NASCE WEDŌ LABEL, L’ETICHETTA DI MUSICA COPERNICANA

Presentazione: Cortile Cafè (Via Nazario Sauro 24/A), Bologna – lunedì 26 novembre 2018 h 21.30 

Sarà presentata, lunedì 26 novembre alle ore 22 negli spazi dello storico Cortile Cafè di Bologna, la nuova etichetta indipendente WEDŌ ma anche “social”, nata dall’ingegno di Francesco Maria Gallo, comunicatore cresciuto negli ambienti del DAMS di Bologna, allievo di Umberto Eco e seguace di Luciano Nanni, nonché cantautore e musicista. Con lui nel team la giornalista, editrice e scrittrice Romina Ciuffa, tra le prime cantautrici ad essere prodotta dalla label (qui di seguito il link ai tre estratti dell’album in uscita, “Sandra e Raimondo”, “Pellicine” e “Su un filo di imene: PLAYLIST @ https://www.youtube.com/watch?v=cwP1fJZqbd8&list=PLP32VaNlelOr0D1ezijG2hXtqjMGw98al).

Il nome WEDŌ significa tante cose e, tutte, con o senza trattino, spiegano il significato del progetto. “We do” in inglese significa “facciamo”, perché questo è un fare: fare musica. “Do” in italiano indica il dare: dare musica. Il trattino di WEDŌ è inserito di proposito per distinguerlo dalla connotazione inglese, perché si legga come il “do”, la nota musicale. Ma non solo: dō, nel linguaggio kanji giapponese, significa “ciò che conduce”, nel senso di disciplina vista come via, percorso, cammino, in senso fisico e spirituale. In latino, l’interiezione “ō!” esprime altresì un’ampia gamma di emozioni: gioia, dolore, desiderio, ammirazione, stupore. Un’invocazione, un’esclamazione, l’unione degli opposti, il disco del sole e della luna.

Dischi: sono quelli che, insieme a Mauro Alberghini, conduttore radiofonico di Radio Città del Capo, saranno presentati in prima nazionale durante l’evento, trasmesso in diretta nazionale radio e video. Si esibiranno dal vivo i primi prodotti selezionati fra moltissimi dai talent scouter di WEDŌ: oltre agli stessi Francesco Maria Gallo e Romina Ciuffa in veste di produttori ed artisti, lo spagnolo Jay The Truth, con un brano che scivola dialetticamente tra spagnolo, inglese e spagnolo senza soluzione di continuità, il quale non rivela il proprio volto per scelta personale e, pertanto, il suo brano sarà presentato dalla performance di danza contemporanea di Laura Ulisse. Quindi i volti scoperti della neonata label: Nicoletta Noè, Andrea Mazzacavallo, Honey & Red Wine (Lisa Maria Gelhaus e Max Marchetti feat. Claudio Vignali), Tiziana Scimone, Le anime leggere (Nicola Bagnoli e Tiziano Tarli) e il già noto Legality Band Project (Francesco Maria Gallo, Filippo Lambertucci, Manuel Goretti, Daniele Raffaelli e Agostino Raimo).

Mauro Alberghini, Radio Città del Capo

WEDŌ non è solo un’etichetta discografica o un produttore. Canale digitale della nuova frontiera della musica emergente e indipendente, sviluppa offerte modellate sulle esigenze specifiche del pubblico e coglie le opportunità di ampliare il pubblico potenzialmente raggiungibile. Rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana, perché equivale all’individuazione di tutta quella nuova generazione di compositori, autori, cantautori ed interpreti, che in tutto il mondo, attraverso il social WEDŌ, interagiranno con i loro follower condividendo le proprie produzioni: l’un con l’altro incrementeranno la conoscenza, la diffusione, la vendita e lo streaming di un prodotto di qualità, altamente selezionato dal principio. Non è un mescolone, è una selezione. La selezione di quelli bravi, o di quelli che a WEDŌ piacciono. Questo sistema di sharing people tra artisti indipendenti stima una community in un anno di oltre 4 milioni di utenti in Italia e 15 milioni di utenti in Europa.

Francesco Maria Gallo

WEDŌ è anche una piattaforma che, attraverso una serie di servizi trasversali (videointerviste, live streaming di house concert, videoclip, raccolta di partiture e booklet, mappatura di autori indipendenti nel mondo, geolocalizzazione dei concerti indie, geolocalizzazione dei compositori) offre opportunità di migliorare l’engagement digitale degli appassionati della musica emergente e indipendente. Il team WEDŌ sfrutterà la molteplicità relazionale della piattaforma digitale per promuovere le produzioni in-store, allestendo, di volta in volta, specifiche campagne marketing interattive attraverso cui aumentare e implementare nel mondo social il coinvolgimento diretto degli appassionati prima durante e dopo della pubblicazione del prodotto digitale.

La distribuzione coinvolge: AppleMusic, YouTube Music, Spotify, Amazon Music, Google Play, Pandora, Deezer, iHeartRadio, Napster, MediaNet, TouchTunes / PlayNetwork, VerveLife, Tidal, Gracenote, Shazam, 7Digital, Juke, Slacker, KKBox, Akazoo, Anghami, Spinlet, Media neurotico, Yandex, Target Music, ClaroMusica, Zvooq, Saavn, 8tracks, Q.Sic, Kuack, Boomplay Music, SimfyAfrica.




“MEMENTO ROMI: NON VENDO REALTÀ MA SOLIDI SOGNI”. APRE LO STORE DI ROMINA CIUFFA

MEMENTOROMI – THE STORE
NON VENDO REALTÀ MA SOLIDI SOGNI

www.mementoromi.com

Apre lo STORE di ROMINA CIUFFA.

“MEMENTO ROMI” perché? Per non ricordare che “devi morire” (il latino “memento mori” dei Romani), ma per ricordare che ci sono io. A realizzare sogni, solidi. Inconsci, cognitivi. Senza dei quali non si è. Ossia: «Respice post te. Hominem te memento»: guarda dietro di te, ricordati che sei umano. Ed aggiungo: sogna, avvera.

Spiegazione razionale: per istinto di autoconservazione e per gestire le centinaia di richieste su ogni mia attività, che ricevo ogni giorno, alias per dare a chi mi segue l’attenzione che merita ed un canale specifico, ho creato MEMENTO ROMI, visitabile da ora su www.mementoromi.com. Attraverso di esso, saranno acquistabili e gestibili moltissimi prodotti.

Aprono il negozio queste collezioni:

  • WRITING ON DEMAND (per chi voglia scrivere una storia, un’autobiografia, un racconto che ha in mente, una poesia, un libro di settore, una tesi, e per ogni altro caso di scrittura in ogni genere letterario; e ancora servizi giornalistici, articoli ed interviste, ghostwriting)
  • MUSIC ON DEMAND (canzoni e musica scritte appositamente sulle vostre storie, se richiesto anche arrangiate e prodotte);
  • FLY ON DEMAND (voli in elicottero ed aereo, autogiro, acrobatici, droni, scuola);
  • REAL ESTATE (affitto di location esclusive, opzioni di bed&breakfast, eventi);
  • PUBBLICAZIONI (la mia casa editrice, i moltissimi libri che abbiamo pubblicato in 40 anni, le collezioni o gli arretrati delle nostre riviste, i libri firmati da me usciti con altre case editrici, ogni pubblicazione che riterrò meritevole anche… di pubblicare);
  • VIDEOCHANNEL (un canale con solo alcuni dei miei troppi servizi divisi settorialmente, e la possibilità di chiedere un servizio videogiornalistico per i vostri eventi e qualsivoglia interesse).

Con tali prodotti e collezioni si parte solo, ma IL SITO È IN CONTINUO AGGIORNAMENTO e saranno, con la forza dei giganti, introdotti prodotti su prodotti di ogni tipo. Consiglio iscrizione alla mailing list (NO SPAM), anche per ricevere il primo regalo di sconto-benvenuto. Al momento, molti prodotti sono in saldi, con buoni a scadenza discrezionale. D’ora in poi, accetterò solo comunicazioni per tali servizi tramite quel canale, dunque non più mail su Facebook e telefonate mentre mangio con suppliche di pubblicazione, od il classico “fammi volare ti prego”.

C’è tutto, e ci sarà talmente tanto di più da far impazzire gli eclettici. Questo è solo il primo annuncio generico. Ringrazio sinceramente chi, tormentandomi per anni con richieste, per me sinonimo di apprezzamento, mi ha dato la forza di impegnarmi di più, fino a questo.

Rammento solo una cosa: MEMENTO ROMI. Perché io non vendo realtà, ma solidi sogni.

Romina Ciuffa

MEMENTOROMI – THE STORE
NON VENDO REALTÀ MA SOLIDI SOGNI
www.mementoromi.com

 

 




AFRICA SARDA STUDIO: DA CARLA COCCO AL GHETTO DI BAULENI, IL NOSTRO “WE ARE THE WORLD”

Qui esplicitamente a chiedere di collaborare per la realizzazione di un progetto di solidarietà con il compound zambiano di Bauleni, in cambio di “ricompense” come indicato al link: https://www.musicraiser.com/it/projects/9415-africa-sarda-studio

Il punto è che fare musica non basta. Come non basta scrivere e nemmeno costruire i palazzi. C’è una sorta di meta-trasformazione di ciò che si fa in ciò che si è che va valutata (e sviluppata) ogni qualvolta si intenda rendere il proprio talento concretezza. Che un album sia pubblicato non significa, per me, nulla. Oggi ancor di più, potendolo scrivere e produrre in casa anche con l’apporto dei più grandi artisti globali che dalla loro abitazione non hanno mosso un passo, se non fatto click per l’invio del file audio come partecipazione al disco. Non serve a nulla, salvo considerare l’ascolto e, in questo millennio, le visualizzazioni, le quali certo non corrispondono a un “la so”. Il “la so” è per chi la sa, ossia la ha ascoltata, interiorizzata, ne conosce il testo e, mi spingo oltre, anche il video, considerando che personalmente so rifare per intero tutto il videoclip di Faith nella persona di George Michael e il moonwalker di Michael Jackson, nonché il balletto di Thriller. Sto dicendo una cosa: tutto deve avere una funzione. Come dire: l’atto sessuale provoca piacere intrinseco, sì, ma si può anche usare per la riproduzione.

Carla Cocco provoca piacere, prima, poi genera. Figli. Neri. Ecco come. Un progetto, quello di Africa Sarda Studio, che sto seguendo e che ascolto in anteprima mentre lo si registra in Africa, nel compound di Bauleni, in Zambia. Qui, esattamente:


Mutatis mutandis, parte una campagna di crowfunding per un ghetto africano, su https://www.musicraiser.com/it/projects/9415-africa-sarda-studio. Classe 78, cantante sarda di origine greca che vive a Roma da 20 anni, Carla Cocco ha scelto, per il suo quarto album, di finalizzare il proprio impegno in qualcosa di ri-produttivo. Non riproduzione solo musicale, una vera e propria gravi-danza. Nel 2015, quando rappresenta musicalmente l’Italia a Lusaka (Zambia) per la XV edizione della Settimana della lingua italiana nel mondo, ha l’occasione di visitare il compound di Bauleni e conoscere gli African Voice Band, una band di adolescenti nata nei cortili del ghetto. È lì che nasce l’idea, il sogno: Africa Sarda Studio, uno studio di registrazione e insieme una scuola di musica all’interno del ghetto, per permettere ai ragazzi di studiare, esercitarsi, incidere autonomamente la propria musica e portarla fuori dal ghetto stesso, anche attraverso l’organizzazione di una serie di concerti, lontano da una realtà che è ben nota. In tal modo i ragazzi sarebbero (saranno) i protagonisti attivi dello sviluppo della comunità in cui vivono e verrebbero (verranno) sottratti al loro inevitabile destino di povertà, analfabetismo, delinquenza e tossicodipendenza. Si darebbe (darà) loro la possibilità di costruirsi un futuro diverso, nuovo, positivo. Ed una stanza nel ghetto è stata già predisposta e pensata solo per lo studio (50 mq circa).

Con In&Out of the Ghetto (www.africass.it), associazione zambiana guidata dall’educatore Diego Cassinelli, la cui filosofia è: “C’è posto per il bello e il brutto ma non più per il pietismo. Basta bambini con le mosche in faccia e il pancione”. Azione.


Diego Mwanza Cassinelli

A Natale 2017 Carla torna a Bauleni, da sola, per iniziare la produzione del disco e condividere la vita del ghetto. Sono prodotti così i primi brani, creata la base della nuova struttura.

Cos’è Bauleni? Il compound, nato come insediamento non autorizzato, è fuori dalla responsabilità e dall’interesse dell’amministrazione della città; vi è, in Bauleni come negli altri slum, una strumentalizzazione di numeri da parte di terzi per trarne vantaggio, per esempio l’aumento di cifre inerenti la popolazione del compound stesso, il numero di persone particolarmente vulnerabili e altri dati sensibili ai fini di ottenere fondi. Questo insediamento ha origine nel 1945, e prende il nome dal vecchio proprietario della terra, Mr. Boulen, ex soldato tedesco in pensione o fuggito dopo la sconfitta dalla Germania nel conflitto mondiale. Successivamente il suo cuoco, proveniente dal Malawi, con l’aiuto di altri braccianti si incaricò del funzionamento dell’intera farm.

“Dall’inizio della formazione del compound di Bauleni la popolazione cresce anno dopo anno in maniera preoccupante”. Spiega Cassinelli“Il conteggio della popolazione è un aspetto problematico, abbiamo dati poco credibili e gonfiati di alcune agenzie, che stimano una cifra di 90 mila abitanti su 8 mila abitazioni; questo vorrebbe dire una media di 11 abitanti per casa, cosa che non corrisponde a ciò che ho potuto osservare nei miei 2 anni di frequentazione del compound. Altre fonti non ufficiali abbassano il numero a 30/35/40 mila. Una delle azioni prioritarie è la quantificazione in modo più puntuale e neutro attraverso ricerche sul campo, attraverso l’aiuto dei giovani del compound: questo può diventare un progetto per i giovani dei bar”. 

Altro? L’accesso all’acqua potabile è garantita da 3 pozzi, da 3 cisterne in differenti zone e un numero non precisato di rubinetti sparsi nel compound (da ricercare). All’interno e nelle vicinanze non ci sono ospedali, bensì una clinica fondata dalla collaborazione dei Governi dello Zambia e della Danimarca, con un reparto maternità, “struttura non sufficientemente preparata a far fronte alla ingente quantità di persone affette da diverse malattie che si riversano ogni giorno per cure, terapie o per semplice consulenza”. Vi sono inoltre una clinica privata di dimensioni notevolmente più contenuta e meno attrezzata, e un dottore locale che esercita legalmente.

La campagna di crowdfunding AFRICA SARDA STUDIO, lanciata da Carla Cocco, serve a coprire in parte i costi per la realizzazione dello studio di registrazione nel ghetto; le spese per un corso di formazione di fonia per i ragazzi e i costi per la realizzazione del disco al quale parteciperanno in tanti, che si sono offerti di dare il loro contributo. Più avanti, l’organizzazione di concerti per far muovere il ghetto dal ghetto e farlo tornare, più deciso, nel ghetto. Più pronto. Più forte. Con spalle più grosse.

“Musica vuol dire condivisione, vuol dire empatia, vuol dire amore–dichiara la cantante–, ecco perché ho pensato al crowdfunding: una famiglia, la nostra, quella che costruiremo insieme, che permetterà la realizzazione di un sogno che potrebbe cambiare per sempre la vita di questi ragazzi e la nostra, perché ne saremmo gli artefici. Abbiamo tanto da imparare da loro, dalle loro risate, dai loro sorrisi. Se riusciremo a raggiungere e superare la cifra per ora fissata su Musicraiser, quella di 5 mila euro, saremo stati capaci di creare insieme una nuova sinfonia, degna dei più grandi compositori”.  

Personalmente credo che fare gli auguri di Natale da Cortina serva a ben poco. A livello globale, intesi. Per chi mastica social condividendo link senz’anima come un “adesso spogliati”. Che sia più utile un’esperienza in cui i vestiti di cui adesso spogliarsi non ci sono nemmeno, quale quella vissuta dalla Cocco in Africa, in quei giorni e nei giorni che verranno, per funzionalizzare il concetto del “la so” ed integrarlo con quello di “la do”, ossia donare i propri sforzi ad un impegno superiore. La causa può essere diversa, sono molte le cose da fare oltre allo scroll sui social. In questo caso si possono acquistare cd, concerti in casa di Carla, ed anche una settimana di “soggiorno” nel Compound di Bauleni: sono le ricompense per i donatori, tutte ben esplicitate nella piattaforma di Musicraiser. È il vero “like”, il mi piace dell’attivo. Non c’è bisogno di fare uno sforzo filosofico sul “c’è chi sta peggio” né di muoversi a compassione. Tali emozioni non servono, sciare non è vietato; ciò che è utile è l’azione. La funzionalizzazione. L’oltre. Cantare con Toquinho va bene, essere scelta per rappresentare i 100 anni di Vinicius de Moraes all’Auditorium Parco della Musica di Roma va bene, affiancare Ornella Vanoni va bene, ma scegliere come partner ufficiale del prossimo disco il Compound di Bauleni fa bene. Tutti possiamo, a nostra misura, riscrivere “We are the World”. (ROMINA CIUFFA)

GALLERY

#gallery-1 { margin: auto; } #gallery-1 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 33%; } #gallery-1 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-1 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */

 




ROBERTO RAZZINI (WARNER CHAPPELL): IL DIRITTO D’AUTORE NON È L’EQUITALIA DELLA MUSICA, TUTTO IL CONTRARIO

di ROMINA CIUFFA. «Mi ricordo che anni fa, di sfuggita dentro a un bar, ho sentito un jukebox che suonava», cantava Edoardo Bennato. La canzone era «Sono solo canzonette». Non sono solo canzonette: è la creatività, il valore, l’arte dell’essere umano. Un’intera filiera produttiva che parte da un incipit creativo insostituibile, la quintessenza della nostra umanità, direttamente dal cervello musicale, primo motore immobile dell’industria: l’anima. Come per Bennato, il jukebox è ricordo, quando non substrato culturale, di ciascuno di noi, ed è stato in grado – oltre che di animare – di ispirare e definire intere epoche. Il jukebox moderno è digitale ma, mutatis mutandis, funziona come il primo: con le monetine ed un click. Si tratta di contenitori virtuali, piattaforme attraverso cui ascoltare musica, scaricarla, caricarla, ed anche renderla libera. Ma quanto costa questa libertà?

La storia insegna: in nessun caso la libertà è stata gratuita. Essa costa tanto a chi è libero quanto a chi lo ha reso libero. Così nell’industria musicale: poter caricare una propria opera sulla rete e renderla pubblica non consente, intrinsecamente, di ottenere una remunerazione sic et simpliciter, tutt’altro, comporta dei costi. Dipingere un quadro non solo non è produttivo di ricavi, ma presuppone delle spese. Ed il quadro, esposto in una galleria come YouTube, se non viene acquistato può essere solo ammirato. O copiato. Così è per la musica: la creatività non è produttiva senza un piano, senza un forte. Condicio sine qua non, qui, è la tutela del creativo, di colui per cui «nei sogni di bambino la chitarra era una spada, e chi non ci credeva era un pirata». Pirateria, per l’appunto, e diritto d’autore.

Se l’artista puro non potrà «mai diventare direttore generale delle Poste o delle Ferrovie», tali abilità sono messe dall’industria, in questo caso da Roberto Razzini, che guida la Warner Chappell Music italiana, anche presidente della FEM, Federazione Editori Musicali, che supporta e incoraggia talenti e professionalità, e membro del Consiglio di sorveglianza della Siae. Warner Chappell Music, la società globale di edizioni musicali di Warner Music Group, presente con uffici in più di 40 Paesi, offre attività di ricerca e formazione di autori e compositori per la creazione di nuove composizioni musicali, servizi di gestione e tutela di repertori musicali esistenti, collaborazioni con artisti, gruppi musicali e produttori per nuovi progetti, cooperazione con case di produzioni cinematografiche e televisive, rapporti con agenzie di pubblicità e comunicazione aziendale. Sono oltre un milione i titoli di repertorio, con artisti e gruppi musicali di tutte le nazionalità e composizioni che abbracciano epoche e generi tra i più diversi.

Domanda. Ma cosa fa l’editore musicale?
Risposta. L’editore fa oggi quello che faceva il mecenate nel 700: all’autore sconosciuto mette a disposizione le risorse perché possa mantenersi, in attesa che arrivino i successi attesi. Ma è come occulto: il pubblico percepisce l’esistenza di una generica comunità di professionisti che si occupano di musica, o appartenenti alle case discografiche, mentre la realtà è che le professionalità sono diverse. Tra di esse è presente l’editore musicale, figura che ha una storicità molto profonda, forse costituisce la prima forma di professionista a servizio della musica sin dai tempi del mecenatismo. È colui che sta accanto all’autore di un brano, poi interpretato, in una fase successiva, da se stesso, quando si parla di cantautori, o da interpreti puri, ossia i cantanti. L’editore ha un ruolo importante in quanto, assieme all’autore, è a monte di questo sistema produttivo, e ha lo scopo primario di trovare nuove professionalità, come incipit di tutto il sistema artistico. È una figura complementare al discografico: l’editore musicale sta all’autore come il discografico sta all’artista. Si tende comunemente ad accreditare la composizione di un’opera al solo interprete. Un esempio: «Azzurro» è stata portata al grande successo da Adriano Celentano ma gli autori dell’opera sono Paolo Conte, Vito Pallavicini e Michele Virano. Nell’immaginario collettivo però quest’opera viene comunemente abbinata a Adriano Celentano, che ne è «solo» l’interprete. Anche rispetto ai ricavi ci sono enormi differenze tra il discografico e l’editore musicale. Una terza figura è quella dell’agenzia e management, attività che porta gli artisti in tour e organizza concerti.

D. Con cosa si rapporta un editore nell’epoca del digitale?
R. Noi editori trattiamo diritti, non supporti o vendite di prodotti fisici ma licenze per l’utilizzo della nostra musica, e l’avvento delle nuove tecnologie ha portato un proliferare ed un aprirsi a ventaglio di opportunità. La musica è un prodotto molto versatile, esaurisce la propria funzione di «entertainment» in pochi minuti; le tecnologie hanno fatto sì che questa funzione possa essere possibile mantenendo la qualità dell’ascolto ed hanno ampliato a dismisura le possibilità di fruizione. Ciò da una parte ha aperto il mercato, dall’altra l’ha polverizzato: se prima si vendevano milioni di copie di un disco di successo, oggi si hanno, accanto alla vendita del disco, i click e le visualizzazioni su YouTube, il download su iTunes, gli ascolti su Spotify, in uno sviluppo orizzontale e non più verticale, come in precedenza quando la vendita del disco centralizzava tutte le economie della filiera.

D. Anni fa la vendita del disco arrivava prima del concerto, ora innanzitutto si ascolta la musica online, si va al concerto, e solo dopo, eventualmente, si compra un disco.
R. Oggi il disco è in certi casi solo uno strumento promozionale.

D. E un optional, quasi.
R. Non per tutti gli artisti fortunatamente, ma per alcuni è solo uno strumento che permette al fan di avvicinare l’artista, dando avvio a un processo promozionale che poi necessariamente passa dal tour, ed è una testimonianza che permette di lasciare un segno. Non è più un prodotto primario attorno al quale gira tutto. Siamo tornati alle origini. Nella prima metà del secolo scorso la musica veniva venduta attraverso gli spartiti musicali e veniva eseguita in concerto, con orchestre ed ensemble, ma finiva lì; negli anni 50 e 60 è quindi scoppiata la vendita del prodotto fonografico, ossia 78 giri, 45 giri, quindi album. Noi siamo ora abituati alla centralità della casa discografica, del supporto, dell’artista, ma nelle classifiche degli anni 40 e 50 non si trovava mai il nome dell’interprete accanto al brano, perché all’epoca non contava. Contava il genere di canzone: se era un tango, un foxtrot, un jazz ed altro. L’interprete si è consolidato con una propria dignità pari a quella dell’autore, poi molto superiore, dagli anni 60 in poi. Prima non c’era questa necessità, e una canzone di successo si trovava in molteplici versioni: il pubblico voleva la canzone, non l’artista. Negli anni si è affinato il meccanismo industriale della discografia, e si è creato l’artista.

D. In questa evoluzione, il paradosso è che se prima l’artista non era in primo piano, ora invece è solo lui che fa il caso di successo. In altri termini, a chi ha grande popolarità possono mettersi in bocca anche canzoni di basso livello perché è lui a renderle famose e, per ciò solo, produttive. Spesso ci sono accordi tra questi artisti e gli autori, che voi tutelate, in cui i primi patteggiano una percentuale maggiore sui diritti dei secondi, facendo leva sul fattore economico e sul valore aggiunto della rilevanza dell’artista.
R. Non è più così. Negli anni 60 gli autori avevano poca consapevolezza dei meccanismi e a volte vendevano i propri brani agli artisti famosi, che li firmavano interamente. Attualmente, nel mercato che io frequento e che tutela tanto autori importanti quanto gli autori emergenti, non c’è più l’interprete come erano Mina, Ornella Vanoni, o i grandi interpreti di quegli anni, e bisogna fare un gioco di squadra. Noi della Warner Chappell ascoltiamo un brano inedito e lo immaginiamo adatto a un determinato interprete, a cui lo proponiamo; se a questo piace, può decidere di modificare delle frasi e intervenire sull’originale, che subisce così una trasformazione con un apporto creativo nuovo, e questo passa per il riconoscimento di quote editoriali all’artista che non sono mai prevaricanti sull’autore. Si parla di ventiquattresimi: 12 vanno sempre agli autori e 12 agli editori. Se l’artista non apporta modifiche, gli autori originali si dividono i 12/24 spettanti; il manager dell’artista può però richiedere all’editore una cointeressenza sulla quota editoriale ma questa non è prevaricazione bensì un negozio assolutamente plausibile dove l’interesse dell’artista per il tramite della sua società editoriale va a coincidere con l’interesse della Warner Chappell, e ciò garantisce profitti per tutta la filiera, evitando altresì che un brano resti nel cassetto del suo autore.

D. Il digitale ha portato alla ribalta nuovi addetti alla filiera, ossia quei canali che consentono l’ascolto. In che modo si ripartiscono i ricavi?
R. Il mercato attuale, molto florido a livello di potenzialità anche per la sua orizzontalità nel senso che ho specificato, purtroppo deve recuperare gran parte delle marginalità attraverso le tecnologie, lo streaming audio e video e il downloading, e questa è una battaglia molto importante che tutti gli aventi diritto, non solo gli editori musicali, stanno cercando di condurre a buona sorte non solo in Italia. A livello internazionale si parla di «value gap» per indicare la mancanza di coincidenza tra quello che gli aventi diritto marginalizzano attraverso l’immissione dei propri repertori sulle nuove tecnologie e quello che invece i titolari delle nuove tecnologie – Google, Spotify, iTunes e tutti gli altri – guadagnano sui contenuti. Tale sperequazione è sui tavoli internazionali del mercato ed è anche stata oggetto di due studi gestiti dalla Siae per il tramite di Ernst&Young, vertenti sull’analisi dei valori primari delle forme di creatività in Italia, che hanno anche stigmatizzato il problema nascosto dietro la definizione del «value gap». Potenzialmente il nostro è un mercato molto profittevole, ma molto complesso nella contezza delle utilizzazioni e delle relative corrispondenze economiche.

D. Le nuove opportunità della digitalizzazione non vanno di pari passo con la qualità: nel pot-pourri prolifera un’offerta musicale che, a partire da talent e reality fino ad internet, rende il digitale una democrazia spaventosa che non seleziona. Come si può tutelare, nella fotografia di oggi, la qualità?
R. Ciò è vero. Chiunque abbia un minimo di preparazione informatica è in grado di arrivare ad un prodotto finito: scrivere una canzone, arrangiarla, pubblicarla su YouTube e farsi promozione. La stanza si è ampliata e se si ha qualcosa da dire si deve aumentare la propria voce, perché il vociare che c’è sotto è talmente rumoroso e fastidioso che difficilmente si riesce a farsi sentire. Ma si entra in un meccanismo diverso: la musica ha un aspetto culturale che va di pari passo con quello sociale, dunque rispecchia, nel bene e nel male, ciò che viviamo quotidianamente. I progetti pubblicati negli anni 60-70-80 erano ampi e variegati sebbene il mercato assorbisse meno. Ma noi ci ricordiamo solo di alcuni di loro, perché quelli che non esprimevano un livello qualitativo decente si sono persi per strada per lo scorrere del tempo e delle memorie. Oggi succede la stessa cosa: tutti hanno pubblicazioni e visualizzazioni su YouTube, ma molti hanno una rilevanza assolutamente insignificante. Purtroppo la qualità di un progetto è una cosa, il suo successo è altra, e alla fine vince il secondo sulla prima.

Piero e Andrea Pelù, Roberto Razzini e lo staff Warner Chappell

D. I talent hanno distrutto la qualità e la serietà?
R. Personalmente sono favorevolissimo ai talent. Chi non ha avuto la loro benedizione, è comunque favorito dall’allargamento del mercato che si presta ad una ricerca attiva di nuovi talenti. Ma ricordiamo che i talent hanno prodotto moltissimi interpreti, che hanno bisogno di canzoni e così si rivolgono agli autori, i quali ne sono altrettanto avvantaggiati. Chi ama l’orecchiabilità di un prodotto più commerciale convive con chi preferisce un altro tipo di musica: questo significa avere un mercato vivo. Il talent è un acceleratore offerto dalla televisione, ed ha reso famosi alcuni mentre ha costituito una fionda per altri che sono stati lanciati, ma poi sono precipitati. Dobbiamo avere piena coscienza del fatto che la sua ragione d’essere è subordinata a meccanismi televisivi, che propongono un certo tipo di prodotto. Non è il punto di arrivo, è solo l’inizio di un percorso, poi bisogna comunque avere qualcosa da raccontare, altrimenti il talent è solo una «foto col cagnolino». La bellezza di una canzone non è la sua oggettività, bensì la sua credibilità, la sua interpretazione e il raggiungimento di un livello emozionale dato dal cantante. Il cantautore è credibile perché canta cose proprie, il suo problema è trovare un linguaggio originale che lo tiri fuori dalla mischia; l’interprete non deve essere solo bravo ma avere la capacità peculiare di far proprie le parole e le storie di altri.

D. Facciamo una giornata in cui impediamo a chiunque di trasmettere musica e…
R. …e avremo un picco in alto di suicidi.

D. E di omicidi. Il diritto d’autore (tanto sobillato) avrebbe così più senso per la platea, perché paghi la musica?
R. Per sensibilizzare il pubblico il diritto d’autore è fondamentale e va identificato per la sua natura primaria ed unica: compensare, retribuire, marginalizzare il lavoro degli autori e degli editori. L’autore non viene remunerato da una «ospitata» tv od un concerto, ma esclusivamente dal diritto in questione. Quando una composizione è diffusa da un megafono, dalle casse, da un microfono, o riprodotta col flauto dolce o la chitarra acustica, va commisurato il diritto ad una remunerazione, che non è una tassa bensì il giusto ed equo compenso da ripartire tra i titolari dell’opera.

D. In Italia però la Siae è «sofferta».
R. Su questo concetto purtroppo l’Italia ha sempre sofferto di un’evasione rilevante, perché non si ha consapevolezza di ciò che effettivamente il diritto d’autore rappresenta e lo si considera alla stregua di una «Equitalia della musica»; da cui l’opposizione alla Siae. In una festa di matrimonio si paga il pasticciere che fa la torta, il fiorista, il fotografo, persino il prete: perché non si vuole pagare la musica? In discoteca si pagano l’entrata e i cocktail, ma in effetti ci si va per la musica. Se c’è un sottofondo musicale in qualunque luogo, anche dal dentista, è giusto che venga retribuito. L’offerta di «entertainment» ha una sua giustificazione; il diritto d’autore è sacro non solo perché retributivo per gli autori ma perché dà risorse al sistema affinché possa mantenersi vivo e generare altri investimenti sulla creatività e la valorizzazione dell’arte. Chi scrive musica deve poter fare solo quello, per vari motivi, non da ultimo la tutela della sua emozionalità che va di pari passo con la capacità creativa: non si può comporre se si ha un secondo lavoro che prende molte delle energie e del tempo dell’artista. Se questi non ha alcun tipo di premialità ma comporre gli comporta solo sforzi e sacrificio mentre il prodotto è estorto da un mercato che non gli riconosce il diritto d’autore, è più sensato fare altro.

D. Liberalizzazione del mercato: Soundreef prende piede contro la Siae ed è appoggiata da artisti molto grandi. Che succede?
R. Questo è un argomento importantissimo gravato da tantissima superficialità, demagogia e mancanza di attenzione. In tutti i mercati in cui il diritto d’autore è rispettato esiste un monopolio di fatto, ciò vuol dire che non c’è una pluralità di soggetti con mandato ad intermediare; nonostante il mercato lo permetta ciò non si è mai verificato. Infatti, la gestione del diritto d’autore deve essere monopolista, anche se di fatto e non di legge; nei Paesi europei tutti hanno interessi a convergere su un unico punto di raccolta che dia forza agli autori e agli editori. Il concetto solidaristico della società di collecting, non a scopo di lucro ma di tutela, porta ad avere una capacità che soddisfa i soggetti tuelati attraverso la premialità del mercato, in un meccanismo di equiparazione tra «piccoli» e «grandi» in cui è più remunerato chi è più apprezzato. I diritti d’autore di un’opera vengono corrisposti con parità di trattamento per tutti gli associati, su un tavolo da gioco in cui le regole sono uguali per tutti. Si è più ricchi perché più bravi, non perché si nasce con un peso specifico diverso.

D. Il decreto legislativo n. 35 del 15 marzo 2017, di attuazione della direttiva 2014/26/UE sulla gestione collettiva dei diritti d’autore e dei diritti connessi e sulla concessione di licenze multiterritoriali per i diritti su opere musicali per l’uso online nel mercato interno, è entrato in vigore l’11 aprile 2017. Cosa cambia?
R. Il decreto 35 fa emergere il problema della tutela e apre il mercato ad altri organismi di gestione collettiva, semplicemente normando la materia. Chiunque può esercitare attività di intermediazione sul diritto d’autore, purché l’ente sia senza scopo di lucro oppure sia gestito dagli associati. La Siae rispetta questi criteri. Soundreef, per quanto a noi noto, è a scopo di lucro ed è detenuta da fondi di investimento, dunque è fuori mercato; inoltre, non rispetta tutti i dettami della direttiva Barnier, tra cui meccanismi di trasparenza, efficacia e parità di trattamento.

D. Quali sono i limiti di Soundreef?
R. Soundreef fa contratti a cinque anni, mentre la direttiva dà un limite massimo di un anno. Oltre a ciò, ha pagato un anticipo molto consistente a Fedez e Gigi D’Alessio per la gestione del loro diritto d’autore; la discriminante difficile da far passare nel rispetto della direttiva è questa. Gli altri che si associano a Soundreef non ricevono lo stesso trattamento, venendo meno la parità richiesta tra famosi e non. Diversamente, la Siae non dà un «premio di ingaggio» per associarsi. O Soundreef si pone sul mercato pagando a tutti il medesimo anticipo, oppure è fuori dai parametri. Poi, la gestione del diritto d’autore deve essere centralizzata in un unico soggetto perché ciò è richiesto dalle regole del mercato nel concetto di «one-stop-shop» Questo principio va anche a vantaggio degli utilizzatori stessi, che con un’unica licenza possono ottenere l’utilizzo di tutti i brani musicali di cui necessitano. L’intermediario più forte è quello che fa pagare di meno, come in ogni settore del mercato concorrenziale; la liberalizzazione del diritto d’autore comporterebbe un abbassamento delle tariffe. Ciò andrebbe a penalizzare gli aventi diritto, perché ciò che verrebbe incassato da diverse società di percezione sarebbe inferiore, per effetto della liberalizzazione del mercato e della concorrenza. Quindi il mercato libero non favorirebbe gli autori e gli editori ma li penalizzerebbe nei loro interessi economici.

D. Invece la Siae?
R. La Siae ha una particolarità unica: la capillarità sul territorio che è seconda solo ai Carabinieri, e ciò garantisce la sua piena capacità ad incassare a nome dei suoi associati ovunque. Se non si è radicalizzati nel territorio, quei proventi non è possibile intercettarli. Per avere un’organizzazione efficace, bisogna avere massa critica ed essere l’unico interlocutore.

D. E quali sarebbero, allora, gli argomenti a favore del mercato libero?
R. A mio giudizio e come abbiamo visto, non ce ne sono né per gli aventi diritto né per gli utilizzatori. L’unico mercato realmente libero è quello americano, dove non si incassa il diritto d’autore dalle radio, dai cinema, dalle tv, dai concerti, ma solo dai grandi eventi; in quel mercato bisogna vendersi a un editore prima di aver dimostrato qualcosa a qualcuno e fare già alti proventi con i grandi eventi. In Italia e negli altri Paesi si incassa ovunque e sempre e ciò non è necessario: si può cominciare a percepire proventi anche da emergenti. se avessimo quel tipo di mercato, troveremmo quelli che oggi definiamo bravi e/o grandi autori a suonare nelle metropolitane. La musica è cultura, non sono canzonette: abbiamo un patrimonio che ha radici profondissime e una capacità di espressione ben al di sopra della media internazionale, ma com’è tipico del nostro Paese ci perdiamo nell’applicazione delle regole. (ROMINA CIUFFA)




RICCARDO VITANZA (PAROLE & DINTORNI): COMUNICARE NON SOLO MUSICA, NON SOLO PAROLE, MA ANCHE I LORO DINTORNI

Dintorni. Ossia tutto ciò che c’è intorno alle parole, e non solo. Questo è Riccardo Vitanza, numero uno della comunicazione musicale in Italia che rappresenta, quale ufficio stampa, artisti del calibro di Francesco De Gregori, Zucchero, Claudio Baglioni, Francesco Guccini, Luciano Ligabue, Elisa, Renato Zero, Charles Aznavour, Vinicio Capossela, Umberto Tozzi, Piero Pelù, e infiniti altri simboli musicali, come anche artisti emergenti. Lui li individua, li scopre, li sceglie, li produce attraverso la sua società, Bollettino Edizioni Musicali, e ne fa, attraverso Parole & Dintorni, oggetto dell’interesse della stampa italiana.

Con lui un team di giovani, sul suo imprinting formati ed educati alla cultura giornalistica e alla deontologia dal 1990 ad oggi, così immessi nel mercato anche a partire dalle sue lezioni all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove è docente nel corso di «Ufficio stampa e comunicazione» del master in Comunicazione musicale. Con Parole & Dintorni è anche consulente per la comunicazione di associazioni, società, locali, manifestazioni, progetti, nonché di attori e personaggi dello spettacolo.

Vitanza nasce a Massaua, in Eritrea, l’8 ottobre 1965, con la passione per il mondo dei giornali, che si manifesta sin dalla tenera età. Di umile famiglia, trasferitosi in Italia, dopo aver interrotto gli studi di Giurisprudenza con cinque esami sul libretto nel 1987 comincia a lavorare nel campo della comunicazione come copywriter, e nel 1988 entra nel mondo dello spettacolo come autore di testi, curatore di un periodico e addetto stampa per conto del primo locale afro-latino in Italia, lo Zimba. Nel 1990 inizia l’attività di freelance e si specializza come ufficio stampa nell’ambito musicale, costituendo la ditta individuale Parole & Dintorni. I suoi primi clienti sono Jovanotti, Pino Daniele e Giorgia. Nel 1997, Parole & Dintorni diventa una srl.

Per conoscere il mercato musicale in Italia, bisogna parlare con Vitanza.

Domanda. Riccardo Vitanza e dintorni: qual’è la sua storia?
Risposta. Nel 1987 ho iniziato, a Milano, come copywriter in un’agenzia di pubblicità, quindi ho lavorato per un locale di musica afro-latina e, dopo aver digerito tutti i libri di pubblicità e di giornalismo, mi sono occupato di ufficio stampa esordendo con il tour di Ziggy Marley, su proposta del proprietario del locale con cui collaboravo. È nel 1989 che nasce «Riccardo Vitanza» come ditta individuale, per divenire successivamente «Parole e Dintorni di Riccardo Vitanza». Ero solo e lavoravo in una casa-ufficio di 20 metri quadrati fino al 1994, quando presi il primo collaboratore. Nel 2000 mi trasferii nell’attuale sede di Via Stradivari, con circa 15 persone tra esterni ed interni. Con Trident, che organizzava la gran parte dei tour italiani, cominciai subito ad occuparmi in maniera concreta di artisti importanti, in un rapporto mediato dal capo della società con cui dialogavo. Lavoravo molto con gli stranieri, per conto di varie società, come per l’ultima tournée italiana dei Ramones nonché per i primi rapper d’oltreoceano: Public Enemy, Beastie Boys, Ice Cube, Ice-T, tanto rock e britpop prima ancora che arrivassero Oasis e Blur. Ho lavorato anche con questi ultimi, in particolare il leader Damon Albarn, all’inizio della loro carriera: facemmo 98 paganti in un locale a San Colombano al Lambro, vicino a Lodi. Ho curato l’ufficio stampa del primo concerto dei Cranberries, con 400 persone, e il primo concerto in Italia di Jamiroquai. Ho dunque seguito la comunicazione per i primi esponenti dell’easy jazz. Intorno al 1997 Pino Daniele, Jovanotti e Giorgia mi chiesero di occuparmi di loro come ufficio stampa personale. Nel 2005 mi sono ricongiunto con Ferdinando Salzano, che aveva lasciato Trident per guidare F&P Group e che ora gestisce l’80 per cento della musica italiana per la produzione e l’organizzazione di concerti, e dal 2005 sono il suo comunicatore di fiducia.

D. Come sceglie i componenti del suo team di Parole & Dintorni?
R. Quando appenderò il comunicato al chiodo, ricorderò di aver formato e valorizzato tante persone: è questo il principio da cui parto. Nell’ambiente discografico ne ho cresciute moltissime: di alcune ho trovato un curriculum in cassetta postale, altre le ho conosciute in situazioni differenti, spesso sono miei allievi provenienti dai corsi che tengo all’Università Cattolica di Milano. C’è chi rimane, c’è chi va via. Sono un sostenitore della «quota rosa» in quanto considero la donna lavoratrice superiore all’uomo: attualmente, un ragazzo e 12 donne lavorano per me. Alcuni di loro volano via dopo la formazione, assumo tutti e, rispetto al modus operandi dilagante, dopo che mi è stato dimostrato il valore, dallo stage ai piccoli contributi passo all’assunzione a tempo indeterminato. Mio padre, umile benzinaio, mi ha sempre detto: dai valore al lavoro. Ho un team favoloso che lavora oltre gli orari d’ufficio, e se loro mi danno io do anche di più. Molti datori pagano in nero, a partita Iva, con rimborso: io preferisco assumere. Sebbene ciò mi dia più oneri, ho la sensazione che la persona lavori solo per me e la considero un socio di fatto. La precarietà è un aspetto che non condivido, è deleteria. Più si rende precario il lavoro per un giovane, più lo si destabilizza, in quanto perde fiducia in se stesso e nelle istituzioni, nel Paese e nella vita.

D. Lei ha i più grandi musicisti affiliati al suo ufficio stampa: come avviene la procedura di scelta?
R. Non scelgo, sono sempre scelto. Sono molto bravo a fare il PR per gli altri, ma non lo sono per me stesso anche perché, essendo un capo operativo in ufficio, controllo i miei delegati e sono a stretto contatto con tutti, così è difficile trovare il tempo per fare promozione al mio business. Sono più sulla riva del fiume e attendo che il cliente passi. C’è posto per tutti gli artisti, importanti ed emergenti, è chiaro che l’aspetto economico è modulato.

D. Non solo Parole & Dintorni: lei ha anche la Bollettino Edizioni Musicali. Di cosa si occupa?
R. Di produzioni ed edizioni musicali. Con essa ho lanciato Giovanni Allevi e due cantautori che si sono rivelati anche due grandi autori, Pacifico e Niccolò Agliardi. Due esempi su tutti: «Sei nell’anima» di Gianna Nannini, che ha scritto Pacifico, e l’ultimo album di Laura Pausini, che in parte ha scritto Agliardi. Lavorando su di loro anche come ufficio stampa, li ho aiutati a farsi conoscere, sono stato il volano della loro carriera. Ora sto lanciando Ylenia Lucisano, cantautrice pop folk, al cui nuovo album, in uscita in primavera, sta lavorando il produttore Taketo Gohara. Altri artisti che seguo sono la cantautrice Roberta Giallo; Giulia Mazzoni, pianista molto brava con base a Firenze che ho ceduto alla Sony pur rimanendone editore e comunicatore; due chitarristi classici, solo strumentisti, Roberto Fabbri di Roma e Renato Caruso di Milano. Sto seguendo anche un rapper, Peligro, che adesso sta lavorando al suo nuovo album prodotto da Marco Zangirolami, in uscita il prossimo anno. Ho coperto tutti i vari ambiti con i miei emergenti. Sono io poi che per loro tengo i rapporti e cerco di trovare il partner discografico adatto per la distribuzione. La cosa migliore a quel punto è non pretendere soldi dalla casa discografica ma darle la possibilità di investirli sull’artista. Io mantengo le edizioni e le royalties, ma dopo di me entra in campo una struttura che lavora molto anche sul marketing, attraverso iniezioni di denaro. Cerco sempre di mantenere un low profile, anche personalmente.

D. Su quale base sceglie gli emergenti da seguire?
R. Gli emergenti bussano alla porta, vado loro incontro, vedo se c’è una fattibilità. Li scelgo per la qualità. Il comunicatore è comunque un valore aggiunto, la conditio sine qua non è il prodotto: se è buono, è esaltato e messo in evidenza. A volte prendo anche prodotti non eccelsi ma interessanti dal punto di vista del progetto o del personaggio che lo propone. È anche il carattere dell’artista a fare la sua parte: non deve essere necessariamente il disco a funzionare, conta anche il personaggio. Progetti di questo tipo non ne seguo molti, ovviamente il criterio di scelta è quello della qualità. Ma l’attenzione deve essere rivolta a chiunque, altrimenti non esisterebbero un’etica e una deontologia.

D. L’ufficio stampa è un’obbligazione di mezzi, non di risultato, ma ciò spesso non è chiaro. Non si può garantire la prima pagina del quotidiano ma molti la pretendono: come reagisce?
R. Rispondo: noi operiamo nell’ambi- to dell’informazione, non nella pubblicità. Per quest’ultima, che spesso coincide con la pretesa degli artisti, possono acquistarsi spazi pubblicitari. C’è un rapporto fra ufficio stampa e giornalista fatto di complicità, malizia, alleanze, ma sempre nell’ambito di un’etica e deontologia professionale. L’ufficio stampa fa il proprio lavoro e lo fa bene, tanto che sottolineo sempre ai miei collaboratori di non impiegare superlativi assoluti, perché non siamo noi a dover dire che il disco è bellissimo: noi avvisiamo che il disco esce. L’informazione deve essere presente nel comunicato stampa, e questo è ciò che è richiesto a noi. Non possiamo etichettare il nostro artista, è un errore gravissimo.

D. I tempi sono cambiati. Ora artisti che hanno milioni di visualizzazioni su YouTube sono spesso stonati, mentre la musica di qualità è quasi bistrattata. Dove stiamo andando?
R. Sono cambiati gli scenari. Innazitutto negli strumenti mediatici, dal fax ad internet, fino alle foto, che prima erano diapositive. Prima si collezionavano vinili, ora si è passati allo streaming e al downloading. Nel mondo digitale lo streaming sta mandando in pensione il downloading, che a sua volta ha mandato in pensione il cd. In questo regime di «pensioni anticipate», per i corsi e ricorsi vichiani sta tornando in auge il vinile, che sta ridando vitalità all’industria che da Napster e pirateria ha ricevuto solo grandi danni. Il problema è che con lo streaming, attraverso Spotify ed altri aggregatori, non ci si accorge più che dietro tutto questo c’è un processo duro ed articolato, c’è un’industria che lavora. L’acquirente non lo capisce e non lo riconosce, così pretende musica gratis. Il successo di un artista ormai viene certificato sulla base dei like, delle visualizzazioni, dei followers. Parliamo di «plastica»: quello che conta in realtà è l’acquisto del disco o del biglietto di un concerto, non il like. Gli utenti scorrono e cliccano «mi piace» senza dare peso e importanza, su internet vale tutto e si vuole perpetuare ad ogni costo il quarto d’ora di celebrità. È così che si sono creati anche gli haters, coloro che seminano odio in quanto hanno la possibilità, attraverso i post sui vari social, di interagire con i loro artisti che, sebbene «amici», poiché collegati su un determinato network, non possono rispondere personalmente a tutti quei messaggi, avere un rapporto vero con i fan. Anche la mania del selfie è imbarazzante. Nel villaggio globale, quello che aveva ipotizzato Marshall McLuhan, il veleno è iniettato semplicemente con un tweet, gli insulti arrivano con semplicità. Un tempo c’erano i fan club, che facevano da tramite per inviare la lettera al proprio idolo; oggi tutti, dietro ad un computer, sono in grado di parlare e scrivono direttamente a chi vogliono senza mediazione. Ma ognuno è coevo del proprio tempo, è più facile che un giovane non conosca Bob Dylan non avendo la cultura adeguata, storica o musicale, quindi le storture diventano evidenti. È l’esercito dei selfie, come raccontato dalla famosa canzone di Takagi & Ketra di cui abbiamo curato proprio noi l’ufficio stampa. Il fisico ha lasciato il posto al digitale, e ora c’è lo streaming: il lettore cd in effetti non c’è più nemmeno nelle macchine e nei computer. Ma prediligo la cultura del possesso alla cultura dell’accesso. Siamo figli dei mutamenti tecnologici, dove ci portano non lo sappiamo.

D. Il parallelo è con la psicoterapia: se non la paghi, non funziona. Così la musica. Come tornare ad una musica di qualità e ad un’industria musicale che giri nuovamente?
R. Ascoltare un brano è un’educazione, e la parte educativa deve arrivare dalle istituzioni. L’ascolto «virtuale» non è un ascolto consapevole. Il suono è compresso, perciò diverso, e questo deve essere oggetto di una formazione musicale che dobbiamo fornire, combattendo il disinteresse verso la ricerca di una sonorità pulita. Vivendo con e nella cultura del consumo e dell’usa e getta, ai giovani d’oggi non interessa più la qualità musicale. Noi amavamo la puntina sul vinile, ma nell’attuale cultura dell’accesso, dove ciò che conta è il presente, non c’è pianificazione, e così non c’è ottica di conservazione. Tolte alcune eccezioni, nessuno programma più il futuro: perché comprare un cd?

D. La Siae è molto criticata, e sorgono nuovi mercati «free», della musica libera. Anche i musicisti odiano la Siae. Ha ancora ragione d’essere un ente come questo, in un mondo «mordi e fuggi»? Qual’è la sua opinione?
R. La Siae ha sempre ragione d’essere perché tutela e protegge il diritto d’autore, e questo è fondamentale. Chi ascolta la musica tanto maldestramente deve sapere che essa ha un lavoro dietro, che una canzone non cade dal cielo e la filiera ha dei costi. La musica va pagata perché non si crea gratis. C’è una proprietà intellettuale da preservare, c’è una creatività da tutelare, ci sono dei costi da sostenere in un lungo processo. Una volta che è stato inventato il masterizzatore, la gente ha cominciato a copiare dischi e rivenderli; così in seguito con lo streaming e tutto il resto. Questo è frutto della cultura musicale di oggi, ma la musica deve essere, comunque, pagata.

D. In questo «villaggio globale», come fidarsi dei nuovi artisti che, in realtà, sono per la gran parte esponenti di una musica scadente, anche grazie alle dinamiche dei realities? Perché acquistare un album «fisico» se la qualità non è più garantita?
R. Di questo la colpa è proprio delle case discografiche, che hanno aumentato indiscriminatamente il prezzo dei cd, uniformando tutti, sbagliando. Imperver- savano e imperavano in un momento, disinteressandosi del mercato e di altri rivoli di guadagno, per loro era importante solo vendere il disco a prescindere da come esso fosse e da chi fosse l’artista, purché produttivo in termini di guadagni. In realtà sugli artisti giovani incentivare l’acquisto con prezzi più popolari sarebbe stato ideale, mentre paradossalmente oggi sono i grandi artisti storici ad essere economicamente svalutati, in quanto i loro album sono ormai di catalogo. Ora che le case discografiche da «record company» si sono trasformate in «entertainment company», la sola vendita del disco non produce più il fatturato di una volta, ed esse cercano di guadagnare anche su altri comparti dell’artista: live, sponsorizzazioni, merchandising e simili. Ancora: ci vuole cultura.  (ROMINA CIUFFA)