NICOLA CONTE: MA QUESTO È UN REGNO PIÙ CHE UNA CONTEA

di ROMINA CIUFFANicola Conte è uno dei produttori silenziosi del panorama italiano. Ma, in effetti, definirlo “silenzioso” e “italiano” non rende: infatti gli album da lui prodotti sono sempre stati all’apice della classe e della polivalenza, da Rosália de Souza a Chiara Civello, ed hanno sempre avuto l’internazionalità come trait d’union, come se questo metà-barese-metà-lucano avesse un Dna globalizzato molto prima dell’era di internet. Facile dire oggi “cavalco il mondo”, il cavallo di Conte era un pony dei primi anni 70 e sempre a quegli anni lui si è ispirato, dunque anche oggi la sua elettronica e le sue sonorità restano dei cavalli di battaglia degli anni d’oro della musica, quella fuori dai reality ma dentro la realtà. Wikipedia dice di lui “disc jokey”, e questa è l’orma più profonda della carriera di Conte, quella che lui schiaccia con vigore da sempre e che lo distingue. Ciò detto, non è solo il disc jockey a rappresentare la sua contea: chitarrista, produttore musicale, dalla bossanova al pop all’afro, oggi anche al crooning, non si è mai limitato (e dice che il suo non limitarsi costituisce anche un limite) all’Italia, che ritiene un luogo in cui l’impronta è meno evidente, ed ha mantenuto la sua visione globale nei secoli dei secoli della musicalità con la quale si è contraddistinto. Si è contornato di musicisti di ogni nazione, neri e bianchi (sono i colori che fanno l’arte), e ha creato un Combo, una band tutta sua che varia nei contenuti e nei componenti a seconda di chi e che c’è in giro, e dove lo porta il suo eclettismo.

Dal suo primo album Jet Sounds fonde  gli elementi propri del jazz con la club culture e dall’Europa parte alla volta dei club di San Francisco, Tokyo, Mosca; dal 2001 produce il primo album di Rosália De Souza (“Garota Moderna”), cui segue “Garota Diferente”, remix del primo: da DJ ha all’attivo oltre cento remix pubblicati. Collabora  con jazzisti del calibro di Gianluca Petrella, Fabrizio Bosso, Daniele Scannapieco, Rosario Giuliani, Till Brönner, Cristina Zavalloni, Nicola Stilo; è del 2008 l’album “Rituals”, nel quale incide due canzoni con Chiara Civello con la quale pubblica, di recente, Canzoni (vi cantano, in duetto con la Civello, anche Gilberto Gil, Chico Buarque, Ana Carolina, Esperalda Spaldin). Nel 2009 esce per Schema Records il doppio album “The modern sound of Nicola Conte – Versions in jazz-dub” con inediti e reworks, producendo anche il remix Tema de la Onda (Nicola Conte meets Aldemaro Romero). Nel 2010 esce per Edizioni Ishtar for Schema Records una versione rimasterizzata in 2 cd di “Other directions”, suo grande successo. Le altre novità e spezzoni della sua inesauribile vita me le racconta su Rioma. Perché qui si arriva a un regno, più che ad una contea. Rigorosamente ascoltare questo brano mentre si legge l’intervista.

Domanda. Quali sono le tue origini?
Risposta. Sono nato a Bari; mia madre è barese mentre mio padre è lucano di un paese in provincia di Potenza, Montemilone: sono metà barese e metà lucano. Mio padre andò a studiare a Pisa, quindi si trasferì a Bari per il suo lavoro di ingegnere, e fu a a Bari che conobbe mia madre. Così ho vissuto semre a Bari, tranne brevi periodi all’estero.

D. Su Wikipedia c’è scritto che sei nato a Bari nel 1964, “disk jockey e compositore italiano”.
R. Wikipedia forse lo scrivono le persone, e c’è una cosa che mi tormenta: parlano del fatto che le mie influenze sono le colonne sonore italiane, e indipendentemente dalla musica che suono sembra che abbia fatto sempre la stessa cosa, ma non è così.

D. Ma sei davvero un “disc jockey” o sei anche “altro”?
R. Per me la musica è legata al disco in vinile: sin da quando ero piccolo ho collezionato dischi. I miei hanno voluto che frequentassi l’università, ma mi ero così appassionato alla musica che per un periodo della mia vita, tra il liceo e l’università, l’idea che mi prendeva di più era quella di suonare il jazz nei club; io non sono mai stato un dj di intrattenimento e la mia idea era proprio quella di fare jazz, cosa che ho fatto quando a Bari è nato il Fez Club. Così scorse la mia vita negli anni immediatamente precedenti a quelli più “sperimentali”. Ma è dalle scuole medie che coltivo la mia passione per la chitarra, prendendo lezioni di chitarra classica.

D. Quindi, a dirla tutta, tu parti dal jazz e dalla chitarra classica, più che dal clubbing?
R. Sì, ma ho ascoltato di tutto. Moltissimo rock, anche quello degli 70; e frequentando come facevo amici più grandi di me conoscevo musica fantastica, “per adulti”. Poi ho lasciato completamente la musica, in parte per la questione dell’università, in parte perché nella mia famiglia non era ben visto che io suonassi. Così ho frequentato la Facoltà di Scienze Politiche, ma ho anche cominciato a fare il dj. La cosa è partita e mi sono concentrato su quello. Da lì sono arrivate le prime produzioni discografiche con i gruppi che facevano parte del giro del Fez Club; dopo qualche anno la scena del Fez cominciava ad esaurirsi, e decisi di produrre direttamente dischi a mio nome. Il primo che ho fatto, Jet Sounds, uscito nel 2000, è un disco da dj con dei campioni, lavorando con i musicisti presenti nella scena barese.

D. Come ha reagito il pubblico al primo album di Conte produttore?
R. È subito uscito in tutto il mondo, dall’America al Giappone, e naturalmente anche in Europa. Da quel punto in poi non mi sono fermato più, ho fatto moltissimi remix, fino a quando arrivò il disco, uscito sotto l’egida Blue Note: sto parlando di Other Directions, del 2004.
Nicola Conte Other Directions

D. È proprio il caso di dire “altre direzioni”.
R. La svolta c’era già stata, nel senso che avevo abbandonato i campioni ed un certo tipo di elettronica legata al genere musicale degli anni 60 e 70. Così alla fine è diventato un progetto live acustico, nel quale rimisi insieme tutti gli amici dell’ultimo periodo del Fez Club, tra cui Gianluca Petrella, Fabrizio Bosso, Rosario Giuliani, Lorenzo Tucci, Daniele Scannapieco, Pietro Lussu, Pietro Ciancaglini, Nicola Stilo, Pierpaolo Bisogno, Till Bronner, Cristina Zavalloni, Bembe Segue, Lucia Minetti, Lisa Bassenge. Con tutti questi nomi divenne un gruppo dal vivo, e iniziammo a fare concerti. Dovevo immaginare la mia presenza all’interno del progetto, e fu così che arrivò il momento di riprendere gli studi della chitarra e di carlarmi in questo tipo di realtà. Diciamo che dal 2004 a oggi è stata questa la cosa principale che ho fatto, anche se continuo a fare dj set.

D. Si può dire, allora, che in effetti è stata la tua componente DJ a spingerti oltre?
R. Una delle cose più importanti nella mia carriera è stata la fortuna di avere sin da subito un sound originale che ha influenzato molti altri, ed è quello che poi ho sempre cercato di mantenere durante il tempo, magari cambiando le forme espressive ma sempre cercando di avere come principale obiettivo quello della riconoscibilità. Il mio senso estetico si è formato negli anni, e la cosa che per me è stata sempre rilevante è il fatto che dietro il mio lavoro c’è un percorso intellettuale e culturale molto profondo. Ossia, conosco bene le cose che amo, le approfondisco continuamente e sono sempre alla ricerca di informazioni e di cose che non conosco. Questa per me è la mia evoluzione costante. E non essere mai contento di quello che faccio mi proietta verso quello che accadrà domani, in una ricerca continua.

D. La tua evoluzione dipende dalla ricerca costante, ossia dal tuo carattere; ma quanto dipende anche dagli altri, come produttore?
R. L’altra cosa molto importante per me, secondo la mia percezione, è quella di avere intorno a me persone che stimo moltissimo, non solo musicisti di alto livello ma anche amici, che dal punto di vista umano e non meramente musicale siano in grado di dare qualcosa. Se poi andiamo a vedere i musicisti presenti nei miei dischi, ci si rende conto del fatto che la mia idea di musica non può prescindere dalla grandezza degli interpreti: nel momento in cui si ha una visione musicale, bisogna anche essere capaci di trovare gli interpreti giusti. Cioé: anche questa è una ricerca continua.

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D. Parlando di produzione, Chiara Civello spicca tra le ultime collaborazioni: il 6 maggio 2014 è uscito “Canzoni” (distribuzione Sony Music), il nuovo album che per la prima volta la vede nelle vesti di sola interprete, 17 brani del repertorio italiano e un sound più internazionale e contemporaneo, che spazia dal blue eyed soul al jazz alla bossa nova, da te prodotto artisticamente alla guida di un team di musicisti di alto livello come lo svedese Magnus Lindgren al sax, il finlandese Teppo Makynen alla batteria, Luca Alemanno al basso, Pietro Lussu al piano, Gaetano Partipilo al sax alto e il chitarrista brasiliano, con Chiara sin dal primo disco, Guilherme Monteiro.
R. L’avventura con Chiara è stata molto stimolante fin dall’inizio. Innanzitutto amo molto Chiara, questo da sempre: credo che sia l’unica cantante italiana che abbia una dimensione internazionale, non solo per la bravura, ma per la sua stessa forma mentis.

D. Oltre a lei chi?
R. Ce ne sono altre che sono bravissime, seppure in una dimensione diversa, come per esempio Alice Ricciardi, cantante straordinaria, che ho inserito nel ruolo di voce jazz della mia band; ma ce ne sono anche altre, come Cristina Zavalloni. Si tratta di donne soprattutto di classe, con un grandissimo charme, e di artiste che non hanno scelto la strada più semplice.

D. E quale sarebbe la strada più semplice oggi?
R. È quella di fare dei mainstream, cioè di fare una musica pop pensata per l’Italia e che vive in Italia e basta; invece credo che per chi abbia veramente un grande spessore artistico l’Italia sia molto limitante, nel senso che oggi non puoi pensare di vivere il tuo percorso artistico a livello nazionale, io stesso me ne sono allontanato sin dall’inizio. Ovviamente questo per me in diversi periodi è stato anche un limite, nel senso che la musica che faccio, a seconda dei vari periodi, può aver avuto poco appeal in Italia, ma è stata una scelta consapevole e voluta.

D. La tua musica ha sempre avuto un sound molto diverso, molto straniero.
R. Sì, molto internazionale: mi sento cittadino del mondo e non riesco ad autoconfinarmi soltanto nella dimensione italiana. Questo da sempre, fin da quando ero piccolo: per esempio Londra per me è stato un polo di attrazione fortissimo fin da quando avevo 12-13 anni.

D. Cos’è il Combo?
R. Il Combo è il gruppo stabile che ho da oltre 10 anni, caratterizzato da una formazione variabile nel senso che non sono solo 5-6 persone, ma sono almeno 10-12. Ciò dipende dal fatto che ogni volta che vado in studio per le prove il gruppo si arricchisce di nuovi elementi perché, a seconda dei vari periodi e dei vari dischi, arrivano nuove personalità e la musica cambia anche in base a chi c’è in quel momento nel gruppo. C’è una dimensione del gruppo che è molto internazionale, a partire da Magnus Lindgren, sassofonista svedese, Logan Richardson afroamericano che vive a Parigi, quindi un trombettista tedesco ed un altro francese, e tutti gli italiani più bravi, da Fabrizio Bosso a Flavio Boltro e Giovanni Amato, e molti altri che continuano a ruotare. Ed anche se alcuni non suonano più perché sono legati a un determinato momento, ne arrivano degli altri, alcuni meno noti ma bravissimi, come ad esempio Francesco Lento. Anche di batteristi ne sono passati tanti, tra cui l’italiano Marco Valeri. Da circa 5 anni a questa parte la musica della band si è orientata sempre più verso un’ispirazione afroamericana ed è diventata molto più black, ad esempio con il percussionista Abdissa “Mamba” Assefa e la cantante americana Tasha. La musica ha dei colori, ed in base a quali colori e a quali sfumature prende in determinati momenti creativi cambia anche la conformazione del gruppo.

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D. Si dice che tu hai scoperto e prodotto Rosália de Souza: il suo primo disco aveva la sua voce, il secondo era un rifacimento del primo versione remix, da “Garota Moderna” a “Garota Diferente”. In tema brasiliano, da Rosália a Chiara quant’acqua sotto i ponti è passata? 

R. Ci sono molte affinità tra il progetto che iniziai con Rosália e quello con Chiara, però ci sono anche molte differenze nel senso che con Rosália c’era lei e basta, ho dovuto quindi costruire tutto il suo immaginario musicale in quel disco, e che tutt’ora rimane in lei. Quando poi  si creò un gruppo dal vivo per lei, io non entrai perché non era il mio gruppo: il mio gruppo non era ancora nato, stiamo parlando del 2001-2002, ma avevo una serie di musicisti che comunque lavoravano con me. Il suo gruppo durò un anno e mezzo, in quello che secondo me è stato il periodo artisticamente più felice per lei. Invece con Chiara il mio coinvolgimento è stato a 360 gradi, nel senso che è stato non solo immaginare un sound e crearlo in studio, ma riunire un gruppo di musicisti intorno a lei, in un’idea di disco che fosse diretta emanazione poi di concerti, un’esperienza per me molto bella perché io avevo sempre suonato la mia musica, da solo o con il mio gruppo, ed ho trovato interessante affrontare questo discorso facendo canzoni italiane e suonando insieme a lei con la band in una dimensione più pop rispetto a quello che avevo fatto fino ad allora. Anche se ovviamente l’idea di pop che abbiamo io e Chiara è comunque molto alta.

D. Progetti per il futuro?
R. Da circa tre anni sto lavorando a un progetto elettronico che si chiama Black Spirit, non è ancora uscito nulla ma abbiamo fatto dei live; oltre ad un amico Dj di Bari che proviene dalla tecno pura berlinese, sono coinvolt, Andrea Fiorito e Gianluca Petrella. Da questa idea ne sta nascendo un’altra, ancora con Gianluca Petrella e aggiungendo Giovanni Guidi. Ora ho prodotto il disco per un’amica che ho dai tempi del Fez barese, Stefania Di Pierro, dal titolo “Natural”, con brani in portoghese brasiliano, per l’etichetta inglese Far Out Recording (qui sotto per l’ascolto), e a settembre uscirà un album nero crooner (ndr: il crooner è un cantante che interpreta canzoni melodiche in chiave confidenziale) con Marvin Park: ne sono produttore e lavoriamo con il Combo. (ROMINA CIUFFA)

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GUI HARGREAVES: DA MINAS GERAIS HAIKU (俳句) E MUSICA, LA GRANDEZZA DELLA SINTESI EMOTIVA

di ROMINA CIUFFAGui Hargreaves è di per sé già un “Haiku”. Conciso, indipendente, fatto in una metrica magica, diversa. Il nome “Gui”, che proviene da Guillherme, già è dimostrativo della teoria della riduzione. Riportare al piccolo, alla minuscolinità. Più piccoli si è, più si entra nei luoghi e si ha modo di visualizzarli nella loro immensità. Conoscendo l’umiltà e disconoscendo la vanagloria. Così questo mineiro, che giunge oggi per pochi giorni in Italia a promuovere il suo primo, indipendente come lui, cd: un ep, ovviamente, disco “breve”, pochi brani per dare il senso della sua arte, della sua grandezza nel minimo delle parole necessarie ad esprimersi. Sensibilità alta, voce lucida, sensoriale attitudine. E poi, per stringere ancora: perché una band, quando si può fare un piccolo disco in piccolo? Da solo: voce e chitarra. Perché ne sia più facile la promozione, per non esser legato a qualcosa di troppo grande, ingestibile, per poter muoversi con facilità. Ma non da solo: piccolo non vuol dire solo. Per scegliere i brani ha messo a punto un evento, nel dicembre 2015, e vi ha convocato tutti coloro che lo hanno accompagnato nel suo percorso musicale, chiedendo loro di votare tra i brani da inserire. Pragmatico. Anche io lo contatto sapendo che è in Italia da sole poche ore e, in pochi minuti, pragmatico come un haiku, è da me. Dirompente come un haiku, che leggi una prima volta e da quella in poi lo si leggerà ogni volta differentemente tanto che – consiglio – si legga e ricordi il primo senso per poi confrontarlo con quello di una delle volte successive: ciò, a mio avviso, dà la misura della mutabilità della percezione sull’apparenza. Lo haiku (in portoghese haikai) – linguaggio sensoriale che cattura emozioni e immagini in una metrica dettata da “more” (non sillabe) – riesce a rappresentare, oltre alla magia della parola, la sensibilità di questo mineiro, che stringatamente è tutto: esplosione di gioia e nel contempo di forza, quella di un Leone (del 31 luglio) nato nell’inverno brasiliano del 1991, che al suo primo disco affianca il suo primo libro. Così escono Braseiro, l’ep, e Diminuto, il libro. Gui (si pronuncia “ghì”), a sfregio del suo complesso cognome, elimina fronzoli lessicali e retorica, e suggestiona in un batter di ciglio. In (poche) parole e in (molta) musica. In un mondo che corre ed è global, lui scrive: “Distanza – a millimetri siamo – a chilometri”.

Domanda. Quali sono le tue origini e le origini della tua musica?
Risposta.
Sono nato a Juiz de Fora, Minas Gerais, il 31 luglio 1991, vivo da sempre a Belo Horizonte, canto e ho studiato canto da piccolo, tanto che mi esibisco dal vivo da quando avevo appena 12 anni. Eppure ho cominciato a comporre solo a 20 anni, quando presi per la prima volta in mano una chitarra ed ebbi voglia di comporre e lavorare con la musica, interamente dedicandomi ad essa. Ho sempre cantato di tutto, ma non specialmente samba: eppure, una volta impugnata la chitarra, è arrivata la composizione del samba. Avevo già provato il violino senza grandi risultati, e studiato flauto dolce e trasversale: a 7 anni mia madre mi iscrisse a un corso di flauto e la mia insegnante riteneva strano che fossi più portato a comporre che a suonare il flauto. Verso i 20 anni, stanco di suonare la chitarra elettrica, ho preso l’acustica di mio padre, rendendomi conto solo allora di quale fosse davvero la mia passione: comporre con la chitarra.

D. Cosa ti ha portato in Italia e in che modo hai conosciuto Francesca della Monica, insegnante che da anni conduce una ricerca sulle diverse tecniche della voce, tradizionali e sperimentali, e, in particolare, quelle collegate alle notazioni non convenzionali della nuova musica?
R.
Ho cercato qualcuno che mi aiutasse a fare degli show, una persona che si occupasse della mia direzione artistica. Conobbi Francesca della Monica, che stava tenendo un corso di canto a Belo Horizonte, e cominciai a studiare con lei. È lei la ragione per cui sono qui in Italia. Lavora molto in Brasile ed ogni volta che viene la seguo per imparare da lei. A settembre scorso abbiamo fatto una settimana intera di lezioni intensive a San Paolo, e approfondito il mio modo di comporre, parlato molto per confrontare le nostre idee e opinioni sulla mia carriera e la mia musica. Così mi ha invitato in Italia.

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D. In Italia, dove ti trovi al momento, quali sono i programmi: un tour, lezioni, turismo o che altro?
R.
Non ho in mente un vero e proprio tour, nel senso di concerti pianificati. A Roma ho suonato al Contestaccio, mentre venerdì 8 aprile è il turno di Ostia al locale Jolie, all’interno del Cineland; poi sarò a Firenze, quindi mi trasferirò un mese a Siracusa dove, grazie a Francesca, ho trovato una residenza artistica, e dal 20 aprile vi trascorrerò un mese intero. Quindi tornerò a Roma per poi ripartire per San Paulo e BH.

D. Residenza artistica: di cosa si tratta?
R.
Si chiama Moon, acronimo di Move Ortigia Out of Normality, e suonerò lì dove anche risiederò fino a fine maggio, in uno scambio di arte e cultura.

NDR: Moon nasce per dare un palcoscenico all’arte con una telefonata. Luogo fisico, centro culturale, bar, bistrot, laboratorio di danza, teatro e auditorium, spazio espositivo, luogo di incontro. Concreto e virtuale. Rivista web, spazio digitale, crocevia di informazioni, arti, culture, saperi.  Una comunità di soggetti che desiderano condividere visioni, progetti, idee, proposte e azioni. Una piattaforma di creazione collaborativa di contenuti che connette persone, progetti e iniziative dedicati all’innovazione artistica, culturale e sociale. Ha sede nell’isola di Ortigia, nell’antica città greca di Siracusa, luogo unico, cuore pulsante di storia e tradizioni siciliane e mediterranee, e vuole dialogare con le persone che lo amano e vengono qui da tutto il mondo. È anche la luna, e un punto di vista originale sulla realtà che ci circonda, perché la Terra vista dalla Luna è diversa. Promuove la libera circolazione dei saperi, propone le arti come luogo del cambiamento e della condivisione, incoraggia stili di vita ecologici e sostenibili a partire dall’alimentazione, offre spazi di confronto, studio e coworking, invita alla partecipazione dei cittadini, incentiva la cura e lo sviluppo dei beni comuni, diffonde l’uso del digitale a fini artistici e sociali, accoglie i creativi di ogni campo per collaborare, produrre e diffondere.

ba1b7eb9b8ad142948e3b9dce300b4c6_L copiaD. Sei anche un poeta, specializzato nella forma letteraria dell’Haiku. Scrive nell’orecchia del tuo ultimo e primo libro “Diminuto” Laura Cohen Rabelo: “È possibile leggere un libro di poesie come leggere un romanzo, percorrendo le pagine dall’inizio alla fine, identificando in esso una narrazione unica suddivisa in capitoli. Un insieme di poesie può essere letto anche per consultazione, come un oracolo o un manuale di istruzione – apriamo il libro ad una pagina qualunque alla ricerca di un significato -. Il libro può anche esser letto dalla fine, o in direzioni aleatorie, perambulando tra le pagine (…). I libri di poesia si trasformano così in una specie di antidoto ad ogni situazione, come nella Teogonia di Esiodo la musa canta per fermare mali e afflizioni. Di fatto, chi vede il poeta mentre scrive crede nel poderoso canto della musa: come fosse posseduto da una voce esteriore lui prende un quaderno e vi annota un’idea urgente. Da questa idea sorge una poesia. Nonostante la sua componente magica, il processo di costruzione del libro ‘Diminuto’ è stato un lavoro complesso e lento., cominciato con Guillherme che scriveva incessantemente, fino a comporre circa una cinquantina di haiku, sempre contando nelle dita le corrette misure delle sillabe (…)”. Perché l’haiku? Come lo hai scoperto?
R.
Sì, scrivo anche poesia e ho lanciato il mio primo libro nel 2014, “Diminuto”. Ad esso mi sono dedicato attraverso lo studio della forma dell’Haiku. Non ero ancora felice del risultato delle mie poesie come le avevo scritte a primo completamento del libro, bensì ero contento nel momento che fossero ridotte. Così decisi di far “dimagrire” questo libro, e mi ricordai del primo poema che scrissi quando avevo 12 anni in una corso di Haiku fatto quando andavo a scuola a Belo Horizonte, tenuto dal poeta Renato Negrão. Mi ricordai di questo:

Haiku

E decisi di scrivere un libro di Haiku. Un biglietto da visita per i  libri che ho intenzione di scrivere. La scrittrice Laura Cohen Rabelo, mia amica, stava formando una società con una casa editrice, la Impressões de Minas, creando una collana chiamata Leme, e cercavano il primo libro da pubblicare.

D. Lo haiku (俳句) è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo, generalmente composto da tre versi per complessive diciassette “more”, non sillabe, secondo lo schema 5/7/5. Il tuo libro si chiama “Diminuto”: cos’è per te??
R.
In questo movimento di taglio e ricomposizione, le poesie diminuite riescono a creare il massimo senso con il minimo di parole. Leggere una poesia per la prima volta non è come leggerla la seconda o la terza, e nonostante abbia convissuto con questo libro in un lungo processo temporale, resta per me sempre una cosa nuova: un colpo, un brivido, una paura, una bugia, una verità, calore nel cuore.

D. Nella poesia lo haiku, e coerentemente nella musica l’ep, ossia un “piccolo album”. Si chiama “Braseiro”, ossia brace. Qualcosa che cuoce, che brucia, che si mangia. Perché?
R.
Avevo questa immagine in testa, volevo lanciare un messaggio conciso e coerente, con forza sufficiente per significare qualcosa anche nella sua piccolezza. Inoltre assomiglia alla parola “Brasile”, ed è l’idea di un piccolo Brasile che sto portando con me, fuori. Cercavo canzoni da incidere tra le moltissime mie. Ho scelto di pubblicarle solo chitarra e voce per poter muovermi facilmente nella promozione, senza una band che dovesse sempre accompagnarmi.

D. Come hai scelto, tra i tanti, i brani da inserire in questo ep?
R.
Lo scorso dicembre ho fatto un evento in BH con le persone che mi hanno accompagnato maggiormente in questo mio viaggio musicale, in uno show con oltre 15 canzoni dopo il quale ho chiesto loro di scegliere 6 canzoni che avrei inserito nell’ep, come una votazione. Le preferite sono state le 6 che ho inserito: Na bera, Recado, Praia do futuro, Ponte do Zamba, Rosa Verão. Ho solo ritoccato l’ordine.

D. Che genere di musica è inserita nel tuo album?
R.
Sono polivalente, mi piacciono il rock, la classica, l’elettronica, il tropicalismo, la bossa. Ma non perché siano brani chitarra e voce che possono essere inseriti nella bossanova: sarebbe come dire che un pittore di oggi è modernista solo in quanto è moderno. C’è una scena molto grande in Brasile che ancora non ha un nome, e molti vi si stanno riferendo già come ad una “nuova MPB”. Questo nome comunque ancora non c’è, o non è ufficiale. In ogni caso sono anch’io parte di quella generazione che si include in questo movimento artistico.

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D. Che rapporti hai con l’Europa, con l’Italia?
R.
Madre di origine inglese, da cui il mio cognome Hargreaves, padre di origine italiana, di Cuccaro Vetere in provincia di Salerno. Da giovane ho studiato in Inghilterra, e lì ho potuto avvicinarmi alle mie origini materne. Volevo ricercare le mie origini e mi mancava la seconda parte, quella italiana. In questo mio viaggio, voglio trovare il tempo per andare a Cuccaro Vetere a fare  un salto nel trascorso della mia famiglia paterna.

D. A chi ti ispiri?
R.
È la domanda pù difficile. A questa non so mai rispondere, ma dirò che un’influenza l’ho avuta da Ryuichi Sakamoto, Nana Caymmi, Gustav Malher, Frank Sinatra. Imitavo Sinatra da quando avevo 5 anni. A 7 anni ero a dormire a casa di un compagno di classe e, durante la notte, andai in cucina a prendere un bicchiere d’acqua; i genitori del mio amico stavano guardando il Tg, che riportava della morte di Frank Sinatra. Mi cadde i l bicchiere dalle mani e mi misi a piangere. Dovettero chiamare i miei genitori e dire che non la smettevo più, solo perché era morto Frank Sinatra.

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FRA SIDIVAL FILA, NOMEN OMEN: FILA, TESSE E PREGA NELLO STUDIO PIÙ BELLO DEL MONDO

Schermata 2016-03-24 a 19.21.47romina ciuffa

Nomen omen. Sidival Fila fila. Ed è il suo quello che è stato definito «lo studio più bello del mondo»: lo è. Uno studio metafisico, immerso nella romanità più pura, dove a 360 gradi si vede il mondo, si sovrastano il Colosseo e tutti gli imperatori, raggiungibile solo camminando lungo la Via Sacra. Sito all’ultimo piano del convento di San Bonaventura, immerso nel verde, vasti giardini ed albe e tramonti che porterebbero chiunque ad una spiritualità superiore. Infatti Sidival è, innanzitutto, un uomo di religione: un frate. Ma la sua spiritualità, la vocazione, l’ha ricevuta prima di conoscere Bonaventura, comunque dopo essere giunto, con un aereo da San Paolo, a Roma, per compiere il suo più grande sogno: visitare Parigi e conoscere il Novecento francese. A Parigi non è mai arrivato: Roma lo ha fermato vincolandolo misticamente alla sua eternità.

Schermata 2016-03-24 a 19.21.53Per raggiungere il grande tavolo da lavoro, dove fra Fila fila, egli deve compiere molte scale, agguantato da una maglia di divinità ed antichità. I suoi pezzi sono tessuti sulle tele che le famiglie conservano nei cassetti della nonna, e che gli portano come gli portassero non solo gioielli di casa, ma i propri stessi antenati. Quelle grandi tele anticamente usate nelle sartorie, o come tovaglie, lunghe decine di metri: le prende e da esse tira fuori opere d’arte unica. Perché contengono la storia affettiva di intere generazioni, le aspettative di nozze novecentesche, i traumi delle guerre. Ne ricava grandissimi o minuscoli quadri, molti dei quali, cambiando la luce che vi è proiettata, cambiano magicamente il disegno. Proprio come nell’odierna tecnologia Fila è riuscito, con le sue sole mani e la sua tecnica, più unica che rara, a rendersi programmatore 3D di una sapiente arte mistica, monocromatica e nel medesimo tempo cangiante, immobile ma nel contempo in pieno dinamismo, giochi di ombre che rendono un colore mille colori, tessiture accartocciate, piegate, ondulate, alterate, ferite. Come in un quadro di realtà virtuale.

Si ispira ai suoi Lucio Fontana, Enrico Castellani, Alberto Burri, ma è Giotto, l’allievo che supera il maestro: e se non lo supera, se ne distacca e crea la propria unicità amanuense. La spiritualità che esce da questo certosino, infinito lavoro, si estende ed abbraccia tutto il Colle Palatino, la storia del mondo, la storia privata di ciascuno di noi. Ecco perché, prima di tutto, Sidival Fila è un frate, e prima ancora era un uomo che si è convertito una volta conosciuta Roma e che ha messo da parte l’arte. Impara l’arte e mettila da parte, poi torna da lei una volta pronto. E, quando ha imparato da Dio ad amare il pragmatismo umano e si è convertito, ecco tornare l’arte. Sant’Ambrogio scrive: «Non credere, dunque, solamente agli occhi del corpo. Si vede meglio quello che è invisibile, perché quello che si vede con gli occhi del corpo è temporale; invece quello che non si vede è eterno. E l’eterno si percepisce meglio con lo spirito e con l’intelligenza che con gli occhi». Dice Sidival: «Arte e preghiera sono il luogo della lotta, della fatica dove l’uomo si misura con l’oltre da sé, e questa distanza incolmabile è sorgente di sofferenza e fatica. Spesso invece si intende che l’arte sia evasione o gioco, e la preghiera fuga dalla realtà. Ma un rapporto si costruisce nella fatica, nella diversità di chi vuole dialogare, così nella preghiera».

Sidival Fila Romina Ciuffa

Nato in Brasile nello Stato del Paranà nel 1962, già da adolescente si appassiona alle arti plastiche, prediligendo la pittura. Ama la tradizione medievale trecentesca, rinascimentale e barocca, ma si sente personalmente attratto dai moderni, dall’impressionismo e dal cubismo. Trasferitosi a San Paolo per gli studi, frequenta spesso i musei di questa città e dipinge guardando soprattutto ai movimenti artistici del primo Novecento europeo. Nel 1985, alla ricerca della sua identità artistica e personale, Sidival si trasferisce in Italia per approfondire la sua conoscenza della pittura e della scultura. Dopo qualche anno dal suo arrivo e varie esperienze lavorative, deciderà di ascoltare la sua vocazione alla vita religiosa, abbandonando così tutti i suoi progetti personali, ed entrando nell’Ordine dei Frati Minori di San Francesco d’Assisi. Nel 1999 è ordinato sacerdote a Roma, dove esercita il suo ministero al Policlinico Agostino Gemelli, al carcere di Rebibbia come volontario, in seguito nel convento di Vitorchiano e in quello di Frascati.

Per diciotto anni non si dedicherà più all’arte.

Gradualmente, attraverso piccoli lavori di restauro, si riavvicina all’arte. Nel 2006 ricomincia a dipingere, guardando specialmente l’Action Painting di Jackson Pollock, e sentendo affinità con l’arte informale europea e con lo Spazialismo. In questi primi anni di «vita nuova artistica», crea opere di grande intensità e rigore formale, tutte realizzate grazie al recupero di materiali poveri oppure obsoleti: carta, legno, tele, vecchie tele e stoffe, svariati metalli, materassi consunti, gesso. Nel 2007 realizza una prima mostra personale nel convento San Bonaventura di Frascati. Nel 2009 viene presentata a Roma per la prima volta con una piccola personale nella galleria Le Passage du Russie, presso il medesimo Hotel, che attira sul suo lavoro curiosità e attenzione da parte del mondo artistico della capitale. Attirando anche un collezionismo estero che lo porta a Monaco, nella Galerie du Gildo Pastor Center con la mostra «L’Eloquence de la Metiere». È invitato inoltre nell’ambito della manifestazione «Life in Gubbio», ad esibire le sue opere con la personale «Oltre la trama»; tre sue opere sono i premi assegnati dalla manifestazione rispettivamente a Dario Fo per la letteratura, a Gigi Proietti per il teatro e a Nicola Piovani per la musica.

Tra le più importanti collettive è invitato, nel 2010, alla mostra «Trasparenze: l’Arte per le energie rinnovabili» presso il Macro Testaccio di Roma (in seguito approdata a Napoli presso il Madre, Museo d’Arte Donna Regina), dedicata allo sviluppo sostenibile e all’impegno per riscattare il pianeta dal degrado ambientale; nel 2011, alla mostra «Lo splendore della Verità, la bellezza della Carità, Omaggio degli artisti a Benedetto XVI per il 600 di sacerdozio», a cura del Pontificium Consilium de Cultura. Nel 2012 la Galleria Ulisse dedica la mostra «Dittico sull’orlo dell’infinito» ad Agostino Bonalumi e Sidival Fila e molte sue opere fanno parte di una personale, «Le pieghe della luce», nello spazio ex Gil di Roma. Nel 2014 è invitato a partecipare al progetto «Atelier d’artista» della Galleria nazionale d’Arte moderna e contemporanea (Gnam) di Roma con un video permanente che presenta il suo lavoro artistico. Le sue opere fanno parte di importanti collezioni private in Francia, nel Principato di Monaco, in Svizzera, in Brasile e a New York. In Italia sue opere sono presenti, ad esempio, nella collezione della Fondazione Puglisi Cosentino di Catania e nella Collezione d’Arte contemporanea dei Musei Vaticani.

Sidival Fila sembrerebbe nato per questo, fila come il suo nome. «Il cielo si apre su Roma e continua a gridare – qui devono reiniziare i colori» (Davide Rondoni). Pregando.

Schermata 2016-03-24 a 19.22.48Domanda. Perché l’Italia?
Risposta. Sono venuto in Italia nel 1985 attratto dalla cultura italiana, ma soprattutto dalla cultura europea. In realtà l’obiettivo del mio viaggio europeo era la Francia. Ho sempre ritenuto che quello che è stato il Rinascimento in Italia nel Cinquecento, è stato il Novecento in Francia per l’arte moderna. Il tutto senza grosse ambizioni: volevo soltanto vivere e stare qui in questo ambiente culturale. Ma arrivai a Roma e me ne innamorai. Il primo volo fu una rotta San Paolo-Roma, e il paradosso è che a Parigi non sono ancora mai stato, dopo oltre 30 anni.

D. Roma è la capitale della religione. C’entra qualcosa con la sua conversione?
R. In realtà venni in Europa per lavorare, non ero religioso né pensavo a questo. Stando in Italia dopo circa un mese trovai lavoro prima in un piccolo ristorante, poi in un locale al Gianicolo, infine in un bar brasiliano di Trastevere. Avevo 23 anni.

D. E quando è avvenuta la vocazione?
R. All’età di 25 anni ho avuto la vocazione, mi sono riavvicinato al cristianesimo per poi trovare in questo riavvicinamento il desiderio della vita in un convento.

D. Come è avvenuto questo?
R. Ho preso contatto con una parte di me che non funzionava, non è successo nulla di esterno. Sebbene la mia vita fosse in sostanza felice, sentivo che in una parte di me portavo la morte dentro, e questa morte era proprio la distanza nel rapporto con Dio. In questa mia prima parte di vocazione c’è stato un cambiamento radicale in cui ho vissuto l’esclusione di tutto quello che secondo me non era Dio, sono entrato in convento e ho dovuto lasciare da parte i miei progetti personali, soprattutto l’arte.

D. In che anno è entrato in convento?
R. Nel 1990. Poi sono state diverse le tappe formative: sono stato a Vitorchiano e a Frascati, quindi da Frascati sono venuto a Roma, a San Bonaventura, poi al Gemelli e da lì un’altra volta a Vitorchiano, poi di nuovo Frascati. È stato un percorso personale e spirituale molto lungo nella prima fase, mentre nella seconda fase sono divenuto formatore.

D. Quando si è avvicinato all’arte?
R. Nel 2005, quasi per gioco e per il desiderio di ammirare i quadri di Van Gogh e guardare film su Jackson Pollock e sulla sua tecnica, sempre portando avanti i miei impegni religiosi come formatore. Il mio riavvicinamento all’arte è avvenuto senza pretese e senza nessun progetto, era piuttosto un mio bisogno personale quello di contattare la mia parte artistica conciliandola con gli impegni religiosi.

D. Come riesce a conciliare le attività religiose con la sua arte?
R. Il mio lavoro artistico è fatto principalmente dopo cena, dedicando all’arte gli ultimi rimasugli di energia spesi durante tutta la giornata. Ciò potrebbe sembrare controproduttivo ma è proprio questo che mi rende contemporaneo: tutti i nostri contemporanei sono stressati, hanno poco tempo libero e sono tirati a destra e a sinistra ma devono anche sopravvivere in questo caos, e anch’io mi sento contemporaneo perché, come le altre, la mia vita è fatta di lacerazioni che ricadono, e si riflettono, nello stesso mio linguaggio, in quello che io faccio, in quello che io sono. Il tempo che impiego per andare negli ospedali lo potrei usare per l’arte, ma quando vado negli ospedali nutro il mio essere e questo nutrimento poi diventa la mia arte. Non si possono scindere queste due cose, anche perché altrimenti rimarrebbe solo tecnica artistica, e non emozioni di vita vissuta.

D. Come ha vissuto la religione in Brasile?
R. Da ragazzo frequentavo la chiesa come chierichetto, ma non per esperienza personale quanto per tradizione e per cultura, anche se io credevo in Dio, quindi andare in chiesa era un modo per espletare il senso della ritualità senza esprimere in alcuno modo un linguaggio personale. Con la conversione invece ho scoperto tale modalità e l’Italia mi è stata d’aiuto, poiché ho trovato il linguaggio con cui esprimermi anche attraverso la vita del convento, del ritiro, della storia, dell’eremo, dei monumenti storici, dell’arte. Sono stato molto aiutato nella mia conversione dalla cultura che ho acquisito in Italia e che anche mi ha permesso di divenire me stesso.

D. Com’è vissuto in Brasile il cattolicesimo?
R. Dal punto di vista dottrinale è uguale, il patrimonio della fede e quello religioso è lo stesso. C’è solo un ambiente più protestante, ma non inteso come protestantesimo storico europeo bensì come una grande varietà di letture e di interpretazioni difficilmente conciliabili tra loro; invece nel protestantesimo europeo ci sono dei punti in comuni con la chiesa. Forse in Brasile non c’è il retaggio culturale e il peso religioso che c’è in Europa, e quindi la religione si riversa più sul sociale e sulla gente; in Brasile c’è una «leggerezza religiosa» diversa anche perché la storia del Brasile stesso è diversa e il peso culturale della religione è molto più ridotto.

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D. Da quanto manca dal Brasile?
R. Ci sono stato pochi mesi fa, ma non ci andavo da 4 anni. Io vivo dove sto, quando vado in Brasile mi sento a casa ma quando sono qui non ci penso.

D. Altre esperienze al di fuori dell’Italia?
R. Sono stato in Mozambico, in Jugoslavia; poi prima di entrare in convento sono stato in Spagna, Grecia, Austria, Svizzera, Inghilterra, Germania.

D. Sono stati viaggi in ambito religioso?
R. In realtà culturali, perché in Inghilterra e in Germania sono andato per imparare la lingua, ma ero già frate.

D. Cos’è un frate rispetto a un prete?
R. Il frate di per sé è un religioso che conduce una vita religiosa, mentre il prete è autorizzato al ministero sacerdotale. Poi un frate può diventare frate-sacerdote, che è il mio caso.

D. Il suo è considerato «lo studio più bello del mondo». Come si è trovato qui?
R. A settembre saranno 8 anni dal mio arrivo a San Bonaventura, per il trasferimento da Frascati dovuto al lavoro che facevo al Gemelli; anche il convento di Frascati è dedicato a San Bonaventura, ed hanno lo stesso santo protettore, ma il convento romano è stato fondato da Beato Bonaventura da Barcellona, mentre l’altro, quello frascatano, da San Bonaventura da Bagnoregio. Qui da noi, sul Palatino, c’è attività pastorale giovanile e vocazionale e vengono molti giovani da fuori per i corsi di formazione.

D. Che tipo di corsi di formazione?
R. Per esempio sacra scrittura, francescanesimo o maturità umana.

D. Non solo corsi vocazionali dunque?
R. Esatto, sono corsi spirituali aperti a tutti i giovani suddivisi in due ambiti: uno specifico per la formazione dei giovani e uno specifico vocazionale, che consentono in questo modo un approccio costruttivo verso la fede. Io non ho rapporti diretti con i giovani perché la mia funzione qui è essere tutore della chiesa per i matrimoni e per la manutenzione del convento, però ho un gruppo di terziari francescani che hanno scelto di dedicare la propria vita alla spiritualità di San Francesco essendo però laici, alcuni di loro sono anche sposati.

D. Cosa faceva al Gemelli?
R. Per tre anni sono stato il cappellano del Gemelli ed ero residente lì, poi sono stato trasferito qui ma al Gemelli andavo comunque tutti i giorni facendo il pendolare. Poi per 4 anni, dal 1999 al 2001, ho prestato le mie funzioni nel carcere di Rebibbia e ci andavo tutte le domeniche come volontario.

D. Come mai ha a disposizione questo studio e queste belle sale?
R. In questo spazio prima c’era una biblioteca seicentesca che, per lavori di consolidamento, è stata smantellata e portata in un altro convento. Questo spazio di conseguenza non era più agibile e per 5 anni è rimasto vuoto e inutilizzato. Il Provinciale che mi ha mandato qui mi ha appoggiato in questa mia vita artistica, dato che conciliavo l’arte e la fede, e voleva che continuassi con questa mia attività, così mi ha assegnato lo spazio nel piano terra che era molto più piccolo. Quando ho dovuto togliere i quadri dallo studio nel piano terra perché doveva essere usato per altre cose, li ho appoggiati qui sopra dove noi siamo adesso. Allora questo era un magazzino, poi piano piano mi sono organizzato e adesso è diventato il mio studio. Con i nostri risparmi siamo riusciti a fare dei piccoli interventi e mentre i quadri sono partiti in Francia per una mostra a Lille, a febbraio di quest’anno, ed altri sono stati trasferiti a gennaio per una mostra nella Galleria Portinari dell’Ambasciata brasiliana a Roma, in Piazza Navona, ho colto l’occasione insieme ai ragazzi di imbiancare tutto e mettere la luce.

D. Dove si trovano ora quei quadri?
R. A Lille, ospitati in una mostra molto importante finanziata dal Ministero della cultura francese nel Centro nazionale di ricerca, arte e cinema contemporaneo. La mostra è visitabile fino all’8 maggio prossimo.

D. Oltre a ispirarsi allo Spazialismo e a Pollock, come è arrivato a fare «arte tessile»?
R. Lavorando sulla materia, sui colori, sul recupero di oggetti di modo che la materia fosse molto eloquente e presente; nelle mie opere di transizione mi sono reso conto che le «canalette», ossia i solchi cuciti nella stoffa che avevo costruito si stavano allentando, e per evitare ciò ho cucito le canalette. La materia diventava così molto espressiva e rudimentale, creavo una forma che mi interessava ed ho così cominciato a creare quadri con delle grosse cuciture più in funzione della forma che della poetica che vuole esprimere l’opera. Ho poi avuto modo di approfondire questo processo di sviluppo che permette di creare uno stile che sia soltanto mio, perché come ricerca non c’è nulla di simile, anche se il filo è un materiale molto impiegato da diversi artisti. Quindi, da un concetto espressivo e materico ho fatto la ricerca sulla luce, sul colore, sulle vibrazioni cromatiche, sulla tridimensionalità: i miei quadri diventano ologrammi a seconda di dove colpisce la luce. Ed è proprio questo che stupisce la gente che guarda le mie opere. Siamo abituati, con i computer, a vedere delle trasformazioni spaventose, ma quello che meraviglia le persone è vedere un materiale che è tradizionale, fatto a mano con una tecnica artigianale, che ha però in sé le caratteristiche della tecnologia; quindi l’ambito particolare della mia ricerca è quello di creare una tridimensionalità cromatica e un’astrazione del colore.

D. Questi quadri hanno committenti ed un giro economico?
R. Sì, sono opere che stanno entrando nelle collezioni internazionali.

D. Le quotazioni dei suoi quadri sono alte?
R. Dipende dall’opera, possono arrivare anche a 70 mila euro.

D. E come vengono usati i soldi ricavati dalla vendita?
R. I soldi che rimangono a disposizione, a dire il vero, sono molto pochi, perché più della metà del ricavato va a pagare le tasse allo Stato. Il restante va al mantenimento del convento e a vari progetti di beneficenza per i bambini del Terzo mondo. Ne abbiamo vari e siamo impegnati su più fronti. Purtroppo l’Italia non aiuta, con la tassazione.        (Romina Ciuffa)

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Anche su Specchio Economico – Aprile 2016
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(nello sfondo della copertina di Specchio Economico, un’opera di Sidival Fila)

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AMBASCIATORE CELSO AMORIM: BRASILE, DAL MEDIORENTE ALL’EUROPA PASSANDO COME MINISTRO DI FRANCO, LULA E DILMA

Uno degli uomini che ha fatto la storia del Brasile: proveniente da Santos (San Paolo), ma residente a Rio de Janeiro, Copacabana, una carriera prima accademica come professore di lingua portoghese per l’Istituto Rio Branco e di Scienze politiche e relazioni internazionali per l’Università di Brasilia, oltre che membro dell’area Affari internazionali dell’Istituto di Studi avanzati dell’Università di San Paolo; quindi una carriera cinematografica che lo porta a capo dell’Embrafilme, impresa statale, come direttore generale, ma anche cineasta; è però chiamato, e per due volte, a svolgere l’incarico di ministro degli Esteri: dieci anni, di cui due sotto il presidente Itamar Franco, otto sotto «Lula». Quindi ministro della Difesa con Dilma Rousseff, ed ambasciatore. Oltre che scrittore (tre libri: «Conversa com jovens diplomatas» (2011), «Breves narrativas diplomáticas» (2013), e l’ultimo, recentissimo «Teerã, Ramalá e Doha – Memórias da Política Externa Ativa e Altiva» (2015), ha ricevuto il premio «Bravo Business» dalla rivista «Latin Trade» nella categoria «leader innovativo dell’anno» ed è stato definito da David Rothkopf, sulla rivista americana «Foreign Policy», il «miglior ministro del mondo». È Celso Amorim.

Domanda. Se fossi una studentessa di diplomazia, come mi insegnerebbe le relazioni internazionali?
Risposta. Direi innanzitutto di leggere i miei libri, perché in essi ho definito le priorità della politica estera brasiliana negli anni in cui sono stato ministro, soprattutto quelli in cui ho ricoperto tale incarico per il presidente Lula. Parlo delle relazioni del Brasile con l’America del Sud, ma anche con altri Paesi in via di sviluppo come l’India, il Sud Africa, della creazione del gruppo dell’Ibas, del Brics, dei rapporti del Brasile con i Paesi arabi, delle nostre iniziative o partecipazioni ad iniziative relative al Medioriente, del programma nucleare iraniano, in generale di tutti i temi più rilevanti quali le relazioni commerciali globali nell’ambito dell’Omc, l’Organizzazione mondiale del commercio, in cui il Brasile ha avuto un ruolo predominante soprattutto in un certo periodo di tempo. È tutto scritto lì.

D. È uscito di recente il suo ultimo libro, «Teerã, Ramalá e Doha: Memórias da Política Externa Ativa e Altiva» («Teheran, Ramallah e Doha: memorie della politica esterna attiva ed alta», dove «altiva» è sinonimo di elevatezza).
R. È diviso in tre parti, ossia tre racconti diplomatici. Il primo è incentrato sulla Dichiarazione di Teheran del 17 maggio 2010 attraverso la quale Brasile e Turchia si sono resi protagonisti dell’accordo con l’Iran per lo scambio di uranio in relazione al programma nucleare, rispondendo ad una sollecitazione iniziale dei Paesi occidentali. Il secondo riguarda Ramalà, un simbolo per indicare il nostro avvicinamento ai Paesi mediorientali e principalmente arabi, ma anche la partecipazione ad iniziative legate alla pace tra Palestina e Israele insieme al riconoscimento, da parte del Brasile, dello Stato palestinese; da cui il titolo «Ramalà», che vuole essere una sintesi di questo procedimento, giacché è Gerusalemme ad esser considerata la capitale, non Ramalà, che invece è la sede amministrativa del Governo palestinese. Il terzo racconto riguarda Doha, la terza capitale del Medioriente, con la quale il Brasile ha rapporti commerciali molto intensi ed io particolarmente ne sono stato molto coinvolto durante i miei incarichi governativi. Nel caso di Doha inizialmente ero ambasciatore del Brasile nell’Omc, poi ministro degli Affari esteri ma anche capo delle delegazioni brasiliane nelle relazioni commerciali. Uno dei passi più significativi della Dichiarazione di Doha che fece partire le negoziazioni era stata la Dichiarazione sulla proprietà intellettuale e la salute, la quale concesse flessibilità ai Paesi in via di sviluppo per la produzione di medicine generiche, e riuscimmo ad ottenere un abbassamento dei prezzi per malattie come Aids, tubercolosi, malaria ed altre; partecipai alle varie trattative in tema di sussidi agricoli ed altre questioni di interesse del Brasile e di altri Paesi, e creammo a quel tempo un G20, differente da quello dei leader, che ebbe molta influenza nelle negoziazioni che, se prima erano incentrate solo sui Paesi ricchi, divennero appannaggio anche dei Paesi in via di sviluppo. In generale i tre temi del mio libro costituiscono la sintesi di ciò che un Paese definito emergente è riuscito a fare in otto anni di Governo. L’unico tema veramente importante che non ho inserito in questo libro è l’America Latina, invece presente in altri libri che ho scritto sul Sud America.

D. Cosa pensa della situazione che oggi vede il Medioriente protagonista nella scena globale e, soprattutto, occidentale?
R. È una situazione molto complessa. Oggi il grande tema è, senza dubbio, quello della Siria e dello Stato islamico. Credo che il lato positivo sia nella sopravvenuta consapevolezza che per la negoziazione sia necessaria la presenza di tutti gli attori principali per l’accordo nucleare con l’Iran, includendo l’Iran stesso: il fatto che ci sia un dialogo è una cosa nuova. La questione mediorentale è anche legata a quella dell’immigrazione verso l’Europa, pertanto è un tema che ha ripercussione sugli europei, ma ciò che spesso le persone dimenticano è che assume centralità la questione della Palestina e che la non-soluzione del problema palestinese finisce per generare frustrazioni e risentimenti che producono situazioni come quella che stiamo vivendo ora. Ovviamente è un problema complesso che non può essere ridotto a unità, ma indubbiamente si è andato generando un sentimento di alienazione in gran parte dei cittadini degli Stati arabi e di quegli arabi che sono residenti in Europa, ciò causando le conseguenze che ben conosciamo.

D. Il presidente Dilma Rousseff aveva dichiarato di esser pronta ad accogliere, in Brasile, i rifugiati provenienti dall’Europa e dai Paesi dai quali fuggono, generando anche delle polemiche a riguardo.
R. Il Brasile ha una tradizione di accoglienza, anche prima degli attacchi di Parigi eravamo flessibili rispetto all’entrata di rifugiati in particolar modo provenienti dalla Siria. Il nostro è un Paese di immigrazione, che ha, tra siriani e libanesi, probabilmente 10 milioni di residenti. Abbiamo sempre accolto rifugiati, siano politici siano economici, come, nel caso europeo, spagnoli, portoghesi, italiani ed altri.

D. Discorso a parte merita il caso Battisti, condannato con sentenza passata in giudicato per 4 omicidi a due ergastoli; problema di differente natura quello della sua estradizione, che però in comune con il tema «accoglienza» riguarda la presenza di un europeo, nel qual caso italiano, in Brasile, con decisioni di natura più diplomatica che politica.
R. Credo di non dover entrare nel merito di questa questione, ma ritengo necessario rispettare le decisioni sovrane di un Paese.

D. Il Governo Dilma è contrario alla nomina di Dani Dayan, ex capo dei coloni nei territori della West Bank, come ambasciatore israeliano a Brasilia; e soprattutto ha dato luogo ad incidente diplomatico il fatto che, prima di comunicare il nome per i canali ufficiali, ciò sia stato reso pubblico tramite Twitter. Come esperto di diplomazia, cosa ne pensa?
R. Non rappresento più il Governo oggi, e parlo solo in base ad una mia personale analisi: credo che la reazione brasiliana sia stata corretta, il Brasile fino ad oggi non ha comunicato una decisione, ma in ambito diplomatico l’attesa di una risposta equivale ad una risposta negativa, in questo caso per due ragioni: una di forma e l’altra di contenuto. Quella di forma è importante quanto quella di contenuto in questa fattispecie; infatti, non sono state seguite le normali procedure, ossia il post su Twitter ha preceduto una richiesta confidenziale da parte dell’autorità competente, e con un aggravante: Dayan non è un ambasciatore qualunque, in quanto è stato il leader degli insediamenti israeliani in Palestina, dunque espressione di una politica che il Governo brasiliano condanna. In realtà, credo che questa non sia stata solo una «gaffe» diplomatica, bensì una mossa israeliana avente l’intento di collocarci all’interno di un «fatto consumato», e anche se indirettamente il Brasile si troverebbe ad accettare la posizione israeliana sulla Palestina, senza rispettare l’Accordo di Oslo: di questo passo la stessa idea di uno Stato palestinese comincerebbe ad essere utopia, e questo non è concepibile. Credo che il Governo brasiliano abbia agito correttamente tanto per la forma, quanto per la sostanza politica, ossia per ciò che rappresenta tale atto. Non si tratta di un ambasciatore appartenente all’opposizione, o che semplicemente abbia idee differenti dalle nostre: si tratta piuttosto di una questione centrale per la soluzione del problema mediorientale.

D. E dell’umanità.
R. Il punto dell’umanità è centrale: avevo sul mio tavolo durante il mio ministero, ed ho messo nella copertina di un mio libro, una mappa del 1511 fatta da un cartografo italiano che rappresentava Betlemme al centro del mondo, per la nascita di Gesù.

D. Può raccontare la sua politica estera e la sua visione ad un non brasiliano?
R. Sono stato ministro degli Esteri due volte, la prima con il presidente Itamar Franco, la seconda con il presidente «Lula»; successivamente, con il presidente Dilma, sono stato ministro della Difesa. La mia visione del Brasile, e non tutti devono essere d’accordo con me, è che il Brasile è un Paese che sta crescendo e tentando di affermare il proprio posto nel mondo; nel contempo il mondo sta cambiando e questi cambiamenti generano opportunità di una maggiore presenza brasiliana. Non siamo più nella bipolarità della Guerra Fredda, né nell’unipolarità dell’immediato dopoguerra: è un mondo più diversificato, più «multipolare», mi piace definirlo. Credo che il Brasile, anche unito al Sud America e ad altri Paesi emergenti, può costituire un polo di questa nuova configurazione. A mio avviso il fatto che vi siano vari poli di potere è salutare: dobbiamo e possiamo contribuire. Credo che, attraverso l’integrazione sudamericana, attraverso la cooperazione con altri Paesi emergenti, attraverso la formazione di gruppi come l’Ibas, ossia India, Brasile e Africa del Sud, o il Brics, ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, attraverso l’avvicinamento ai Paesi arabi e il mantenimento di buoni rapporti con l’Europa e gli Usa, attraverso tutte queste azioni la politica estera brasiliana negli ultimi anni sia riuscita a contribuire ad un mondo che dia più opportunità e nel quale vi sia meno egemonia. Non è un processo rapido: la storia delle relazioni internazionali non si misura per anni o decadi, ma a volte per secoli. È però un piccolo impulso in una certa direzione che ci sembra migliore, quella di un mondo multipolare che segua norme internazionali e più giuste. La definizione di «giusto» può variare da Paese a Paese, ma vogliamo norme più equilibrate che trasformino l’uso della forza, soprattutto quello unilaterale come è avvenuto in Irak e in Libia, e lo rendano sempre meno frequente.

D. Possiamo dire che oggi il Brasile è più ricco?
R. Economicamente, possiamo dire che è più ricco se prendiamo un periodo di almeno venti anni, se non quaranta. Negli ultimi dieci anni stiamo vivendo una recessione, ma ciò accade, è un momento difficile per il mondo intero. Il Brasile è riuscito ad evitare che questa crisi, iniziata nel 2009, lo colpisse in maniera profonda, ma adesso è giunta anche da noi e dobbiamo affrontarla, è il momento di dimostrare la nostra resilienza, la capacità di adattarci e cambiare nonostante gli ostacoli. Ci riusciremo, perché il Brasile, da quando sono una persona adulta, è riuscito a vincere tre grandi ostacoli: il primo è stato l’autoritarismo, la politica della dittatura militare; il secondo, quello dell’instabilità economica, l’inflazione per quasi 50 anni; il terzo, ancora in corso, quello della riduzione delle diseguaglianze. Il Brasile non è un Paese povero, bensì di reddito medio nell’insieme, ma è un Paese molto «disuguale»; questa disuguaglianza sta diminuendo molto soprattutto con i Governi di Lula e Dilma. Con Lula si notò in misura maggiore in quanto era quella un’epoca di grande sviluppo economico, ma il processo continua. Sì, il popolo brasiliano è più ricco, perché un maggior numero di persone partecipano al mercato, arrivano all’università, per tale ragione hanno accesso a impieghi migliori, e questo è il cambiamento più grande.

D. Cosa pensa dei grandi eventi che si sono tenuti e che si stanno ancora per tenere, dalla Giornata mondiale dei giovani che ha portato il Papa a Rio de Janeiro, ai Mondiali di calcio del 2014 fino alle Olimpiadi che stiamo aspettando per giugno? Essi non sono stati per i brasiliani anche un grande problema sotto molti punti di vista, come hanno dimostrato le rivolte chiamate «O gigante acordou»?
R. Non li vedo come un grande problema. Credo che la maggioranza dei brasiliani è stata felice di ospitare questi eventi, e li ha apprezzati. È chiaro che è sempre possibile muovere critiche, come questa: perché spendere soldi per uno stadio anziché per un ospedale? Le cose non sono in realtà escludentisi, abbiamo portato gente, turisti, mercato, e se a Rio, dove io risiedo, oggi vedo molti più stranieri che nel passato è per questi motivi. Ci sono anche molti più turisti brasiliani. Curiosamente non molti italiani: più francesi e tedeschi. Forse perché, essendo gli italiani molto simili ai brasiliani, non è facile distinguerli bene. Credo che tali eventi abbiano contribuito a riprogettare il Brasile, è una cosa eccezionale per qualunque Paese: in circa sei anni la visita del Papa, la Coppa del Mondo e le Olimpiadi. È anche incredibile che il Brasile, per essere scelto come ospite delle Olimpiadi, ha gareggiato con gli Usa, con Madrid e con Tokyo, tre Paesi del G7. Ed è stato scelto, probabilmente perché possiede questo potere di attrattiva che gli americani definiscono «soft power». Ma esso non basta: sono stato ministro della Difesa e so bene che per poter usare il «soft power» è necessario avere una base di «hard power».

D. Come si difende il Brasile?
R. Abbiamo 17 mila chilometri di frontiere con altri Paesi, 10 vicini, e non abbiamo una guerra con alcuno di essi da 150 anni: è sintomo di una diplomazia capace. Abbiamo 8 mila chilometri di litorale marittimo, e anche questo richiede buoni strumenti difensivi oltre che diplomatici, parte di una grande strategia.

D. Come vede l’Italia, dal punto di vista di un brasiliano, di un uomo politico e diplomatico, e delle varie persone che lei è?
R. Come brasiliano e come umanista, l’Italia è un Paese formidabile. Ripeto sempre che uno degli elementi della mia formazione è stato il cinema italiano dell’epoca del Neorealismo, per le lezioni che da esso ho appreso non solo di cinema, del quale sono appassionato, ma anche di umanesimo, insegnamenti sui valori umani. Questo è straordinario. Per non parlare dell’arte. Come uomo politico, vedo che l’Italia e il Brasile hanno molti punti in comune: il modo di guardare ad esempio. Vedo che l’Italia, anche in situazioni molto complesse come quella irachena, ha una posizione più moderata ma, a differenza del Brasile, è membro della Nato. Il Brasile non è membro di alcuna alleanza militare, e questo già crea una differenza di prospettiva. Abbiamo altre differenze, che credo siano minori e normali, come nel caso della riforma del Consiglio di sicurezza o in questioni commerciali. Ho sempre ritenuto, comunque, l’Italia un Paese moderato, alla ricerca di soluzioni pacifiche; ciononostante, il fatto di essere membro della Nato crea, a mio avviso, alcune limitazioni. Sto parlando come persona indipendente, in quanto oggi non appartengo ad alcun Governo e ciò mi dà modo di fare queste dichiarazioni: credo che l’Italia non avrebbe partecipato, di per sé, all’attacco in Libia, come è accaduto. Ha partecipato in ragione dell’alleanza con la Francia, l’Inghilterra, gli Usa, e l’Italia, membro della Nato, ha dovuto prendervi parte. Come credo che avrebbe idee più moderate sull’Irak ed altre questioni. L’Italia è un Paese importante, e potrebbe avere un ruolo maggiore nel G20 internazionale, quello dei leader, rispetto a certi temi, anche politici o relativi alla pace e alla sicurezza. Credo anche che, nella questione dell’immigrazione, essa abbia una mentalità più aperta di molti altri Paesi europei, e ciò è un punto a favore dell’Italia. Il Brasile ora sta appoggiando la candidatura italiana per il Consiglio di sicurezza e ciò dimostra che, a prescindere dalle differenze, riconosciamo il valore e l’importanza di questo Paese.

D. Nota una differenza tra la diplomazia italiana e la diplomazia brasiliana?
R. Ogni diplomazia rispecchia naturalmente il popolo e la formazione. Il Brasile è un Paese in cui è presente una grande pluralità e tale elemento influenza e modifica il Brasile, che fortunatamente è fuori dai grandi conflitti mondiali, solo sfiorando la seconda guerra mondiale; l’Italia, invece, ha partecipato alle due guerre mondiali. L’Italia è un Paese ricco, il Brasile si sta sviluppando, e questo crea differenze che si riflettono nella diplomazia, ma non tanto nello stile. È molto facile e naturale il linguaggio di un diplomatico italiano, simile al nostro. Subiamo certamente il fascino italiano della cultura e della teoria politica, Machiavelli e Gramsci per citarne solo due, indispensabili.

D. Cosa farà nel futuro, dopo gli anni di Governo e i precedenti di cinema?
R. Ho tre figli che fanno cinema, una quarta che lavora in un’organizzazione internazionale. Il cinema lo lascio ai primi tre, io oggi resto uno spettatore.

D. Cosa la portò al cinema?
R. Studiavo ed ero appassionato di filosofia, e a quei tempi il cinema non era solo arte: in Brasile esso costituiva un vero e proprio strumento di cambiamento sociale, di trasformazione. Il cinema ha fatto sì che i paulisti e i carioca, gli abitanti di San Paolo e di Rio de Janeiro, conoscessero il «Nordest» del Brasile e la sua povertà, ad esempio. Anche la politica era molto legata al cinema. Entrai però nella carriera diplomatica che ho condotto, insieme all’essere ministro, per oltre 50 anni. Ora tengo lezioni, partecipo a conferenze alle quali sono invitato o commissioni, anche nell’ambito delle Nazioni Unite, su questioni legate a problemi globali di salute ma anche calcio, perche siamo sempre brasiliani; sono stato capo dell’Osservatorio elettorale dell’Oea, l’Organizzazione degli Stati americani ad Haiti. Un libro è costituito da una prefazione, una storia ed un epilogo: io mi trovo nella fase dell’epilogo, ho sempre lavorato per lo Stato e per organismi internazionali, ma non lavorerei, pur rispettandola, in un’impresa privata. Sono servitore dello Stato.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Marzo 2016




JOSÉ R. DOSAL NORIEGA: FONDAZIONE MUSICA PER ROMA, L’AUDITORIUM DI “PIANO” SEMPRE PIÙ VELOCE

di ROMINA CIUFFA. «Cerco un Paese innocente», scriveva Giuseppe Ungaretti nella poesia «Girovago». Oggi arriva a Roma uno spagnolo nato a Città del Messico, José Ramon Dosal Noriega. Succede a Carlo Fuortes (dal 21 dicembre 2013 sovrintendente della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma Capitale) e si predispone alla guida dell’Auditorium Parco della Musica: è lui il nuovo amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma, realtà giuridica nata il 19 luglio 2004 nel passaggio dall’originaria forma di società per azioni con la quale venne istituita nel 1999, in effetti la prima grande trasformazione di una spa in Fondazione consentita dalla riforma del nuovo diritto societario. Quattro i soci fondatori: il Comune di Roma, che ha conferito in concessione d’uso per 99 anni l’immobile Auditorium alla Fondazione, la Camera di Commercio, la Provincia di Roma e la Regione Lazio. Per Statuto il presidente è nominato dal sindaco di Roma, dura in carica quattro anni, può essere confermato; il vicepresidente è nominato dalla Cciaa.

Il Consiglio di amministrazione è oggi composto da soli 5 membri, compresi il presidente ed il vicepresidente, nominati tre dal sindaco, uno dalla Cciaa, uno dalla Regione Lazio. Una riduzione, quella da 16 a 5 membri, che non ha mancato di suscitare polemiche: il 14 agosto è infatti entrata in vigore la legge n. 125 approvata il 6 agosto, convertendo il decreto legge n. 78 del 2015 in materia di enti territoriali e obbligando il brusco taglio dei consiglieri di amministrazione, senza che l’allora sindaco di Roma Ignazio Marino, in partenza per gli Usa, firmasse tempestivamente l’ordinanza sindacale a conferma delle 16 nomine indicate il 10 agosto.

Fuori così, dal Consiglio di amministrazione musical-romano, tra gli altri, Luigi Abete, Gianni Letta, Giovanni Malagò, Paola Santarelli, Sabrina Florio, Umberto Croppi, Nicola Maccanico.
Restano, con Dosal Noriega, il presidente Aurelio Regina (azionista alla guida di Manifatture Sigaro Toscano) e la consigliera Azzurra Caltagirone (presidente della Fgc spa e vicepresidente della Caltagirone Editore spa), nomi indicati dal Comune di Roma; Lavinia Biagiotti Cigna (vicepresidente del Gruppo Biagiotti), nominata vicepresidente dalla Camera di Commercio; e il consigliere Valter Mainetti (amministratore delegato e azionista di riferimento di Sorgente Group), quale rappresentante della Regione Lazio in seno alla Fondazione.

Oltre ad essi per statuto, il presidente della Fondazione Accademia Nazionale di Santa Cecilia partecipa alle sedute del Consiglio di amministrazione quale invitato permanente senza diritto di voto: è Michele Dall’Ongaro. Nell’Auditorium ha infatti trovato la propria casa Santa Cecilia, una delle più antiche istituzioni musicali nel mondo, fondata ufficialmente nel 1585: la sala omonima, che all’interno dell’Auditorium ospita la sua stagione sinfonica, è tra le più grandi sale da concerto europee.

La nomina dell’amministratore delegato è il frutto dell’emissione di un bando internazionale; presente nella rosa dei cinque finalisti, Dosal Noriega è stato eletto dal Consiglio di amministrazione a norma di statuto. Allora il sindaco capitolino, che compiva uno degli ultimi atti del proprio mandato, l’accoglieva sottolineando come l’ingresso del manager spagnolo, scelto tra personalità importanti e prestigiose riconosciute in tutto il mondo, fosse «un’innovazione nel segno della trasparenza e della qualità, della competenza e delle capacità professionali». Il Paese «innocente» di Ungaretti? Quel Paese ungarettiano è, per Dosal Noriega, proprio il nostro, sebbene stenterebbe a crederlo un italiano. Secondo lo spagnolo, «il problema è che la gente di Roma non sa quello che ha, ma fuori si sa che cos’è l’Auditorium e si sa quello che è Roma». Si sente a casa, dopo aver velocemente studiato l’italiano e meno velocemente imparato tutto ciò che ci fosse da sapere sull’Auditorium e l’Italia per vincere la gara: «Siamo a casa nostra. Tutti siamo a casa, qui all’Auditorium, perché questa è la casa di tutti: è della musica, della cultura, dell’arte, di Roma. Della vecchia Roma, non la città conosciuta ma la capitale dell’Impero, dove sono nati cultura, diritto, giustizia». Una lunga esperienza, riconosciutagli nell’ambito di una gara dalle caratteristiche internazionali nella quale si è confrontato con ben 140 manager che, come lui, hanno presentato la candidatura a guidare una delle istituzioni culturali più prestigiose in Italia e, per la proprietà transitiva, nel mondo. 

Chi è, allora, questo straniero?

Dosal Noriega si è occupato della direzione e organizzazione di spettacoli musicali e di danza per importanti teatri in Spagna e in Argentina: il Lope de Vega di Madrid, il Coliseo di Buenos Aires, il Barcelona Teatre Musical. Dal 2003, è l’amministratore delegato della Producciones Renacimiento, specializzata nella produzione di grandi concerti musicali, spettacoli teatrali, appuntamenti sportivi, eventi per imprese e istituzioni; nella commercializzazione di diritti di ogni tipo (sponsorizzazione, marketing, autore, tv, immagine); nella creazione ed attuazione di campagne pubblicitarie. Dal 2005 al 2007 è stato direttore generale della Madrid Deportes y Espectaculos, concessionaria della gestione del Palazzo dello Sport della Regione Madrid, e dal 2001 al 2003 amministratore delegato e direttore generale della Corporacion Interamericana de Entretenimiento.

Ora, a Roma. La situazione al suo arrivo è quella fotografata nel bilancio 2014, in positivo per il dodicesimo anno consecutivo: un utile prima delle imposte pari a 39.147 euro, un margine operativo lordo di 557.590 euro. Nel corso del 2014, all’interno dell’Auditorium sono stati realizzati dalla sola Fondazione Musica per Roma 589 eventi, di cui 564 di natura culturale e 25 di natura congressuale. Agli eventi proposti da Musica per Roma hanno partecipato 613.126 spettatori (erano 612.851 l’anno precedente); gli spettatori di appuntamenti soggetti a Siae sono risultati 341.974 (+4,22 rispetto al 2013), i partecipanti a mostre, festival e altri eventi culturali sono stati oltre 271 mila. Gli incassi della biglietteria risultano pari a 5.276.940 euro.

Domanda. Benvenuto a Roma, benvenuto all’Auditorium. Cosa significa per lei essere qui?
Risposta. È stato come se Santa Cecilia mi chiamasse a dirigere l’orchestra: questa è la massima ispirazione di un gestore culturale. In questo Auditorium c’è un’identità unica, prima di tutto per essere progetto di Renzo Piano, quindi per la maniera in cui esso è stato costruito e la disposizione tecnica delle sue sale, infine per tutta l’attività che è ospitata in questi ambienti. A Roma non si sa ciò che si ha, fuori sì. È veramente un onore e un orgoglio per me aver partecipato a questa gara in un processo chiaro e trasparente: ho compiuto uno sforzo immenso per superare centinaia di candidati che, come me, aspiravano a gestire questo Auditorium.

D. Come si è svolta la gara che l’ha portata a Roma?
R. È stata difficilissima, i candidati arrivavano da tutto il mondo e ho dovuto studiare davvero tantissimo. Ho prima presentato la domanda via internet, mi è stata notificata la ricezione del curriculum e, dopo la prima scrematura, si è svolto un primo incontro su Skype, e a seguire un incontro conoscitivo: un colloquio di lavoro vero e proprio che si è svolto a Roma e si è trasformato in un esame di finanza dalla durata di 4 ore. Mi hanno praticamente osservato dalla testa ai piedi, come vestivo e come parlavo. Siamo rimasti in 5 e questa rosa di finalisti è stata data al Comune di Roma, che poi ha fatto la scelta. Il 15 giugno 2015 ho ricevuto la chiamata del sindaco di Roma in persona che mi comunicava la vittoria: è stata la telefonata più bella della mia vita, il momento più importante della mia carriera professionale. È questa la massima ispirazione di un gestore culturale.

D. Quale è stato il primo impatto nel momento del suo insediamento effettivo?
R. Quello che ho notato qui è la presenza di una bellissima squadra, ho trovato personale con un grado di professionalità elevatissimo e un modello di gestione impeccabile. Devo ringraziare il mio predecessore Fuortes per aver lasciato una tavola ben disposta. La linea editoriale che ho incontrato è quella giusta per un’istituzione del genere.

D. Cosa farà per noi? In che modo proseguirà o cambierà l’opera di Fuortes e del precedente consiglio di amministrazione?
R. Il mio apporto sarà diretto in 5 punti fondamentali. Il primo va in direzione di un equilibrio tra parte commerciale e parte culturale: tutti sappiamo che la cultura è cara e che un contenuto di tipo commerciale è più facile da impiegare dal punto di vista finanziario, e ciò rileva il ruolo che ha la cultura nell’equilibrio e nel supporto all’economia di una città e di un Paese. Il secondo punto è quello della redditività: dobbiamo compiere un grande sforzo verso il dimensionamento dell’attività, generare un’offerta editoriale interessante in grado di attirare qui un pubblico lieto di scambiare il proprio denaro con contenuti culturali di alto livello. Come terzo punto, avvicineremo l’Auditorium a Roma. Ho notato che la gente lo ama, ma non basta: dobbiamo renderlo di tutti. Questa è anche la ragione per cui abbiamo fatto una pista del ghiaccio ed una programmazione vicina alla gente: bisogna dare un senso di appartenenza dell’Auditorium. Come quarto punto, ci impegneremo fortemente ad accompagnare ogni tipo di attività capitolina, anche sportiva, culturale e della moda: l’Auditorium deve essere lo specchio di tutte le attività che si svolgono a Roma, non solo quelle musicali ed artistiche. La settimana della moda romana, ad esempio, dovrà avere nell’Auditorium uno specchio, che noi dobbiamo preparare nell’ambito di una linea editoriale che si unisca ai nostri più consueti contenuti di intrattenimento. La moda non è arte, non è cultura? E la cultura, a mio avviso, è la congiunzione tra esperienza ed anima, che offre la possibilità di sfruttare i personali gusti e le emozioni. Il quinto punto è quello dell’internazionalizzazione: tutto il mio impegno sarà profilato verso una proiezione internazionale del contenuto editoriale, che dovrà essere universale. La cultura non richiede passaporto.

D. Dall’occhio della sua significativa esperienza internazionale – Buenos Aires, Madrid, Barcellona, Città del Messico – cosa vede eccellere in Roma?
R. Una cosa importantissima che posso definire in due parole: profondità e concetto, che costituiscono il vero valore aggiunto della cultura italiana a 360 gradi. Un esempio: Santa Cecilia, con più di un secolo di storia, rappresenta la musica classica e ne è la custode, e la cultura italiana costituisce la culla in cui è nato tutto e da cui tutto è partito, che ha influenzato il mondo intero distinguendosi per la profondità, la verità e la varietà. L’Opera è nata qui, ed è un mio impegno rispettare questo e, come sarà mio impegno, diffondere ancora di più le attività dell’Auditorium facendo comunicazione in ambito internazionale. A questo proposito stiamo parlando con il Conaculta, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes de México, e con la Spagna per un interscambio di contenuti. Per dar seguito al quinto punto della mia gestione porterò avanti questi e altri scambi culturali.

D. Il taglio dei consiglieri che c’è stato, quindi il ritorno a cinque, ha prodotto molte polemiche, anche in ragione del fatto che il sindaco uscente potesse essere responsabile di non aver agito tempestivamente rispetto alla legge con una ordinanza di nomina. Cosa ne pensa?
R. In generale bisogna guardare alle cose da una prospettiva pratica: innanzitutto penso che un Consiglio formato da cinque persone sia più maneggevole, quindi va benissimo così. Ma non posso dire se in futuro sarà meglio o peggio l’aver modificato l’idea di avere in esso molte persone di elevata rilevanza nel panorama culturale italiano. Adesso posso solo affermare che mi impegnerò al massimo per stabilire una relazione con esse, perché il progetto che abbiamo è importante e quindi ho bisogno di tutto il supporto possibile. Dal punto di vista tecnico-giuridico la mia opinione non è importante, quello che penso è che necessitiamo di tutto questo talento e forza per prendere il cammino della redditività.

D. Come saranno coinvolti in questo i privati?
R. Questa è l’eterna battaglia: dobbiamo fare cultura senza redditività o dobbiamo invitare i privati? La cultura è cultura, non è né privata né pubblica. Posso promettere che i privati avranno un coinvolgimento molto significativo, perché dobbiamo trasformare i finanziamenti privati in cultura, sempre rispettando il principio di indipendenza finanziaria, di autonomia e di rispetto della linea editoriale dell’Auditorium.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Gennaio 2016




FIAIP: PAOLO RIGHI, NELL’IMMOBILIARE MOLTE SFIDE, ANCHE CONTRO ALCUNE BANCHE E TALUNI ENTI PUBBLICI

Paolo Righi,presidente nazionale della Fiaip. Un futuro professionale basato sulla formazione, la crescita e lo sviluppo di nuovi servizi, un timore relativo alla crescente digitalizzazione dei processi di vendita, la paura, molto più concreta che la professionalità dell’agente immobiliare possa essere penalizzata dall’ingresso di nuovi operatori nell’intermediazione rappresentati, in particolare, da due grandi banche.

Domanda. Come sta cambiando la professione e quali sono le nuove sfide e prospettive dell’agente immobiliare?
Risposta. Sono molteplici le sfide che la categoria sta affrontando. Otto anni di crisi del settore hanno cambiato profondamente il mercato immobiliare e il modo di «fare agenzia immobiliare». Oggi è necessario porre il cliente e le sue esigenze «al centro» della nostra attività, la vendita dell’immobile è quindi il punto finale di un’attività di consulenza. Per quanto riguarda l’ingresso dell’Unicredit Subito Casa e di Intesa San Paolo Casa nel campo delle agenzie immobiliari, la Fiaip è fortemente contraria. Non in termini concorrenziali, ma perché, a nostro parere, queste due banche per mezzo delle loro agenzie immobiliari, potrebbero «costringere» i loro clienti/correntisti a vendere i propri immobili in caso di problemi finanziari e potrebbero farlo decidendo prezzo e tempi della vendita immobiliare. Inoltre potrebbero mettere in atto un servizio preferenziale di accesso al credito per chi, dei loro clienti, accetti di servirsi della loro agenzia immobiliare. Da sempre il correntista è considerato parte debole nei confronti della banca, in questi casi la vita e il futuro di intere famiglie sarebbe nelle mani di questi istituti. La Fiaip ha presentato vari esposti sul tema, alla Banca d’Italia, all’Autorità garante della concorrenza e all’Organismo di vigilanza del credito. La concorrenza non si fa favorendo i grandi gruppi finanziari, la vera concorrenza è quella che vede tutti gli operatori del mercato combattere ad armi pari. In questo Paese, invece, viene spesso interpretata con lo spostamento di alcuni mercati dal professionista, alla grande impresa.

D. Negli ultimi anni vi siete battuti, in tutte le sedi istituzionali, per la riforma della legge professionale n. 39 del 1989 e avete scommesso con forza, a difesa dell’intera categoria contro l’abusivismo professionale. A che punto siamo con la modifica dell’articolo 348 del Codice penale che inasprisce le pene per chi esercita abusivamente la professione di agente immobiliare, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato? Si riuscirà ad approvare questa riforma già in questa legislatura? Saranno introdotte le sanzioni penali per coloro che esercitano abusivamente l’attività di mediazione ed operano nel comparto immobiliare, senza essere iscritti nel ruolo?
R. La modifica della nostra legge professionale, che inasprisce le sanzioni per gli abusivi, è stata approvata a larga maggioranza in Senato, ora giace da qualche mese alla Camera dei Deputati, purtroppo sembra che il Parlamento non comprenda che, per combattere l’evasione fiscale, la prima cosa da fare sia quella di contrastare gli evasori totali, e gli abusivi rientrano a pieno titolo in questa categoria. L’imponibile evaso dagli abusivi nel campo delle agenzie immobiliari ammonta a 450 milioni di euro. In un Paese che combatte veramente l’evasione vi sarebbe una lotta senza quartiere contro questi elementi invece, come sempre, vige la regola della pacca sulla spalla, tanti annunci e niente di concreto.

D. Ritiene inoltre che l’ingresso degli istituti di credito nell’intermediazione immobiliare possa configurarsi come un possibile caso di abusivismo professionale? Come Fiaip avete segnalato prontamente alla Banca d’Italia, all’Oam e all’Antitrust i rischi di una potenziale violazione del decreto legislativo numero 141 del 2010 negli eventuali casi di concentrazione, commistione e sovrapposizione tra attività bancaria e quella di intermediazione immobiliare. Perché oggi i consumatori dovrebbero essere preoccupati?
R. Le banche posseggono i dati patrimoniali di ogni cittadino, sono in possesso di tutti i loro dati sensibili, è logico poi che possano influenzare il correntista che si rivolge all’istituto per avere un finanziamento o perché bisognoso di un prestito, e imporgli le proprie scelte imprenditoriali. È il concetto di «banca universale» che è stato travisato: una banca può sì entrare nel capitale di un’impresa per farla crescere, ma non è pensabile che l’Unicredit e l’Intesa mettano in atto azioni per sostituirsi alle imprese stesse. La Banca Centrale Europea ha finanziato l’intero sistema bancario per favorire la concessioni di prestiti alle imprese e non per sostituirsi ad esse. L’Unicredit in particolare vende telefonini, biciclette, televisori e case, sembra chiaro che i negozianti di queste merci e i professionisti dell’immobiliare non saranno considerati da dette banche imprese da finanziare ma semplici concorrenti, con buona pace della libera concorrenza e della libertà di accesso al credito per i cittadini e le imprese.

D. Poi ci sono le liberalizzazioni. Quanto dovremo attendere per una vera politica per le professioni immobiliari? Siete soddisfatti di come sta andando il dibattito sulla nuova lenzuolata in Parlamento?
R. Il Disegno di legge Concorrenza approvato alla Camera dei Deputati arriverà in Senato molto presto. Vi sono provvedimenti che approviamo e altri che con la concorrenza non hanno nulla a che fare. Aprire la possibilità per le imprese di diventare socie di capitale di un gruppo di avvocati non è aprire alla concorrenza, ma è permettere alla grande industria di «finanziarizzare» la cultura forense del nostro Paese. Come abbiamo fatto alla Camera, anche in Senato cercheremo l’appoggio del Governo e di tutti i partiti politici per vietare alle banche l’ingresso nel mondo delle agenzie immobiliari.

D. Il settore dell’intermediazione immobiliare, dell’advisory e della valutation rappresenta sostanzialmente il cuore del futuro professionista immobiliare e di chi saprà offrire sempre più un’ampia gamma di servizi immobiliari competitivi sul mercato, ed una consulenza per tutto il ciclo di vendita dell’immobile. In Italia, sorgono sempre più di frequente nuovi modelli di reti territoriali, e sono proprio le agenzie immobiliari che decidono di consorziarsi, condividere e lavorare insieme. Infine, la vostra Federazione parla di «new economy dell’immobiliare»: di cosa si tratta?
R. In Italia si è costruito troppo, e a forza di nuove costruzioni abbiamo dimenticato il patrimonio esistente che è uno dei più vetusti del mondo. La nuova economia immobiliare deve forzatamente proporre nuove visioni del mercato immobiliare, volte all’efficienza energetica dell’usato e alla ricostruzione ex novo dei vecchi quartieri cittadini. Negli anni 60 si è costruito tanto e male, abbiamo bisogno di leggi che permettano l’abbattimento e la ricostruzione dell’usato e non il consumo del territorio. Anche gli agenti immobiliari sono impegnati su questa linea.

D. La legge di stabilità 2016 è una manovra espansiva che favorisce chi ha investito nell’immobiliare con lo scopo di ridare fiducia alle famiglie e ai cittadini, grazie alla riduzione dell’odiata Imu-Tasi sull’abitazione principale. Ma, oggettivamente, il provvedimento fa leva sul disavanzo, lasciando così in eredità la spada di Damocle di colossali aumenti fiscali con le clausole di salvaguardia spostate negli anni futuri. Che ne pensa?
R. I Governi Monti e Letta hanno distrutto il mercato immobiliare causando la perdita di 800 mila posti di lavoro. Per la prima volta, molto timidamente il Governo Renzi cerca di fare marcia indietro. Questo non può che farci piacere, speriamo vivamente che sia il primo passo per abbassare la pressione fiscale complessiva sugli immobili. Naturalmente fino all’approvazione della manovra vigileremo perché i quasi 5 miliardi di tasse derivanti dall’abolizione della Tasi, dell’Imu agricola e del prelievo sugli imbullonati, ossia sui macchinari fissi delle imprese, non vengano coperti con nuove tasse.

D. In Italia la riduzione della spesa pubblica sembra impossibile. Dalla manovra la spending review esce dimezzata. La Fiaip ormai da anni chiede l’abolizione di enti pubblici inutili come i Consorzi di bonifica e indica nei tagli alla spesa pubblica improduttiva la via maestra per abbattere il debito pubblico. Cosa può fare l’Esecutivo nel 2016 per rilanciare sempre di più gli investimenti e ampliare il potere d’acquisto delle famiglie e delle imprese?
R. Lo smagrimento della macchina pubblica è una delle vie da percorrere, è il caso dei Consorzi di bonifica, le cui funzioni sono necessarie per il mantenimento del territorio e per evitare eventi catastrofici, ma che nel tempo sono diventati degli «stipendifici» ed hanno perso il senso primario per cui sono nati. Chiudere i Consorzi significherebbe eliminare circa 110 consigli di amministrazione, le risorse risparmiate andrebbero all’assunzione di nuovi dipendenti e le funzioni potrebbero essere accorpate ad altro ente dello Stato. Su questa linea si potrebbe procedere anche per migliaia di aziende statali e comunali.

D. Dopo i primi timidi segnali, nel residenziale si può parlare di mattone in ripresa? Secondo l’Istat nel secondo trimestre di quest’anno l’andamento del mercato immobiliare ha segnato un aumento delle compravendite non solo nel residenziale e non solo nelle grandi città; questo dovrebbe far sperare in una ripartenza. Ritiene che il clima sia cambiato e che il mercato immobiliare possa davvero ripartire il prossimo anno? Ci può spiegare perché conviene acquistare ed investire in un immobile oggi nel nostro Paese?
R. Oggi i prezzi delle case sono quanto mai allettanti, sul mercato ci sono veri e propri affari, le banche hanno ripreso a concedere mutui, i tassi di interesse sono bassissimi, insomma ci sono tutte le condizioni per una ripartenza del mercato. La sola notizia dell’eliminazione della tassa sulla prima casa ha ridato slancio alla domanda. Quindi i primi timidi segnali di una possibile ripresa si stanno appalesando anche nelle nostre agenzie immobiliari. Per una vera ripresa dovremo aspettare il 2017, e se il Governo procederà in futuro ad un significativo taglio delle tasse sull’immobiliare, i miei auspici diverranno certezze.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Novembre 2011




STEFANO MASTRUZZI: SAINT LOUIS, LA DOMUS ROMANA DELLA MUSICA DAL 1976, ANZI, DAL 123 D.C.

Stefano Mastruzzi è uno dei più geniali e riusciti (ma giovani) imprenditori italiani. Non ha visto crisi perché l’ha contrastata a suon di jazz che è, per definizione, improvvisazione: mentre altri chiudevano, lui ha rischiato, investito. Ciò che lo rende ancora più speciale è l’essere chitarrista e direttore d’orchestra e l’aver amato a tal punto la musica da renderla non solo emozionale, ma anche pragmatica. Anche laureato in Giurisprudenza ed editore di un giornale, «Music In», oggi apre la quarta sede del suo Saint Louis College of Music, nel cuore del Rione Monti di Roma, integrando le 3 già esistenti con 18 nuove aule per un totale di 50 aule e 3 studi di registrazione. Appartenente precedentemente a un artista, prima che Mastruzzi l’acquistasse, la nuova sede è ricca di disegni nelle pareti che la ristrutturazione volutamente non ha cancellato. Ma non è questa l’unica particolarità: durante il recupero degli ambienti sotterranei, nell’area delimitata da Via Baccina e Via del Grifone, sono state riportate alla luce strutture murarie antiche. È riemersa così un’antica Domus romana, risalente al 123 d.C., visibile anche dalle aule dove è stata valorizzata con vetri a vista e senza mai collidere con la storia.

Si apre in tal modo il quarantesimo anno accademico, nello slogan «40 ben suonati»: fondato nel 1976, il Saint Louis, prima e unica istituzione privata in Italia autorizzata dal Miur a rilasciare lauree di primo e di secondo livello, è fra le più rinomate realtà didattiche musicali di eccellenza di respiro europeo, con oltre 1.600 allievi ogni anno provenienti da tutta Italia e da molti Paesi europei ed extraeuropei, in crescita costante del 6-8 per cento annuo. Dal 1998 è diretto da Mastruzzi, che l’ha rilevato, e fino a oggi  l’evoluzione è stata straordinaria: dai 90 iscritti del 1998 ai 1.600 del 2015; dall’unica sede (quella storica ancora attiva in Via Cimarra) alle 4 sedi di oggi, site in Via Urbana (400 metri quadrati), Via del Boschetto (500 metri quadrati), Via Baccina (800 metri quadrati). Il corpo docente è cresciuto da 16 a 110 docenti professionisti. Sono stati prodotti 24 dischi dal 2004, anno di nascita della prima etichetta, la Jazz Collection, seguita da una seconda, Urban 49, e da una terza, Camilla Records. Sono stati pubblicati 10 libri didattico-divulgativi, e in stampa, entro la fine del 2015, ce ne sono altri 12. E ancora: Radio Jazz Saint Louis, web radio diretta da Adriano Mazzoletti, che propone 24 ore di jazz al giorno dal lunedì al venerdì con programmi che riguardano l’intero arco del jazz dalle origini ad oggi; un Centro di produzione artistica; un’agenzia, il Saint Louis Management; i nuovi corsi «Musica nel mio piccolo» per bambini dai 3 ai 5 anni, e molto altro.

Domanda. Cos’è il Saint Louis e come ha fatto a divenire la più grande scuola di musica e fucina di artisti d’Italia?
Risposta. Il Saint Louis non è una scuola di musica, c’è ben altro e non lo si può spiegare, ma solo cogliere e percepire; osservando gli allievi seduti nei corridoi con le chitarre in braccio e una progressione armonica da inseguire, sbirciando nelle aule dove prendono vita le orchestre, ascoltando le produzioni discografiche delle nostre etichette, guardando alle 100 band che ogni anno qui nascono e portano fuori la propria musica, partecipando alle decine di master class con personaggi straordinari, lasciandosi ipnotizzare dai suoni destrutturati di giovani votati alla musica elettronica e al sound design, vivendo un cortometraggio musicato, orchestrato e diretto da compositori in erba, scattando negli studi del Saint Louis un’istantanea di fonici con mani tentacolari su decine di potenziometri, ascoltando la radio del Saint Louis o semplicemente i suoni ovattati che dalle aule sfuggono con destrezza alle trappole acustiche e si diffondono nelle strade del rione Monti. Il Saint Louis è un progetto dinamico, spinto costantemente da un vento teso di rinnovamento, alla ricerca di un’impossibile perfezione, vissuta ora sistemando la punteggiatura di un programma didattico, ora stravolgendolo completamente, ogni qualvolta si ravvisino cambiamenti di rotta nel mondo del lavoro. Perché, per etica, non possiamo, non vogliamo e non dobbiamo formare professionisti di una professione che fu, ma di quella che sarà.

D. Come considera la formazione?
R. La formazione di un ragazzo esige una responsabilità immediata che travalichi logiche politiche, sindacali, imprenditoriali, di interesse pubblico o privato; non possiamo permettere che le legittime ambizioni artistiche di un giovane possano venire mortificate e compromesse da un insegnante demotivato, da un docente che vinca ai punti il proprio ruolo, da un musicista che abbia appeso le corde al chiodo il giorno dopo essere stato assunto. Tutti noi, che oggi siamo il Saint Louis, inconsapevolmente continuiamo a trasmettere ai nostri giovani allievi tutta l’energia, il coraggio e il sogno musicale che abbiamo condiviso con Maurizio Lazzaro e Alessandro Centofanti.

D. Quali sono i corsi Saint Louis?
R. I corsi accademici di primo livello autorizzati e attivati sono molteplici. È anche attivo il corso di secondo livello in Composizione e arrangiamento Jazz, che rappresenta il livello più alto di formazione accademica, equivalente alla laurea specialistica, il primo in Italia con combo e orchestra a disposizione per l’esecuzione e la pratica di direzione delle proprie partiture. I contenuti spaziano da tecniche armoniche a tecniche compositive e di strumentazione, arrangiamento per piccole formazioni, per big band, per archi e formazioni miste. A partire dal corrente anno, sono stati inoltre autorizzati 6 Master di primo livello in Big Band per musicisti d’orchestra; Music Management, ossia alta formazione per futuri manager dello spettacolo con i migliori promotori italiani e internazionali di ambito pop, jazz e indie; Film Scoring, una specializzazione in musica per film con i grandi compositori nazionali; Contemporary Jazz; Popular Music e Musica elettronica.

D. L’internazionalizzazione è la punta dell’iceberg Saint Louis?
R. Grazie alla sua posizione geografica e la centralità all’interno della Capitale, il Saint Louis costituisce una naturale meta d’interesse per allievi internazionali che vogliano svolgere parte dei propri studi in Italia ma anche per artisti in visita e docenti di musica dei vari Conservatori europei: hanno partecipato alle ultime selezioni per l’ammissione studenti provenienti da Italia, Spagna, Francia, Polonia, Romania, Russia, Bulgaria, Gran Bretagna, Iran, Messico, Azerbaijan, Georgia. Partendo da una ferma convinzione dell’importanza del processo di internazionalizzazione ai fini della valorizzazione e della qualificazione delle attività formative, artistiche e di ricerca, abbiamo intrapreso da lungo tempo una politica di apertura verso l’Europa ed il resto del mondo, promuovendo attivamente progetti di collaborazione con istituti internazionali di Alta formazione artistica, con programmi di scambio per studenti e docenti, master class e workshop intensivi tenuti da artisti in visita, ed anche un nostro concorso internazionale di jazz che coinvolge 15 diverse nazioni, il Jazz Contest. Dal 2011 il Saint Louis è membro attivo dell’Aec, l’Association Européenne des Conservatoires, credendo nell’importanza del confronto su base internazionale con istituzioni di formazione di pari livello e ambito, e nel 2014 gli è stata riconosciuta la Eche, ossia l’Erasmus Charter for Higher Education, venendo ufficialmente inserito nella partecipazione attiva al programma comunitario Erasmus+. Ciò ha consentito di intensificare i programmi di scambio per studio, tirocinio, docenza o formazione in altri istituti e in aziende del settore, cui siamo collegati anche attraverso il Consorzio Working With Music+, progetto interamente dedicato all’inserimento lavorativo post-lauream in aziende e istituti di formazione europei. L’anno accademico 2015/2016 poi si apre all’insegna di un nuovo importante progetto, l’Italian Jazz on the Road, festival europeo itinerante ideato e promosso da noi ed un supporto del MiBact, che porterà 40 giovani musicisti italiani selezionati fra i nostri migliori talenti in tour europeo, da Roma a Helsinki, Londra, Barcellona, Maastricht, Aalborg, per un totale di 30 concerti. Abbiamo inoltre inaugurato due nuove progetti rivolti agli studenti internazionali: il Richmond Program, in collaborazione con la Richmond University di Roma, per il completamento artistico della formazione degli studenti americani, e il Programa Conexão Cultura Brasil, in collaborazione con il Governo brasiliano per l’incentivazione della formazione di studenti brasiliani in condizioni socio-economiche svantaggiate. A proposito di Brasile: oltre alla presenza, da sempre tra i nostri docenti, del grande chitarrista samba-jazz Eddy Palermo, all’interno della scuola è stato attivato un coro di musica brasiliana, il Coro di Rioma, fondato da Romina Ciuffa e diretto dalla cantante soteropolitana Claudia Marss (www.riomabrasil.com).

D. Il Saint Louis è anche una grande agenzia che rappresenta i migliori artisti in circolazione da una parte, e i suoi allievi più brillanti dall’altra. Cosa fa esattamente il Saint Louis Management?
R. L’agenzia artistica si occupa di inserire i migliori diplomati nel mondo del lavoro attraverso produzioni, concerti, dischi e pubblicazioni, un raccordo fondamentale tra il momento formativo e quello lavorativo. Ogni anno il Saint Louis Management promuove i giovani talenti con più di 250 concerti in tutta Italia, li porta al Lab on the Road, salotto musicale romano che dà spazio a tutti i gruppi nati all’interno dei corsi, li inserisce nelle programmazioni di club e festival su territorio nazionale, organizza i Summer e Winter Gigs, vere e proprie maratone stagionali sui palchi più prestigiosi; fa partnership con i Conservatori europei attraverso molte iniziative; consente di compiere tirocini formativi all’estero, veri e propri inserimenti lavorativi in altri istituti di Alta formazione artistica per docenze, ricerche o assistenza; inserisce nel mondo del lavoro, da produzioni televisive o cinematografiche a studi di registrazione, club e scuole di musica. Il Saint Louis Management inoltre seleziona ogni anno all’interno del nostro vivaio artisti o gruppi da produrre tramite le 3 etichette indipendenti: Urban 49 per il pop e il rock, Jazz Collection e Camilla Records, quest’ultima che prende il nome da mia figlia e comprende un misto di generi.

D. E il Centro di produzione artistica?
R. Il Centro segue, produce e promuove i progetti più interessanti individuati all’interno della scuola stessa, affiancandoli in ogni singola fase di crescita. Entrato a far parte del Centro di produzione artistica, il giovane musicista viene assistito in tutte le fasi: dalla creazione di un gruppo che possa eseguirne i brani, all’affiancamento di un tutor con cui confrontarsi nella stesura del brano, nell’arrangiamento e nell’interpretazione, per proseguire con sedute in studio di registrazione che si trasformano infine nella realizzazione di un cd, pubblicato e promosso. Tutti gli studenti degli ultimi due anni di Alta formazione partecipano alla realizzazione delle proprie pubblicazioni editoriali, un cd o vinile che rappresenta il sunto del loro lavoro e un biglietto da visita per il futuro.

D. Nel prossimo febbraio 2016 sarà avviato anche il progetto di musicoterapia?
R. La musicoterapia rappresenta una delle nuove sfide per il Saint Louis, che userà parte dei nuovi spazi per l’attuazione di un progetto dalla forte ricaduta sociale. Il nuovo Dipartimento ospiterà sedute di musicoterapia, anche gratuita per fasce di reddito, per formare musico-terapisti, svolgere ricerca in collaborazione con le università italiane. Musicoterapeuti qualificati e di fama lavoreranno all’interno dell’Istituto, permettendo agli studenti di assistere alle terapie e di confrontarsi per creare nuovi spunti di riflessione e di contatto e tenendo corsi qualificanti per futuri musicoterapeuti. Il progetto prevederà l’attuazione di diverse terapie, molte a titolo gratuito per i pazienti perlopiù bambini e adolescenti, di cui copriremo interamente le spese annuali.

D. È pronto anche il progetto di recupero e diffusione del patrimonio musicale italiano del ‘900: come sarà attuato?
R. Sosterremo con nostri fondi 3 orchestre stabili, per un totale di 50 musicisti e 3 direttori d’orchestra che eseguiranno repertori tratti dalle colonne sonore di Mario Monicelli, le partiture originali di Enrico Pieranunzi, la musica tradizionale napoletana. Le orchestre, composte da giovanissimi talenti, si esibiranno nei Conservatori europei esportando un repertorio tratto dal patrimonio culturale musicale italiano, dai primi del ‘900 ai giorni nostri. Il progetto coinvolge anche 25 giovani arrangiatori che avranno il compito di recuperare e arrangiare questo vasto repertorio, un’occasione di studio applicato a situazioni lavorative reali.

D. La nuova sede è preziosa per tutto ciò che è il Saint Louis, ma è inestimabile per la Domus romana del I secolo che si cela sotto le sue mura: un pezzo della storia di Roma e una vera e propria responsabilità: qual è il suo progetto per il recupero e la valorizzazione di un bene storico di tale levatura?
R. Ho avviato il recupero della Domus romana al fine di renderla fruibile agli studiosi e al pubblico. È un grande patrimonio risalente al I secolo d.C. ricco di mosaici, mura ottimamente conservate e persino un affresco. Lungo Via del Grifone si susseguivano una serie di ambienti riconducibili a strutture commerciali e magazzini posti al pian terreno di un grande edificio, verosimilmente una delle insule che le fonti antiche ci ricordano caratterizzare quest’area della Suburra. Le stanze, che si sviluppavano parallele all’asse stradale di Via Baccina, presentano sulle pareti in opera laterizia tracce delle porte e delle finestre obliterate da interventi successivi. La copertura, con volte a botte, è scomparsa, ma le sue tracce si conservano sulle pareti più interne. Negli ambienti adiacenti si riconoscono invece strutture con funzione abitativa di un certo pregio, risalenti all’età antonina. Una grande stanza rettangolare, coperta con volta a botte e con ampie aperture sulle pareti lunghe, conserva ampi tratti della pavimentazione musiva originale ad esagoni bianchi e rombi neri alternati, mentre si conservano in situ alcune formelle. In un secondo ambiente, con pavimento a mosaico a scacchi in bianco e nero, risaltano partiture con motivi decorativi floreali e la figura di un piccolo uccello. Dall’analisi dei mattoni impiegati per la costruzione della rete fognaria originale, si è riscontrato una sorta di «marchio di fabbrica» indicante, oltre al produttore, anche il nome dei Consoli in carica, ossia Paetino e Aproniano. Questa indicazione consente di definire l’anno esatto di produzione: il Consolato del 123 d.C., ma ovviamente avremo certezze una volta terminati gli studi da parte della Soprintendenza archeologica.       (ROMINA CIUFFA)

Dario Franceschini, ministro dei Beni e delle Attività culturali e del turismo, è in prima linea rappresentando le istituzioni e inaugurando, con Stefano Mastruzzi, la quarta sede del Saint Louis College of Music di Via Baccina, a Roma, il 24 settembre 2015, un evento non classico nel quale tutte le aule si riempiono di concerti, jam session, improvvisazioni, in un trionfo di qualità. Tra i nuovi, tra i jazzisti, tra i moderni, tra i classici, anche Bobby Solo, che si ferma in una saletta e improvvisa con il chitarrista Marco Manusso un concerto che è apprezzato anche dalla direttrice del Maxxi Giovanna Melandri. Avuta a mente la fresca legge 13 luglio 2015, n. 107, «La Buona scuola», alcuni punti della quale riguardano specificamente l’alta formazione musicale (uno per tutti: i fondi per il funzionamento amministrativo e didattico delle istituzioni statali dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica sono incrementati di 7 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al 2022); e la generica raccomandazione legislativa al Governo di occuparsi dell’armonizzazione dei corsi formativi di tutta la filiera del settore artistico-musicale, l’incontro è stato anche un’occasione per ascoltare il ministro Franceschini descrivere le intenzioni proprie e del Governo.

«Ricordo i dischi jazz di mio padre. Sono a lui grato per avermi fatto conoscere il jazz da piccolo attraverso Radio Elle, quando andavo a fare un’ora di jazz a Ferrara con un mixer di latta costruito artigianalmente in casa. Si è perso molto tempo per capire che il jazz italiano è un punto di riferimento europeo fatto di grandi maestri e di tanti giovani talenti che combattono le difficoltà insite nella sfida di far diventare la propria vocazione un lavoro. Spesso ci riescono, ma fuori dai nostri confini nazionali. Dobbiamo compiere un grande investimento, che è insito anche in quella sfida su cui io insisterò giorno per giorno finché avrò questa responsabilità: riuscire ad affiancare la contemporaneità al ruolo primario che ci ha dato la storia, quello di tutelare e valorizzare il patrimonio materiale e immateriale delle generazioni che ci hanno preceduto. È importante aver centrato la prima occasione di riconoscimento da parte del Miur dell’equipollenza del titolo accademico nel settore del jazz e della musica moderna: per noi è stata una grande richiesta, difficile e faticosa, che ha necessitato di tempo, e il nostro percorso è servito anche al sottoscritto per portare all’approvazione del Parlamento una norma che riconosce un percorso per ottenere l’equipollenza delle scuole che fanno riferimento ai beni culturali. Con una visione burocratica si poteva immaginare che una scuola che si occupa di danza, musica o letteratura potesse avere gli stessi parametri che servono alle altre scuole; abbiamo così approvato una norma che legittima i Ministeri Miur e Mivar a stabilire per decreto i criteri per cui le scuole che fanno riferimento al vasto campo dei beni culturali possano ottenere agevolazioni per il titolo. Il Centro Sperimentale di Cinematografia ad esempio, che forma da decenni grandi eccellenze, non aveva il riconoscimento della laurea, e ciò creava molti problemi a coloro che poi, avendo quel diploma, non lo vedevano riconosciuto nel proprio percorso professionale italiano o internazionale. Il bando del jazz è stato un forte segnale. Certo le somme potrebbero essere più notevoli, e vedremo se miglioreranno le condizioni della finanza pubblica e della quota riservata al mio Ministero, si tratta comunque di un segnale che inverte una tendenza. Su suggerimento delle associazioni del jazz, incluso il Saint Louis, abbiamo cambiato una regola che precludeva la possibilità di accedere ai fondi ordinari; oggi anche per la musica contemporanea come per il jazz ci sono possibilità vantaggiose di accedervi, ripeteremo il bando cercando di non distribuire i fondi a pioggia perché è chiaro che dobbiamo imparare a puntare sulla qualità. Ho letto allibito del Fus, Fondo unico per lo spettacolo, che fonda l’attribuzione su base storica: la tecnica principale è che chi prendeva continua a prendere, chi non prendeva non riesce a prendere. Le regole sono cambiate introducendosi una percentuale di qualità, e sono state approvate da tutti i Comuni. I quarant’anni del Saint Louis e l’inaugurazione della nuova sede avvengono a pochi giorni da quell’evento straordinario che è stato la serata del jazz a L’Aquila, una grande platea di migliaia e migliaia di persone interessate al jazz, grandi maestri e giovani di talento insieme, e il volto gioioso degli aquilani che hanno una sfida da gestire che non è solo quella di restaurare i palazzi, ma anche di far tornar vivo il centro storico. Abbiamo deciso di farlo tutti gli anni e spero che questo diventi un appuntamento straordinario con i grandi nomi del jazz italiano e internazionale. Sono contento che con il finanziamento del Ministero si sia fatta quest’operazione internazionale».

(ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Ottobre 2015




LUCA MUCCI: MODENA TERZO MONDO, UN’ASSOCIAZIONE CHE AIUTA MIGLIAIA DI BRASILIANI A SPERARE

Modena Terzo Mondo (Mtm) è un’associazione di volontariato e solidarietà internazionale presente in Brasile da circa 25 anni, fondata da alcuni privati guidati da Luca Mucci, con l’obiettivo di tutelare i diritti e promuovere l’emancipazione dell’individuo in tutte le sue dimensioni attraverso la sensibilizzazione di persone e coscienze sulle grandi tematiche legate alla condizione di sottosviluppo e discriminazione sociale, economica, culturale e religiosa cui è soggetta buona parte della popolazione mondiale. Mtm si pone come punto di riferimento tra gli altri ed opera come associazione coltivando rapporti cordiali, collaborativi e fraterni, aiutando concretamente i più poveri e inducendo i più fortunati a vivere, pensare ed agire secondo la giustizia e la carità. Comunque esulando da un discorso cattolico.

Tutto comincia nel 1991 con il primo viaggio di Mucci, elettricista, insieme ad altri amici volontari nel Nord Est brasiliano, precisamente a Joaquim Nabuco, nello Stato del Pernambuco, dove da pochi mesi lavoravano tre suore dell’ordine del Divino Amore. Mucci scopre che a Modena sono molti coloro che condividono uno stile di vita improntato sulla solidarietà, lontano dagli affetti più cari; così fonda l’associazione che presiede, della quale oggi fanno parte Stefano Lugli, Andrea Di Paolo, Danilo Ferrari, Lidia Caruso, Enzo Mazzoli, Romina Buttini, Luca Caselli, Elisa Chierchia, Giulia Farinetti, Cristina Ioele.

I mezzi attraverso i quali Modena Terzo Mondo persegue i propri fini sono gruppi di studio, incontri, letture e dibattiti, collegamenti e collaborazioni con realtà esterne quali associazioni, movimenti religiosi, laici, diocesi, centri missionari ed istituzioni varie. Tutte le attività e i progetti sono svolti prevalentemente tramite le prestazioni fornite dai propri aderenti (non retribuite in alcun modo): mezzi finanziari derivanti dai contributi associativi, dalle oblazioni private e dagli eventuali contributi pubblici; mezzi culturali propri o derivanti dal collegamento con movimenti simili, con l’apparato scolastico, con le istituzioni, con i centri culturali e con i mass-media; mezzi civili propri o derivanti dal collegamento con esperienze di formazione civile e di volontariato nel servizio di rilievo sociale; mezzi formativi propri o derivanti dal collegamento con tutte le istituzioni pastorali e comunitarie impegnate nell’educazione. Il numero degli aderenti all’associazione è illimitato ed aperto a tutte le persone di buona volontà desiderose di impegnarsi nella solidarietà e nel volontariato.

Luca Mucci spiega i progetti che, in tale modo, ha portato avanti l’associazione. Non pochi, non piccoli.

Domanda. Perché ha voluto fondare questa associazione?
Risposta. Venticinque anni fa, compimmo un viaggio in Brasile per andare a trovare una suora che aveva aperto un centro per bambini a Recife, e in quell’occasione ci rendemmo conto che le notizie che ci arrivavamo e che ci venivano raccontate erano molto diverse dalla realtà: falsate e modificate a regola. Da lì è iniziata la nostra storia: tornati in Italia fondammo l’associazione perché avevamo visto e non potevamo dire che non conoscevamo, quindi dovevamo per forza fare qualcosa per cambiare: cominciammo ad occuparci dei bambini, poi ci siamo dedicati anche ad altri settori come agricoltura, salute, acqua.

D. In che modo l’associazione vi ha visto operativi nei primi anni?
R. Abbiamo innanzitutto subito cominciato a coinvolgere amici, parenti e conoscenti per costruire il primo centro per bambini a Pernambuco; da allora ne abbiamo costruiti 36.

D. Con quali finanziamenti?
R. Molto autofinanziamento: amici, soci e volontari. Adesso siamo in tutto 450, ogni mese ognuno mette quello che può, ma mettiamo in atto anche tantissime iniziative in tutta Italia, anche perché i nostri volontari sono sparsi un po’ dappertutto: di Modena c’è rimasto solo il nome. Nessuno di noi fa questo tipo di mestiere, siamo tutti privati, io personalmente trascorro 4-5 mesi all’anno in Brasile ormai da 20 anni. Sempre a mie spese. Ma in tutto questo tempo abbiamo fatto moltissima strada.

D. Quali sono le mete del vostro lavoro in Brasile?
R. Ogni viaggio è diverso dall’altro, faccio il giro di diversi centri ogni anno e mi occorrono una quindicina di giorni per ognuno di essi: c’è da sbrigare molto lavoro burocratico perché di questi centri ogni giorno usufruiscono circa 4 mila ragazzi e per mantenerli occorrono ogni mese tantissimi soldi. Così mi do da fare, insieme ad altri, per cercarli.

D. Il Governo brasiliano vi sostiene?
R. Ci sostiene molto, negli ultimi anni è cambiato molto in senso positivo, sui temi sociali è tutta un’altra cosa rispetto a 25 anni fa, quando eravamo più malvisti che benvisti.

D. È merito del nuovo Governo?
R. I Governi del PT, il Partito dei lavoratori, sono totalmente diversi rispetto ai Governi di destra, e per i brasiliani è meglio: si pensi solo al progetto «Luce per tutti». In un Paese che ha avuto più di 50 milioni di cittadini senza corrente elettrica in casa, con il lavoro del Governo almeno 30 milioni di persone ora la hanno.

D. Dove avete trovato le situazioni più gravi?
R. Ce ne sono diverse, nel Maranhão, nel Pernambuco, nel Ceará. Il Nord-Est era un bacino di schiavi, di donne delle pulizie, camerieri, muratori, un Paese completamente dimenticato dai Governi precedenti: ma se si tolgono i nordestini da San Paolo la città si ferma. Lavoriamo anche molto a San Paolo, nelle periferie come Guaianazes, dove abbiamo sostenuto la costruzione del centro «Casa Dos Meninos»; e a Mariana, nel Minas Gerais, dove abbiamo sostenuto il centro di integrazione familiare «Espaço Livre».

D. Lavorate anche con la Chiesa?
R. Siamo un’associazione d’ispirazione cristiana ma non di Chiesa, e siamo aperti a tutti anche in ragione del fatto che abbiamo obiettivi umanitari. Dal canto suo la Chiesa modenese è presente in Brasile da circa 50 anni e con essa lavoriamo per la causa, come con chiunque abbia a cuore i problemi delle persone a prescindere da tutto.

D. La politica italiana vi aiuta?
R. Lasciamo perdere. Ma abbiamo lavorato molto con gli enti locali dell’Emilia Romagna: nonostante la crisi, i terremoti, le sciagure che sono accadute dalle nostre parti, il sostegno c’è sempre.

D. Ha incontrato molti personaggi impegnati nei vari campi, tra cui Padre Luigi Ciotti, Gianni Minà, Marina Silva ed altri: chi il più significativo per l’associazione?
R. L’ex presidente brasiliano Lula, che a Modena è venuto tante volte prima che diventasse presidente e i suoi viaggi in Italia li organizzavamo noi. Siamo rimasti in ottimi rapporti e ci vediamo ogni 2-3 mesi, abbiamo portato avanti insieme numerose iniziative.

D. È migliorato il Brasile?
R. Sì. Ad esempio è il Paese che ha più studenti universitari all’estero, il Governo paga tutte le spese e dà la possibilità a tutti di poter fare questa esperienza. Fino a 12 anni fa, i ragazzi di colore non andavano all’università, mentre ora ci vanno. Si sono avuti passi in avanti incredibili. Indubbiamente ci sono dei problemi, però meno di quello che si fa intendere. Molte cose sono orchestrate da una minoranza che non accetta di aver perso per la terza volta consecutiva le elezioni, e fa di tutto e di più per cercare di invertire un risultato che è evidente.

D. Condivide le azioni compiute dal Governo per i Mondiali e le Olimpiadi?
R. Ci sono state azioni negative, come gli sgomberi delle favelas, che non condivido per come sono stati condotti, spostando persone per centinaia di chilometri senza fornire loro le condizioni di vita minime, e questa è stata una delle poche cose pessime che sono state compiute. Ma dall’altra parte ne hanno sistemate altre: il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, dipende dai punti di vista, ma il Brasile resta l’unico Paese che si è aggiudicato Mondiali di calcio ed Olimpiadi.

D. Per lei è un fatto positivo?
R. Se non ci fossero state problematiche molto grandi, sarebbe stato più che positivo. Un fatto che ha salvato tanta gente, ha portato soldi e creato molte infrastrutture le quali, oltre ad essere state impiegate per i Mondiali prima, per le Olimpiadi poi, resteranno.

D. Avrebbero potuto dare alfabetizzazione e sanità.
R. Ma non si può dimenticare che di alfabetizzazione ne è stata fatta tanta in questi anni, così come di progetti sociali.

D. E l’ambasciatore brasiliano in Italia, Ricardo Neiva Tavares, come si pone nei vostri confronti?
R. Anche lui è venuto a Modena diverse volte, ci sostiene e si dà da fare. Oggi con noi l’Ambasciata è aperta, dieci anni fa invece era molto chiusa.

D. Come funziona il volontariato?
R. Ci sono tantissimi ragazzi che chiedono di poter fare questo tipo di esperienza con i progetti, ognuno si paga le proprie spese, c’è un costo di mantenimento politico nelle strutture di 10 euro al giorno, e i volontari sono ospitati direttamente nelle case a ciò adibite o da famiglie che da molti anni mettono a disposizione alcune loro stanze.

D. Come si conosce la vostra attività?
R. Con un passa parola continuo. Non c’è bisogno di fare tanta pubblicità perché ogni anno quei 30-40 volontari che vanno via coinvolgono altre persone e ogni anno ci sono gli amici degli amici.

D. In Italia invece organizzate eventi e fate incontri?
R. Tutto quello che facciamo è sensibilizzare chiunque su quelle situazioni di ingiustizia che circolano nel mondo, e che purtroppo sono tante. Manca proprio la comunicazione dei mass media che è praticamente nulla, e si parla del Brasile solo per gli eventi sportivi, le favelas, o la corruzione o la foresta che sta per essere distrutta, ma non si parla del fatto che siamo noi che ordiniamo la legna, non si parla di queste contraddizioni.

D. Chi è che sceglie i progetti?
R. Nascono con i viaggi ma devono autosostenersi nel tempo: noi non andiamo a dire a casa degli altri cosa è giusto fare o meno, quello è colonialismo. Andiamo a vedere di cosa hanno bisogno. Siamo aperti alle proposte altrui e a valutarne la fattibilità che è prospettata.

D. Parliamo di alcuni progetti specifici. Aiutate le prostitute del Ceará?
R. Fortaleza è uno dei paradisi del turismo sessuale internazionale, ogni anno migliaia di minorenni vengono sfruttati approfittando della loro miseria. Come associazione, siamo impegnati a denunciare e contrastare questo fenomeno, a costruire due case di prevenzione dello sfruttamento con corsi di informatica, alfabetizzazione, sport, teatro, danza, capoeira, musica, un refettorio con cucina e molto altro, per dare loro la possibilità di un futuro migliore. Parte fondamentale sono le attività sportive: nel quartiere Bom Jardim e Farol di Fortaleza non esistono strutture aperte a tutti e i ragazzini chiedono un luogo dove trovarsi per fare attività di gruppo e non continuare a stare in strada. Un progetto del Governo brasiliano nel quale siamo impegnati, «Viravida», ossia «cambia vita», dà la possibilità di fare un corso professionale al termine del quale le aziende coinvolte garantiscono posti di lavoro: in questi ultimi anni sono stati assunti 25 mila ragazzi che hanno cambiato vita lasciando completamente la strada per svolgere una professione. Certo non abbiamo risolto il problema dello sfruttamento, ma coloro che entrano nel programma e ne colgono le opportunità fino in fondo possono cambiare vita. Esiste anche un’associazione delle prostitute del Ceará, l’Aproce, nata dopo il primo caso di Aids: riunite in assemblea prostitute, ex prostitute e volontarie il 13 novembre 1990 formalizzarono il desiderio di organizzare il gruppo, guidato da Rosarina Sampaio. Aproce è la prima associazione di prostitute che ha ottenuto la registrazione in Brasile senza usare un nome di fantasia. In seguito è stata creata la Federazione nazionale delle prostitute del Brasile.

D. Non è altrettanto importante sensibilizzare al fine di evitare a monte lo sfruttamento del turismo sessuale?
R. Abbiamo ottenuto dei servizi televisivi con «Le iene» di Italia Uno, anche perché gli italiani insieme ai tedeschi si contendono la palma d’oro per lo sfruttamento. Ci sono interessi economici legati al turismo sessuale, che non conosce crisi, e non solo in Brasile.

D. Cosa fate per i pernambucani?
R. Joaquim Nabuco è un paese rurale di 17 mila abitanti situato a 118 chilometri da Recife. È la prima città indipendente fondata alla fine dell’800 dagli schiavi. Il lavoro ruota attorno alle «usinas», fabbriche di lavorazione della canna da zucchero, che durante i sei mesi della raccolta danno impiego; nei restanti sei mesi il numero di personale impiegato viene ridotto dell’80 per cento. Ciò porta a condizioni di povertà estrema, molti finiscono in strada crescendo in una realtà di delinquenza, analfabetismo, prostituzione e droga. Dal 1991 le suore del Divino Amore svolgono una missione di solidarietà in quel comune e noi le abbiamo sostenute con affetto all’inizio della loro opera in Brasile. Per loro ha fatto tanto anche il gruppo di padre Luigi de Rocco di Belluno. Abbiamo quindi realizzato il primo progetto di solidarietà a distanza e dal 1992 ad ora sono state sviluppate diverse attività di sostegno umanitario, formazione personale e collettiva, creando fortissimi rapporti tra gli autoctoni e i volontari italiani. Attualmente la nostra associazione sostiene la Fondazione Giovani di Joaquim Nabuco per la vita con sede nella Casa dei giovani, acquistata nell’agosto 2004, resa abitabile e dotata di un computer con connessione a internet per dare modo a tutti i ragazzi di cercare lavoro e mantenere i contatti con amici e famigliari lontani. Oggi 450 bambini partecipano alle attività della casa.

D. Lo Stato del Piauì è uno dei più poveri (e sconosciuti) del Brasile. Le pessime condizioni di vita hanno portato alcune città, come Acaua e Guaribas ad avere il triste primato di città con la minor aspettativa di vita dell’ intero Brasile: 58 anni contro una media nazionale di ben 10 anni superiore. Come siete presenti?
R. Il Piauì, coprendo il 3 per cento del territorio nazionale, è il decimo Stato brasiliano in ordine di estensione, grande quasi quanto l’Italia. Il 70 per cento della popolazione fino a 10 anni fa era senza energia elettrica; i suoi abitanti, che sono circa 6-7 milioni, sono sparsi in tutto il Brasile. Abbiamo portato avanti un progetto di agricoltura per far sì che i ragazzi restino a vivere dove sono, nati senza dover migrare. Puntiamo al sostegno all’agricoltura familiare e alla scuola con formazione agricola della comunità di Tapera, alla realizzazione dell’orto comunitario, a programmi imperniati sull’autosufficienza e la sicurezza alimentare, sulla tutela e valorizzazione delle risorse umane, con un occhio di riguardo al ruolo delle donne e dell’infanzia. Altro progetto è quello del Centro di formazione Mandacarù, entità filantropica che aiuta le famiglie della zona del cosiddetto «Semi-árido» a migliorare la qualità di vita. Inoltre, problema ricorrente nel Piauí e principalmente nella regione di Pedro II, è recarsi in città, in media a 40 chilometri di distanza, senza nessun tipo di sicurezza, al sole e alla polvere: la creazione della scuola polivalente di Tapera, con l’appoggio delle istituzioni italiane, consente ai bambini della regione di studiare in una migliore struttura. E ancora: vogliamo rendere possibile e gratuito l’accesso all’acqua per migliaia di famiglie.

D. A Goiania, invece, che fate?
R. È una città che conta un milione e mezzo di abitanti: moderna, con eleganti grattacieli, che però è circondata da una popolosa periferia i cui abitanti vivono in povertà o in condizioni di vera miseria. Lì sosteniamo l’associazione Todos os Santos, ossia con tre asili-scuole che ospitano fino a circa 600 bambini compresi fra i tre e gli otto anni; abbiamo contribuito a costruire una scuola per il rinforzo scolare dei maggiori di 8 anni, che segue il P.E.T.I., programma di «sradicamento» del lavoro infantile, e supportiamo la scuola di informatica Bairro Capua.

D. Modena Terzo Mondo inoltre sostiene da anni moltissimi progetti in diverse città di Goiás. Può dircene alcuni?
R. Per la Radio Vila Boa Fm, con il sostegno di Modena Terzo Mondo, sono state costruite la sala d’incisione, la cabina di regia e sono state fornite le attrezzature per la trasmissione della musica: la radio oggi ha il 60 per cento degli ascolti. Il progetto Scuola Famiglia Agricola ha l’obiettivo di impedire che i giovani figli di contadini si sradichino della loro terra. Ancora: la Diocesi di Goiás, assieme alla Pastorale del Migrante, dopo aver assistito centinaia di persone povere costrette a un costante esodo, ha deciso di creare un centro di accoglienza, chiamato Casa del Migrante, che noi sosteniamo. Sulla spinta della richiesta di famiglie alla ricerca di trattamenti per alcolisti e tossicodipendenti con difficoltà ad entrare in centri di recupero, sono nati l’istituzione Chácara de Recuperação Paraíso e un progetto di reinserimento sociale per promuovere ricongiungimenti familiari e sociali. E molto altro. Ma, in genere, il lavoro non finisce mai.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Settembre 2015




BENEDETTO MARASÀ: ECCO COME L’ENAC STA RIFORMULANDO IL PRIMO REGOLAMENTO SUI DRONI

Il regolamento dell’Enac è a tutti gli effetti il primo in Europa e forse nel mondo ad occuparsi di «droni» o «Sapr» (che definisce mezzi aerei a pilotaggio remoto senza persone a bordo, non utilizzati per fini ricreativi e sportivi): veri e propri «robot telecomandati» come quelli che si vedevano nei cartoni animati in tempi non sospetti. Anche solo questo paragone rende chiara la complessità della materia che, oltreché nuova (dunque sconosciuta, dunque pericolosa), può chiamare in causa problematiche connesse all’uso improprio che di tali mezzi-strumenti può esser fatto in un continuum che va dalla negligenza, imprudenza, imperizia (colpa) al dolo vero e proprio del diritto penale. Tanto da essere coinvolte le Forze dell’Ordine. E richiama anche scenari fantascientifici di un futuro (ora quasi presente) in cui le strade sono dominate da velivoli.

E dai droni il regolamento Enac, emanato in attuazione dell’art. 743 del codice della navigazione, distingue immediatamente gli aeromodelli (specificando che questi ultimi non sono considerati aeromobili ai fini del loro assoggettamento alle previsioni del suddetto codice e possono essere utilizzati esclusivamente per impiego ricreazionale e sportivo). Il fatto di precisare sin da subito che siano due cose diverse (e diversamente regolate) rende conto del contrario: ossia della gran poca differenza che intercorre tra questi mezzi, entrambi pilotati remotamente, proprio come i robot della nostra infanzia. Ai sensi del regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 216/2008, sono di competenza dell’Enac i Sapr di massa massima al decollo non superiore a 150 chili e tutti quelli progettati o modificati per scopi di ricerca, sperimentazione o scientifici. Inoltre, non sono altresì assoggettati alle previsioni i Sapr Stato di cui agli articoli 744, 746 e 748 del codice della navigazione; i Sapr che hanno caratteristiche di progetto tali per cui il pilota non ha la possibilità di intervenire nel controllo del volo; i Sapr che svolgono attività in spazio chiuso; i Sapr costituiti da palloni utilizzati per osservazioni scientifiche o da palloni frenati.

Ne parla Benedetto Marasà, vicedirettore generale dell’Enac.

Domanda. L’uso dei droni è, nel primo regolamento, distinto rispetto alla sua criticità, ossia pericolosità: come?
Risposta. Questo regolamento, formalmente del novembre 2013, è in realtà entrato in vigore quattro mesi dopo. Esso costituisce una prima elaborazione rispetto al nulla che c’era prima, lo abbiamo chiaramente strutturato considerando le criticità legate non solo al tipo di operazioni che si effettuano, ma anche al tipo di macchina che si usa. Registriamo innanzitutto 2 categorie per peso: droni sotto i 25 chili, a loro volta distinti tra operazioni critiche e operazioni non critiche, e droni superiori ai 25 chili, che consideriamo sempre al pari di operazioni critiche perché le dimensioni, il peso, la velocità, sono caratteristiche che includono di per sé la criticità, a meno che non vengano usati in aperta campagna o in luoghi disabitati, nei quali possono essere impiegati per riprese cinematografiche o per controllare le condizioni delle montagne, delle slavine. Le operazioni critiche sono quelle che si svolgono in ambienti congestionati, cioè dove ci sono persone, installazioni, centri abitati; quelle non critiche si svolgono su luoghi poco frequentati o quantomeno dove non ci sono rischi per la sicurezza e per l’ambiente.

D. Il diverso impiego del drone rende differenti le formalità cui ottemperare?
R. Al di sotto dei 25 chili teniamo anche conto del fatto che si tratta di macchine abbastanza semplici, quindi non richiediamo un certificato di navigabilità né la licenza del pilota, ma un’attestazione di competenza in un regime semplificato. Se l’attività non è critica essa viene autodichiarata dall’utilizzatore del drone e noi ne prendiamo nota anche perché, potendo l’impiego di tale mezzo non essere pacifico, dobbiamo sapere chi lo sta usando e in quale area. Per i droni che operano in aree critiche o superiori ai 25 chili, ci vuole un’autorizzazione formale rilasciata da noi; nel primo regolamento in effetti non avevamo previsto una licenza di pilotaggio, ma solo un’attestazione di conoscenze del pilota rilasciata da una scuola autorizzata, quindi noi autorizziamo la scuola, la quale svolge un programma di addestramento che dobbiamo riconoscere e che rilascia l’attestazione di competenza.

D. Verificate la competenza delle scuole una per una?
R. Lo facciamo a livello preventivo. La scuola che si proponga come centro di addestramento per piloti od operatori ci presenta un programma di addestramento, noi ne valutiamo la congruità, quindi viene pubblicizzata sul nostro sito. Oggi ce ne sono già circa 80.

D. Come si fa a scegliere una scuola dato che ce ne sono tantissime?
R. Onestamente non so dire; noi in questi casi siamo sempre combattuti se stilare un elenco ufficiale dove chiaramente poi convoglierà il mercato, oppure no. In tale ultimo caso chiunque si presenti all’Enac con il proprio programma, che sia valutato da noi positivamente, si immetterà nel mercato senza comparire in una lista Enac, e starà all’operatore o al pilota scegliere dove andare. Non è una vera e propria certificazione quella che noi diamo alle scuole di pilotaggio, è più un riconoscimento basato sui programmi che intendono svolgere e sulla serietà delle persone che vi fanno parte. E se molte di queste scuole sono anche centro di addestramento per persone navigate con una certificazione riconosciuta a livello europeo, ci sono anche scuole private.

D. Da un certo punto di vista si tratta di aeromodelli, dei quali si parla anche nel regolamento in una sezione apposita. Quali le differenze dal vostro punto di vista?
R. Gli aeromodelli oggi possono raggiungere anche delle velocità notevoli, e sono repliche di aeroplani in scala ridotta. Sono da tenere sotto controllo, ma più in termini di obblighi che di verifiche, e infatti per essi noi abbiamo inserito, nella terza ed ultima parte del regolamento, dei requisiti da rispettare, e devono volare in ambienti riservati, fuori dal possibile impatto con le persone, ma non vi sono verifiche da parte nostra, né dichiarazioni da presentare. Ma ora le cose stanno evolvendo a livello europeo e mondiale, e cominciano a spuntare non solo i regolamenti degli altri Paesi.

D. Quale sarà l’impatto dell’Europa nel settore?
R. Noi siamo stati i primi in Europa, e forse anche nel mondo, a fare questo regolamento. Ma oggi ne sappiamo di più, ci sono molte iniziative, la Commissione europea si è anche espressa in una dichiarazione durante una conferenza internazionale nel mese di marzo, e l’Easa, l’Agenzia europea della sicurezza aeronautica, ha emesso delle linee guida. Anche se in questo momento sono dei «concetti» e non sono dei veri e propri regolamenti, è chiaro che in qualche modo ci dobbiamo avvicinare alle indicazioni internazionali, perciò abbiamo predisposto due modifiche essenziali al nostro regolamento: innanzitutto vogliamo distinguere i droni al di sotto dei 2 chili che, in caso di perdita di controllo o impatto, non creano, sempre che lo creino, un danno eccessivo, soprattutto se si adottano criteri di protezione. Per questi piccolissimi droni abbiamo in mente una sorta di liberalizzazione nel senso di non prevedere nemmeno un’autorizzazione, a meno che non vogliano essere utilizzati in aree abitate. Abbiamo anche una riserva delle Forze dell’Ordine, con le quali stiamo discutendo per cercare di evitare un regime estremamente restrittivo giustificato dai timori sull’uso improprio. Un’ipotesi che faceva la Polizia era che addirittura per ogni volo di un drone essa fosse avvisata, e questo ci sembra eccessivo, per il rischio di bloccare un settore che comunque non vogliamo appesantire dal punto di vista dell’innovazione. C’è una grande paura che queste cose possano diventare armi, soprattutto in questi tempi, ma dovremmo limitare di aprire le finestre quando passa un corteo. Certo che determinate precauzioni sono importanti, ma non dobbiamo far diventare il drone uno strumento «criminoso» per definizione. Il nuovo regolamento dovrebbe semplificare l’impiego dei droni fino a 2 chili, tra i 2 e i 25 chili mantenere le caratteristiche attuali, per i droni superiori ai 25 chili strutturare un vero e proprio regime di sorveglianza con certificazione di navigabilità individuale, licenza da rilasciare al pilota, un’attestazione di sicurezza, ed un regime che bene o male è quello degli aeromobili.

D. Come stanno reagendo le grandi società dell’aviazione generale italiana?
R. Cominciano ad esserci anche iniziative importanti, ad esempio abbiamo aperto un «test center» a Grottaglie, in provincia di Taranto; nella stessa area, infatti, l’Alenia produce le parti del Boeing 787 in uno stabilimento che impiega più di 1.500 persone. Abbiamo nominato l’aeroporto di Grottaglie come test center proprio per avere un posto dove fare la sperimentazione con i droni. L’Agusta a luglio vi porterà un elicottero a pilotaggio remoto, che viene costruito in Polonia, che è chiaramente un drone anche se all’interno dell’elicottero c’è il «pilota di sicurezza», un pilota che sta a bordo ma solo per intervenire in caso di perdita del controllo remoto; e l’intenzione dell’Agusta è avere un elicottero di più di 750 chili non pilotato. La Piaggio ha già prodotto il P180, velivolo da 9 posti che in ambito militare è già in fase di sperimentazione a Trapani, e che in ambito civile potrebbe diventare un drone con una capacità di carico notevole di quasi mille chili.

D. Il trasporto passeggeri su un drone, con il pilota da terra e da remoto, è futuribile?
R. In futuro sarà così, ma non è qualcosa che si realizzerà nei prossimi 10 anni. I droni militari, a titolo di esempio, effettuano controlli da remoto da 8 mila chilometri e anche più di distanza. Dobbiamo prevedere che tra 20 anni probabilmente questa diventi una realtà anche in ambito civile. Tutte le iniziative in tema di droni, soprattutto quelle fatte da grandi aziende, non hanno lo scopo di riprendere matrimoni o fare film, ma si orientano verso un trasporto industriale. Le regole cominciano ad esserci, ma il settore industriale è più avanti delle regole. Oggi abbiamo la pressione dell’industria grande e piccola, e giornalisti che vorrebbero essere autorizzati a utilizzare droni da un chilo con telecamera istallata per fare riprese e scoop. Ma il problema non è tanto il singolo, quanto un insieme di droni che, alzandosi per aria, possono scontrarsi e cadere.

D. Si corre anche il pericolo che tanti droni si scontrino tra di loro in situazioni più movimentate.
R. La sperimentazione si sta muovendo in quest’ottica e segue alcuni criteri tecnologici, il primo è quello di un controllo che limiti il raggio d’azione in modo da creare una specie di schermo intorno, ed è chiaro che questo si può fare solamente con un controllo di tipo computerizzato. Il secondo criterio è quello di operazioni fuori dal campo visivo dell’operatore, cosa che in ambito militare è una realtà, ma che nel civile risulta più complessa: bisogna affrontare il discorso della tecnologia e del controllo satellitare. È chiaro che in questa fase iniziale e sperimentale è importante che le condizioni siano quelle dichiarate dai costruttori, ma c’è anche il problema dei materiali: cioè molti dei droni che oggi sono sul mercato non hanno affidabilità aeronautica, la vita delle pale dell’elica o del rotore nei droni che si comprano al negozio di giocattoli è di 5 ore, dopo si rompono; l’elica deve compiere centinaia di giri al minuto, e se non è costruita con caratteristiche aeronautiche è inaffidabile. Se si compra un drone online non è certo che esso abbia le garanzie che noi riteniamo necessarie per il volo aeronautico.

D. Non si può semplicemente comprare un drone e «farlo volare»?
R. La tendenza è questa, lo compro e lo faccio volare; perciò dobbiamo provare a non essere invasivi nel senso di non richiedere il rispetto di requisiti impossibili o troppo restrittivi. Ci stiamo muovendo in un’ottica di valutazione del rischio, e il rischio è nella velocità, nell’ambiente in cui si opera, nelle caratteristiche di sicurezza del mezzo, nella privacy, tutti argomenti nuovi per noi e assenti in tema di aeroplani. Siamo in un momento di maggiore consapevolezza e chiarezza, guardando a un settore che sta esplodendo da un punto di vista industriale con centinaia di iniziative direi non difficili da regolare ma difficili nel bilanciamento tra regole e sviluppo.

D. Avete anche affrontato il tema dei droni legati a un cavo: in quali casi i droni sono «messi al guinzaglio»?
R. Il cavo è un elemento di garanzia soprattutto quando il drone viene utilizzato in ambienti congestionati. Ancora oggi non abbiamo la certezza che i dispositivi elettronici siano talmente affidabili da garantirne il controllo totale, quindi in certi casi prescriviamo le operazioni con il cavo, e tutto questo quando non è dimostrata l’affidabilità totale del controllo del drone. Si tratta soprattutto dei casi di riprese cinematografiche, oggetto di molte richieste che ci pervengono. Il cavo garantisce che, nel caso di perdita di controllo in zone critiche, come può essere una piazza del centro di Roma, si riporti a terra il drone senza problemi.

D. Come si può punire l’abuso di coloro che usano droni senza essere in possesso dei requisiti richiesti?
R. Con le Forze dell’Ordine abbiamo rapporti quotidiani sotto questo punto di vista, ma noi facciamo le regole, poi è chiaro che esse devono essere rispettate e che per farlo ci vuole la coscienza civile. Una delle cose che stiamo facendo è lavorare per identificare coloro che utilizzano il drone, apponendo ad esempio targhette con codice a barre così che tali mezzi possano essere rintracciabili, oppure più semplicemente tenere un registro degli utilizzatori tale che all’occorrenza si possa individuare chi è che ha fatto danno. Ovviamente le sanzioni non dobbiamo stabilirle noi.

D. Posso prendere un drone, portarlo in un altro Paese e farlo volare lì?
R. No, in questo momento ci sono le barriere, non c’è riconoscimento. Con gli altri Paesi ci sono scambi continui di notizie, informazioni e regolamenti, ma non c’è un riconoscimento. Ognuno ha le proprie regole di volo. Nelle proprietà private l’operatore si assume la responsabilità, ma noi stiamo sempre parlando di ambienti pubblici. Per un drone straniero in Italia il discorso è lo stesso, e la buona norma vuole che si capisca che tipo di autorizzazione ha e così convalidarne il volo se presenta caratteristiche simili a quelle richieste. In futuro ci saranno condizioni di reciprocità, una volta che sarà emanata la regolamentazione europea, già in fase di sviluppo; l’Easa sarebbe pronta, a fine anno, con una prima bozza per i droni di semplice costruzione, e presto potremmo avere regole internazionali.

D. Ci sono limiti di velocità e di tempo per il volo?
R. L’utilizzo del drone, almeno in attività quali osservazione, rilevamenti e fotografie, non è lunghissimo, parliamo di un tempo di 15-20 minuti, dopodiché il mezzo deve tornare, anche perché ha delle batterie che ne limitano l’autonomia. Certo è che quando cominceranno a volare i droni a combustibile il problema si porrà, oggi l’autonomia è limitata ad una mezz’ora e niente più, e costa poco farlo scendere e cambiare la batteria.

D. La telecamera deve essere verificata?
R. No, non ci occupiamo della telecamera, l’importante è che sia istallata in maniera sicura, poi la sua tipologia dipende dall’uso che se ne voglia fare. Oggi ci sono droni con telecamere notevoli o con più telecamere. Per quanto riguarda la privacy, quando abbiamo fatto il primo regolamento abbiamo interpellato anche l’Autorità che ci ha suggerito una frase che abbiamo riportato nel regolamento, che fondamentalmente dice che l’operatore è responsabile di utilizzare il drone nel rispetto di tutte le norme della privacy, quindi non può andare a fotografare delle persone o guardare dentro le case, quindi chiaramente la privacy impone delle regole ma poi dopo è la coscienza e la moralità dell’operatore che ne deve fare buon uso.

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Luglio/Agosto 2015

 




VITO RIGGIO: ALL’ENAC SPETTA REGOLAMENTARE IL FUTURO, E AL FUTURO NON SI PUÒ DIRE DI NO

Il codice della navigazione, all’articolo 743 come emendato dal decreto legislativo n. 96 del 9 maggio 2005, definisce aeromobile «ogni macchina destinata al trasporto per aria di persone o cose. Sono altresì considerati aeromobili i mezzi aerei a pilotaggio remoto, definiti come tali dalle leggi speciali, dai regolamenti dell’Enac e, per quelli militari, dai decreti del Ministero della Difesa. Le distinzioni degli aeromobili, secondo le loro caratteristiche tecniche e secondo il loro impiego, sono stabilite dall’Enac con propri regolamenti e, comunque, dalla normativa speciale in materia». È dunque all’Ente nazionale per l’aviazione civile che spetta l’arduo compito di regolamentare «il futuro», ciò che era nei film fino a poco fa, città prese d’assalto da mezzi volanti e privacy, sicurezza, libertà messe in discussione: i mezzi aerei a pilotaggio remoto (Sapr), comunemente noti come droni, sono aeromobili caratterizzati dall’assenza di un equipaggio a bordo. Tanto basta per capirne sia le potenzialità, sia i rischi connessi al fatto che il volo di un drone è governato da diverse tipologie di «flight control system», gestiti in remoto da piloti a terra. Ma al futuro non si può dire di no.

Così l’Enac ha accolto le richieste delle quattro associazioni di settore – Assorpas, UASIt, Fiapr e AIDroni – e sta oggi rivedendo la normativa dedicata ai velivoli comandati a distanza, rendendone pubblica una versione preliminare, e alleggerendo tensione e regole. L’interesse per l’impiego di questi aeromobili negli ultimi tempi sta crescendo esponenzialmente in diverse attività per le potenzialità di impiego che si intravedono tra cui sorveglianza del territorio, rilevamento delle condizioni ambientali, trasmissione dati, riprese aeree, impieghi agricoli, compiti di ordine pubblico; ma resta complesso e pericoloso l’impiego di un dispositivo che supera anche i 25 chili, che può cadere, attraverso il quale possono essere compiute azioni lecite ed illecite (tratto dalla stampa: di recente un ingegnere indiano ha inserito a distanza un virus nel software del velivolo e lo ha dirottato).

L’Enac (e con lui l’Italia) è stato tra i primi enti in Europa a dare formalità alla questione: il regolamento «Mezzi aerei a pilotaggio remoto» viene incontro alle esigenze espresse da costruttori e operatori del settore di avere un quadro regolamentare di riferimento in grado di garantire uno sviluppo ordinato e in sicurezza di questa nuova realtà. Non esiste ancora un unico standard di riferimento europeo, e l’Icao (International Civil Aviation Organization) è impegnata a sviluppare le modifiche agli allegati per ricomprendere nella loro applicabilità anche questi mezzi. I Sapr possono essere utilizzati anche per applicazioni in ambienti ostili come monitoraggio di incendi, ispezioni di infrastrutture e di impianti, sorveglianza del traffico stradale. In questo contesto rappresentano anche un’opportunità di sviluppo per l’industria nazionale dei costruttori di Sistemi aeromobili a pilotaggio remoto.

Ne parla Vito Riggio, presidente dell’Enac.

Domanda. Già verso il secondo regolamento. Cosa dobbiamo attenderci?
Risposta. Siamo stati tra i primi in Europa a fare un primo regolamento, adesso elaboriamo il secondo tenendo conto di una serie di osservazioni che sono emerse in questo primo periodo. Al momento ci concentriamo sull’uso dei droni, più avanti verificheremo se ci saranno garanzie di sicurezza anche per l’impiego nei trasporti.

D. Un drone che trasporterà merci e persone senza pilota, ossia un vero e proprio mezzo telecomandato?
R. Questo è ancora in fase sperimentale.

D. Quali sono i punti che l’Enac ritiene più rilevanti?
R. Ci confrontiamo con problemi molto grandi: se fuori e in campagna gli amatori possono godere di una relativa tranquillità, ma tenendo sempre sotto controllo il comando del drone, per quanto riguarda la città sono molto cauto perché capisco le esigenze connesse all’uso di tale strumento, ma capisco ancora di più la sicurezza. In città e nei centri abitati il drone può cadere e provocare lesioni gravi o la morte di chi è colpito; i mezzi superiori ai 25 chili sono dei veri e propri aerei, è necessaria un’autorizzazione con relativo corso.

D. Si sta assistendo alla proliferazione dei corsi per droni. Sono tutte sicure e certe e, soprattutto, l’esperienza di questi pochi anni di attività dei droni può essere sufficiente a lasciare il mercato libero per le scuole?
R. In questo periodo ci sono una sessantina di scuole, mi sembra esagerato. Diciamo che è la moda del momento, ci si illude del fatto che adesso si è aperto un nuovo campo di lavoro e che tutti possono diventare piloti di droni. Speriamo sia così, ma con cautela.

D. Però sicuramente può portare lavoro.
R. Da una parte sì, ma non so quanto. Spero che il mercato si sviluppi, porti lavoro e si investa soprattutto nella ricerca e nella sicurezza. È chiaro che si apre un campo su cui dobbiamo lavorare, anche d’intesa con gli americani e con la Commissione europea, per cercare di sviluppare tutte le applicazioni possibili ed avanzate.

D. La sicurezza come la si può monitorare, oltre che prevenire?
R. Impedendo l’uso dei droni in città e nei luoghi affollati. Per operazioni in tali contesti si dovrà chiamare un esperto certificato dall’Enac, non chiunque: non ci s’improvvisi pilota di droni. Il drone non è un giocattolo, è questo il messaggio che deve passare, e anche se di soli 5 chili può recare grandi danni. Bisogna essere in grado di pilotarlo.

D. Ci sono problemi anche connessi alla privacy.
R. Questo lasciamolo al Garante, a cui spetterà stabilire delle norme, noi ci occupiamo della parte tecnica. La privacy ormai è ridotta al minimo, e il Garante fa molto poco per tutelarla: lasciamogli almeno i droni.

D. Quali sono le linee principali del regolamento?
R. La prima è che sopra i 25 chili ci vuole un vero e proprio brevetto da pilota, mentre per quanto riguarda i droni sotto i 25 chili stiamo rivedendo le norme. Sarà comunque necessaria la certificazione e l’autodenuncia per l’impiego del drone, e si faranno indagini sull’attendibilità di chi opera.

D. Anche prescrivendo un patentino, questo si prende con sole poche ore di scuola: quanto è congeniale?
R. Poche ore di scuola sono già qualcosa, poi se c’è bisogno di fare di più si farà di più, però già il fatto d’identificare il drone come un vero e proprio oggetto volante, e quindi un aereo sia pure pilotato a distanza, è un’affermazione di principio importante. Il pilota di droni è un pilota vero e proprio.

D. Tranne per il fatto, non di poco conto, che non rischia la propria vita ma la fa rischiare solamente agli altri, questa è l’unica differenza con i piloti regolari che salgono a bordo, forse con più responsabilità.
R. Non è una differenza da sottovalutare, dobbiamo trovare l’equivalente, non possiamo impedire lo sviluppo tecnologico perché provoca un danno, si tratta invece di prevenirlo e di regolarlo, e a questo penseranno gli esperti a livello internazionale.

D. Quali sono le differenze con gli altri Paesi?
R. Si sta cercando di armonizzare il tutto a livello europeo, ognuno però è andato un po’ per conto suo. È un problema nella Commissione parlamentare europea fare un regolamento, che prima si fa e meglio è.

D. Perché in Italia è intervenuto l’Enac invece che il Parlamento?
R. Il Parlamento italiano non c’entrerà mai, anche perché l’Enac ha piena autonomia sul piano tecnico e non ha bisogno del Parlamento perché applica i regolamenti. Quando interviene il regolamento europeo il Parlamento italiano cessa di avere autorità. Noi abbiamo delegiferato tutta la materia tecnica dell’aeronautica, e quando non ci sono regolamenti c’è l’autonomia tecnica dell’Enac; il Parlamento non riesce a fare le leggi importanti, figuriamoci una legge sui droni.

D. Come siete giunti alla definizione di queste norme, chi avete interpellato?
R. C’è stata una consultazione nella bozza del regolamento con delle associazioni che si sono appena costituite con gli utilizzatori di questo mezzo, ma ci fidiamo molto del fatto che noi siamo presenti in tutti gli organismi internazionali, soprattutto con il nostro vicedirettore generale Benedetto Marasà che fa parte, insieme al direttore generale, di tutti i comitati sulla sicurezza e di tutti gli organismi internazionali con ruoli di rilievo. L’Italia è considerata al sesto posto nel campo dell’aviazione civile nel mondo.

D. Perché avete ritenuto non necessario un certificato acustico?
R. Perché questi strumenti non superano le soglie consentite di rumore. Il vero rumore in città lo fanno le macchine, il vero problema è il disastro urbano.

D. Il drone ha dei limiti di altezza?
R. È evidente che dipende dal peso perché quelli sopra i 25 chili hanno una propulsione maggiore, quelli sotto i stanno in uno spazio vigilato, devono esservi meccanismi anticollisione e devono poter essere tracciabili nello spazio, come tutto quello che si muove. Ci sono droni di oltre 300 chili.

D. Dove pensa ci porterà questa evoluzione?
R. Penso che noi, in generale e non solo nel pilotaggio remoto, avremo il chilometro zero in tutto il mondo: nel prossimo futuro si arriverà in qualunque parte del mondo in 2 ore e non più in 24, faccio riferimento al volo superorbitale. Per i droni nello specifico non so dire, di certo aiuterà a vedere cose che a terra non sono visibili, importantissime dal punto di vista della tutela del patrimonio dei beni culturali, della vigilanza antincendio, della vigilanza sulle linee elettriche; si potranno prevenire incendi, rotture, guasti. Il resto deve ancora venire, può darsi che nel settore dei trasporti si riesca a consegnare la merce in un centro di smistamento in modo più sicuro e veloce di quanto accada adesso. È come le applicazioni, il drone è una grande «App», ovviamente c’è bisogno di gente che ci metta cervello e soldi per svilupparla. L’interesse c’è, e come tutte le App che hanno un rendimento economico, stanno sul mercato e sono finanziabili, si trovano i soldi: il mondo è pieno di soldi, sono le idee che spesso mancano.

D. Il drone notturno invece, ci sarà?
R. Ci stanno lavorando. Non è difficile dal punto di vista della tecnologia.    (ROMINA CIUFFA)

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