la grande considerazione a livello internazionale. In FEI ha ricoperto per diversi anni anche il ruolo di presidente del Gruppo I, ovvero in rappresentanza delle maggiori federazioni d’Europa. Credo che questo basti per capire che a livello internazionale la Fise ha grandi interlocutori ed è quindi tenuta in grande considerazione. Alla prossima assemblea sono tante le argomentazioni poste dalla FEI sul tavolo di lavoro, dalle prossime Olimpiadi di Tokyo ai regolamenti delle varie discipline. L’Italia sarà in grado come sempre di dire la sua.

D. Come si distingue l’Italia nel contesto equestre?
R. Negli ultimi anni l’Italia è ritornata grande e, per via delle ottime prestazioni dei nostri atleti oggi, è una delle nazioni da battere. I nostri cavalieri sono tra i più temuti quando entrano in campo nelle gare più prestigiose. Basti pensare che mai prima d’ora un italiano ha mai raggiunto le posizioni apicali di Lorenzo De Luca, che quest’anno è stato secondo al mondo, e che proprio quest’anno disputerà la Top Ten di Ginevra (mai successo per un italiano), riservata ai migliori dieci cavalieri del mondo. De Luca e Alberto Zorzi occupano la seconda e quarta posizione del ranking del Global Champions Tour, la formula uno del salto ostacoli mondiale. È vero, il salto è la nostra disciplina principe ma abbiamo medagliati e grandi campioni anche nel dressage, con Valentina Truppa, nel volteggio, con Anna Cavallaro, nel reining, con una squadra campione d’Europa nel 2015 o con Giovanni Masi, campione europeo 2015. Insomma, il nostro è un movimento in grande crescita e i nostri atleti si fanno rispettare.

D. La Fise prende parte, insieme al CONI e Roma Capitale, al progetto di rilancio e valorizzazione di Piazza di Siena. Qual è il progetto, quali le aspettative, quali i costi, quale il vostro impegno?
R. È un progetto davvero importante per la nostra federazione, per gli sport equestri, per la città e per lo sport in generale. Abbiamo stretto un accordo che ci lega al CONI nell’organizzazione del concorso praticamente per otto anni. Abbiamo il dovere di far brillare questo evento sportivo. È questo il nostro obiettivo. Sarà la nuova era di Piazza di Siena che, insieme a Villa Borghese, per la Federazione Italiana Sport Equestri è come una seconda casa. È per questo che partecipiamo con grande passione ed entusiasmo al progetto di rilancio e valorizzazione del sito, sede del tradizionale concorso ippico capitolino. Poter contribuire al ritorno del manto erboso nell’ovale romano è per noi un motivo di grande soddisfazione. Questo magico luogo, nel pieno centro di Roma, è stato testimone della storia del nostro splendido sport. Proprio per questo abbiamo, anche noi, il dovere di prendercene cura. Abbiamo subito affrontato i costi di riqualifica e di sgombero della sabbia, adesso insieme al CONI e soprattutto con le maestranze del Comitato Olimpico partirà il progetto di piantumazione dell’erba.

D. 610 mila ettari di territorio agricolo destinati all’equitazione, il settore vitivinicolo ne occupa 770 mila: l’equitazione è una forma di economia sostenibile «poco conosciuta». Ogni cavallo genera un indotto annuo che va da 30 a 45 mila euro e l’equiturismo coinvolge 100 mila appassionati e vale 900 milioni di euro. In che modo la Fise, ed il settore, si occupano di sostenibilità?
R. Credo che il cavallo faccia da solo sostenibilità. Abbiamo un indotto che è sconosciuto ai più. Basti pensare a chi ferra i cavalli, a chi coltiva il fieno, a chi produce mangime. Tutte attività che si ricollegano al nostro mondo. Il turismo equestre è senz’altro una delle attività che bisogna «cavalcare». Abbiamo presentato il programma del nostro nuovo dipartimento Equitazione di campagna. Attraverso questa disciplina, forse la più praticata, anche al di fuori della nostra federazione riusciremo a dare ulteriore visibilità al nostro sport e lo faremo facendo capire che andare a cavallo non vuol dire solo saltare o fare lezione in maneggio, ma può voler dire ammirare le bellezze architettonico-culturali e naturalistiche ad altezza di sella. In questo l’Italia non ha nulla da invidiare a nessuno.

D. Marco Di Paola: mi parla di lei?
R. Ho iniziato a montare da bambino con Adriano Capuzzo al Pony Club Roma. Ho svolto la carriera agonistica da Junior e Young Rider sotto la guida anche di Duccio Bartalucci e ho fatto i ritiri federali ai Pratoni del Vivaro con il colonnello Raimondo d’Inzeo. Sono stato ufficiale dei Carabinieri a cavallo nel Gruppo Sportivo. Sono avvocato, e gestisco un gruppo di aziende che opera nella filiera dell’edilizia. Sono comproprietario del glorioso Pony Club Roma, comproprietario del circolo Asperteam che ho anche costruito a Roma, cavaliere amatore e proprietario con un team di amici di una scuderia di cavalli di prima squadra di salto ostacoli, affidata a Luca Marziani. Ho deciso di candidarmi alla guida della Fise perché i grandi maestri che ho avuto mi hanno trasmesso l’enorme passione per lo sport equestre. Ho deciso di dedicarmi alla crescita del nostro sport e alla costruzione di una federazione moderna e al passo con i tempi: vorrei dimostrare che siamo un movimento di gente operosa, valida, onestà e in grado di allevare, far crescere e affermare cavalieri e cavalli italiani ai massimi livelli internazionali. (ROMINA CIUFFA)

GALLERY (photocredit ROMINA CIUFFA)

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VERONA: FLAVIO TOSI, DA SINDACO A SINDACO, ECCO LA QUARTA GAMBA DEL CENTRODESTRA

VIA COL VENETO – di Romina CiuffaCapuleti e Montecchi, il clima a Verona è simile. L’amore non c’entra. Un nuovo sindaco da giugno, Federico Sboarina, e qui con me l’uscito, Flavio Tosi, che è stato primo cittadino per 10 anni rendendo la città una capitale d’Europa. I temi che affrontiamo con chi ha governato la città degli innamorati, della lirica, del marmo, dello Spritz, sono quelli dell’agognata (ma quanto?) autonomia del Veneto, degli scontri politici in seno alle divisioni del centrodestra, delle opere da realizzare o realizzate a Verona, della crisi dell’Arena (è del 16 ottobre l’incontro tra il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e Sboarina che ha sancito la fine del commissariamento. Tosi riassume l’accaduto degli ultimi anni: «Una pessima figura internazionale), della revoca del project financing per risollevare l’ex Arsenale austriaco «Franz Josef I» che da tempo attende una riqualificazione, del tema del degrado e dell’insicurezza balzato di recente alle cronache.

Espulso dalla Lega di Matteo Salvini nel 2015 durante il suo secondo mandato scaligero, Tosi – capogruppo per la lista Tosi all’opposizione, presidente dell’Autostrada A4 Brescia-Padova, segretario di Fare!, ed anche presidente di Federcaccia Veneto – è definito, insieme al suo movimento, la «quarta gamba del centrodestra»: l’alternativa a Salvini in un progetto che vuole raggruppare tutte le forze di centrodestra che attualmente non si riconoscono nei partiti tradizionali quali Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega Nord, caratterizzata da un pragmatismo «che va oltre i classici schemi ideologici».

Ecco come Tosi aborre il «periodo ipotetico dell’impossibile».

Domanda. Il Veneto è risultato in prima linea nella richiesta di autonomia dallo Stato centrale, grazie agli sforzi condotti dal suo leader Luca Zaia. A cosa porterà questo percorso, dal suo punto di vista di politico e di cittadino?
Risposta. Porterà a quello che è previsto dalla Costituzione, né più né meno di quello che immagino otterranno le altre Regioni che hanno avviato lo stesso percorso. È una trattativa tutto sommato neanche tanto complessa, aldilà dei proclami, che ha il seguente contenuto: lo Stato passa delle competenze e gira le risorse che spende per esse alla Regione di riferimento perché ne disponga autonomamente. Su questa base credo che il Veneto, la Lombardia, l’Emilia Romagna e chi altri decidesse di procedere in tal senso possano avere un gioco semplice, non ostacolato dal Governo, purché si resti in questo binario. È chiaro che se per fare campagna elettorale si immettono contenuti non praticabili, come la richiesta di trattenere il 90 per cento delle tasse nella Regione e diventare speciali come il Trentino Alto Adige, si rende tale percorso inutile e, a quel punto, non c’è via d’uscita perché la trattativa è impostata male a monte, non essendo in linea con la Costituzione.

D. A chi si riferisce in particolare?
R. Al Veneto. Mentre la Lombardia e l’Emilia Romagna hanno chiesto alcune deleghe, il Veneto oltre ad esse ha chiesto il 90 per cento delle tasse così come avviene in Trentino Alto Adige. Se segue questa impostazione, la nostra Regione non approderà da nessuna parte: lo Stato, su queste basi, neanche comincerà a trattare.

D. Perché è accaduto questo?
R. Il tema è elettorale: pur essendo Roberto Maroni dello stesso partito di Luca Zaia, mentre gli altri governatori mirano a portare a casa il risutato a Zaia interessa fare campagna elettorale. È un dato di fatto oggettivo: la prima uscita che ha fatto dopo l’esito referendario – poi rimangiata in un solo giorno in quanto bocciata da Forza Italia – è stata la richiesta di Statuto speciale. Così il governatore ha abbassato il tiro chiedendo comunque il 90 per cento delle tasse, anche questo impossibile per buon senso: lo Stato non può dare più risorse di quelle che spende, è una partita di giro e non può andare in difficoltà con i suoi conti. Glielo ha detto anche il deputato e vicesegretario della Lega Nord Giancarlo Giorgetti.

D. Ragionando sui temi specifici del Veneto, sarebbe giusto in effetti che si prendesse la specialità dello Statuto?
R. Se la ottenesse il Veneto, la pretenderebbero anche la Lombardia, il Piemonte, l’Emilia Romagna e quelle altre Regioni che avrebbero da guadagnarci, ma lo Stato fallirebbe poiché si regge sul residuo fiscale attivo di alcune Regioni – in particolare la Lombardia con circa 54 miliardi, il Veneto e l’Emilia Romagna con circa 15 – mentre altre come Sicilia, Calabria, Lazio, Campania, Trentino, drenano i soldi dallo Stato centrale. Porre una simile ipotesi equivale a formulare un periodo ipotetico dell’impossibile.

D. Lei a cosa punterebbe?
R. A portare a casa quello che è possibile portare. Al referendum ho votato sì. Lo Statuto speciale magari averlo, ma sono realista e so che è impossibile ottenerlo, inutile chiederlo.

D. Un commento veloce sulla situazione catalana?
R. L’autonomia di cui gode la Catalogna è già straordinaria, un grado altissimo, tranquillamente paragonabile a quella del Trentino Alto Adige, e non capisco per cosa protestino. Sono un federalista, non un secessionista. È chiaro che il Governo spagnolo gli abbia impedito di secedere.

D. A Verona in particolare, quali sono stati gli esiti referendari?
R. C’è stata un’affluenza non alta – il 46 per cento per la città in sé – rispetto alla media regionale che ha sfiorato il 60 per cento, per vari motivi. Come anche in altre votazioni, ad esempio la Brexit che ha avuto connotazioni diverse nelle grandi città e nei piccoli Comuni, l’affluenza è stata mediamente inferiore rispetto alla provincia. Siamo sempre stati considerati, e un po’ ci riteniamo, una «periferia dell’Impero»: Verona ha un rapporto di minore «affetto» rispetto al resto del Veneto, siamo «un po’ lombardi», ossia diversi come tutte le realtà di confine, e abbiamo anche una storia che è diversa: la Repubblica Serenissima è passata anche da Verona, ma per un periodo più breve e meno intenso.

D. Come si è verificato il passaggio dal suo mandato (doppio) al nuovo sindaco scaligero?
R. Il centrodestra si è presentato diviso. Sommando i voti che ha preso la mia coalizione – al primo turno il 24 per cento – a quelli del nuovo sindaco Sboarina – al primo turno il 29 per cento – e a quelli delle altre liste civiche, si arriva ai voti che normalmente prende il centrodestra a Verona, ossia circa il 60 per cento. Al ballottaggio sono andate le due coalizioni del centrodestra, rimanendo escluso il centrosinistra, e quelli che sono rimasti fuori dal ballottaggio hanno votato prevalentemente per il centrodestra tradizionale.

D. Oltre alla vittoria del nuovo sindaco, ci sono stati altri motivi che hanno portato «l’altro centrodestra» a vincere queste elezioni?
R. Sicuramente hanno inciso i miei rapporti con la Lega, da cui nel 2015 sono stato espulso da Salvini. Questo ha cambiato le prospettive sulla città. Già nel mio ultimo mandato avevo all’opposizione Forza Italia, il PDL, più in generale il centrodestra tradizionale, così come il centrosinistra e il M5S. L’unica forza in maggioranza con me negli ultimi 5 anni è stata la Lega. Ciò che è cambiato questa volta è che anche la Lega è passata dall’altra parte.

D. Perché è stato espulso da Salvini?
R. Un modo di vedere profondamente diverso, gli atteggiamenti rispetto all’uscita dall’euro, alla flat tax, alla secessione ed altro. Ci sono stati periodi in cui per Salvini chi stava nella Lega obbligatoriamente doveva sostenere l’uscita dall’euro o essere secessionista, cosa che non sono mai stato. Affrontiamo i temi politici con differenti approcci: io sono pragmatico, lui cavalca anche l’impraticabile. È la differenza che passa tra Salvini e Zaia da una parte, più populisti, e Maroni dall’altra, più pragmatico. Il populismo elettoralmente paga: Maroni ha fatto una campagna referendaria molto istituzionale, sui contenuti, non caricandola con tematiche indipendentiste, e in Lombardia è andato a votare il 40 per cento degli aventi diritto; da noi la campagna di Zaia ha portato a votare quasi il 60 per cento dei veneti.


Flavio Tosi e Matteo Salvini

D. In cosa si distingue principalmente la sua decennale gestione scaligera da quella che Verona si aspetta ora da Sboarina?
R. Verona, nei 10 anni della mia gestione, è passata dall’essere una città provinciale semisconosciuta all’essere una città europea, con un flusso turistico che è aumentato in maniera straordinaria e con grandi investimenti, rendendosi quello che oggi è il motore economico del Veneto rispetto a città, come Padova o Venezia, con le quali Verona si è sempre confrontata. Oggi è lei quella più dinamica, più attrattiva di investimenti, più ricca di potenzialità. Abbiamo fatto un salto di qualità. Sboarina nelle sue prime mosse ha cercato di bloccare alcune iniziative imprenditoriali già avviate, rischiando di portarle indietro. Dal mio punto di vista un sindaco deve favorire gli investimenti, non bloccarli.

D. Può essere più specifico?
R. Per esempio, per l’ex Arsenale austriaco, complesso in centro, avevamo completato la procedura per un project financing pubblico e privato di recupero, e il nuovo sindaco l’ha affossata a settembre con una delibera del Consiglio comunale. Avevo chiuso la gara, avevo assegnato il progetto; alla fine del mandato la nuova amministrazione starà ancora parlando di come risolvere la questione. La grande contraddizione è che il mio operato è stato votato a suo tempo dallo stesso Sboarina, che componeva la mia coalizione. Un altro esempio: avevamo previsto la trasformazione commerciale di una serie di immobili, la nuova Giunta ha dichiarato che la impedirà.


Federico Sboarina e Flavio Tosi

D. Questo avviene per dinamiche politiche, ossia di passaggio da un sindaco all’altro , o perché effettivamente ci sono divergenze nella visione della città che lui ha reso note in campagna elettorale, e per questo è stato scelto rispetto alla coalizione che lei rappresenta?
R. La cosa paradossale è che gran parte di coloro che sono ora nell’amministrazione attuale mi appoggiavano in uno dei miei due mandati, appartenevano alla mia maggioranza, erano d’accordo con il mio operato. Hanno fatto una campagna elettorale di contrapposizione: essendo loro la naturale omogeneità della mia squadra, in quanto la componevano – il sindaco è stato mio assessore nel primo mandato così come parte della sua Giunta, e alcuni attuali consiglieri comunali sono stati miei consiglieri comunali -, si sono dovuti differenziare in tutto e per tutto nonostante avessero votato in precedenza quanto ora stanno bloccando. Aspettiamo però la parte propositiva, è ancora troppo presto per parlare a quattro mesi dall’insediamento. Come avvenuto per l’ex Arsenale, pur proveniendo dalla stessa parte politica e avendo condiviso una serie di provvedimenti, i nuovi insediati hanno dovuto smentirli per non diventare solo una brutta copia della mia amministrazione. Il loro maggior sostenitore, oggi, è l’estrema sinistra, che ne elogia le scelte. È una cosa singolare, ma per me è normale rispetto a ciò che è stata la campagna elettorale, tanto è che l’estrema sinistra al ballottaggio li ha votati.

D. Rispetto all’Arena di Verona, lei l’ha seguita negli ultimi dieci anni fino al recente commissariamento. Come è possibile che un così importante e riconosciuto bene pubblico entri in crisi?
R. Il sold out dell’Arena è dovuto alle attività dell’extra-lirica, ossia a quelle che fanno i privati noleggiando di fatto il monumento; con la lirica viene venduta la metà dei biglietti. È un problema italiano, non veronese: il pubblico della lirica è generalmente in calo mentre il pubblico dell’extra-lirica è generalmente in crescita. Quando mi sono insediato, si facevano non oltre tre eventi l’anno di extra-lirica, oggi siamo a quasi 50. Ho differenziato il prodotto, portando l’extra-lirica in Arena. Ma oggi tutte le fondazioni liriche in Italia, a parte Milano e Venezia, sono in difficoltà: questo perché il modello di gestione è sbagliato, bisogna puntare su un modello più privatistico. Dopo aver fatto un lungo braccio di ferro con i sindacati, avevamo chiesto di mettere in liquidazione l’ente pubblico per trasformarlo in privato; con il commissariamento, invece, c’è da aspettarsi che nel giro di qualche anno le difficoltà finanziarie torneranno tante quante prima. Questo è il destino dell’Arena di Verona e di tutte le fondazioni liriche in Italia, che oggi hanno complessivamente 400 milioni di euro di debito, di cui 25 milioni sono veronesi. Alla fine dei conti, siamo tra quelli che stanno «meno peggio». Infatti le entrate, che prima erano migliori anche per la contribuzione pubblica, sono costantemente in calo.

D. Si attende un «Central Park» veronese, grande, immensa area che Rfi, Rete ferroviaria italiana, dovrebbe auspicabilmente passare al Comune. L’AD Maurizio Gentile ha rassicurato Verona. Cosa accadrà?
R. Questa amministrazione non rientra coi tempi nel compimento del programma perché le Ferrovie, proprietarie dell’area, hanno già dichiarato che non potranno liberarla prima del 2024, ossia oltre il mandato dell’attuale sindaco. Inoltre, sperare che le Ferrovie – le quali hanno valorizzato molte aree simili in altre città, come ad esempio Bologna – regalino al Comune mezzo milione di metri quadri, che frutta loro una voce in bilancio di circa 90 milioni, mi sembra sia una pia illusione. Anche da un punto di vista contabile il progetto è di difficile realizzazione, in quanto l’area è in parte di proprietà di Mercitalia Logistics, controllata delle Ferrovie dello Stato Italiane. Il mio predecessore Paolo Zanotto aveva proposto che metà dell’area – edificabile – restasse alle Ferrovie, e metà – il parco – venisse ceduta al Comune di Verona: questo, probabilmente, era un progetto più realistico.

D. La polemica sui tema sicurezza e degrado in città a Verona, esplosa poco dopo il nuovo insediamento, da cosa è stata generata?
R. Lo ha detto lo stesso segretario provinciale della Lega Paolo Paternoster in una conferenza stampa alla stazione: a Verona è peggio di prima. La sicurezza dipende da come si gestiscono le Forze dell’Ordine, in particolare la Polizia municipale. Vediamo cosa succederà. Stiamo documentando il problema sicurezza monitorando la presenza di senza fissa dimora e quant’altro, e lo facciamo andando in giro per le piazze, ai semafori, nei parchi, a filmare la situazione. Il coordinamento con le Forze dell’Ordine c’era già durante il mio mandato. Ma saranno i veronesi a valutare se le cose andranno meglio in questi anni. (ROMINA CIUFFA)




MAURIZIO DANESE (VERONAFIERE), DAL BALCONE DI ROMEO E GIULIETTA AL BALCONE INDUSTRIALE DEL MADE IN ITALY

VIA COL VENETO (di ROMINA CIUFFA). Da Vinitaly a Fieracavalli, gli eventi fieristici più «in» del nostro Paese avvengono nella città dell’amore, quella che prima di tutto è collegata, nella letteratura ed ormai nell’immaginario collettivo, alla storia «eccellentissima e lamentevolissima» di Romeo e Giulietta. Di certo la scaligera – dodicesima provincia italiana per numero di imprese – è, sotto il profilo culturale (ed, indirettamente, del business), una delle più fruttifere di Italia, luogo di incontro naturale tra turismo ed affari, in vicende che seguono la forza e la testardaggine dei due innamorati shakespeariani, ma che finiscono, invece, bene. E non muore nessuno. Nata nel 1898, la Fiera di Verona inaugura con una edizione sperimentale dedicata ai cavalli alla presenza di Vittorio Emanuele III nell’attuale Piazza della Cittadella (a due passi da piazza Bra e dall’Arena), sintetizzando le vocazioni della campagna veronese e le tradizioni che fanno risalire all’807 d.C. la prima fiera tenutasi sul sagrato della Basilica di San Zeno, anche ampliandosi con altri capi di bestiame e, in generale, nel settore agricolo. Alla Fiera Cavalli si affiancò sin dal 1899 una mostra di automobili, a dar lustro al primo inventore del motore a scoppio, il veronese Bernardi.

Nel 1930 avvenne la trasformazione in ente autonomo, che dalla location centrale dovette spostarsi nel 1948, essendo presto divenuta insufficiente l’area di originale competenza, ed occupare la zona industriale a sud della città, attuale complesso di Veronafiere, così potendo ospitare gli eventi principali italiani, oltre alla storica Fieracavalli (di cui quest’anno si è tenuta la 119esima edizione): da ArtVerona ad Elettroexpo (fiera dell’elettronica e del radioamatore), Fieragricola, Job&Orienta, Marmomac (per l’industria del settore litico), Model Expo Italy (modellismo statico e dinamico), Motor Bike Expo (moto), Samoter (macchine per il movimento terra e da cantiere), Progetto Fuoco (dedicata al riscaldamento da biomasse legnose), Innovabiomed (industria biomedicale), Cosmobike Show (fiera sul mondo delle biciclette), fino alla più nota, Vinitaly.

Ed ora una nuova iniziativa «a doppia targa»: collaborazione storica quella tra parmigiani e scaligeri che oggi sfocia in Wi·Bev riunendo le tecnologie per il «wine & beverage», settore che per macchinari, attrezzature e tecnologie per la viticoltura e l’enologia conta 3,6 miliardi di euro e il cui 70 per cento è derivato dall’export. Il Wine&Beverage Technologies Event, co-organizzato da Fiere di Parma (sotto la guida di Gian Domenico Auricchio), è già in programma dal 4 al 5 dicembre 2018 nell’ambito di «wine2wine», subito dopo la vendemmia, quando le aziende vitivinicole non sono più impegnate nelle operazioni di campagna. Wi·Bev unirà il momento espositivo al confronto diretto tra aziende del settore, fornitori di macchine e impianti nonché tecnici della filiera, oltre a «capitalizzare gli aspetti ‘smart’ dell’esperienza innovativa di Cibus Connect–ha sottolineato Antonio Cellie, amministratore delegato di Fiere di Parma–associandola ad un palinsesto di approfondimenti specifici e mirati al comparto tecnico e produttivo della filiera vitivinicola e non solo».

Travalicati i confini della città e della nazione, promuovendo eventi fieristici nei Paesi extraeuropei maggiormente interessati alla produzione italiana – tra tanti, la Cina e il continente asiatico, in cui Veronafiere gioca un ruolo da protagonista per l’Italia sulla Via della Seta – Veronafiere è oggi il primo organizzatore diretto di manifestazioni in Italia, secondo per fatturato e ai vertici in Europa, con oltre cento anni di esperienza nel settore ed una posizione geografica strategica, al centro delle maggiori direttrici intermodali europee. Un hub naturale per la promozione internazionale del sistema industriale e dell’eccellenza made in Italy, che fornisce strutture e servizi aggregativi a visitatori ed espositori. Il fatturato è generato per l’87 per cento da fiere di proprietà ed organizzate direttamente, delle quali detiene il know-how completo, dalla pianificazione strategica alla realizzazione tecnica-operativa. La gestione del marketing, della comunicazione, del quartiere e dei servizi, una rete di delegati presenti in tutto il mondo, relazioni forti con le istituzioni nazionali ed i mondi associativi sono gli asset sui quali si fonda Veronafiere.

A proposito di internazionalizzazione, si è appena tenuto a Johannesburg, in Sudafrica, il tradizionale Ufi Congress di fine anno, che ha visto diversi seminari dedicati ai temi più caldi per l’industria fieristica. L’Italia, con un folto gruppo di delegati, ha visto una importante serie di nomine all’interno dell’organizzazione mondiale delle fiere, a partire da Corrado Peraboni (già amministratore delegato di Fiera Milano ed ora chairman di Cipa Fiera Milano Publicações e Eventos) per la presidenza dell’Associazione mondiale delle fiere (Ufi), il quale ha dato risalto alla strategia «PIN» (Promote, Inform e Networking), come base su cui l’ecosistema delle fiere deve sempre di più fondare la propria crescita e sviluppo industriale. La nuova nomina alla presidenza riafferma il valore del comparto fieristico italiano nel contesto internazionale, insieme alla rinnovata composizione del Board of Directors, cui per i prossimi tre anni è stato confermato Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere, nella carica di primo vicepresidente dello European Chapter; oltre a lui nominati anche Matteo Marzotto, vicepresidente esecutivo di Italian Exhibition Group, e Giorgio Contini, direttore internazionale di BolognaFiere.


Marco Di Paola, Giovanni Mantovani e Maurizio Danese

Parla il presidente di Veronafiere Maurizio Danese, operativo per il triennio 2015-2018, socio di un gruppo di aziende che opera nel settore della fornitura di prodotti alimentari al canale Horeca, consigliere della Camera di commercio di Verona e vicepresidente vicario di Confcommercio Verona.

Domanda. Quali le strategie per il futuro di Veronafiere con il Comune?
Risposta. L’amministrazione comunale veronese è il socio di maggioranza relativa di Veronafiere spa. Abbiamo illustrato il piano industriale di sviluppo al 2020 che prevede investimenti pari a 94 milioni di euro, così come stiamo ragionando insieme sul ridisegno del quartiere sud della città sul quale insiste la Fiera di Verona.

D. Dopo una battuta d’arresto del 2015, Veronafiere è ripartita. Come? Quali i numeri oggi?
R. Nel 2015 non c’è stata nessuna battuta d’arresto. Semplicemente Veronafiere, nell’interesse del Paese, ha risposto ad una domanda specifica da parte del Ministero delle Politiche agricole e di Expo per occuparsi della realizzazione del Padiglione del Vino all’Esposizione universale di Milano. Abbiamo quindi dovuto mettere mano ad un investimento molto più ingente di quanto preventivato ma, se non l’avesse fatto la Fiera di Verona con Vinitaly, con tutte le difficoltà che Expo ha dovuto incontrare, non sarebbe stato possibile offrire un’esperienza unica come quella che ha rappresentato il padiglione «Vino -A Taste of Italy», visitato da oltre 2,1 milioni di persone, di cui il 20 per cento straniere. In quell’anno, in cui sono stato nominato presidente proprio a fine Expo, il consiglio di amministrazione di Veronafiere ha deciso di inserire quanto investito nel bilancio 2015 che, senza questi extra costi, avrebbe chiuso con un Ebitda di 8,1 milioni di euro.

D. Come è avvenuto il processo di trasformazione in spa?
R. La trasformazione in società per azioni ha seguito l’iter previsto dalla normativa regionale, iniziato con la nostra richiesta il 4 luglio 2016. In poco più di sei mesi abbiamo quindi compiuto tutti passaggi tecnici, burocratici e legislativi, con il via libera dalla Regione del Veneto arrivato ad ottobre, fino al 29 novembre 2016 con la trasformazione in spa, entrata poi in vigore ufficialmente dal 1° febbraio 2017.

D. Può indicare alcuni aspetti del Piano industriale di sviluppo al 2020 relativi a Veronafiere?
R. Con questo piano industriale gli obiettivi che si intendono conseguire sono fondamentalmente due. Rafforzare il ruolo di leadership mondiale in particolare nelle filiere «wine&food» e marmo-costruzioni e continuare a essere un motore di produzione di ricchezza per la città e per il territorio. In questo contesto prevediamo al 2020 un volume d’affari obiettivo di 113 milioni di euro con un Ebitda di 21,9 milioni di euro, pari al 19 per cento dei ricavi.

D. Giovanni Mantovani è ora nel Board of Directors dell’Ufi, la Global Association of the Exhibition Industry. In che modo Veronafiere avrà voce in quella sede, anche in rappresentanza italiana, e non solo scaligera?
R. Non è la prima volta che Veronafiere ha un proprio rappresentante nel board dell’Ufi, di cui siamo membri dal 1932. In questa sede porteremo tutta la nostra esperienza di organizzatori di manifestazioni dal 1898, ma ragionando sempre in ottica di promozione del sistema fieristico italiano nel suo complesso.

D. Fieracavalli 2017 ha avuto un grande successo. Sogna di portare i cavalli in Arena: c’è speranza, anche in occasione del 120esimo compleanno di Fieracavalli nel 2018?
R. Fieracavalli ha chiuso l’edizione 2017 superando ancora le 160 mila presenze, di cui il 16 per cento dall’estero, da 63 nazioni. L’idea di riportare un evento equestre di altissimo livello in Arena, nel cuore di Verona, fa proprio parte di alcune iniziative che stiamo valutando in occasione dei 120 anni della manifestazione. Sarebbe di sicuro un evento indimenticabile per la città e per tutti gli appassionati di questo mondo.

D. Non solo Vinitaly: molti gli accordi, molte le esposizioni e i contenuti. Quali, per lei, i principali, e quali i nuovi obiettivi?
R. Veronafiere organizza in media più di 60 manifestazioni all’anno. Oltre a Vinitaly e Fieracavalli, penso a Marmomac, il primo salone al mondo per la filiera della pietra naturale e delle tecnologie, e poi Fieragricola, dedicata al settore primario, senza tralasciare il mondo delle macchine da costruzioni, con Samoter. Questi sono soltanto alcuni dei nostri marchi più conosciuti e di successo. Il nostro obiettivo resta sempre quello di consolidare il portafoglio di rassegne leader, sviluppare le potenzialità esistenti, anche attraverso collaborazioni e partnership, e aumentare significativamente la quota di mercato e la redditività, posizionando così saldamente la Fiera di Verona tra le più importanti realtà internazionali del settore.

D. Veronafiere all’estero, come è rappresentata? Come è vista? Oltre a Italian Wine Channel, cosa c’è?
R. L’estero è sempre più chiave di crescita fondamentale per il nostro business. Ogni anno sono in media una ventina gli appuntamenti che realizziamo in oltre 10 nazioni nei settori del «wine&food» e del «building&construction». Con gli eventi fieristici, le missioni commerciali e le attività formative delle nostre «academy» abbiamo creato una community globale del vino e del marmo, in particolare negli Stati Uniti, in Brasile e in Cina, ma stiamo concentrando negli ultimi anni gli sforzi anche in Africa e in Medio Oriente, mercati dal grande potenziale. La nostra forza è quella di essere prima di tutto ambasciatori, insieme alle aziende, di molte eccellenze del made in Italy.

D. Veronafiere in Brasile con Veronafiere do Brasil: perché il Brasile?
R. Il Brasile è l’economia più importante del Sudamerica e, nonostante la recente crisi, è ancora una delle aree a più alto tasso di crescita dell’area. Per la nostra attività è un punto strategico nel comparto lapideo, ma stiamo valutando anche nuove iniziative nel settore vitivinicolo, vista la posizione privilegiata di accesso ai vicini mercati dell’area Nafta.

D. L’innovazione digitale ha cambiato la fieristica?
R. L’innovazione digitale ha cambiato tutto il nostro mondo, non soltanto quello fieristico. Da Veronafiere una attenzione particolare a riguardo è rivolta ai processi e alla gestione dei rapporti con i clienti e il mercato. Abbiamo un progetto specifico inserito nel piano industriale di sviluppo, con investimenti importanti sia in termini di formazione che di servizi.

D. Quali, secondo lei, le modalità per rilanciare l’Italia nell’economia positiva attraverso la fieristica?
R. Le fiere sono da sempre uno strumento fondamentale per la promozione internazionale e lo sviluppo dell’export. In Italia, per il 75 per cento delle piccole e medie imprese, sono anche l’unico momento di visibilità estera. Un ruolo di leva economica che è riconosciuto dal Ministero per lo Sviluppo economico e dall’Ice-Agenzia che dal 2015 hanno inserito alcune manifestazione fieristiche, tra cui Vinitaly e Marmomac, tra quelle strategiche per il Paese. In questo caso la via è una sola: fare squadra tra sistema-fiere nazionale, imprese e Governo per presentarsi uniti sui mercati stranieri, coordinando le risorse in azioni mirate di incoming e outgoing.

D. Turismo fieristico e congressuale: quali le peculiarità?
R. Le fiere rientrano a pieno diritto anche nel settore Mice (Meeting Incentive Congress & Events), come gestori di mete privilegiate per il turismo d’affari e i congressi. Veronafiere all’attività «core» che porta alle manifestazioni ogni anno 1,2 milioni di visitatori, affianca quella di un centro congressuale che organizza 330 eventi all’anno con 85 mila partecipanti di media. La Fiera di Verona vanta poi una location unica, a poca distanza dal centro storico di una città patrimonio dell’Unesco e nella top ten delle mete turistiche italiane.

D. Perché scegliere Veronafiere? Come si distingue dalle altre fiere italiane?
R. Oltre ad avere quasi 120 anni di esperienza nel settore, il nostro più grande plus è quello di essere organizzatori diretti della quasi totalità delle nostre manifestazioni di successo. Significa che Veronafiere non si limita a vendere gli spazi espositivi del proprio quartiere, ma l’87 per cento del proprio fatturato è generato da fiere che sono di nostra proprietà e di cui curiamo direttamente crescita, sviluppo e rapporti con i mercati e gli stakeholder. (ROMINA CIUFFA)

GALLERY (photocredit ROMINA CIUFFA)

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SEBASTIANO ZANOLLI: ECCO COME FARE, CON (MOTIV)AZIONE, LA GRANDE DIFFERENZA

«Io sono un manager, uno di quegli odiati o invidiati personaggi che passano la vita tra meeting e target, tra down-sizing e market share, tra presentazioni in power point e key account arrabbiati». Si presenta così, nel suo primo libro del 2003 («La grande differenza», Franco Angeli), Sebastiano Zanolli. Da allora sono cambiate molte cose. E infatti già scriveva: «La capacità di prevedere è senza dubbio una caratteristica dei grandi realizzatori», e specificava: «Non sto parlando di indovini o di lettura delle carte. Sto parlando dell’attitudine ad agire nel presente, avendo in mente il futuro». Citando Charles F. Kettering: «Tutti dovremmo preoccuparci del futuro, perché là dobbiamo passare il resto della nostra vita», personalmente scriverei: «Tutti dovremmo preoccuparci del futuro, perché là dobbiamo passare il resto del nostro presente».

Questo ha fatto Zanolli: si è talmente impegnato a comprendere come da un’azione oggi derivino le azioni di domani, come dall’autodisciplina scaturiscano risultati significativi, come dal benessere di un solo individuo derivi il benessere dell’azienda che lo impiega prima, dell’intera società dopo, che è divenuto uno «speaker motivazionale». Ante litteram: quando cominciò ad occuparsi di «motivare» (lui ci dirà, in questa intervista, che il suo obiettivo è «ispirare»), non esisteva la figura del «coach» o «counsellor», che tanto va di moda oggi. Ha precorso i tempi ed ora ispira gli ispiratori, motiva anche i motivatori. Lo paragonerei al suggeritore che è nascosto nel «gobbo» del palco, durante uno spettacolo in teatro. Colui che dice le battute giuste a chi le pronuncia dinnanzi alla platea.

Zanolli è colui che spiega alle aziende – non alla persona giuridica ma alle persone fisiche che la compongono – «perché» e non «come» raggiungere gli obiettivi. E nella crisi che il mondo sta vivendo, la depressione economica affianca quella patologica a tal punto da non distinguersi più quale, tra le due, sia la causa e quale sia l’effetto. Così l’azienda chiama Zanolli, che da Bassano del Grappa arriva, intriso di energia veneta, e spiega come sviluppare il sistema reticolare attivante, meccanismo che scatta quando si decida a darsi un ordine attraverso la sua continua ripetizione nella nostra testa, in modo che il subconscio si programmi per realizzarlo, attivandosi ed accrescendo la sensibilità e la consapevolezza verso le idee e le persone.

Convinzione e connessioni, ecco la chiave, l’effetto leva della nostra motivazione. Zanolli lo sa.

LA VIDEOINTERVISTA

L’INTERVISTA

Domanda. Manager, scrittore e speaker motivazionale. Qual è stato il suo percorso di vita?
Risposta. Dopo aver preso la laurea in Economia e commercio ho cominciato a lavorare da subito come venditore, avendo per caso incontrato il titolare di un’azienda di tessuti che cercava un assistente che lo seguisse in giro per il mondo. Mi piaceva viaggiare, e dovevo imparare a proporre merce, cosa che io, essendo figlio di un artigiano, non avevo imparato. Avevo imparato però che funzione del benessere nella vita è il lavoro, e più si vuole più si deve lavorare. Entrato nel mondo delle vendite, mi resi conto che non era così, che il venditore non ha diritti, li ha il cliente, e a quel punto viene a mancare la connessione logica tra lavoro e risultati che è invece presente nel lavoro di un operaio. Cominciai così a confrontarmi con gli addetti ai lavori, rendendomi conto che la maggior parte di essi non sapeva darmi risposte, così decisi di scriverle io: nel 2003 uscì «La grande differenza», che ebbi la fortuna di pubblicare con la Franco Angeli attraverso un amico che mandò il mio manoscritto alla redazione. Il libro ha cominciato a vendere, quindi vendere bene, ed è ora un «long seller» da 24 ristampe. Ne sono nati argomenti di approfondimento.

D. Dove nasce l’azione?
R. C’è chi attende di far qualcosa che dia significato e che renda significativa la propria esistenza, ma non si mette in moto. Si deve muovere se stessi e muovere gli altri in relazione a risultati economici. Non a tutti interessa la connessione tra le azioni ed il risultato che devono ottenere. Ho riflettutto sulle galassie degli obiettivi personali: la paura, la presenza di altri che possono essere di supporto, la possibilità di essere a sua volta di aiuto, le reti di direzione, tutti temi relativi al «marchio personale», non alla persona ma al personaggio. Avevo notato che, mentre nell’aspetto esistenziale si è persone ed è importante essere significativi per se stessi, nel gioco sociale di mercato e liberista vale il personaggio, la sovrastruttura che si crea attorno alla propria persona. Mi sono accorto che ci sono personaggi che possono portare a casa risultati senza essere persone, e persone che non essendo personaggi non riescono a portare a casa risultati. Vincent Van Gogh e Pablo Picasso sono due esempi speculari: uno muore povero, l’altro riesce a sfondare in vita. Non voglio soffermarmi troppo sul tema della ricchezza, ma come manager l’aspetto del risultato economico resta importante: negare che il benessere materiale sia una cosa cui ambiamo, non fosse altro che per mantenere i genitori anziani, è impossibile. Ho scritto molti altri libri, ed hanno ampliato la mia superficie di contatto con il pubblico non aziendale mentre continuavo a fare il manager in azienda. I miei libri mi hanno fatto promozione e le aziende hanno cominciato a chiamarmi per fare delle consulenze. Così è nato questo lavoro. Ed ho la fortuna di avere grande passione per una materia per cui il mercato è disponibile a pagare.

D. Chi la cerca?
R. Mi chiamano per la formazione in aula o all’interno di kermesse. In quest’ultimo caso, è richiesto un intervento più mirato che è racchiuso in un tempo breve, teso a motivare istantaneamente.

D. In cosa consiste il suo lavoro da manager, e come si affianca alla strada parallela dello «speech» aziendale?
R. Il mio lavoro consiste nel fare «employer branding», quelle attività utili a tenere lucido il marchio dell’azienda non tanto nei confronti dei consumatori, cui pensa il reparto del marketing, bensì nei confronti degli attori che hanno a che fare con il marchio da fuori, quindi università, organizzazioni, enti politici, Comuni, ossia coloro che devono avere una buona idea del marchio, inclusi i dipendenti, i talenti e le persone che escono dalle università ed aspirano ad un luogo di lavoro come quello che l’azienda offre. Mi occupo dell’aspetto qualitativo dell’organizzazione, non tanto per i consumatori quando dal punto di vista del benessere dei lavoratori, coinvolgendo il tema dell’attrattività dell’azienda per uno studente che vuole crescere. Al di là del fattore economico, lo studente che si affaccia sul mercato si pone questa domanda: qual’è l’azienda in cui si sta meglio, che mi farà crescere di più, che mi arricchirà? Tale lavoro si sposa molto bene con i temi del facilitatore, anche se spesso mi definiscono un «motivatore» o un «coach»; non che io mi ribelli a queste definizioni, sono solo più semplici.

D. È davvero possibile «motivare» con un discorso o con un libro?
R. Il motivatore presume di entrare in un posto ed uscirne dopo aver motivato le persone che lo hanno ascoltato. Nella mia esperienza non ho mai visto nessuno motivare qualcun altro: ho visto qualcuno «ispirare» qualcun altro. La motivazione è sempre frutto di ragionamento, di un sentimento interno. Si può preparare la tavola, sistemare il fiore, poi è il meccanismo che si sviluppa all’interno della persona che deve mangiarvi a farle apprezzare il contesto e scegliere tra un ristorante e l’altro. Una motivazione sorta per il solo fatto di aver ascoltato uno «speech» è una motivazione di breve durata, come camminare sui carboni ardenti. Possiamo lasciarci ispirare, ma la motivazione è più sofisticata.

D. La sua storia da «ispiratore» è iniziata in un momento in cui non era troppo in uso del resto, e figure simili non esistevano. Ora può essere l’ispiratore degli ispiratori, mentre prima non aveva qualcuno cui ispirarsi e da cui, in seconda facie, essere motivato.
R. Vero. Questo è importante. Mi citano nelle tesi, mi cercano. Il fatto di essere partito in un momento in cui il mercato non presentava tale offerta mi ha consentito di fare quello che faccio e di dedicarmi ad entità plurime, creando relazioni costruttive: infatti, lavorando con le persone sulla loro motivazione e in modo accorto ed onesto, è difficile che non si sviluppino buoni rapporti. Questo fattore apre un altro ventaglio di possibilità. Anche l’online si avvale delle raccomandazioni degli altri; il «feedback», che è frutto di un’esperienza e di una relazione, è sempre più importante. Credo molto nello strumento delle relazioni, e va trattato con cura perché la linea che c’è tra il raccomandare chi è meritevole e la malversazione è sottile, e la fa da padrona la morale che ciascuno di noi sposa.

D. La democrazia di internet dà più manforte alla lealtà di queste relazioni, contrastando una forma di favoritismo verso amici attraverso il «feedback»?
R. C’è assolutamente più trasparenza.

D. In un momento di economia stagnante e di «low profile», come «ispirerebbe» un’azienda depressa, in senso economico ed in senso psicologico, che deve trovare delle basi in un mondo di altre aziende che si trovano nella medesima condizione?
R. Per me non esiste l’azienda, mi riferisco sempre alle persone all’interno della stessa. Quando mi chiamiamo a fare interventi di tipo motivazionale, ossia che serva a cambiare stato alle persone, suggerisco di valutare l’obiettivo: crearne uno interessante fa nascere spontaneamente una motivazione. Il problema sorge quando l’azienda ha un obiettivo che il lavoratore non avverte come proprio, o non capisce. La prima dice al secondo come deve cambiare per spostarsi da un punto A ad un punto B; cambiare, per la base aziendale coincide con un maggior carico di lavoro, una maggiore flessibilità, velocità aumentata, non sempre un aumento di stipendio. Il «motivatore» deve dimostrare come l’obiettivo che l’azienda si pone in un dato momento costituisca una tappa fondamentale per arrivare all’obiettivo specifico dei singoli individui. Ossia: perché il lavoratore sia soddisfatto, si deve per forza passare per la soddisfazione aziendale. In questo modo e con tale consapevolezza si crea motivazione nel singolo.

D. Nella maggior parte dei casi, però, l’obiettivo che motiva il lavoratore si semplifica in un solo elemento: la retribuzione.
R. Questo, in un’economia stagnante, è molto limitante. Per qualche motivo l’azienda potrebbe non avere la capacità di pagare di più, ma a conti fatti quello che diciamo è una mezza verità: la gente non è motivata dallo stipendio. O meglio, il congruo stipendio è senza dubbio un fattore igienico, ma dopo alcuni mesi dall’aumento della remunerazione, questo non fornisce già più la motivazione che ne era alla base. Ciò non vuol dire che non si debba pagare i dipendenti, tutt’altro; ma se si pensa di poter motivare i singoli solamente con i soldi si sbaglia. Senza considerare che a volte l’azienda non può nemmeno farlo, e spesso deve addirittura tagliare in quanto carente di risorse adeguate. Il lavoro da fare in questo caso verte sempre sul significato: domandare il senso di ciò che il lavoratore sta facendo. In che modo sarà differente? Come sarà migliore una volta entrato nel percorso di cambiamento proposto dall’azienda? Questo passaggio, che non è affatto semplice, avviene attraverso un ragionamento che va fatto con i singoli, riflettendo sui loro obiettivi, mettendo poi sullo stesso tavolo la direzione dell’azienda e la direzione individuale. Quando, attraverso ragionamenti che in parte sono di pancia e in parte di testa, si riesce ad allineare i due cerchi azienda-individuo e a creare un’intersezione sempre maggiore, è lì che scatta la motivazione: esattamente là dove il cerchio della testa (fare qualcosa perché conviene) e il cerchio della pancia (fare qualcosa perché piace) sono il più sovapposti possibile. Grazie a questa congruenza, il sacrificio non è più tale e vissuto negativamente. Questo capita a pochi, fortunati personaggi. Possiamo sperare che una piccola intersezione tra i due cerchi ci sia. Il mio lavoro è quello di cercare di allargarla il più possibile soprattutto dove emozione e pensiero non coincidono: per uno stilista è più probabile che ciò che piace coincida con ciò che conviene, per chi produce bulloni tale congruenza non è tanto immediata, se tutta la giornata lavora sulla pressa. Ci sono impieghi in cui tutto ciò che vale è: «Dammi i miei mille, prendi le mie 8 ore», ma non sono quelli che auspichiamo per i nostri figli, auguriandoci per loro un lavoro che riempia anche il cuore oltre alla tasca e alla testa. Vengo di solito chiamato, in realtà, a parlare in ambiti nei quali le mansioni non sono così acri: per pulire degli uffici non si chiede motivazione di solito.

D. Per chi zappa la terra, paradossalmente, potrebbe esserci molto più cuore. Più è grande la struttura, meno è motivante la mansione – mi viene in mente la rivoluzione industriale, ancor di più il film di Charlie Chaplin «Tempi moderni».
R. La sfida che hanno strutture aziendali è proprio quella di tenere motivate le persone, e sono imprescindibili alcuni meccanismi fondamentali, primo tra tutti l’ascolto delle persone, che sempre dicono cosa vorrebbero essere o vorrebbero avere. È evidente che una economicità è richiesta e non dico che bisogna ascoltare tutti, ma non dico nemmeno che non bisogna ascoltare nessuno. Questo dipende dalla volontà di chi ha in mano le leve organizzative: se è in grado di allineare gli interessi aziendali con quelli individuali, l’azienda ha vinto.

D. Diverso è il caso delle strutture pubbliche?
R. Sì. Quando lo statale ha una totale assenza di motivazione, come è noto, è perché è troppo grande la distanza tra il senso del lavoro ed il suo svolgimento: nessuno capisce più perché sta apponendo un timbro su un foglio, e nessuno chiede più nemmeno se sia stato fatto, con conseguente deresponsabilizzazione e demotivazione. Quando non c’è un perché, nessuna cosa è motivante, ma questo è un problema del sistema. Nel pubblico, essendo storicamente mancati i controlli necessari, tale problematica si è diffusa di più.

D. Com’è cambiato, negli anni, il senso di apartenenza ad un’azienda?
R. Il più grande cambiamento è stato quello provocato da internet, con l’accesso alla conoscenza generale in qualunque momento. Ciò vuol dire anche che qualunque cosa si conosca in un dato momento è irrilevante, motivo per cui i giovani non danno più peso alle competenze del professore e, di riflesso, al professore stesso. Cosa resta? Bisogna investire nella capacità di fare connessioni, che è ancora appannaggio degli umani e non delle macchine. Se si ha un lavoro che non ha bisogno di connessioni, il livello minimo di salario è in effetti determinato dalla disperazione degli operatori; in un lavoro di tipo euristico-creativo, la capacità fondamentale è quella di inventare cose e connessioni per creare, attraverso una sintesi, qualcosa di importante.

D. In realtà la motivazione serve non solo per fare il lavoro del «bullone», ma anche per il creativo che, a maggior ragione, ha bisogno di ispirazione e non di meccanicità.
R. Dipende sempre dall’intelligenza con cui si affronta la vita. Non è strano che si sia demotivati se si adotta un approccio statico, ossia si rinuncia alla curiosità.

D. Il punto è che la curiosità, a volte, è come la bellezza: o si è belli o si è brutti. È nel Dna. Poi, e solo in seguito, diviene una questione soggettiva, per cui ad alcuni sembra bello qualcosa che per altri non lo è. Ma alla base si hanno categorie che possono applicarsi sin dalla genesi. La curiosità non fa parte di queste?
R. È vero che la bellezza va comunque aiutata e mantenuta, ed è così anche per la curiosità.

D. Ma in questo caso, quello della curiosità, c’è anche una sorta di «metapensiero»: bisognerebbe avere la curiosità di essere curiosi per divenirlo.
R. C’è un motivo fondamentale per cui dovremmo comunque dare significato: il mondo funziona a partire dai nostri bisogni base, che crediamo di aver colmato, e in quanto già soddisfatti in via generale pensiamo di dover partire da questo livello superiore senza far più riferimento ai bisogni base. Tanti si sono dati da fare, ma se domattina il mondo smettesse di produrre energia elettrica, saremmo da capo.

D. Ossia, bisognerebbe far capire che se siamo demotivati tutti, ci fermiamo tutti. E che non possiamo demotivarci a turno, per far proseguire il mondo.
R. Esattamente. Alla fine, il punto chiave è quello degli esistenzialisti: che senso ha la vita? Da un punto di vista tecnico nessuno: si viene al mondo, poi si muore.

D. Il motivatore non è il primo esistenzialista, che si è dovuto motivare?
R. Lo è per forza di cose. Si deve piantare un chiodo e dire: questo è. Chi è interessato alla motivazione dice: io sono contento per il fatto che sono. Non c’è niente da spiegare. Sono, e quindi sono contento. E da lì si parte a dare un continuo significato in una storia che è la nostra e che noi stessi ci raccontiamo. Ma essa è vera? Non ha rilevanza che lo sia: gli avvenimenti di una storia sono oggettivi, il significato lo assumono nel momento in cui vengono messi all’interno di una relazione da parte del narratore. È proprio lì il lavoro: dare senso a qualcosa che senso non ha. (ROMINA CIUFFA)

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ARMANDO DONAZZAN: LA PANTERA VENETA DI ORANGE1

di ROMINA CIUFFA. Orange1 nasce da un baratto. Leone Donazzan, perito elettronico, nel 1971 fonda la prima società del gruppo dando inizio all’avventura «arancione» con un puro e semplice baratto: un cliente non può pagarlo per un impianto elettrico e gli chiede di potergli dare in cambio dei motori. Così, a Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, nasce la ditta «Elettromeccanica Leone Donazzan» per la riparazione e l’avvolgimento di motori elettrici, attività che si estende in breve al campo dell’impiantistica industriale. Nel 1983 la società viene trasformata in Eld spa e inizia con successo a rivolgersi ai mercati esteri e in modo particolare a Francia, Germania e Paesi nordici. Il business si apre anche verso i mercati dell’est, in particolare verso l’ex Unione Sovietica, il cui crollo, con la caduta del muro di Berlino alla fine degli anni 80, induce Donazzan a rivedere gli obiettivi. Nel 1998, con un fatturato di 5 milioni di euro attuali, il figlio Armando subentra nella direzione aziendale ed intraprende una serie di politiche finanziarie e commerciali che innalzano il livello di competitività e visibilità dell’azienda. Oggi a capo della sempre più grande Holding, è definito la «pantera».

Domanda. Dalla sua entrata come guida dell’azienda cosa è accaduto? 
Risposta. Nel 1999 nasce in Ungheria l’azienda Eme kft, specializzata nella produzione di statori avvolti per motori elettrici. Dalla necessità di migliorare l’efficienza e dalla crescente domanda, viene alla luce un progetto per la costruzione di un capannone adeguatamente dimensionato dove il concetto del «lean manufactoring», ossia la produzione snella che mira a minimizzare gli sprechi fino ad annullarli, costituisce la base di ogni nostra azione nell’area industriale di Arsiè, in provincia di Belluno, e in un tempo record di 8 mesi ultimiamo un capannone di 11.800 metri quadri coperti. Nel 2006 nuovo cambio di nome in Eme, quindi acquistiamo la Ceg, la Unielectric e la Elpromtech, e ricambiamo nome in Orange1 ponendoci sul mercato come specialisti nel settore, poco prima di acquisire anche l’Elettromeccanica Valceno e la Metalpres Cenzato al fine di creare una filiera di verticalizzazione dei componenti per produrre anche i motori elettrici. Poi Orange1 entra nel gruppo Emotion in Motion, con l’obiettivo di migliorare le prestazioni di efficienza energetica, un tema attuale e con un futuro volto allo sviluppo. Di recente, abbiamo acquisito la Magnetic di Montebello Vicentino e la Mado di Chignolo D’Isola. Lo scorso maggio arriva la tredicesima acquisizione, quella della Sicme Motori di Torino, che ha ricavi per 18 milioni di euro e 90 dipendenti.

D. Quali sono i recenti dati che descrivono l’attuale situazione di Orange1?
R. Siamo presenti in 70 Paesi nel mondo, con un fatturato di circa 200 milioni, 11 stabilimenti produttivi, 14 aziende acquisite, 1.200 dipendenti. Produciamo annualmente oltre 1 milione di motori elettrici asincroni monofase e trifase, 5 milioni di avvolgimenti per motori elettrici asincroni, 60 mila drive per motori elettrici, 20 mila tonnellate di alluminio pressofuso e 12 milioni di pezzi di torneria di alta precisione per il settore auto motive. Ora puntiamo alla leadership anche nella pressofusione in alluminio con la divisione «Foundry».

D. Come siete entrati nel mondo delle corse?
R. Internation Gt Open, Lamborghini Blancpain Super Trofeo e Campionato Italiano Rally sono le nostre nuove sfide. Lo sport è il completamento della realtà dinamica del mondo Orange1, anche con le divisioni Oxygen Orange1 Basket e Orange1 Racing, nata nel 2016, dove il motto aziendale #wearepassion dimostra che con vera passione si può raggiungere ogni traguardo.

D. Funziona il team competitivo di Orange1 Racing?
R. Dodici mesi fa, in Friuli, il nostro principale concorrente dichiarava che non aveva bisogno di un «aiutino» per vincere. Quest’anno, invece, si è fatto cedere la posizione dal giovane compagno di squadra in più di un’occasione, e si è presentato a Verona forte della presenza di un ex-campione italiano ed europeo, schierato con il dichiarato intento di dargli manforte nella lotta per il titolo. Questo è il complimento più bello per noi di Orange1 Racing, perché vuol dire che abbiamo saputo farci temere e rispettare, noi team privato in lotta contro squadre ufficiali. E tutto questo alla nostra prima stagione vera e con una vettura vincente. Evidentemente il leader provvisorio, il suo team ed il suo fornitore di pneumatici hanno paura di noi e questo ci riempie di orgoglio e fa salire l’adrenalina.

D. Chi è il vostro rappresentante tra le «Pantere alate»?
R. Simone Campedelli, con il navigatore di riserva Pietro Ometto, presentatisi a Verona carichi dopo aver dominato anche il Rally di Roma Capitale, confermando di essere qualcosa di più di una semplice minaccia per i rivali. Abbiamo scelto di contare esclusivamente sulle nostre forze e su quelle del team Brc e della Michelin, che hanno garantito il massimo supporto durante tutto il campionato.

D. Nel Rally di Roma Capitale come si sono qualificate le «Pantere alate»?
R. Vittoria in entrambe le tappe e massimo dei punti in palio per Campedelli e Ometto: le «Pantere alate» hanno dominato l’intero week-end con la Ford Fiesta Brc e sono andate via dal Lazio con una doppietta che consolida la loro seconda posizione in campionato, a pochi punti dal leader provvisorio.

D. Avete appena svolto un grande evento a Verona, «Ruggiti di passione». Di che si è trattato?
R. Con «Ruggiti di passione» abbiamo voluto lanciare dei progetti di promozione del lavoro, della cultura e del territorio. Cogliendo l’occasione della finale del Campionato Italiano di Rally in cui abbiamo partecipato con la nostra scuderia Orange1 Racing, abbiamo coinvolto il pubblico in una serie di iniziative, conferenze, laboratori dedicati ai giovani, alla cultura, alla passione e al sociale, come il «Rally Therapy» del 14 ottobre che ha dato la possibilità a 20 giovani disabili di partecipare ad un emozionante test drive di rally, e il «Recruiting Day» del 15 ottobre durante il quale ai giovani è stata data l’opportunità di presentare la loro candidatura al management della Holding Orange1.

D. In che modo sostiene lo sport?
R. Oltre che con Orange1 Racing, sostengo i ragazzi della squadra di Basket Bassano, e non solo. Un’iniziativa particolare è stata quella in Brasile, dove una squadra locale di giovani pallavolisti di Campinas, che ha visto sui social quanto siamo attivi, ci ha chiesto un contributo, e abbiamo voluti aiutarli.

D. La vostra comunicazione è molto attenta: come la affrontate?
R. Abbiamo acquisito l’Italian Graphic Design di Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso, con 30 anni di esperienza, per integrare il mondo dei nostri servizi al fine di supportare le politiche di marketing sempre più strategiche per la crescita del gruppo. Comunicare chi siamo e cosa facciamo a dipendenti, clienti e fornitori è diventato imprescindibile e questo deve essere fatto con velocità, professionalità e passione.

D. Dove vuole andare attraverso tutte queste acquisizioni?
R. Perseguo per la mia società l’obiettivo di divenire l’interlocutore unico per prodotti diversificati. Tutto fa capo a una holding di partecipazione industriale. Dal 1998 abbiamo avuto acquisizioni per 50 milioni di euro, investimenti in immobili per 20 milioni e per oltre 50 milioni in tecnologia, miglioramento dell’efficienza e nuovi prodotti.

D. Una realtà molto incentrata nel Veneto. C’è qualche influenza straniera?
R. Il nostro prodotto è completamente Made in Italy, e nel settore dell’elettromeccanica in Italia costituisce un’eccellenza, riconosciuta a livello mondiale sia per la componentistica che per il prodotto finito. Il Veneto mi ha aiutato non tanto come regione in sé, ma nel suo spirito, nell’energia che si respira.

D. I motori, appannaggio degli uomini si dice. Ma Orange1 impiega molte donne. In che modo?
R. Orange1 Holding si è sempre distinta nell’ambito della parità di genere, garantendo alle donne le stesse opportunità degli uomini in termini di affermazione professionale. Ad oggi il gruppo internazionale specializzato nel settore metalmeccanico di Arsiè conta 408 donne su un totale di circa 1.200 dipendenti, ovvero il 34 per cento della forza lavoro e i 3/10 delle posizioni lavorative ritenute strategiche sono ricoperte da donne. La sensibilità verso le tematiche della parità di genere si concretizza nell’attuazione di strumenti come il «work-life balance», ossia un bilanciamento tra vita privata e lavorativa con orari di lavoro atti a soddisfare le esigenze dei dipendenti, l’orario flessibile, nato nel settore tessile proprio per la forte maggioranza femminile, e le pari opportunità in termini di carriera e apprendimento. Queste politiche gestionali ci hanno permesso di ottenere «quote rosa» in costante crescita in tutte le aziende e un clima aziendale favorevole alla creazione di un circolo virtuoso, in cui i dipendenti crescono insieme all’azienda.

D. In che modo avete affrontato la crisi italiana, europea ed internazionale?
R. In quanto legati al settore dell’automotive abbiamo anche noi avvertito la crisi, ma grazie alla capacità di rivedere il business aziendale e modificare le dinamiche dei costi siamo riusciti a trovare soluzioni vincenti per rimanere sul mercato con determinazione, subendo solo in minima parte le problematiche economiche e finanziarie e superandole in modo positivo.

D. Recruiting, lo state facendo anche ora. Il settore, dal punto di vista del lavoro, incontra la domanda?
R. Abbiamo difficoltà a reperire personale specializzato e flessibile negli spostamenti rispetto al luogo di dimora, per questo siamo molto attivi nelle collaborazioni con scuole ed enti di formazione. Inoltre, puntiamo principalmente sulla competenza, e abbiamo un’apertura internazionale: non importa che lingua parli la nostra risorsa, purché sia una risorsa.

D. Investite in ricerca e sviluppo?
R. La funzione R&S rappresenta un settore strategico per il mio gruppo. La progettazione e lo sviluppo di nuovi prodotti è un fattore cruciale per una realtà industriale in costante mutamento a causa delle continue innovazioni tecnologiche e della concorrenza. Sono l’assidua ricerca, la voglia di emergere e la sete di novità a muovere tutte le scelte e le strategie aziendali. Orange1 Holding sviluppa prodotti in grado di adattarsi ad eventuali modifiche e richieste. Prima del lancio di un nuovo prodotto sul mercato promuoviamo una lunga analisi di ricerca e sviluppo finalizzata a un compromesso tecnico ed economico che consenta di raggiungere un alto livello qualitativo. Flessibilità ed efficienza ci hanno inoltre consentito di orientarci sempre di più verso le richieste specifiche del cliente, realizzando versioni personalizzate per applicazioni speciali. Questo costante impegno nella «customizzazione» dei prodotti ha permesso lo sviluppo tecnologico e di processo.

D. Perché lei è definito la «Pantera»?
R. Questo nome mi è stato dato prima di tutto all’interno dai più stretti collaboratori, sembra infatti che questo animale abbia caratteristiche che mi rappresentano: la velocità di esecuzione dei lavori ma anche la velocità dei motori, la velocità di pensare e agire. La pantera è capace di grande accelerazione, il nostro gruppo ne esemplifica la corsa. E punta l’obiettivo senza esitazione. Poi la definizione è stata ripresa all’esterno, e la pantera è divenuta il nostro simbolo. (ROMINA CIUFFA)

Romina Ciuffa e Armando Donazzan (foto EROS MAGGI)

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MA COS’ELO STO TALIAN? I VENETI, E NON SOLO, HANNO ESPORTATO UNA LINGUA UFFICIALE: IL TALIAN

«El talian ze la seconda lengoa più parlada del Brasil. Ricognossesto par el governo brasilian come na lengoa de imigirassion, referensa cultural del Brasil». Talian non è un italiano senza la i ma è una lingua a sé stante, che probabilmente nessuno ha mai sentito nominare. Ma parlare, sì. In Veneto. Non solo: essa è impiegata come lingua madre da circa 500 mila persone in 133 città, complessivamente da 4 milioni di persone nel mondo. E ne siamo noi gli autori, o meglio (a Cesare quel che è di Cesare), i veneti. Noi, che ci lamentiamo (o vantiamo) che l’italiano si parli solo in Italia, non sappiamo che abbiamo una lingua tutta nostra che, andatasi ad integrare ed arricchire con il portoghese delle terre d’emigrazione, ha acquisito la propria autonomia. Paradossalmente: a) di questa lingua i parlanti si vergognano; b) essi credono che si tratti di italiano puro e semplice; c) molti di loro non sono mai entrati a contatto con un italiano «vero».

Dal 2009 il talian è persino patrimonio linguistico negli Stati brasiliani del Rio Grande do Sul e di Santa Catarina e lingua co-ufficiale, con il portoghese, nel comune di Serafina Corrêa, la cui popolazione è al 90 per cento di origine italiana; nel 2014 è stato dichiarato parte del patrimonio culturale del Brasile ed è impiegato come lingua madre in 133 città. Una lingua viva, usata quotidianamente sul lavoro, all’università, nelle canzoni e nelle poesie, in teatro, alla radio o in tv: nella piccola città di Sananduva si può, ad esempio, ascoltare nei programmi settimanali «Radio Sananduva» e «Taliani bonna gente», oltre 20 anni di programmazione ininterrotta.

Durante la seconda guerra mondiale il talian fu proibito dal dittatore Getúlio Vargas: entrando in guerra a fianco degli alleati fu proibito insieme al tedesco; la sfida degli emigranti, molti dei quali carcerati, era incentrata sull’impossibilità di parlare un’altra lingua che non fosse il talian; fortunatamente, la lingua dei veneti del Brasile non solo si è mantenuta dopo allora, ma fortificata.

Darcy Loss Luzzatto è autore di un vocabolario «brasiliano-talian» di oltre 800 pagine: «I nostri vecii, co i ze rivadi, oriundi de i pi difarenti posti del Nord d’Italia, i se ga portadi adrio no solche la fameia e i pochi trapei che i gaveva de suo, ma anca la soa parlada, le soe abitudini, la soa fede, la so maniera de essar. Qua, metesti tuti insieme, par farse capir un co l’altro, par forsa ghe ga tocà mescolar su i soi dialeti d’origine e, cossita, pianpian ghe ze nassesto sta nova lengua, pi veneta che altro, parchè i veneti i zera la magioranza, el talian o Veneto brasilian». Di lui è riportata una pagina su Wikipedia, ma in dialetto veneto, che lo descrive come «uno dei esponenti pi conossui de leteratura taliana o vèneto-brasiliana». Perché, per chi non lo sapesse, esiste un «Wikipedia in lengua vèneta» con 10.975 voci (10.975 voxe).

Il talian, parlato dai discendenti di quei veneti che partirono nel 1875 in seguito alle disastrose condizioni nelle quali la loro regione si era venuta a trovare per l’annessione all’Italia, si illumina anche di illustri: da Anna Pauletti Rech cui la città di Caxias do Sul ha nominato un intero quartiere, a Raul Randon, classe 1929 (nipote dell’emigrante Cristoforo), titolare di un gruppo industriale con 9 mila addetti a Caxias do Sul e di un’impresa agricola con ettari di vigneti e meli, che di recente ha ottenuto dall’università di Padova la laurea in ingegneria gestionale ad honorem. E molti altri.

Ma cos’elo sto talian? Lo chiediamo a un’esperta, la padovana Giorgia Miazzo; interessata alla cultura dell’America Latina, vi ha vissuto molto tempo. Origini, passione e sensibilità, unite alla padronanza di alcune lingue, l’hanno portata a confrontarsi con le comunità italiane all’estero e a plasmare un enorme bagaglio culturale, umano e professionale raccolto nelle sue ricerche antropologiche e linguistiche. Ha così realizzato un progetto, anche editoriale e didattico, inerente alla ricostruzione della memoria storica e linguistico-culturale dell’emigrazione veneta nelle Americhe, in cui espone il fenomeno del talian.

Domanda. Come mai si è avvicinata, quasi immedesimata, al talian?
Risposta. Sono un’interprete e traduttrice, ho trascorso anni all’estero, anche in Brasile, e lì, da linguista, mi sono appassionata alla realtà dell’emigrazione. Così ho avviato il progetto «Cantando in talian» che cerco di portare avanti parallelamente in Italia e in Brasile, perché da entrambe le parti c’è una grandissima ignoranza, intesa come carenza di conoscenza di questo fenomeno, sia dal punto di vista sociologico-storico che dal punto di vista linguistico.

D. Cos’è il talian?
R. Un miscuglio fra i dialetti del Nord Italia – li chiamo dialetti solo perché non sono stati riconosciuti in Italia, ma sono lingue a tutti gli effetti – con un peso sicuramente molto più forte in Veneto, terra di grandissima emigrazione. Il portoghese risulta nelle parole mancanti, e l’attaccamento alla propria terra fa sì che questa lingua si «lusitanizzi». Il talian è un fenomeno meraviglioso e unico in quanto costituisce un’isola linguistica importante soprattutto per il numero di persone che ancora la usano, che sono milioni non solo in Brasile. Nel mondo intero riflette alti numeri: in Messico la comunità di Chipilo ha accolto 5 mila persone dal Trevigiano, che ancora parlano il veneto; altre significative realtà sono in Venezuela e in Sudafrica, sebbene il numero brasiliano non abbia eguali. Questa lingua diventa anche prestito: all’interno delle comunità venete in Brasile, ad esempio, invece di dire «zoccolo» si impiega il termine «tamanco», in origine lo zoccolo portoghese.

D. In cosa è consistita l’emigrazione veneta in Brasile?
R. Gli emigrati veneti arrivarono in Brasile quando – fattore importantissimo – a soli 10 chilometri di distanza si parlavano due veneti diversi e ci si guardava male tra Marostica e Bassano del Grappa. È allora che questa lingua giunge in Brasile e in qualche modo si mescola: il talian è a tutti gli effetti un miscuglio di veneto soprattutto con base vicentina-bellunese-trevigiana e con parole portoghesi. L’uso dello stesso e la convivenza fra quelle genti fa sì che l’italiano diventi più portoghese-brasiliano. Con questa caratteristica: se in Veneto manteniamo ancora i confini tra un dialetto e l’altro, tra una provincia e l’altra, in Brasile la lingua si è integrata e, oltre al veneto, ha preso anche qualche calco del lombardo, del piemontese, del friulano, del trentino. E si possono ascoltare comunità che usano la lingua portoghese ma che usano espressioni tipiche venete. Sicuramente è una lingua differente perché ha preso un’altra strada, e se vogliamo possiamo passarla come una nuova lingua neolatina perché in realtà non coincide con i nostri dialetti veneti; ma sicuramente garantisce una grande comunicazione con noi, perché è una lingua che capiamo.

D. Brasile dove?
R. Parliamo del Rio Grande do Sul, che è una realtà più mescolata tra vicentini-trevigiani-bellunesi, a differenza di altre comunità in Brasile. A me piace sempre ricordare quella della città di Colombo, nello Stato del Paraná, vicino a Curitiba: gli emigrati sono partiti tutti dalla Val Brenta ed hanno formato un talian che è praticamente identico alla lingua che ancora parliamo in Italia, con alcune parole che per noi sono ormai in disuso; per esempio per dire «suocero» o «suocera» dicono «il mi missiè e la mi madonna», parole che usavano i miei nonni. Questa è un’altra realtà stupenda, quella di una lingua più arcaica, di 100 anni fa, che non si è mescolata con il portoghese né con altre realtà del Veneto o del Nord Italia. In sintesi: ci sono tanti talian come ci sono tanti dialetti veneti. Quando opero in queste comunità avverto la loro vergogna di parlare talian: non conoscono la differenza tra veneto, talian e italiano, pensano che il loro talian si parli in Italia e lo parlano senza sapere nulla della propria lingua, perché quando emigrarono erano quasi tutti analfabeti.

D. Come reagirono il Governo italiano e quello brasiliano a quell’ondata migratoria?
R. Mentre il Governo italiano aveva tutto l’interesse a mandare via gente, perché eravamo in troppi, il Governo brasiliano e le compagnie di navigazione si facevano forza della grande ignoranza di coloro che arrivavano; all’epoca il Brasile intendeva fortemente popolare la terra meridionale. che rischiava di essere dominata o presa da altri Stati, e dare in mano ai bianchi il potere evitando che passasse ai neri, sebbene la schiavitù fosse stata abolita. Si aggiunge a ciò il fatto che il governatore Don Pedro II aveva compiuto dei viaggi in Veneto e nel Trentino, rimanendo ammaliato dalla bellezza e dal nostro modo di lavorare la terra, e conosceva i veneti come gente calma, morigerata, grandi lavoratori, ma soprattutto ignoranti, devotissimi alla famiglia e alla religione, in breve gente che avrebbe obbedito. Questa migrazione del 1875 la si può definire eroica perché è stata la più antica e la più difficile; dal 1900 parte poi l’Italia meridionale, circa 3 milioni di persone. Il Nord continua a partire, ma in una emigrazione diversa: quelli del Sud, infatti, vanno verso San Paolo. Nei recenti Mondiali di calcio tenutisi in Brasile si è fatto cenno all’emigrazione siriana, libanese e africana, mentre dell’europea, di quella tedesca, della nostra non si è parlato: una vergogna, anche perché i tedeschi partirono 50 anni prima di noi. Il 1875 fu una data importante perché partì la prima nave, «Sofia», con 380 famiglie, alla volta del Brasile, per sopravvivere e trovare fortuna.

 

D. Perché si chiama «talian» e come è percepito?
R. Perché qualcuno in Brasile, intorno a un tavolino, ha deciso che si dovesse chiamare così. Per essere più corretti, si sarebbe dovuto chiamare «italo-veneto-brasiliano». Inoltre non bisogna dimenticare le piccole comunità, che hanno bisogno di più ascolto, quali quelle insediate a Rio de Janeiro o a Minas Gerais; all’interno di quest’ultimo sono tre quelle di origine veneta, che nel 2007 siamo andati a trovare. Era questa la prima volta che loro vedevano un italiano. Le piccole comunità sono le meno contaminate dalla politica, la quale fa grandi danni sulla cultura. Lo stesso errore lo compiono le scuole di italiano quando in Brasile dicono che il talian non esiste più, che è la lingua degli ignoranti: chi parla veneto è visto in termini non buoni, perché sono i veneti i primi a nutrire una grande vergogna per la propria lingua, si sono sempre visti così, hanno sempre lavorato nei campi, sentendosi inferiori. Il popolo veneto non ha una grande autostima, eppure ha fatto grandi cose, e con umiltà. Con il mio progetto contrasto la tendenza a spostare coloro che parlano talian sull’italiano, facendo piuttosto conoscere la lingua dell’emigrazione che ha attraversato l’Oceano, una lingua sacra perché ce l’ha fatta dando la forza al popolo che la parlava tramite le messe, i canti, i ritornelli, i proverbi. Questa gente ce l’ha fatta con la cultura, con il folclore, con la lingua rimasta viva, che ricorda la propria famiglia e la propria terra. Tutto ciò non è stato fatto in italiano, ma in talian; il nostro lavoro cerca di dare dignità al dolore di coloro che hanno sofferto in modo estremo, senza che mai nessuno dicesse «grazie».

D. Il tema della migrazione è particolarmente acceso. Ma la nostra?
R. È delicato: se parlo nel mio lavoro di emigrazione la gente borbotta. L’anno scorso sono morte 6 mila persone nel Mediterraneo, emigrazione vuol dire vergogna, umiliazione, orfani. Ricordare la nostra emigrazione rende attiva la nostra memoria storica: ci definiamo un Paese antico ma non ricordiamo cos’è successo 100 anni fa. Anche nelle scuole andrebbero cambiati i programmi, si parla di Medioevo per tre anni e non si tocca la storia recente.

D. In che modo ha sviluppato il suo progetto e quali sono gli enti culturali e accademici che lo hanno sostenuto?
R. Ho aperto due sezioni dello stesso progetto, «Cantando in talian» e «Scoprendo il talian», e ne ho fatto due libri, in seguito tradotti in portoghese. «Scoprendo il talian. Viaggio di sola andata per la Merica» racconta la parte storica del Veneto non solo attraverso i miei racconti ma anche attraverso le lettere degli emigrati e un’analisi dei numeri e delle partenze, sulla base di una ricerca che ho compiuto in 12 anni tra il Rio Grande do Sul, il Paranà, Santa Caterina, Minas Gerais, e attraverso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, la UFSC di Santa Catarina, l’UFPR del Paraná e l’UFRJ di Rio de Janeiro. È stato un lavoro di valorizzazione del patrimonio culturale e immateriale linguistico dell’emigrazione veneta in Brasile attraverso la musica e la glottodidattica ludica. Nell’altro libro, «Cantando in talian», per il tramite di 10 canti degli emigranti sono sviluppate delle attività didattiche funzionali all’uso della grammatica, della morfologia e del lessico con proverbi, espressioni tipiche, focus culturali che parlano di città, culinaria, architettura, e tutto questo è un ponte tra Italia e Brasile. In queste comunità ogni anno tengo corsi settimanali di 20 ore per bambini, adulti e anziani, cantiamo e parliamo di lingua e cultura.

 

D. Esistono dizionari di talian?
R. Il primo dizionario è stato scritto da un polacco, che viveva così a stretto contatto con le comunità venete cha l’ha imparato. Ci sono lavori anche più recenti, libri di teatro o libri che parlano delle storie di emigrazione. Forse il mio ha qualcosa in più, nel senso che è stato visto dal di fuori, non dall’interno di una comunità, e perciò non riferisce di un solo talian poiché con le canzoni ho accorpato le varianti: non c’è un solo talian.

D. E quanti?
R. In un altro libro, uscito nel 2016, «Le grandi migrazioni», parlo anche della Lombardia, del Friuli, del Trentino Alto Adige, del Piemonte. Ne ho scritto un altro, per ora solo e-book ma che uscirà in formato cartaceo: «I miei occhi hanno visto. Storia di sguardi e di emozioni di viaggiatori migranti» è una raccolta di articoli e foto che ho fatto durante i miei viaggi, non solo in Brasile ma anche in Perù, Africa, Canada, dove ho incontrato comunità italiane, e affronto il tema degli stereotipi che noi italiani applichiamo.

D. Tutto questo come è pagato?
R. Da me. Nella vita insegno lingue, sono traduttrice, interprete, giornalista. Mantengo me e il progetto vendendo i miei libri, organizzando serate, ho vinto dei premi, alcuni in denaro. Non so se continuerò, la mia goccia nell’oceano l’ho messa, lavoro nei fine settimana, ma il tutto viene ripagato perché è una grandezza ricchissima quella di vedere gli occhi lucidi di questa gente.

D. Chi parla talian è di origine umile: esistono eccellenze talian?
R. Ci sono eccellenze e persone che ce l’hanno fatta. Nel 2011 ho conosciuto Maria Della Costa, scomparsa nel 2016, una delle più grandi artiste che abbiamo avuto in Brasile a livello teatrale tanto da nominarle un teatro a San Paolo. Mi ha regalato un libro sulla sua carriera artistica. Nella letteratura c’è Dalton Trevisan, autore del libro «O vampiro de Curitiba»; poi c’è Adoniran Barbosa, il cui vero nome è Giovanni Rubinato, di origine padovana, il maggiore esponente di samba a San Paolo; Anna Rech, originaria di Seren del Grappa, in provincia di Belluno, che partì nel 1876 vedova con sette figli, e dovette affrontare l’ostilità delle autorità all’imbarco al porto di Genova dovuta alla presenza di figli disabili. Lei disse: «O mi lasciate partire o mi butto in mare», e partì, quindi costruì una piccola locanda a Caxias do Sul che divenne un punto di arrivo per i viandanti. Oggi un intero quartiere lì porta il suo nome. Il trevisano (Mansuè) Geremia Lunardelli divenne il maggior produttore di caffè al mondo tanto da ricevere l’appellativo di «rei do café». Un altro esempio quello dei fratelli Randon, partiti da Cornedo, nel Vicentino, nel 1888 e che giunsero nel Rio Grande do Sul costruendovi un’industria meccanica di autobus.

D. Il talian è tutelato?
R. Il talian è una delle 30 lingue dell’emigrazione in Brasile e la lingua più parlata di tutte le 30. Ma ci sono note dolenti: da una parte mi fa piacere che in Brasile siano state promulgate delle belle leggi a favore di questa lingua, perché diventi patrimonio storico immateriale, e gli studiosi ne portano avanti il progetto di valorizzazione. Ma sono contraria alle modalità in cui ciò viene effettuato: vedo che si formano «gruppetti», e quando diventano gruppetti non è più un «patrimonio». Ciò che faciliterebbe il salvataggio di questa lingua è l’unione, non la divisione.   (ROMINA CIUFFA)