F.U.T.U.R.E.

F.U.T.U.R.E.
un racconto di Romina Ciuffa
Non c’è nulla all’interno della nave, assolutamente nulla. Nessuno la guida. F.U.T.U.R.E. è vuota.

In questo bar del Village il soffitto è coperto da animali a zigzag ritagliati da cartoni colorati e plastica. Volteggiano in aria come padroni. Qualche lesbica creativa ha tirato fuori le sue paure più grosse e le ha rappresentate, poi le ha appese tutte al Cubby Hole sulla Dodicesima Strada e quando non dorme, perché non vuole e perché i suoi mostri la inseguono nel letto, passa di qua, li guarda in faccia, dritti negli occhi e loro, danzando al suono di un jukebox vecchio modello, non fanno più paura. Non c’è niente di meglio che tirar fuori il mostro e guardarlo in faccia. Un whisky liscio aiuta e per questo intorno alle pareti colorate è sorto un locale, con la pretesa che sia solo per donne. I mostri della lesbica intimoriscono più, allora, qualsiasi avventore che non si troppo macho per entrare ed affrontarli. Amanda Moore mi siede accanto ed è bella. Non so chi sia, so solo che è bella. Mi ero alzata a prendere due birre ed ecco che si siede questa donna accanto alla mia amica, che per l’occasione ho lasciato sola fra le donne, beata tra di esse.

Si siede questa donna in tailleur dopo aver chiesto se la sedia fosse libera. No, in verità sono con un’amica, è a prendere da bere. Sei bella, davvero. Posso sedermi comunque? Sì, c’m’on, siediti, c’è comunque una sedia in più. E silenziosa fa un sacco di domande. Il suo silenzio chiede: sei gay? Sei davvero così bella? Ti piacciono molto gli uomini? Quella è la tua ragazza? E la mia amica, mentre mi attende, in silenzio altrettanto risponde, con due occhi verde imbarazzato: non sono gay. Non sono davvero così bella. Mi piacciono molto gli uomini. No, quella non è la mia ragazza. E il verde imbarazzato diviene azzurro mare quando Amanda la fissa e le fa un’altra domanda senza chiedere. E allora perché mi fissi cosí sin da quando son entrata? A questo la mia amica, che ho lasciato da sola al tavolo del Cubby Hole, non sa davvero cosa rispondere, perché l’ha fissata ininterrottamente da che Amanda ha messo piede nel locale. Questa modella di pochi anni, alta, con la cravatta e occhi predatori, questa maschietta con arte e parte, si fa guardare. Da tutte. E mentre butta giù tequila, io pure guardo la scena da lontano, e palpita il tavolo sotto di lei che lo sfiora con mani grandi, e la mia amica, alta quanto lei, si vede, non sa cosa si fa a una donna se sei una donna, e l’approccio va gustato come un Brownie quando fumi marihuana, senza sapore. Senza fame vera. Solo con quel desiderio di qualcosa che non vuoi davvero. Ma che ti piace l’idea di volere. È quello che sta accadendo ora, mentre ordino le birre e Amanda ordina una bionda confusa.

Torno al tavolo e Amanda, di cui non so il nome, si alza. La seguo e le chiedo d’accendere. La curiosità è donna e qui siamo tutte donne. Il sesso qua dentro non conta perché ce n’è uno solo. Finita la sigaretta, finita la birra, la mia amica continua a regalare occhi a questa mora incravattata, che finisce per essere più alta di lei – cosa che di solito non accade mai alle alte e le colpisce. Affondata mi guarda, e m’alzo quando Amanda viene al tavolo e dice di volermi parlare. Mi chiede cosa volevo da lei. Non voglio niente da te, come-ti-chiami. Si chiama Amanda, dice. E cosa fai, Amanda, e perché a New York ti metti a parlare italiano? Perché lavoro anche in Italia. Ha capito tutto quello che la mia amica mi ha detto di lei al tavolo, e sa che qualcuno ha ceduto, stanotte, sotto i mostri colorati di una lesbica impaurita dall’esserlo che li ha ritagliati in una domenica di neve. Che lavoro fai, se posso permettermi di chiedere? Sono una modella. Non faccio difficoltà a capire che non mente e che ha fatto copertine di Vogue. Il suo coming out è arrivato dopo ed ora è quasi un’icona gay, da quando ha deciso di tagliarsi i capelli alla maschio e di giocare coi motociclisti in bianco e nero e non più piume viola e raso sulle gambe lunghe. Mi dice no, la tua amica è bella, ma è etero. È straight. Basta con le straight: non più. Perché Amanda? Perché l’ultima mi ha fatto soffrire. Basta con le etero. Fanno soffrire più di tutto, come non potessi dar loro più che sesso, e nemmeno completamente a volte. Siamo solo fantasie per loro e restiamo in un mondo fantastico. Forse per questo atterra un Ufo nel Cubby Hole.

Atterra e tutti i mostri che ci sono dentro cominciano a danzare nel cielo e in terra, fra i piedi e fra le mani, e la lesbica che li ha disegnati si nasconde sotto il bancone del bar. Amanda non ha paura, anzi, la vedo a suo agio in mezzo ai mostri. La mia amica non si accorge di nulla ma io li vedo danzare e urlare al ritmo di un valzer solo violino. Li vediamo in poche. Io vedo fiamme arrossare il volto che ho riflesso nello specchio e ballerine con i piedi rotti. Vedo dolore e sensi di colpa. Gessi. Vedo menzogne, battute, vedo la società, vedo la famiglia di ciascuna di queste donne e la mia, vedo maschi mostrare i propri genitali, mandare fiori e fare pipì sul muro. Amanda fuma la sua sigaretta e la mia amica beve la sua birra. Trema la lesbica sotto al bancone ed io, che mi accorgo di ciò che sta accadendo, la vado a soccorrere. La musica là sotto cessa e in questo ritrovato silenzio le chiedo perché ha paura. Non vedi cosa sta accadendo? Sì. Tu puoi vedere? Sì, posso. E non hai paura anche tu? Molta. Un mostro giallo con due passi è davanti a noi e urla. Lei si ripara dietro di me, me lo trovo davanti e mi accorgo che assomiglia alla normalità. Mi accorgo che tutti questi mostri assomigliano alla mia amica ed hanno occhi verdi come i suoi. Cosa facciamo noi sotto al bancone mentre un gruppo di animali di cartone colorato balla valzer senza musica? L’Ufo che è atterrato apre le porte. La navicella ha una scritta cubitale che dice F.U.T.U.R.E.; una luce acceca me e l’altra in ginocchio dietro me, che si gira. Io preferisco guardare, coraggio, andiamo a fondo alla cosa, lascio un attimo la mano di questa sconosciuta terrorizzata che m’implora di restare e mi avvicino alla macchina. Appoggio lentamente il piede sulla piattaforma. Scivolo dentro.

Non c’è nulla all’interno della nave, assolutamente nulla. Nessuno la guida. F.U.T.U.R.E. è vuota. Posso ancora sentire tremare la lesbica da sotto al bancone e vedo tutti i suoi mostri danzarle accanto terrorizzandola. D’improvviso, una figura appare dentro la macchina. È la mia amica: da dov’è passata? Mi prende la mano, quella straight, quella “straight basta”, di repente mi bacia, mi bacia ancora, mi spoglia, sorride, si spoglia, mi bacia, mi prende, fa l’amore con me, dolcemente, senza saperlo fare ma comunque dolcemente mi fa, per un istante, sentire voluta e sorride ancora, mi fa per ore, o forse un secondo poi s’addormenta.

Ora che dorme fa meno freddo dentro la nave e sembra quasi che questa donna l’abbia riscaldata. Amanda aveva torto marcio, il mondo fantastico è reale, è tutto reale qui dentro. È proprio una stupida. Ma cosa vuoi che capisca una modella americana! Stupida. Cosa vuoi che capisca. Guardo lei accanto a me ma la luce della nave mi acceca e mi domando come non accechi lei, come possa addormentarsi così. Non riesco a dormire dentro F.U.T.U.R.E. e posso ancora vedere mostri ballerini, sebbene colorati, spaventare quella lesbica. A me non fanno un graffio ora: sono forte, sono meglio di Amanda Moore. Uno ora ha addirittura il viso di Amanda ed è nero, indossa una giacca e si fa beffa di me. Ma io non ho paura! Io ho il coraggio dalla mia. Io posso affrontare un’eterosessuale, e guardala, è qui che dorme accanto a me! Non si è pentita, non era un gioco. Non sono solo una fantasia: esisto e sono reale. Tu Amanda, invece? Sei reale o finta come una copertina di carta lucida? Hai piume viola addosso o cravatte? Tu che hai paura di tutto, tu che le straight basta, impara a campare! Stupida. Ma il mostro ride ancora, non risponde alle mie provocazioni e a sua volta provoca, chiudo gli occhi un istante per non guardarlo e quando li riapro mi ritrovo sola sulla navicella dentro al Cubby Hole. La mia amica non c’è qui accanto a me, quella che dormiva sotto le luci accecanti di F.U.T.U.R.E. non accecata. Il violino suona ancora e stride un po’, consumato senza accordatura perfetta o corde di valore. A fatica, perché non ho dormito davvero, m’alzo, mi avvicino alla porta della nave e faccio per uscire. Cerco la mia amante. Mi fermo sull’uscio e la intravedo, poi la vedo. È mano nella mano con un uomo. Non la amo, ma fa uno sbraco nel cuore. Amanda la guarda da lontano, poi guarda me come a dire: ti avevo detto cosa fa soffrire nella vita. Si aggiusta la cravatta, si accende una Merit e se ne va su un’altra copertina di Vogue.

Ma sono ancora sulla nave e un’alternativa la ho, i mostri sono ancora più ribelli ora e la mia nuova amica mi guarda. Posso salire anche io? Preferisce una vita lontano dai mostri che ha ritagliato in una domenica di neve, a costo di dover andare via su una navicella vuota. No, le faccio con gli occhi, non c’è niente su questa nave! È vuota! Non posso lasciarti entrare. Si soffre qua sopra, si soffre qua dentro. Ma da sotto al bancone, veloce fa uno scatto ed è a bordo. I motori si accendono. Non sta ascoltando me come io non ho ascoltato Amanda. Si soffre qua dentro. F.U.T.U.R.E. è una fantasia vuota, un gioco di luci, ma la realtà è anche peggio. Non so se scendere, non so se partire, devo decidere in fretta ma sulla nave ci sono solo io e questa sconosciuta piena di paure come me. Non voglio una vita vuota. Faccio un salto prima che le porte di F.U.T.U.R.E. si chiudano del tutto e sono di nuovo al Cubby Hole. La mia amica, quella che ha voluto fare l’amore con me come si pasteggia in preda alla follia post-marihuana, mi sorride, non si è accorta di niente e ancora attende la birra che le devo portare. I mostri ora sono solo pezzi di cartone ritagliati da qualcuno che non c’è più e che nessuno ha potuto più ritrovare, ma sono tutti là che fissano me. Non esce più alcun valzer dal jukebox. Mi racconta che ieri notte ha fatto l’amore con quell’uomo che, poco più in là, sta sfogliando Glamour: in copertina c’è Amanda che ride di gusto. Alzo gli occhi e vedo la luce di F.U.T.U.R.E. divenire più piccola, poi scomparire. La nave non è più vuota ora, non è vuota come lo sono io. C’è una ragazza là dentro, mentre qui dentro non c’è niente.  (ROMINA CIUFFA)

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MARZIAMO

MARZIAMO
un racconto di Romina Ciuffa
La diversità inizia con la D di dolore e non finisce mai

A Rita.

Che giorno è? Non ricordo cosa sto facendo qui. Quando sono atterrato su questo letto, avevo tutt’altra intenzione. Poi ho trovato te. Hai rovinato tutti i miei piani: il mio obiettivo era quello di distruggere la Terra, non di fare l’amore con te. E che fai, adesso, sbarazzina, sorridi? Stai attenta, perché noi siamo cattivi. Tu mi vedi qui, nudo, tutto tuo. Ma sono cattivo anch’io. Non pensare alle parole che ti ho detto nella notte, mentre tu mi mordicchiavi il collo: tu devi avere paura di me! Guarda che forma strana che ho! Ti sembro qualcosa d’amare? Sfoga i tuoi sentimenti sulle creature uguali a te, perché altrimenti, se scegli me, sarai costretta a vagare in eterno, a vergognarti per tutta la tua breve vita, ed io a rimpiangerti per quella mia restante. Sarai costretta a svegliarti di notte con il sole in faccia, a temere i tuoi simili. Non guardarmi così.

Non ricordo più cosa sto a fare qui. Ricordo che ero sulla mia nave, e davo ordini ai marinai. Comandavo loro di andare il più in fretta possibile, perché altrimenti ci avrebbero visto, colpito, affondato. D’un tratto, un botto. Un rumore assordante, la Terra sempre più vicina, la luce accecante. Un frastuono, il buio. Poi un tonfo: atterraggio morbido. Non ho visto più nulla per un tempo indefinito, e annusavo quella bambagia sulla quale mi trovavo, e toccavo con le mie mani la morbida superficie terrestre, convinto di essere, finalmente, arrivato a destinazione. Ma quell’odore, quell’odore mi ha fatto perdere la cognizione del tempo. Non vedendo, mi spingevo lentamente e pericolante tastando il terreno, non sapendo dove iniziasse e dove terminasse, o se fosse minato, o se fosse sicuro. E così sono arrivato a te. C’era il tuo corpo lì, silenzioso. Non potevo vederti, ma già ti guardavo. I miei occhi erano fissi su di te, fermi, immobili, e tutto il nero che si frapponeva fra il mio corpo freddo ed il tuo corpo caldo era la luce più accecante. Non sapevo che eri lì, ma già ti conoscevo. E solo quando ti sei mossa, con un sospiro, mi sono accorto della tua presenza fisica. Il tuo odore già mi immergeva la mente come un pesciolino rosso nel suo acquario. C’era qualcosa che dovevo fare, in quel momento, ma tu mi distraevi. C’era qualcosa che era meglio che io facessi, ed era andar via subito, o cominciare il mio attacco da te. Ma non avevo più memoria, forse il tuo odore aveva annebbiato le mie stanche membra. Dei miei marinai, nessuna traccia, e già non mi interrogavo più. Due fari, improvvisi, illuminavano il pianeta: avevi aperto gli occhi, e mi avevi visto. Ma, come fossi uscito dal tuo sogno, mi hai sorriso, senza paure. Ricordati, dolce marziana, che io sono qua per distruggerti, non per farmi distruggere: e tu mi hai annientato. Uno sguardo, e la radio non ha più funzionato. Ho perso i contatti col mio mondo, ma verranno a prendermi, e mi porteranno via, via da te, a concludere la mia missione. Perché io avevo una missione; o non l’avevo? Bah, non è importante ora, perché se hai spazzato via con un battito d’ali i migliaia di anni della mia solitudine, forse il mio pianeta dovrà temerti, perché sei più forte di noi. Hai dei poteri che noi non abbiamo. E se tutta la Terra ne possiede, siamo rovinati. Forse è meglio tagliare i ponti, per il bene del mio mondo e dei miei simili. Io sono qui, atterrato su di un letto.

E se ti uccidessero? E se i miei sapessero che mi trovo qui? E se stessero già arrivando, o fossi già nella mira del più bravo di loro? Vivrò anch’io, da adesso in poi, nella paura? Sono venuto a terrorizzare, e invece sono terrorizzato. Cos’è questa cosa che mi fai? Cos’è questa forza che tu hai? Un potere? Un’arma? E arma è l’anagramma di amar. Ridi. Non sorridi ma ridi: devo proprio essere buffo, su questa Terra. Il tuo letto è morbido come quando vi sono atterrato, e la tua pelle lo è ancora di più. Ti temo. Tu mi temi? No, tu non mi temi. Tu non hai paura di niente! Ti farò un regalo per il tuo compleanno: ti regalerò, tutta bella impacchettata con un fiocco rosso, com’è vostra usanza, la salvezza del tuo pianeta. Io me ne andrò, però. Non voglio che tu soffra. E con me tu soffrirai: la diversità inizia con la D di dolore e non finisce mai. (ROMINA CIUFFA)




CARILLOFF

CARILLOFF di Romina Ciuffa. La sua scatola portagioie porta gioie solo quando è chiusa, ma quando è chiusa lei non può ballare: che gioia è? 

A proposito di scatola armonica, la mia: quando la chiudi, la ballerina che rotola su se stessa si piega in due e non si sa più che fine fa e questo mi ha sempre dato soddisfazione. Pensa questa scema, naso contro i guanti e i gioielli, in apnea totale, si gonfia tutta si gonfia, sudando come un bestia nel corsetto, urlando come il brutto genio nella lampada: «Apri la scatola, voglio ballare cazzo!». Ma chi sei, le dico, ma chi ti conosce. Ma ti pare, una ballerina dentro casa. Ne serviva giusto un’altra di narcisista. Inscatolo e metto qualcosa di forte, che si addica al mio stato, Marilyn Manson, «Se non posso averti, non potrà nessuno». Se io non posso averti, ballerai a comando. Ora voglio stare per conto mio, la chiudo abbarbicata nel suo stupido tutù. Ho sempre odiato le cretine che non sanno aprire la loro scatola da sole. Per di più rosa.

Perché non mi sono fatta un orologio a cucù, dico io, delle bestie puoi fidarti molto più che delle donne. Avevo questo carillon come si hanno i carillon: non si sa perché. Stanno lì, da parte, li ricordi dall’infanzia ma non potresti mai dire chi li ha messi lì. Sarà stata l’amante di qualcuno dei miei nonni, zii, di mio padre, di una cugina gay non dichiarata o chissà. Questa stupida ballerina, quando apro, mostra di sapere della vita. Di me. Perché mi colpisce tutte le volte, esce come se io non sapessi. Mi sorprende. Ma gira sotto lo sprone della mia carica e questo non va: voglio un carillon indipendente, una ballerina che mi faccia danzare. Che esca dalla scatola mentre dormo.

Adoro questa sequenza, London’s Bridge is Falling down, canzonetta in voga nelle scuole materne inglesi dal 1744. Nel 1013 il London Bridge fu fatto bruciare da re Edredo d’Inghilterra e dal suo alleato norvegese Olav II per dividere l’esercito degli invasori danesi di re Svein Haraldsson; Snorri Sturluson nel 1225 scrisse la Saga di Olav Haraldson. Come lo ricostruiremo, my fair lady? Il ponte sta crollando, signora. Ma lei ha gli occhi distrutti dal panico. Conosco quegli occhi. Prendo la chiave e la rinchiudo con le gioie. Lock her up, Lock her up. Cessa di crollare il ponte, la mia ballerina riposa riversa sulle collanine. Il panico è passato, è più tranquilla ora ma la sento, sento le mie collanine e gli orecchini fare dling dling, come una scossa di terremoto minuscola che è la mia ballerina tremante. Ricostruirò questo ponte rosa mentre la scatoletta trema. Poi si calma. Dev’essersi addormentata. Da carillon a carilloff.

Passano i mesi e la riapro. Ballerina come stai? La tua serotonina? E l’amigdala, l’hai regolata intanto? Esce fuori, assonnata. Ha dimenticato del ponte, poi quel lampo nei suoi occhi cerulei, due puntini senza pupille. No, non è crollato. Ma fregatene. Sei al riparo, sei con me, sei nella scatola del carillon. Ballerina, tu balla, fregatene del ponte. Fai ciò che più ti piace, la felicità, esci dalla scatola. Mi guardi, come a dire: gira. Ho paura di farti girare, perché ho paura che avrai paura di nuovo. Lock her up. Ruoto velocemente il meccanismo. Lei ha le unghie curate, il trucco è leggero. Tende al cielo allungando le braccia e indica me.

Mi accorgo di meritare un uccello che esce fuori dall’orologio ogni 12 ore e fa cucù. Ne Il Silenzio degli Innocenti c’è un carillon come il mio nella stanza di una vittima di Hannibal Lecter. Questa scatoletta rosa piena di oche e fru fru accanto ai pezzi d’uomo di una cena avanzata si addice di più al mio crescere. Sapere che anche la scatola più rosa fuori è nera. Cari, on. Cari, off.

London Bridge is falling down, balla, soffre ma balla, un po’ trema. Rallento. Sta sudando di nuovo. Ha le mani fredde. Le sposto una collanina che le si è incastrata tra i piedi, delicatamente le pulisco la scatola delle gioie e intanto lei volteggia, mi guarda, lei che porta gioie e non sa dove siano, le gioie. Trema più forte. Il ponte sta per crollare, vedo che già non riesce più a concentrarsi sui suoi passi. Le sta tornando il panico. Non era stupida, ma terrorizzata. Il terrore che venga a mancare la terra sotto i piedi, che è il terrore di volare. La paura che ogni volta, danzando, il ponte crolli. I sensi di colpa. Qualcuno che la osserva da fuori. La sua scatola portagioie porta gioie solo quando è chiusa, ma quando è chiusa lei non può ballare: che gioia è?

Allora prendo e giro la rotella a sinistra, la faccio al contrario tutta quanta così il ponte è ricostruito. Le si illuminano gli occhi. Da cerulei a veri. Non ci avevamo mai pensato. Balla, senza paura balla, ci sono io qui fuori, io ti conduco, tu balla e ricostruisci questo ponte. Fra poco richiuderò il portagioie. Ma sai che lo riaprirò, ti caricherò e ti farò girar la testa, ti condurrò in un ballo dolce fino alla fine della notte. Sai che, mentre la tua scatola sarà chiusa, io non comprerò nessun orologio a cucù e spolvererò la tua scatoletta. (Romina Ciuffa)