TANIA SCACCHETTI: CGIL, TRA VOUCHER E CARTA DEI DIRITTI UNIVERSALI DEL LAVORO

L’assemblea della Cgil ha eletto il 29 novembre 2016 la nuova segreteria confederale nazionale con l’83 per cento. Cinque i nuovi ingressi al fianco di Susanna Camusso: tra questi anche il nome di Tania Scacchetti, segretaria della Camera del Lavoro di Modena. Nata 43 anni fa a Modena, Tania Scacchetti, sposata, due figli, diplomata al liceo classico, comincia la propria esperienza sindacale nella categoria del commercio da delegata della Cir (Coop italiana ristorazione) mentre frequenta la facoltà di Sociologia a Trento. Nel 2000 entra in distacco alla Filcams Cgil e nel 2005 viene eletta nella segreteria provinciale della categoria. Due anni dopo passa alla segreteria confederale di Modena, dove assume la responsabilità dell’area welfare. Il 3 dicembre 2012 il comitato direttivo della struttura la elegge, a larga maggioranza, nuovo segretario generale provinciale della Cgil di Modena ed è stata riconfermata il 5 marzo 2014, al termine dei lavori del XVII Congresso provinciale. Il 29 novembre 2016, al termine della votazione dell’assemblea generale della Cgil, entra a far parte della segreteria nazionale.

Domanda. Il lavoro occasionale sembrava, all’inizio, un ottimo incentivo nell’attuale crisi del lavoro, dando la possibilità a più lavoratori di essere attivi, ivi inclusi i pensionati, le casalinghe, i disabili, gli extracomunitari, gli studenti. Quindi l’allargamento dell’utilizzo del buono anche ai settori professionali. Da cui i famigerati «voucher». Cosa pensa la Cgil del voucher in sé e delle modalità in cui esso è stato abolito, dopo una campagna che ipotizzava il referendum per il 28 maggio?
Risposta. In Italia il sistema dei voucher ha subìto notevoli variazioni e modifiche. Nel 2003 i buoni lavoro erano destinati solo ai soggetti a rischio esclusione sociale per attività lavorative di natura meramente occasionale, e il campo di utilizzo era riservato esclusivamente a piccoli lavori domestici, assistenza ai bambini e agli anziani, ripetizioni, lavori di giardinaggio, e per manifestazioni culturali e sociali. Tra il 2010 e 2012, lo strumento del voucher ha perso ogni riferimento alla occasionalità, tutti i soggetti e tutti i settori potevano utilizzarlo, con il solo vincolo del tetto economico. Divenne così uno strumento malato, abusato e irriformabile perché sostitutivo del lavoro ‘buono’. Per questo ne abbiamo chiesto l’abrograzione tramite uno dei quesiti referendari a supporto della nostra proposta di legge, la Carta dei diritti universali del lavoro. Oggi siamo di fronte ad una prima vittoria: il Governo ha varato un decreto che ne prevede la cancellazione, ora aspettiamo che il Parlamento faccia la legge, a quel punto potremo dire di aver compiuto un grande passo contro l’impoverimento continuo del lavoro e dei suoi diritti, come unica logica della competizione.

D. Crede che un referendum avrebbe ammesso il voucher o lo avrebbe abolito? Quali sono le prossime iniziative della Cgil per movimentare il Governo e il Legislatore?
R. Da molti mesi siamo impegnati, prima con le assemblee, poi con la raccolta firme e adesso con la campagna elettorale, a discutere e a confrontarci con i cittadini ed i lavoratori. Abbiamo riscontrato molta condivisione sui temi proposti e la volontà di rimettere al centro del dibattito e delle scelte politiche del Paese i diritti del lavoro. Siamo certi che i referendum popolari avrebbero mobilitato molti elettori e trovato il loro sostegno. Finché non avremo una legge in merito che fa decadere la consultazione referendaria, prevista per il 28 maggio, continuiamo la nostra campagna elettorale. In programma abbiamo numerose iniziative su tutto il territorio nazionale e l’8 aprile si terrà a Roma un attivo nazionale dei nostri quadri e delegati per organizzare la nostra sfida per i diritti e conquistare la Carta dei diritti universali del lavoro.

D. Sembrerebbe che l’introduzione dei «buoni-lavoro» abbia, piuttosto che ridurlo, aumentato il lavoro nero. Vero? In che modo? In realtà, molto spesso i voucher sono stati utilizzati come «fuori-busta», una sorta di ricatto anche al dipendente. Cosa ne pensa?
R. Siamo certi che l’uso dei voucher abbia favorito e non ridotto il lavoro nero. In questi anni di completa deregolamentazione dell’utilizzo dei buoni e in assenza, quasi totale, di percorsi certi e controllati di tracciabilità, il voucher, in molti casi, ha remunerato solo una parte residuale delle ore di lavoro svolte da una persona. Un fenomeno diffuso rilevato anche dall’Inps. Il fatto che non esista un contratto a normare l’uso dei voucher, ma che il rapporto sia solo fra il prestatore e l’utilizzatore rende certamente ricattabili i lavoratori: molti ci riferiscono che viene loro detto che li si farà lavorare solo se sono accettati i voucher.

D. E in che modo con l’impiego dei voucher possono essere tutelati i diritti fondamentali del lavoratore (a partire dagli infortuni sul lavoro o la maternità)?
R. I lavoratori pagati con i voucher non hanno tutele, non hanno diritto alla malattia, alla maternità, alle ferie, ai permessi o alla disoccupazione. La maggior parte dei ‘voucheristi’ non riesce ad accumulare un numero di contributi utili a maturare un mese di contribuzione all’anno.

D. Con l’eliminazione del voucher, in che modo possono essere aiutati i lavoratori più deboli? E come tutelarli?
R. Noi abbiamo una nostra proposta, contenuta nella Carta dei diritti, per normare il lavoro occasionale e considerarlo nell’ambito del lavoro subordinato, quindi riconoscendo tutti i diritti previsti dallo stesso. Crediamo che il contratto di lavoro subordinato occasionale debba avere natura meramente occasionale e saltuaria ed essere attivato solo per studenti, inoccupati, pensionati e disoccupati per piccoli lavori domestici, familiari o per la realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali di piccola entità. Pensiamo inoltre che opportunità di qualificazione professionale possano rappresentare un sostegno per i lavoratori più deboli.

D. In che modo l’Italia può combattere l’elusione e l’evasione? Ci sono proposte CGIL che riguardino il lavoro nero e che non è accettata dai vari Governi? Quali sono?
R. In Italia ogni anno vengono evasi dai 91 ai 180 miliardi di euro, 47 solo di Iva, risorse preziose che vengono sottratte al rilancio dell’economia. Infatti, i miliardi evasi non ingrossano né i consumi né gli investimenti, ma sono accumulati prevalentemente in ricchezze private. Per questo crediamo serva una vera e grande lotta all’evasione fiscale per l’equità, l’efficienza e lo sviluppo del Paese. È necessaria una riduzione strutturale della ricchezza evasa più che il recupero di una imposta ormai non pagata. Proponiamo una serie di azioni volte alla trasparenza della formazione del reddito e alla repressione delle irregolarità attraverso la tracciabilità, la rapidità e la semplicità delle informazioni sui movimenti di beni, servizi e denaro, e lo sviluppo tecnologico. Tutto ciò però non può prescindere da una forte volontà politica.

D. I giovani sono patrimonio italiano. Per quanto ormai si parla di giovani anche quando si tratta di ultraquarantenni… Non siamo più un Paese dove il lavoro è un diritto, la meritocrazia una garanzia, una vita «normale» scontata. Molti non fanno figli perché non hanno lavoro né casa. Si fugge dall’Italia, perdiamo così tutto l’investimento fatto sull’istruzione e la formazione, ma forse la piaga più grande è proprio quella dei «giovani» che in Italia restano. Se ne parla, se ne parla, se ne parla… eppure i curricula non arrivano mai da nessuna parte e non vengono letti. Il nepotismo prevale. Le paghe sono al limite del vergognoso. Dov’è finita la «dignità»?
R. Per la Cgil la vera emergenza sociale del Paese è la disoccupazione giovanile e l’aumento dei giovani intrappolati nella condizione di Neet (Not in Education, Employment or Training, ndr). Le riforme del lavoro, ultima il Jobs Act, e il programma europeo di Garanzia Giovani non hanno rappresentato una svolta per la condizione giovanile, anzi hanno contribuito alla precarizzazione e al proliferare di tirocini che raramente si sono trasformati in stabili occasioni di lavoro. Il programma europeo può rappresentare un’importante opportunità, se però non lo si utilizza solo come ‘escamotage’ dalle imprese per ridurre il costo del lavoro. Riteniamo che non sia più rinviabile una discussione su un piano straordinario per l’occupazione giovanile, come proponiamo da tempo.

D. Cosa pensa la CGIL del problema degli immigrati? In generale e dal punto di vista del lavoro. Una posizione chiara? Proposte ferme?
R. Innanzitutto il fenomeno migratorio non è un problema, ma una risorsa, una grande opportunità sia per chi parte sia per le società che accolgono. In Italia, così come in tutti i Paesi di destinazione, la forza lavoro degli immigrati rappresenta un sostegno prezioso perché spesso utilizzata per compensare la carenza di risorse interne in determinati ambiti produttivi e, in generale, per contrastare il progressivo invecchiamento della popolazione. In questi lunghi anni di crisi, i lavoratori stranieri hanno ricoperto un ruolo ancor più centrale per le dinamiche occupazionali. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un’inversione di tendenza: gli emigrati italiani all’estero sono cresciuti più degli immigrati in Italia, e spesso, purtroppo, a partire sono i giovani, con una grande bagaglio, quello formativo. Per questo ribadisco la necessità di un piano straordinario per l’occupazione giovanile.

D. Per quanto riguarda le pensioni, come possiamo immaginare un futuro che ci garantisca di recepirle, e, soprattutto, com’è possibile che si continui ad aumentare l’eta pensionabile ma senza possibilità di trovare lavoro?
R. Gli effetti di una riforma sbagliata come quella Fornero sono sotto gli occhi di tutti. L’innalzamento dell’età pensionabile ha penalizzato moltissime persone poiché i lavori non sono tutti uguali ed è impossibile continuare a svolgere determinate mansioni ad una certa età. Ma, soprattutto, spostare sempre più avanti i requisiti per l’accesso alla pensione costituisce un impedimento alle assunzioni dei giovani. Da mesi siamo impegnati unitariamente per modificare la legge. Con l’ultima manovra abbiamo ottenuto alcuni risultati per la tenuta del potere di acquisto dei pensionati e per consentire ai lavoratori precoci, in determinate condizioni, di accedere alla pensione con il requisito di anzianità di 41 anni, un diritto che secondo la Cgil dovrebbe essere esteso a tutti. Inoltre nella legge di stabilità si prevedono due misure: l’Ape volontaria, strumento per noi negativo ed ingiusto poiché vincola l’accesso anticipato alla pensione ad un vero e proprio mutuo, e l’Ape sociale, in cui, per lavoratori in determinate condizioni di svantaggio, il costo del prestito è a carico dello Stato. I decreti attuativi relativi a questi interventi, in via di definizione, presentano alcuni limiti, in particolare la definizione di platee molto ristrette. Andrà poi affrontato il nodo di come garantire un futuro previdenziale universalistico e dignitoso alle giovani generazioni, che si affacciano tardi nel mercato del lavoro, hanno spesso carriere discontinue e basse retribuzioni. Questi ed altri temi sono oggetto di un confronto per noi necessario e sul quale manteniamo aperta la mobilitazione sindacale.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Aprile 2017




CONFSAL: MARCO PAOLO NIGI, VOUCHER O NON VOUCHER SI “VUOLE” EVADERE

Per lui, il sindacato è una scuola di vita. Scuola anche perché è dalla scuola che proviene, come professore. Segretario generale della Confsal, principale Confederazione dei sindacati autonomi, e dello Snals, storico rappresentante dei lavoratori della scuola, spiega la sua visione tout court sullo stato generale del mondo del lavoro, a partire dai famigerati «voucher».

Domanda. Cosa pensa dei voucher?
Risposta. Il voucher poteva servire a diminuire il lavoro nero ma per come è stato proposto ha dimostrato il contrario, e cioè il suo stesso aumento, un paradosso.

D. In che modo ciò è accaduto?
R. Il primo errore commesso dal Governo è stato quello di non distinguere le categorie: non si può assolutamente pensare di abbracciarle tutte sostituendo la retribuzione con i voucher. Dovevano essere esclusi innanzitutto i lavoratori dipendenti che non possono accedere ai voucher perché hanno i contratti che li tutelano sotto il piano fiscale, retributivo e contributivo; dovevano invece essere incluse altre categorie quali i lavori cosiddetti domestici, a cominciare da giardinieri, casalinghe, elettricisti, falegnami, donne delle pulizie, perché non si possono tutelare con contratti di lavoro occasionale. Eppure i voucher sono stati estesi dal settore «domestico» a quello professionale. La paura nei riguardi di una Confederazione come la Confsal – che aveva detto che avrebbe raccolto le firme per il referendum e, di fatto, le ha raccolte -, più in generale la paura di perdere il referendum, ha portato il Governo a fare un altro errore: non a modificare lo strumento ma a toglierlo di mezzo. E questo è stato un secondo errore, perché il voucher costituisce di base un’idea valida.

D. In che modo i voucher hanno inciso o inciderebbero sulla pensione?
R. Le pensioni sono un sistema che si regge in piedi su un equilibrio finanziario entrate=uscite, è così che garantiamo a tutti le pensioni. Ma nel momento in cui si presenti un disavanzo esso va coperto, altrimenti non è possibile pagare le pensioni, sperando inoltre che i più anziani muoiano, e si dà una reversibilità a una percentuale più bassa. Se si aggravano le uscite bisogna agire sulle entrate e ciò lo fa lo Stato con l’aumento del debito pubblico. I problemi del mondo d’oggi che interagiscono con le pensioni sono anche le coppie di fatto, le unioni civili, i matrimoni con le donne dell’est che si lasciano sposare e ottengono la pensione di reversibilità. Così, a forza di aumentare l’età pensionabile, arriveremo a cento anni. Noi riteniamo che sia necessario aumentare il numero dei contribuenti, per questo eravamo favorevoli ai voucher, concettualmente utili alla lotta all’evasione fiscale e al sommerso. Il voucher è stato creato dal Governo Berlusconi, poi cambiato dai premier successivi Monti e Renzi; prima erano lotta all’evasione, poi si sono trasformati in un incentivo perché invece di assumere, al datore è proposto il voucher, e il resto è dato al nero.

D. Può essere anche considerato come un ricatto al dipendente?
R. Certo, il datore di lavoro cerca di risparmiare sempre mentre il lavoratore è una categoria debole che pur di guadagnare, soprattutto in tempi di crisi, accetta qualunque compromesso. In realtà l’evasione non si risolve perché non ce n’è la volontà, non perché non ce ne siano le possibilità.

D. Secondo la sua esperienza, nel referendum chi avrebbe vinto?
R. Avrebbe vinto chi proponeva il referendum, ossia chi ne voleva l’eliminazione, perché anche i lavoratori si sono resi conto che questi bonus per il lavoro accessorio non andavano a loro vantaggio, peraltro non garantendo nemmeno i diritti classici come in caso di incidente sul luogo di lavoro o i mesi dedicati alla maternità. Dai voucher il «piacere» lo hanno avuto solo i datori di lavoro e questo molti lavoratori lo sanno.

D. I voucher vengono usati negli altri Paesi, ma funzionano?
R. Funzionano e ci sono, come in Germania e nei Paesi del nord.

D. Manca la dignità del lavoro: come si spiega che all’estero le cose funzionino, mentre da noi è un’epopea?
R. In atto ci sono tanti contrasti; il primo è quello di un fisco europeo diverso da nazione a nazione. La paga oraria di un operaio tedesco è uguale alla paga di un operaio italiano, 19 euro l’ora, però il netto che percepisce il lavoratore tedesco è il doppio di quello che percepisce il lavoratore italiano perché il 53-55 per cento glielo porta via la tassazione. Si ha una moneta unica, una politica unica, ma un fisco diverso, quindi la prima cosa che dovrebbe farsi è unificare il fisco in modo che la paga netta di un operaio sia uguale per tutti.

D. E i giovani come faranno?
R. Vorrei fare un discorso partendo più da lontano: è la scuola che mette nelle condizioni di non essere meritevoli. Oggi sono usati solo due voti, il 9 e il 10, e il 5 non lo da più nessuno altrimenti i genitori divengono subito i sindacalisti dei propri figli. Quindi c’è un diritto allo studio ma non c’è un dovere di studiare: in Italia bisogna cambiare la scuola perché se non c’è istruzione non c’è futuro, bisogna rivalutare il ruolo sociale degli insegnanti. I giovani devono fare un percorso di istruzione, educazione e formazione, ci vorrebbe una scuola diversa, dove si studia, dove ci si impegna e dove va avanti il merito. Bisognerebbe aumentare gli anni per la preparazione di base e diminuire gli anni universitari, invece si sta facendo il contrario. L’ho definita umoristicamente la «teoria dell’uovo sodo»: se si mette un uovo a sodare per oltre 6 minuti l’uovo diventa verde ed è da buttare. I giovani di oggi sono diventati verdi. Ho cominciato a insegnare nel 1968 e guadagnavo 107 mila lire al mese, ora gli insegnanti prendono circa 1.200 euro, ma non c’è né paragone né proporzione perché se prima una stanza costava qualche milione di lire, adesso ci vogliono migliaia di euro, per cui un giovane non può neppure comprarsi casa. C’è da dire un’altra cosa; allora era poca la retribuzione ma era alta la considerazione sociale, ora un giovane insegnante viene definito non all’altezza. Bisogna ripartire dall’investimento nella scuola, non considerarlo un costo: non va tagliato bensì considerato un investimento redditizio. Stanno cercando di massificare tutti i cervelli in modo che non abbiano elementi di criticità e che siano manovrabili.

D. Credete ancora nel potere dello sciopero?
R. Lo sciopero è un’arma obsoleta cui un sindacato moderno non dovrebbe neanche pensare, andava bene una volta quando ci si credeva e quando c’era un padrone, una controparte; oggi questa figura non esiste più, non esistono più né l’operaio né il padrone. Se persiste l’attuale situazione di crisi, si possono determinare proteste non controllabili o l’utilizzo estremo dello sciopero. Ultimamente si sono visti gli orrori da parte della Pubblica Amministrazione e del potere politico, che farebbero arrabbiare anche le persone più pacifiche. La storia degli 80 euro introdotta dal Governo Renzi, ad esempio: hanno calcolato questi 80 euro andandoli a sommare al reddito e quindi chi ne usufruisce deve pagare ulteriori tasse, portando i contribuenti all’esasperazione. Inoltre, così facendo hanno parificato colui che prendeva uno stipendio di non oltre 1.300 euro con colui che aveva ottenuto, per scelta del datore, uno stipendio da 1.380, in un certo senso colpendo la meritocrazia anche qui. Altra cosa grave accaduta di recente è stata quella di consentire a Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle di mettere treni sulla nostra linea ferroviaria, causando una congestione del traffico con spaventosi ritardi e non dando alcun vantaggio ai contribuenti nonché viaggiatori, perché i binari si sono «intasati» e si corre sempre il rischio che un treno si fermi e blocchi gli altri. Tutto questo si è fatto per liberalizzare, perché quegli stessi che volevano nazionalizzare sono gli stessi che ora vogliono privatizzare; coloro che hanno rovinato l’agricoltura sono gli stessi che oggi danno gli incentivi per tornare a coltivare la terra. Possono permettersi di farci qualsiasi cosa.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2017

 




TRANSESSUALISMO: L’INTERVISTA A UN’EX DONNA OGGI UOMO BISEX E A UN EX UOMO OGGI LESBICA

L’intervista di Romina Ciuffa ai trans Davide e Mirella (su Panorama). Davide era femmina, amava le femmine, oggi è maschio bisex. Mirella, ex ragazzo etero, è lesbica.

Anche su www.archivio.panorama.it/archivio/Tra-uomini-e-donne-non-ci-sono-confini e, alla fine dell’articolo, la versione del cartaceo originale

Impegnata nel sociale, giornalista corrispondente da New York per Panorama, scrissi nel 2006 questa doppia intervista nella quale confrontai i punti di vista di due transessuali: una donna divenuta uomo ed un uomo divenuto donna. A quei tempi non v’era comunicazione sul tema e le lotte, faticose, hanno condotto a miglioramenti nel campo LGBT. Le parole contenute in questo mio lavoro aiutano a comprendere meglio la differenza tra orientamento di gender e orientamento sessuale, che fanno sì che una donna che diventi uomo preferisca spesso intrattenere relazioni con un altro uomo e, dall’altro lato, un uomo che transizioni in una donna finisca per divenire lesbica. Inoltre, dà diretta compiutezza del morboso e sofferente senso identitario di taluni di sentirsi nati in un corpo sbagliato (ultimo film uscito in proposito, “3 Generations“), che gli psichiatri classificano come disturbo dell’identità di genere (spesso abbreviato in DIG), rinominato disforia di genere nel DSM5 (la versione più recente del Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali), una condizione in cui si ha una forte e persistente identificazione nel sesso opposto a quello biologico. Viene definito “transessuale” ai fini del cambio di sesso solo chi non ha psicopatologia associata: chi non ha un disturbo mentale. È ovvio che, nel caso di una depressione associata o disturbi alimentari, molto frequenti, o altro, questi possano essere derivati dalla condizione del DIG, ossia dalle esperienze negative connesse a tale problematica ma non intrinseche ad essa. Il termine disforia di genere venne introdotto nel 1971 da Donald Laub e Norman Fisk. È poi possibile che la sintomatologia psichiatrica dei soggetti DIG sia conseguenza di un PTSD (Disturbo post-traumatico da Stress) conseguenti a violenze sessuali subite o comunque legate a pregiudizi e atteggiamenti negativi verso le persone con varianze di genere. Questo tipo di esperienze traumatiche sono molto frequenti in tale popolazione Il DIG può comunque mascherare rilevanti problemi psichiatrici. Infine, anche il disturbo di dismorfismo corporeo è associato al DIG, benché inserito tra i disturbi facenti parte dello spettro del “Disturbo ossessivo complusivo e disturbi correlati”. In questa doppia intervista, pubblicata su Panorama, ascolto solo loro, non la società né la psichiatria.

Lui è nato femmina, ha sempre amato le donne, poi è diventato uomo, ora è bisessuale. Lei è nata maschio eterosessuale con esperienze omosessuali, poi ha avuto una parentesi come donna etero e adesso è lesbica. Sono Davide Tolu e Mirella Izzo. Il primo, autore dello spettacolo teatrale One New Man Show in tour per l’Italia, scrittore, portavoce del Coordinamento nazionale Ftm (femmine transizionanti maschio), solo da 12 anni è fisicamente uomo, dice: «Se non fossi riuscito a operarmi, mi sarei ucciso. Detestavo talmente quelle parti femminili che m’impedivano di essere me stesso che me le sarei amputate». La seconda, Mtf (maschio transizionante femmina), presidentessa onoraria di Crisalide azioneTrans, ex dipendente di Poste italiane e varie cariche sindacali, si definisce «diamante»:  «Perché non transizioni e non sopravvivi se non impari a essere dura».

Esiste un sesso intermedio?

Davide. In natura il confine tra i due sessi non è netto: il transessualismo è un fenomeno naturale in alcune specie di animali, così come l’ermafroditismo. Se nella specie umana il cambio di sesso non avviene spontaneamente, esistono però vari generi intermedi come l’intersessualismo e lo pseudoermafroditismo. È di scoperta recente l’esistenza di maschi che hanno patrimonio genetico femminile: si sono sviluppati come uomini anche se erano XX per una disfunzione genetica. Sono sterili, ma non hanno alcun problema di salute. Un’altra stoccata della natura alla presunzione umana di voler etichettare tutto prima ancora di conoscere.
Mirella. Non uno, ma esistono più sessi intermedi e orientamenti sessuali misti. La quasi totalità degli animali esprime comportamenti omosessuali a eccezione che nei periodi riproduttivi. La Chiesa continua a considerare gay e trans contro natura, mentre leoni e leonesse si dedicano al rapporto etero solo nel periodo fertile, i figli vengono accuditi da lesbiche e i maschi si concedono ad affettività gay. Anche i comportamenti trans sono frequentissimi. Senza scomodare i cambi di sesso spontanei nei pesci o l’ermafroditismo di molte specie, basta chiedere ai contadini, nei cui pollai ogni tanto un gallo si rifiuta di montare le femmine, non canta e cerca uova da covare, e le galline provano a inseminare.

A suo tempo l’onorevole Vladimiro Guadagno, in arte Luxuria, è stata colta dalla collega Elisabetta Gardini nella toilette parlamentare femminile. Ma in quale bagno deve andare una persona trans?

Davide. Da quando un guardiano della stazione mi buttò fuori dai bagni delle donne a 14 anni, ho cominciato ad andare in quelli degli uomini: per me è stato un riconoscimento della mia identità maschile, fuori e dentro. Per qualcuno i bagni unisex sarebbero più «politically correct», contrarie ai quali sono le donne perché «gli uomini sporcano di più». Credo che pulizie più frequenti siano la soluzione, come anche togliere le targhette dalle porte: quando una persona in transizione è costretta a scegliere, mette comunque in imbarazzo qualcuno.
Mirella. La direzione del mio ufficio alle Poste predispose un bagno solo per me, un’operazione di cortesia che rappresentava l’imbarazzo della dirigenza: modi gentili per separarti dagli altri attraverso il «privilegio segregante». Ma se è davvero una questione d’igiene, facciamo bagni anche per chi è circonciso e per chi non lo è, visto che cambia il controllo sul getto d’urina. E non sa la Gardini quante donne fanno la pipì in piedi? Mamme, insegnate ai vostri figli maschi a fare la pipì in piedi nei boschi e nei vespasiani e seduti nelle tazze e nelle turche: non saranno meno virili, solo più puliti.

Omosessualità e transgenderismo come si rapportano?

Davide. L’omosessualità si riferisce all’orientamento sessuale, il transessualismo all’identità di genere. Il trans Ftm è psicologicamente uomo e, come qualsiasi uomo, può essere etero, omo o bisessuale. Prima della transizione ho frequentato lesbiche, scoprendo che venivo percepito come uomo creando destabilizzazione nella loro percezione di sé. Fisicamente ero donna, uomo nell’identità, e non avevo né desideravo rapporti con uomini. Ora ne amo uno e rifiuto il limite imposto alla mia sessualità: proprio in quanto trans sono costretto a essere me stesso il più fedelmente possibile.
Mirella. Fare in un colpo solo il doppio salto mortale di sovvertire identità e orientamento sessuale dominante è troppo. Spesso si confonde il modello che si aspira a diventare con l’oggetto dell’attrazione; quasi tutti, ai primi stadi della transizione, per condizionamento sono o diventano etero rispetto al sesso di elezione. Una volta superato questo limite decide l’orientamento affettivo: chi cerca l’amore complementare si rivela etero, chi lo cerca affine omosessuale, come me. E in genere le donne, pure le lesbiche più rigide nel rifiuto del maschio, mi percepiscono donna. Anch’io vittima del condizionamento, ho ritardato di decenni la transizione poiché non riuscivo a coniugare il mio sentirmi femmina con l’attrazione verso questo stesso sesso, e ho dovuto sperimentare veloci approcci con uomini per autorizzarmi a valere come donna. Ora, dopo cinque anni con una compagna e altri al femminile, posso dire con serenità di essere lesbica. Attualmente single, purtroppo.

L’intervento ai genitali è un passo necessario?

Davide. No. Non tutte le persone trans desiderano l’intervento, ma il tribunale condiziona la modifica anagrafica del sesso all’intervento di rettificazione dei genitali, sia pure la legge non lo richieda espressamente. Una volta avuta l’autorizzazione, dopo una lista di attesa per l’intervento a carico del Servizio sanitario nazionale, avviene l’operazione e il tribunale registra la rettifica. Chi non accetta di sottoporsi all’intervento affogherà in un limbo giuridico per tutta la vita.
Mirella. Il bisogno di intervento è condizionato dal fatto che lo Stato ci consegna documenti e indicativi di genere adeguati alla nostra realtà solo se ci sottoponiamo a tale procedura. Ciò è semplicemente aberrante. Noi Mtf siamo discriminate anche qui: agli Ftm il Servizio sanitario nazionale passa la mastectomia perché un uomo con il seno non esiste, mentre è a nostro carico il costo della rimozione della barba. Evidentemente le donne con la barba vanno bene.

Ha completato la transizione?

Davide. Sì, e transizionare mi ha insegnato che le differenze tra sessi non sono nette: esiste una sorta di individuo-base che non è né maschio né femmina.
Mirella. L’ho completata, ma per me non ha voluto dire operarmi ai genitali, bensì far circolare estrogeni nel mio cervello femminile. Se la transizione cambiasse solo il corpo e non rimuovesse gli effetti del testosterone nella psiche servirebbe a poco,  lo scopo è trovare un equilibrio.

Passare nel corpo di un uomo e di una donna può aiutare a comprendere le differenze tra i  sessi?

Davide. Tra i nativi americani le persone transgender erano considerate un tramite naturale tra sessi e, perciò, dotate di innata saggezza. Se riconoscessimo le diversità come ricchezze scopriremmo che le persone trans non sono un peso ma una forza motrice, la cui sola esistenza dimostra che tra il maschile e il femminile c’è un continuum, non un confine netto. La transizione è un passaggio, non un abbandono totale di una vita per approdare a un’altra: non cambiamo identità ma adeguiamo il corpo, mezzo d’espressione che influenza la personalità al pari dell’essere bassi o alti.
Mirella. Siamo state spie nel mondo maschile, come gli Ftm lo sono stati nel mondo femminile.

È più facile la transizione per un Ftm o per un Mtf?

Davide. In una società patriarcale passare dal sesso femminile al maschile è visto come un avanzamento nella scala sociale. Gli atteggiamenti maschili in chi è nato donna sono maggiormente tollerati e un Ftm, al pari di una donna mascolina, può vivere nel limbo tra i sessi. Tollerato ma oppresso: gli Ftm nella storia non sono quasi mai riconosciuti tali. Allevati come femmine, se si vestono da maschi non destano scalpore. E i forti effetti del testosterone cancellano ogni traccia di ambiguità.
Mirella. La condizione transgender mette in luce il maschilismo: tradire il «privilegio» è imperdonabile. Mio padre, che per due anni si è rifiutato anche di parlarmi al telefono, un giorno disse a mia madre che se mia sorella avesse sentito di diventare uomo, avrebbe capito, ma io, io che ero uomo… no.

Maschilismo o femminismo?

Davide. Man mano che studiavo i capisaldi del femminismo e venivano a galla tutti i torti degli uomini, mi sentivo inconsciamente in colpa in quanto maschio (sia pure non ancora nel corpo) e mi sentivo un traditore. Stai scegliendo la strada più facile, mi dicevo, l’unico modo per rimediare alle umiliazioni subite dalle donne è che siano le stesse a ribellarsi: quindi, se vuoi fare qualcosa per loro, devi farlo da donna! È stata la mia crisi più tremenda. Ho capito che gli Ftm devono molto ai movimenti di liberazione della donna e omosessuale, ma ho abbandonato il collettivo ritenendo giusto che le donne se la cavassero da sole.
Mirella. Noi Mtf siamo già parte del movimento femminista. I movimenti transfemminista e translesbico in Italia sono ai primi passi, ma in paesi più evoluti stanno contribuendo a scrivere nuove pagine su un’identità femminile liberata dall’influenza dell’educazione alla sottomissione e un’identità lesbica che sappia esistere in modo non subalterno al maschile dominante. In Danimarca, il Partito femminista ha acquisito una leadership transgender-femminista e una politica più radicale contro la società maschilista. Gli Ftm, dal canto loro, hanno l’occasione per far nascere «l’uomo nuovo», liberato dai condizionamenti di un maschilismo violento contro le donne, ma contemporaneamente anche una stretta gabbia per gli uomini stessi.

Problemi sul lavoro?

Davide. Sì, tanti, specie per le ragazze. Ben Barres, neurobiologo e docente di neurologia e scienze neurologiche, è un transgender da donna a uomo. Recentemente ha denunciato il fatto che la sua vita come ricercatore è cambiata dopo la transizione. Quando era giovane fu, come donna, scoraggiata a frequentare il Mit (Massachusetts Institute of Technology) nonostante i risultati eccezionali conseguiti. E racconta che nel 1997, quando iniziò la sua vita al maschile, dovette sentire un collega dire a un altro: «Ben Barres ha tenuto un grande seminario oggi; certo il suo lavoro è molto migliore di quello della sorella». Ovviamente non esiste nessuna sorella di Ben, ma Ben prima della transizione. Superiorità genetica? No, maschilismo. Personalmente, non ho avuto problemi sul lavoro. Conta l’informazione, come quella predisposta in un opuscolo Crisalide-Cgil che spiega come gestire il rapporto persona trans/colleghi, le regole sulla privacy, l’utilizzo dei bagni, i permessi per gli interventi.
Mirella. I problemi sul lavoro sono infiniti. Io, come il 99 per cento delle neodonne. Trovare con documenti difformi un lavoro diverso da quello del lavascale è quasi impossibile. Sono grata alle agenzie di pulizia che guardano al lavoro svolto e non a cosa c’è fra le gambe. Tutti gli altri settori ci sono preclusi. Quando ho iniziato la transizione non potevano licenziarmi, ma ho subito tre anni di mobbing pesantissimo e ne sono uscita solo grazie all’intervento dell’unica dirigente donna dell’ufficio. Oggi sono invalida civile al 100 per cento per un aneurisma all’aorta causato dall’ipertensione di quegli anni. Ci abbiamo rimesso io, l’azienda che ha perso una buona impiegata, lo Stato che deve pagarmi una miserrima pensione a soli 47 anni. Se avessimo la privacy sul nostro percorso, le aziende non saprebbero. Dirò di più: una trans è un ottimo investimento perché, discriminata ovunque, scarica sul lavoro la voglia di rivincita.

Cosa chiedereste al governo?

Davide.Una legge all’inglese per il cambio di genere e nome a prescindere dall’intervento sui genitali e che non passi attraverso un giudice dove la persona transgender ha come controparte lo Stato. La copertura delle spese della transizione da parte del ministero della Salute. Una legge che recepisca in toto la direttiva europea secondo cui le norme per le pari opportunità si applichino anche a chi transizioni da un sesso all’altro o intenda farlo. Il tutto da aggiungersi alle revisioni in via d’approvazione della legge Mancino, che ha aggiunto orientamento sessuale e identità di genere fra le aggravanti dei reati per odio e pregiudizio, e della norma sul diritto di asilo che ha esteso a gay e trans il diritto di rifugiarsi in Italia da paesi dove essi sono puniti legalmente o attraverso gli squadroni della morte.
Mirella. Un’azione positiva sulla prostituzione transessuale, per molte Mtf unica possibilità di sopravvivenza a una famiglia che le ha abbandonate e a una società che non ha offerto il minimo spiraglio lavorativo. Quindi, i Pacs. Ho presentato una lettera al ministro per le Pari opportunità Barbara Pollastrini nella quale rilevo una falla nella legge 164 che regola il cambio di sesso; con soddisfazione constato che l’onorevole Luxuria ha fatto proprie queste osservazioni per ottenere una legge che preveda l’automatismo tra rettifica del sesso e cambio del nome anagrafico senza l’obbligo di chirurgia genitale. L’anomalia: in Italia sono vietati i matrimoni gay, ma una trans può chiedere l’autorizzazione all’intervento, poi non procedere alla seconda istanza di rettificazione anagrafica e, nel corpo di una donna ma ancora uomo sui documenti, realizzare un matrimonio lesbico autorizzato dallo Stato. Di fatto, posso sposare una lesbica. E non è detto che non lo faccia.   (ROMINA CIUFFA)

PANORAMA- Dicembre 2006




AMERICAN EXPRESS: MELISSA PERETTI, DIVERSIFICAZIONE DEI PRODOTTI MA ANCHE DELLE DIVERSITÀ UMANE

American Express viene fondata a Buffalo nel 1850 da Henry Wells e William Fargo come società di trasporto valori. Il logo, un cane poggiato sopra un baule, è già un forte richiamo alla sicurezza e alla protezione. Di strada questo cane ne avrebbe fatta molta. Intanto, il marchio nel 1891 inventa il «travel cheque», primo strumento prepagato della storia che contribuisce al rapido processo di internazionalizzazione dell’azienda. È nel 1958 che viene creata la prima carta di credito, che già prima del suo lancio riceve oltre 250 mila richieste e a soli tre mesi dalla comparsa conta già 500 mila titolari negli Usa. In Italia, le carte di credito personali sono lanciate nel 1971, quelle dedicate alle aziende nel 1979, e risale agli anni 90 il programma di fidelizzazione «Club Membership Rewards». A fine 2003 l’Amex raggiunge una quota di oltre un milione di titolari di carta in Italia. Nel tempo American Express è diventata «più di una semplice carta», offrendo valore aggiunto per il semplice uso della stessa: dal programma di fidelizzazione al «cash back» per il prodotto più giovane, dalle miglia e i punti accumulabili ai benefici esclusivi offerti dai partners. Oggi in Italia la società sta beneficiando di grandi cambiamenti: innanzitutto un trasferimento della sede romana principale di Cinecittà a quella di Via Eiffel, tutta trasparente, che ha consentito un cambio epocale. È l’introduzione dello «smart working», ma non solo: è l’avvio di specifiche attività di «Diversity & Inclusion», come il programma «Women in the Pipeline and at the Top», per incrementare il numero di dirigenti donne, o il «Pride Network», per promuovere i temi di inclusione della comunità LGBT. Infatti la diversità è sempre stato uno degli elementi più forti dell’American Express. Quindi, la nomina di Melissa Ferretti Peretti, già in azienda da molti anni, come direttore generale per l’Italia, anche riconosciuta dal Premio Bellisario per la sua eccellenza. Specchio Economico lo conferma. I lettori di Specchio Economico potranno farlo attraverso questa intervista, che dà conto dell’importanza di chiamarsi American Express.

Domanda. Iniziamo proprio dalla sua nomina e dalla femminilità in questo ruolo: l’American Express è molto attiva nell’attenzione alla parità di genere. Cosa ci può dire?
Risposta. La cosa più interessante in realtà non è stata solo la nomina di una donna, ma la nomina di una persona giovane e italiana: le tre componenti insieme rendono tale nomina particolare, ma credo che se anche fosse stato nominato un giovane adulto italiano sarebbe stato altrettanto importante, ciò avrebbe costituito una novità positiva per il mondo della finanza, soprattutto avvenendo nell’ambito di un marchio già forte, non una start up bensì un’azienda che lavora in Italia dal 1901 e che è nata, in America, 166 anni fa, nel 1850, facendo cose ben diverse da quelle che facciamo oggi: trasportando i valori con le carovane dall’est all’ovest e già rappresentando i valori della sicurezza, della security, del trust, dell’affidabilità. Infatti era un cane poggiato sopra un baule a rappresentare il brand, ossia proprio il valore della protezione, che ci siamo portati dietro in tutti questi anni di storia. Il fatto che un’azienda con un ruolo così rilevante nella finanza da cent’anni scelga, alla guida di un mercato importante come l’Italia – fra i primi tre europei e fra i primi otto nel mondo per Amex – una persona cresciuta in azienda e italiana secondo me è un segno importante. Che io sia donna non lo trovo altrettanto interessante, sebbene ciò comunque avvenga in un momento in cui si discute tanto del ruolo della donna dopo l’entrata in vigore della legge sulle Pari opportunità. Ma questo ci fa parlare, per l’appunto, di un tema a noi molto caro, quello più generale della «diversity». Oggi come oggi non può esistere nessun ambiente che funzioni e che sia in grado di competere in maniera efficace ed efficiente in un contesto competitivo complesso, in continuo mutamento, globale, senza non soltanto accogliere, ma valorizzare ogni tipo di diversità.

D. Il 17 novembre l’American Express a Roma ha tenuto un evento specifico per la comunità LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender). Di cosa si è trattato?
R. È stato un evento interno all’azienda molto sentito, che non abbiamo fatto per avere visibilità sui giornali proprio perché la diversità è nel dna di American Express. Siamo un’azienda globale, presente in 130 Paesi con 166 mila dipendenti che, come è ovvio, sono tutti diversi tra loro, così come lo sono i nostri clienti, circa 130 milioni nel mondo. Già dall’inizio del 2013 in Italia abbiamo esteso tutti quanti i benefici del dipendente al partner dello stesso sesso, quindi ben prima della legge sulle unioni civili. È chiaro che un’azienda del genere non può non fare della diversità e dell’inclusione uno dei valori chiave. Ci siamo dedicati molto negli ultimi anni al tema del genere; personalmente, prima di diventare Country Manager, sono stata sponsor, all’interno di American Express, di un programma volto ad aumentare il numero delle donne nelle posizioni dirigenziali, con l’obiettivo di raggiungere in Italia il 50 per cento dell’impiego femminile. Siamo ora al 43 per cento, con una media italiana assestata attorno al 18 per cento.

D. Nella vostra nuova sede la disabilità è finalmente tutelata. Può parlarci di questo?
R. Ci stiamo dedicando molto alla disabilità soprattutto dopo il cambio di sede, da quella di Cinecittà a questa di Via Eiffel, che grazie alla conformazione dell’edificio ci ha permesso di creare un «work and talk», parlare e agire, e di avere finalmente un «building friendly» da ogni punto di vista. A Cinecittà erano presenti delle barriere architettoniche, trattandosi di un edificio costruito negli anni 70. Bisogna però pensare che il «private network», una rete interna per i dipendenti, in America esiste da vent’anni, essendo nato in Amex nel 1995, e l’impegno nel «Diversity & Inclusion» è iniziato nel 1985, quindi da 30 anni. I due network che si occupano di «diversity» – il Women’s Interest Network (Win) per le donne, e il Pride per l’orientamento sessuale, che in America esiste dal 1995 – adesso hanno il 40 per cento di dipendenti iscritti. Ho chiesto a tutti di iscriversi, LGBT e non LGBT, per attivare un’alleanza utile a portare avanti la parità dei diritti e la sensibilizzazione su tali temi, e ci saranno una serie di iniziative non soltanto interne all’azienda per facilitare l’inclusione da ogni punto di vista: sessuale, della disabilità, del genere. Questo tema è per noi più forte perché in Italia siamo indietro. La legge grazie al cielo è stata votata ma con trent’anni di ritardo, tanto che prima di essa a livello europeo l’Italia aveva un bollino rosso di «discriminazione». Se oggi è più facile parlare delle donne e della disabilità, ciò non accade in tema di orientamento sessuale, tanto da aver ricevuto attacchi su alcuni canali Twitter personali per aver pubblicato foto dell’evento LGBT, ma questo vuol dire solo che stiamo facendo qualcosa di giusto.

D. Nuova sede nuova vita? Cos’è il vostro «smart working»?
R. In quest’area abbiamo cercato innanzitutto di implementare lo «smart working». L’Italia è stato il primo Paese europeo di American Express a promuovere il lavoro «smart» dopo la Gran Bretagna così come per il Pride, quindi siamo un Paese all’interno dei mercati europei che si sta dimostrando estremamente innovativo, abbiamo vinto come prima azienda il premio «Smart working» del Politecnico di Milano nel 2014 proprio perché erano ancora pochissime le aziende ad occuparsene. Di fatto significa andare oltre la logica della presenza in ufficio e riuscire a gestire le persone attraverso gli obiettivi. Ciò avviene attraverso investimenti in spazi e tecnologia, in un ripensamento dei ruoli e dei luoghi aziendali. Oggi nessun dipendente ha una postazione fissa, solo alcuni ruoli la hanno, coloro che devono stare sempre in ufficio, che sono la minoranza: il 75 per cento delle persone deve prenotare sul sistema online la propria postazione sulla base dei suoi impegni in ufficio, e le scrivanie sono divenute «clean desk». Abbiamo eliminato anche tutta la carta. In linea di massima le persone lavorano da casa fino a due giorni a settimana, quindi il 30 per cento di esse non sono in ufficio e su mille dipendenti non ce ne sono mai più di 700: questa è un’ottima cosa da una parte perché siamo lontani dalla vecchie sede, dall’altra anche in funzione dell’impatto ambientale dei trasferimenti in una città come Roma. Inoltre abbiamo calcolato che, con questo sistema, si risparmiano alcuni giorni l’anno che altrimenti si trascorrerebbero solo effettuando gli spostamenti.

D. Cosa prevale nello «smart»?
R. Il concetto è quello della flessibilità: il leader deve essere in grado di stabilire una relazione con i propri collaboratori e di gestirli a seconda degli obiettivi, valutare così la loro prestazione in base alla stessa e non sul mero calcolo della presenza in ufficio. Questo rappresenta un cambiamento culturale molto forte, che porta a stabilire anche un rapporto di fiducia con il collaboratore, una maggiore responsabilizzazione, una partecipazione più sentita alle esigenze dell’azienda, in quanto senza controlli. Serve ovviamente la tecnologia che oggi come oggi consente di essere sempre connesso. Tutti hanno ovviamente il proprio computer aziendale e il telefono integrato. Anche la socialità, con gli spazi aziendali, è cambiata: le persone non hanno postazione fissa e ciò aiuta molto la collaborazione e la conoscenza, cadendo le barriere del quotidiano. Inoltre abbiamo ampliato tantissimo le aree comuni, creando salottini per le riunioni spontanee, cucine, e dando connessione wifi in ogni spazio, una grande rivoluzione che è stata estremamente facile e veloce. Non sarebbe ora più possibile tornare indietro. Questo è solo l’inizio, fra 10/15 anni da noi nessuno lavorerà più in ufficio, esisteranno però spazi dove sarà possibile fare riunioni con il proprio team, gli uffici tra l’altro costituiscono puntuali costi che non vengono tradotti in produttività. Lo «smart working» ha prodotto una serie di risultati positivi anche dal punto di vista della produttività stessa, l’assenteismo per malattia è diminuito del 6 per cento, i permessi del 20 per cento e così via solo a distanza di un anno. L’obiettivo è continuare a migliorare, e un team si dedica alla valutazione dello «smart working» per trovare modalità di ottimizzazione costante. Abbiamo anche messo a disposizione dei nostri impiegati una palestra, facendo un accordo con la One on One, società del Gruppo Tecnogym che ha creato lo spazio per noi e lo ha dotato di personal trainer e di tutto ciò che serve; infine, abbiamo inserito un parrucchiere e un centro benessere nella struttura. Stiamo cercando di realizzare spazi per bambini, un club dove i genitori possano portarli mentre lavorano.

D. Come vi occupate di formazione?
R. Abbiamo creato la Amex Academy per rispondere alle esigenze formative, integrando i corsi esterni con quelli interni, direttamente condotti dai nostri manager, di fatto anche arricchendo i curriculum dei nostri dipendenti che, attraverso le lezioni, possono imparare e proporsi per nuovi ruoli. Abbiamo anche lanciato un Master degree per senior talentuosi, una classe di 15 persone cui sono assegnati progetti da svolgere nel corso dei 6 mesi.

D. In questo anno e mezzo come Country Manager, cos’ha fatto?
R. Sono in American Express da 13 anni. Questo ruolo è la naturale prosecuzione del mio ruolo precedente, in questo sono stata molto facilitata, conoscendo già le persone e le attività. Venivamo da una situazione di stasi per una serie di ragioni legate soprattutto al contesto esterno economico. Ora siamo in forte ascesa anche grazie alla focalizzazione sul digitale e gli investimenti sul mercato: quest’anno stiamo investendo il 45 per cento in più rispetto all’anno scorso per acquisire nuovi clienti. Il portafoglio sta di nuovo crescendo mentre era stato statico per 7 anni, con una crescita di circa il 4 per cento, e il fatturato, che per noi corrisponde al «transato», è già cresciuto lo scorso anno del 3,5 per cento, mentre quest’anno stiamo raddoppiando. Sul digitale ci stiamo focalizzando nel migliorare la «customer experience» dei clienti.

D. In che modo affrontate la digitalizzazione?
R. American Express è il più grande network integrato di pagamenti nel mondo, processiamo milioni e milioni di transazioni al giorno, abbiamo milioni di dati da utilizzare in maniera intelligente per personalizzare sempre di più l’esperienza del cliente, dandogli un valore aggiunto, ad esempio inviando offerte sempre più in linea con le sue scelte. L’analisi dei dati ci consente di sapere cosa preferisce, così come la geolocalizzazione. Chiaro che la rivoluzione digitale sta facendo venir meno sempre di più il confine tra acquisto e pagamento, e il mobile sta estremizzando questo fenomeno. Un’azienda come la nostra non può e non vuole farsi identificare solo come mezzo di pagamento, altrimenti diventerebbe una «commodity» di semplice transazione, ma vuole essere vicina al cliente in tutto il processo di acquisto anche attraverso applicazioni mobili. Abbiamo lanciato anche in Italia una app per la fedeltà: la «loyalty» per noi è un elemento essenziale e per mantenerla dobbiamo costantemente essere nella direzione dei bisogni del cliente. Non innoviamo tanto per innovare, ma perché siamo convinti che in questo momento di grande evoluzione dell’industria dei pagamenti sopravviverà chi alla fine sarà in grado di dare un’esperienza diversa. Bisogna garantire un’esperienza facile, veloce, sicura, ma in più offrire credito con un apparato che sia in grado di valutare effettivamente la possibilità di concederlo. L’elemento che ci differenzia dagli altri è dunque il servizio: siamo riusciti ad arrivare ad un livello di sistematicità e di assoluta eccellenza. Gli stessi dipendenti Amex in tutto il mondo e indipendentemente dal ruolo sono valutati ai fini di un bonus del 25 per cento che dipende dai risultati in termini di soddisfazione sul servizio «refer to friend», ossia in che percentuale il cliente raccomanderebbe American Express ad un amico.

D. Tanta tecnologia, altrettanta sicurezza?
R. Abbiamo un servizio antifrode di nostra proprietà, e nostre persone che monitorano costantemente eventuali rischi di frode con sistemi evoluti, e credo che in questo siamo «best in class». Partiamo dalla buona fede del nostro cliente e immediatamente lo rimborsiamo di una perdita dovuta alla dichiarata clonazione della carta, al suo furto o altro. Questo ci contraddistingue da altri concorrenti: per noi il cliente non è assolutamente responsabile di nessuna frode effettuata sulla sua carta e all’istante, nel momento in cui il cliente ci chiama, riaccreditiamo la spesa fraudolenta sul suo conto. Ovviamente poi facciamo le verifiche idonee.

D. Perché la carta American Express è nella media è più costosa di altre carte? Questo non disincentiva i clienti?
R. Per tutti i servizi che diamo, ma non soltanto per questo. Va sottolineato in proposito: in Italia negli ultimi tre anni abbiamo investito circa 9 milioni di dollari per ridurre le commissioni soprattutto per i piccoli esercenti che hanno maggiormente risentito della crisi. Effettuiamo negoziazioni individuali e non collettive come fanno gli altri circuiti, e le commissioni vengono fissate sul tipo di business dei clienti. Il nostro obiettivo è quello di estendere l’uso della carta, quindi abbiamo agito coscientemente così aumentando il numero di clienti che quest’anno sono il 30 per cento in più rispetto a quelli acquisiti l’anno scorso. Cresciamo in maniera molto accelerata grazie agli investimenti, che misuriamo in dollari ma parliamo solo dell’Italia. Vogliamo mettere i nostri nuovi clienti nella condizioni di usare sempre la carta.

D. Quali sono i nuovi clienti tipici?
R. Abbiamo un’ampia fascia di prodotti, che partono dalle classi più alte con carte di un certo spessore e costo, fino a un target più giovane, dalle diverse esigenze, per i quali è stata coniata ad esempio una carta bianca dal costo di soli 35 euro ma che dà i medesimi benefici di ogni carta Amex, le protezioni assicurative, lo stesso servizio del programma «Membership Reward», la possibilità di scegliere cinque esercenti preferiti d cui poter accumulare tripli punti etc. Abbiamo poi le carte con i marchi storici per il target dei «frequent flyer» che viaggiano spesso e quindi sono interessati alle miglia; abbiamo lanciato anche la carta Italo proprio perché abbiamo visto che all’interno del territorio italiano molti si spostano con il treno e diamo la possibilità di trarne benefici; abbiamo la carta «Cash Back» che invece dei punti restituisce una percentuale dell’un per cento delle spese annuali, unica in Italia. Inoltre le carte possono essere usate «Revolving», ossia rateizzando la spesa per alcuni mesi o sulla base di una somma prestabilita dal cliente stesso. Non abbiamo quindi un cliente tipo, abbiamo un portafoglio di prodotti in grado di rispondere ai bisogni di qualsiasi tipologia di clientela. Abbiamo anche tanti altri servizi che si focalizzano nel risolvere le esigenze degli imprenditori, delle aziende, del mondo «corporate». In questo settore siamo leader del mercato. Siamo molto ottimisti e le opportunità in Italia sono ancora molte, il contante è ancora il re dei pagamenti, il 55 per cento di tutte le transazioni effettuate avviene in «cash», ma questo significa anche che c’è una grande opportunità di crescita.

D. Eppure, a differenza che in altre parti del mondo, gli esercenti si rifiutano di accettare la carta di credito per cifre piccole.
R. C’è una nuova normativa approvata da qualche mese, nell’ambito anche dell’implementazione della direttiva dei pagamenti europei, che obbliga gli esercenti e i professionisti a ricevere pagamenti con carta o bancomat per importi superiori a 5 euro. Sotto tale limite invece, l’accettazione della carta è a discrezione. Saranno fissate anche delle sanzioni.

D. Come influisce l’impiego delle carte di credito sulla crescita di un Paese?
R. La politica, il Governo, tutti sanno quanto in Italia sia importante colmare questo grande gap, che è a tutti gli effetti un gap alla crescita. Di fatto oggi la penetrazione bassa della plastica favorisce il nero, l’economia sommersa, costituisce punti di Pil perso. È un vincolo, un grande blocco che rallenta lo sviluppo economico del nostro Paese. In questo senso anche tante iniziative legislative che si stanno muovendo vanno in questa direzione.

D. A livello politico cosa potrebbe essere utile fare in questo settore?
R. Proseguire sulla strada delle riforme che favoriscano e impongano agli esercenti, ove necessario, di accettare pagamenti con plastica, anche finalizzando un sistema legato alle sanzioni, considerato che una legge senza sanzioni serve a poco, per poi consentire alle persone di poter utilizzare la carta di credito per qualsiasi pagamento. È fondamentale continuare con gli investimenti sulla banda larga ed ultra larga perché ci sono pezzi del Paese che ancora non sono collegati: è ovvio che per la diffusione dei pagamenti elettronici sia necessario un collegamento ad internet. Inoltre il «mobile commerce» e l’e-commerce saranno nei prossimi anni fondamentali per la crescita dell’impiego della plastica nei pagamenti.

D. Alfabetizzazione finanziaria: come stiamo messi?
R. È importante l’aspetto di una educazione in tal senso, il nostro Paese è estremamente indietro e si trova in una situazione angosciante; ci sono vari studi che lo confermano, in particolare lo studio del 2015, fatto da Standar&Poor’s insieme a Bank of Washington, ha intervistato gli italiani su alcuni elementi basici dell’educazione finanziaria, con domande molto semplici relative, ad esempio, alle modalità di valutazione della convenienza di un mutuo o su cos’è un interesse. L’Italia è uscita sessantatreesima, prima di noi Zambia, Benin, Senegal, Madagascar: questo è davvero molto grave. Siamo forse l’unico Paese europeo a non avere una strategia nazionale sull’educazione finanziaria, è un elemento di debolezza enorme, perché poi si verificano fatti come come la vendita di titoli tossici ed altro. Ma soprattutto perché la non conoscenza genera paura.

D. E cosa fa l’American Express per educare alla cultura finanziaria basica?
R. Abbiamo un team interno che richiama tutti i clienti nuovi per essere sicuri che abbiano capito i benefici di un prodotto, in alcuni casi lo vendiamo indirettamente ed il cliente non ha perfettamente chiara l’offerta. Ci capita chi pensa che ci sia un costo nel mero uso della carta, che si debba pagare una commissione, e questo è solo un esempio. In realtà la commissione la pagano gli esercenti. Il problema dell’alfabetizzazione finanziaria genera paura, come ho detto; in proposito ci sono una serie di progetti di legge in corso. Bisogna velocizzare tale processo, fare una legge e sviluppare una strategia per il nostro Paese che coltivi l’educazione finanziaria: solo con la conoscenza si potrà realmente crescere. Abbiamo finanziato un progetto per i bambini nelle scuole e i risultati di alcuni test somministrati ai genitori hanno portato a risultati imbarazzanti. Usare la carta oggi significa avere maggiori sicurezze, credito, vantaggi, valore aggiunto, offerte. Senza considerare che il contante ha un costo che è stato valutato dalla Banca d’Italia in circa 8/10 miliardi di euro ogni anno, per stamparlo, proteggerlo, trasportarlo etc. Senza pensare ai rischi che derivano dal suo uso.     (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Dicembre 2016




AUGURI AUDITORIUM, DA E CON L’AD JOSÉ DOSAL NORIEGA

ROMINA CIUFFA intervista JOSÉ R. DOSAL NORIEGA, amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma. Auguri Auditorium: il complesso compie 14 anni, la Fondazione Musica per Roma 12, la presidenza di Aurelio Regina 6, e il suo nuovo amministratore delegato, lo spagnolo José Ramón Dosal Noriega, ne ha appena compiuto uno di mandato. Nel corso del 2016 è stato messo a disposizione del pubblico un patrimonio di nomi, eventi ed emozioni che vanta pochi esempi nel mondo: dal 1° gennaio al 19 ottobre si sono registrati 258 mila spettatori per circa 490 eventi ed un incasso lordo di 8 milioni e 136 mila euro. Ma, nella migliore tradizione italiana, recentemente i media si sono scaraventati contro la nuova amministrazione, plausibilmente senza dati alla mano (la conferenza stampa di apertura della nuova stagione si è tenuta solo dopo), dando eco a critiche buie, distruttive e, soprattutto, corali non nel senso di «coro», bensì in quello del «copia-incolla». Ho posto le domande d’uopo direttamente all’amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma, i cui soci sono il Comune di Roma (che ha conferito in concessione d’uso per 99 anni l’immobile Auditorium alla Fondazione), la Camera di Commercio, la Provincia di Roma e la Regione Lazio.

Domanda. Cosa ha generato l’accanimento mediatico ottobrino avverso l’ultimo anno di Auditorium?
Risposta. Credo che sia naturale, nel momento in cui arriva un nuovo responsabile culturale in città e a capo di una struttura così importante, suscitare la curiosità della stampa. Tutte le critiche mi sono state utili e posso affermare oggi, ad un anno dal mio arrivo, che nulla è mutato nell’andamento dell’Auditorium, né biglietti né spettatori, e abbiamo anche un bilancio positivo. Non sono un politico, voglio solo lavorare e per il bene di questa nostra istituzione, con tutto il mio impegno.

D. Cinque erano gli obiettivi che si era prefissato: Auditorium 2.0, internazionalizzazione, territorio, giovani, Auditorium va in città. Può indicarcene i risultati?
R. Per «Auditorium 2.0» abbiamo inteso lavorare per essere sempre più vicini al pubblico più giovane attraverso i canali social come Facebook, Instagram, Twitter, cresciuti del 200 per cento. Siamo anche la prima istituzione culturale ad aver lanciato un canale Telegram ed un canale Spotify, in un solo anno. L’Auditorium ha un nuovo «visual» e immagine coordinata che richiama le stagioni. Inoltre abbiamo realizzato 8 flash mob in città per il format «Auditorium Va in Città» e preso contatti con grandi istituzioni culturali straniere. Per la nostra internazionalizzazione, faccio riferimento innanzitutto alla negoziazione di rilevanti scambi di coproduzione e contenuti con il Barbican Centre di Londra; con Madrid stiamo trovando un accordo; in Messico, abbiamo parlato con il ministro della Cultura Rafael Tovar y de Teresa, che essendo già stato ambasciatore in Italia conosce perfettamente Roma e l’Auditorium, e posso anticipare che c’è una trattativa volta a firmare un accordo di amicizia con il Cenart, Centro nazionale delle arti, istituzione messicana corrispondente alla nostra, e credo che questa possa essere la porta d’ingresso per l’Auditorium nei confronti dell’America Latina.

D. L’assessore alla Crescita culturale di Roma Capitale Luca Bergamo ha dichiarato che c’è poca partecipazione dei romani alle attività culturali. Come avete affrontato l’obiettivo «territorio»?
R. Abbiamo iniziato con un progetto di analisi del pubblico per capirne le esigenze e le aspettative. I primi intervistati sono stati i genitori. È emerso che il 95 per cento di essi vuole appuntamenti culturali all’interno dell’Auditorium. Abbiamo così avviato il format «Auditorium Family», dedicato ai bambini e alle famiglie con oltre 30 appuntamenti durante tutto l’anno. Un esempio per tutti, «GiocaJazz», nato per creare interesse e ispirare le nuove generazioni verso tutta la musica e le sue forme. Durante l’estate abbiamo lanciato «Luglio Suona Bene Kids», un servizio grazie al quale il genitore poteva assistere a un concerto mentre i propri bambini giocavano ed imparavano negli altri locali dell’Auditorium. Quello che io ho compreso dalle affermazioni di Bergamo è che tutte le istituzioni culturali di Roma devono fare qualcosa in più per coinvolgere la popolazione presente sul territorio. Ed è per questo che l’analisi del pubblico, dai più giovani, ai frequentatori assidui, continuerà nei prossimi mesi.

D. Perché secondo lei c’è questa difficoltà a Roma?
R. Questo pubblico vuole andare allo spettacolo, vederlo e poi tornare a casa. Sarebbe bello, invece, che rimanesse anche dopo, o che arrivasse in anticipo per partecipare ad altre attività prima dello show, cercando un’esperienza completa, non circoscritta al tempo di durata dello spettacolo. Bisogna, a mio parere, fare di un evento culturale o di un concerto un’esperienza culturale per godere di tutto il suo contenuto.

D. Questo non può dipendere anche dal fatto che lo spirito italiano di oggi è lamentoso, un po’ meno raggiante rispetto ad altri Stati?
R. C’è un leggero senso di paura dopo tutto quello che è successo, parlo degli attentati terroristici, c’è un «effetto Bataclan». Ma adesso, con la fiducia che abbiamo nelle istituzioni italiane, credo non debbano esserci timori relativi all’Auditorium, dimostratosi sicuro perché tutte le norme di sicurezza sono rispettate. Quello che vogliamo fare è trasmettere un’esperienza gioiosa alla gente di Roma per godere interamente dei nostri contenuti.

D. Non è forse la qualità che manca, un «effetto reality» che abbassa la qualità della cultura in generale?
R. Certo, è così. Oggi c’è un problema innanzitutto con i giovani, che con i tempi moderni sono abituati ad avere tutto e subito, la musica e le relazioni sociali sul telefonino. Manca il concetto della profondità del sapere quali siano le cose di qualità. La nostra scommessa, che è anche uno degli obiettivi che ci siamo prefissati, è lavorare per il giovane attraverso tutti i social network per avvicinarlo all’Auditorium, e anche questo fa parte dell’obiettivo «Auditorium 2.0». Proprio per questo abbiamo lanciato un programma molto semplice sotto l’hashtag #ILoveAuditorium, ossia una Carta Giovani con la quale offriamo a chi ha tra i 18 e i 35 anni uno sconto del 25 per cento sui biglietti di eventi e mostre, una visita guidata per due persone all’interno della struttura il sabato e la domenica, inviti alle nostre inaugurazioni, la possibilità di frequentare gli spazi espositivi, la migliore offerta dei pacchetti non dedicati ai giovani. Tutto questo funziona in modo semplicissimo: basta recarsi alla cassa con un documento di identità e si riceverà lo sconto. Da febbraio sarà possibile acquistare la carta online dopo aver ricevuto un codice utente.

D. Per i giovani c’è anche il «Recording Studio»: cos’è?
R. È l’iniziativa che permette al pubblico di assistere in presa diretta alle registrazioni della nostra etichetta discografica «Parco della Musica Record». Grande attenzione è dedicata ai giovani talenti e alle band emergenti, con un occhio particolare verso la musica jazz.

D. Cosa può dire dell’obiettivo «Auditorium va in città»?
R. Sono veramente felice per i flash mob che abbiamo fatto: siamo andati a Fontana di Trevi, all’aeroporto, al mercato di Testaccio, al Pantheon. Questo vuol dire portare l’Auditorium in città per far vedere alla gente quello che succede da noi.

D. Allora a cosa è dovuta tutta questa tensione che si è verificata?
R. Come ho detto all’inizio, credo sia stata eccessiva la preoccupazione da parte dei media romani rispetto ad un nuovo arrivo. Io rispondo con i dati: con la rassegna «Luglio Suona Bene», abbiamo avuto circa 85 mila spettatori, quasi 40 concerti, e per me è stato un grande successo. Ora abbiamo un’altra grande stagione davanti, come le ho raccontato. Invito tutti i giornalisti a parlarne perché sempre più romani e presenti in città possano venire e goderne.

D. Quindi un bilancio positivo?
R. Certo, anche in qualità. Lo scorso anno con il presidente Regina abbiamo pubblicamente spiegato la situazione tecnica della Fondazione, per cui avremmo dovuto affrontare costi esterni alla gestione corrente. Sottolineo che si è trattato solo di un problema tecnico e non di scarsa affluenza di pubblico. Il segreto di questo mestiere è trovare equilibrio tra il commerciale e il culturale ed è difficile trovare il giusto compromesso. La mia responsabilità è mantenere il livello di eccellenza che ha avuto sempre l’Auditorium.

D. Come sarà la nuova stagione?
R. Stiamo lavorando per il secondo anno e per la nuova programmazione. Credo che sarà un anno bellissimo, e sarà importante anche per la creazione del Polo Museale e la costruzione del Museo dell’Auditorium con la Collezione Sinopoli, la Villa Romana, gli strumenti musicali. Una cosa che mi ha colpito molto è aver ottenuto il nome «Flaminio Auditorium» per la stazione Flaminio di Roma; un’altra cosa interessante è stata la possibilità di impiegare lo strumento dell’art bonus per il mantenimento della struttura. Quest’anno faremo 11 festival, 170 ore di lezione, 250 concerti, più di 500 appuntamenti. La nuova stagione regalerà un’esperienza profonda allo spettatore, il programma è in continua evoluzione. Tra gli ultimi artisti confermati, Vinicio Capossela e Patti Smith, con un progetto in onore di Papa Francesco. Tra le novità importanti la direzione del Festival Equilibrio 2017 affidata a Roger Salas, e il Roma Rock, nuovo festival dedicato alle band emergenti.
D. Siete in trattativa anche con il nuovo premio Nobel per la letteratura, il musicista Bob Dylan.
R. Siamo in contatto con il suo management da prima del conferimento del premio, e sono sicuro che alla fine riusciremo ad averlo qui con noi.     (Romina Ciuffa)




GAETANO BLANDINI (SIAE): GLI AUTORI CREDONO NELLA NUOVA SIAE, NOI CREDIAMO NEGLI AUTORI

  • ROMINA CIUFFA intervista GAETANO BLANDINI, direttore generale della Siae. La SIAE, Società Italiana Autori ed Editori, è una società di gestione collettiva del diritto d’autore, cioè un ente costituito da associati (gli autori ed editori sono la sua base associativa) che si occupa dell’intermediazione dei diritti d’autore. Ogni anno rilascia più di 1,2 milioni di contratti di licenze per l’utilizzo delle opere che tutela, facilitando il riconoscimento dei diritti da parte di tutti coloro che intendono utilizzare quelle opere e garantendo agli autori e agli editori il pagamento del giusto compenso per il loro lavoro. Tecnicamente un Ente pubblico economico a base associativa, assicura interessi generali che sono tutelati dalla Costituzione, come la promozione della cultura, la libertà dell’arte, la protezione del lavoro intellettuale. Per questo la SIAE è sottoposta alla vigilanza della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero per i Beni e le Attività culturali e del Turismo e del Ministero dell’Economia e delle Finanze, come garanzia di trasparenza e di buona gestione nei confronti degli associati e degli stessi utilizzatori. È fuori dal perimetro della Finanza pubblica e non riceve finanziamenti diretti o indiretti da parte dello Stato; si dichiara un vero e proprio presidio di libertà, non ha scopo di lucro ed è totalmente indipendente nell’attività di impresa. «Il diritto d’autore non è una tassa ma è un diritto del lavoro», ribadisce la SIAE. Non esente da critiche, scandali e ribellioni nel mondo del diritto d’autore, anche in ragione di recenti sentenze europee sull’equo compenso e su antiche accuse di nepotismo, nonché sulla cessazione presidenziale di Gino Paoli per evasione fiscale, la SIAE comunque resta un caposaldo del mondo creativo che, in tempi recenti, sta trovando nuovi concorrenti, piattaforme private gratuite che consentono di registrare la propria opera e tutelarla. La SIAE a marzo 2015 ha scelto, per sostituire il suo «cielo in una stanza», Filippo Sugar, figlio di Caterina Caselli, il più giovane presidente mai eletto. Gaetano Blandini è il direttore generale, e risponde alle nostre domande per orientarci su un mercato sempre più complesso e competitivo.

Domanda. La SIAE ha un compito molto difficile, quasi impossibile: quello di combattere i download irrefrenabili e la pirateria e di tutelare il diritto di autore. In che modo lo fa?
Risposta. Siamo impegnati in prima linea per un mercato più equo e per la giusta remunerazione dei creatori di contenuti. Recentemente il mercato musicale ha registrato il sorpasso dello streaming sui download e SIAE si sta muovendo per la massima tutela anche in tal senso. Stiamo sviluppando un sistema tecnologico avanzato per gestire l’enorme volume di dati generato dalle licenze musicali online. Gli aventi diritto potranno così ricevere informazioni dettagliate sull’utilizzo delle loro opere anche sulle piattaforme digitali.

D. Perché gli autori tendono a riversarsi sul mercato libero senza iscriversi alla SIAE e utilizzando forme parallele di licenze «libere», assistendo peraltro al proliferare di nuovi operatori di protezione come Soundreef o come la nuova piattaforma web gratuita Patamu, startup che ha raggiunto quota 11 mila iscritti e protetto oltre 31 mila contenuti?
R. Non è così! Gli autori credono nella nuova SIAE e ciò è confermato dai dati. Nel 2015, abbiamo registrato 7.336 nuovi iscritti e per fine 2016 prevediamo di superare le 7.500 nuove adesioni. Siamo anche soddisfatti della significativa diminuzione del numero di dimissioni registrato negli ultimi due anni, segno di una rinnovata fiducia nella Società. Nel 2015 i dimissionari sono scesi a 734, ossia del 24 per cento rispetto all’anno precedente, e per il 2016 ad oggi ne abbiamo solo 332. Contiamo oltre 83 mila associati tra autori ed editori, di cui oltre 1.100 sono stranieri. La nostra Società è senza scopo di lucro, l’unico obiettivo è la tutela degli associati in Italia e all’estero. Gestiamo un repertorio di circa 45 milioni di opere e non facciamo alcuna discriminazione tra artisti popolari o meno popolari, giovani o meno giovani in tutti i settori della cultura. Il nostro lavoro non è paragonabile a quello di altre società a scopo di lucro. La SIAE collabora con più di 150 società di «collecting» internazionali ed è la settima nel mondo in termini di incassi. Siamo nel «board of directors» della CISAC (la Confédération Internationale des Sociétés d’Auteurs et Compositeurs, ndr), il più importante organismo globale che riunisce le società che tutelano il diritto d’autore a livello internazionale.

D. Recentemente gli under 30 possono iscriversi alla SIAE gratuitamente, ma la quota di iscrizione per gli altri risulta essere tra le più alte d’Europa. Come mai?
R. Gli under 31 e le startup editoriali, che operano da meno di due anni, possono iscriversi gratuitamente alla SIAE e hanno diritto di voto. Dal gennaio 2015 ad oggi si sono associati 6.589 nuovi giovani autori. Chi paga la quota associativa partecipa alla vita dell’associazione. Con una quota minima si può dare mandato. La tutela è la medesima ma non si concorre ad eleggere o essere eletti negli organi sociali.

D. Resta il monopolio in Italia non toccato con la direttiva Barnier, e restiamo l’unico caso europeo oltre alla Repubblica Ceca. Lo considera essenziale? Perché? Lo stesso ministro culturale Dario Franceschini ha fatto dietrofront e si è espresso più recentemente in favore della liberalizzazione del mercato.
R. È semmai vero il contrario. Il ministro è stato in giro per l’Europa e ha verificato che l’interesse di autori e utilizzatori è in associazioni come la SIAE. In Europa esistono altri monopoli legali oltre quelli citati, e molti altri sono monopoli di fatto. In quasi tutti i Paesi europei esiste, infatti, una sola società di riferimento per la gestione dei diritti musicali. Negli Stati Uniti – unica significativa eccezione nel mondo occidentale dove esistono più società di collecting musicale – lo US Copyright Office a febbraio 2015 ha fornito linee guida finalizzate a favorire l’aggregazione rispondendo così alle moltissime lamentele degli autori Usa che subiscono forti discriminazioni e differenti remunerazioni in base alle società di appartenenza. Il ministro Franceschini, come detto, si è posizionato in una visione strategica che SIAE condivide. Il futuro del diritto d’autore si gioca a livello internazionale perché le nuove piattaforme di distribuzione dei contenuti non sono più locali ma globali, vedi Google, Apple, YouTube, Spotify. Di fronte a questi distributori di contenuti globali, è chiaro che gli autori devono unirsi più che disperdersi.

D. In che modo funzionano le ripartizioni dei diritti? Per esempio, perché un brano trasmesso in pubblicità non porta introiti al suo autore?
R. Per ogni pubblicità l’autore incassa i diritti di sincronizzazione con una negoziazione diretta, perché SIAE non intermedia da Statuto tali diritti. Incassiamo da tutti i canali di utilizzazione del repertorio: radio e tv, multimediale online, live, cd e dvd, estero. Stipuliamo circa 1,2 milioni di contratti di licenza all’anno con oltre 500 mila utilizzatori sul territorio. Controlliamo oltre 35 mila eventi musicali a settimana rendicontando il repertorio suonato in ciascuno.

D. In che modo internet e YouTube hanno inciso sull’economia della SIAE, considerato che si è reso più facile l’accesso al pubblico e impossibile il controllo dei diritti?
R. Nel 2015 abbiamo registrato un fortissimo aumento degli incassi relativi alla multimedialità, pari al 47,4 per cento: un risultato questo ottenuto anche grazie al consorzio Armonia, hub internazionale che riunisce 9 società di collecting per la gestione centralizzata delle licenze online, di cui SIAE è tra i fondatori. All’epoca di YouTube, Spotify e delle altre piattaforme digitali, la partita del diritto d’autore si gioca sul piano internazionale e SIAE è l’unico soggetto in Italia in grado di negoziare con i digital service provider e rilasciare licenze multi-territoriali.

D. La SIAE Card dà alcune facilitazioni agli associati. Perché non estenderle a sconti sui concerti, teatri etc.?
R. I servizi che offriamo ai nostri iscritti sono in costante aggiornamento. A giugno abbiamo siglato un accordo importante con la Società di Mutuo Soccorso Cesare Pozzo che dà la possibilità agli associati SIAE di sottoscrivere piani di assistenza sanitaria integrativa a condizioni particolarmente vantaggiose. Le convezioni previste da SIAE Card spaziano da servizi assicurativi, alberghi e viaggi a servizi utili alle attività professionali di molti associati come studi di registrazione e aziende che vendono strumenti musicali. Dobbiamo fare certamente meglio, ma in questo le nostre forze sono più concentrate sulla digitalizzazione della nostra Società; questa è una priorità anche per i nostri associati.

D. Quali le principali differenze tra i sistemi di protezione di diritti in Europa e nel mondo rispetto alla SIAE?
R. La Direttiva 2014/26/UE «sulla gestione collettiva dei diritti d’autore e dei diritti connessi e sulla concessione di licenze multi-territoriali per i diritti su opere musicali per l’uso online nel mercato interno» ha l’obiettivo di armonizzare gli ordinamenti nazionali. In particolare, la Direttiva è intervenuta sull’assetto e la governance degli organismi di gestione, che devono essere controllati dai propri membri, come è già per SIAE, e sulla promozione di licenze multiterritoriali dei repertori. Il legislatore, di fatto, incentiva le società di collecting ad aggregarsi e a porsi some soggetto unico per gli utilizzatori. La SIAE è già da tempo perfettamente coerente con la Direttiva in questione, il nostro Statuto è stato riscritto nel 2012 proprio sulla base delle linee guida contenute nella allora prima Proposta di Direttiva.

D. Riguardo agli scandali sulle accuse di «nepotismo» – la SIAE era stata definita dai media un «ufficio di collocamento famigliare» – cosa è cambiato?
R. Credo si tratti di un’idea di SIAE falsata e non più corretta, di almeno 10 anni fa. In particolare nell’ultimo quinquennio SIAE ha ridotto i costi globali di circa 9 milioni di euro, pari al 4 per cento sul totale, il costo del personale si è ridotto di circa 10,5 milioni, pari all’11 per cento, i compensi dei mandatari sono diminuiti di 4 milioni, ossia dell’8,8 per cento, pur mantenendo il livello di servizio sul territorio. I costi di gestione e funzionamento sono diminuiti di 4 milioni, ossia del 17 cento. Negli ultimi anni SIAE ha destinato oltre 25 milioni all’attuazione del Piano strategico incentrato sulla definizione dei contratti di lavoro, sull’organizzazione e ottimizzazione dei processi in chiave digitale. Anche l’organico si è ridotto di oltre 120 risorse, pur garantendo i livelli occupazionali e favorendo la stabilizzazione di 115 dipendenti, per lo più giovani, selezionati da Università e Conservatori italiani.

D. In che modo la sua direzione si sta muovendo per dare più efficienza e credibilità all’azienda?
R. Anzitutto la governance di SIAE è affidata ad organi eletti dagli associati, ovvero l’Assemblea, il Consiglio di sorveglianza, il Consiglio di gestione e il Collegio dei revisori. Nell’ambito del Consiglio di sorveglianza sono costituite cinque commissioni consultive: Musica, Lirica, OLAF, Cinema e DOR. Negli ultimi anni SIAE ha destinato oltre 25 milioni di euro all’attuazione del Piano strategico incentrato sulla definizione dei contratti di lavoro, sull’organizzazione e ottimizzazione dei processi in chiave digitale. Il 15 luglio 2015 è stato lanciato il nuovo sito istituzionale SIAE, ed in contemporanea è stato creato un portale online dedicato alle feste private, semplificando anche l’impianto tariffario per i trattenimenti privati. Abbiamo attivato «mioBorderò», il portale del borderò digitale che consentirà di sostituire 1,4 milioni di borderò cartacei – tanti sono infatti i borderò che ogni anno SIAE riceve e lavora – con un evidente vantaggio anche dal punto di vista logistico ed ecologico. Abbiamo lanciato inoltre il nuovo Portale Autori ed Editori. Dal lato del cinema e della musica sono stati conclusi significativi accordi con importanti broadcaster che, dopo un lungo periodo, sono usciti da un sistema di proroga di contratti scaduti. Le nuove licenze sono state allineate alle attuali ed effettive utilizzazioni di repertorio, generando un significativo aumento degli incassi cinema e un incremento di quelli musica. Nel 2015 inoltre abbiamo stanziato i fondi per lo sviluppo del progetto Agenda Digitale, per un investimento totale di 16 milioni di euro.

D. Può indicare gli ultimi dati di bilancio e le previsioni per i prossimi mesi?
R. SIAE ha chiuso il 2015 con un fatturato di 782 milioni di euro, ossia con un aumento del 14 per cento rispetto al 2014, 724 milioni dei quali provenienti dal diritto d’autore e altri servizi di intermediazione per un incremento del 16 per cento. Questi dati confermano come oggi la Società sia una realtà radicalmente diversa dal passato, in grado di confrontarsi sui mercati globali con tutte le più importanti collecting estere. Il 2015 ha confermato la netta inversione di rotta di SIAE rispetto al passato, con un incremento del fatturato complessivo di circa 100 milioni di euro e un utile netto pari a 0,3 milioni di euro.

D. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha dichiarato l’illegittimità della disciplina italiana in materia di copia privata nella parte in cui impone di versare un «equo compenso» anche a chi acquista supporti e dispositivi per uso professionale, aggiungendo che la SIAE non poteva assolutamente sostenere di aver maturato la convinzione che la normativa in esame nel procedimento principale fosse conforme al diritto dell’Unione europea. In che modo sarà risolta la questione dei rimborsi?
R. La sentenza della Corte di Giustizia non mette in alcun modo in discussione la legittimità della copia privata né mette in discussione l’intero decreto Bondi o la correttezza dell’operato di SIAE. La Corte di Giustizia ha ritenuto che fosse incompatibile con la Direttiva europea esclusivamente un articolo, l’art. 4 dell’allegato tecnico del cosiddetto decreto Bondi del 30 dicembre 2009, per una parte, quindi, squisitamente tecnica e limitata negli effetti. L’incompatibilità, in particolare, discende dall’assenza nella disciplina della copia privata – per il resto confermata e rafforzata – di criteri predeterminati che indichino i casi di esenzione ex ante e cioè i casi in cui debba certamente riconoscersi, ex ante appunto, un utilizzo dei «device» manifestamente estraneo alla copia privata. Si tratta di una decisione che SIAE ovviamente rispetta e saluta con favore, posto che la fissazione di criteri ancora più precisi non potrà fare altro che rendere più agevole il lavoro di chi, come noi, opera nell’esclusivo interesse di autori, editori e degli stessi interpreti esecutori che giustamente ricevono, anche per il mezzo della copia privata, il legittimo compenso del proprio lavoro. SIAE è dunque pronta ad adeguare immediatamente la propria attività alle eventuali disposizioni che il Ministero vorrà adottare in materia, così come è pronta ad adeguarsi alle decisioni che il Consiglio di Stato vorrà adottare in ragione dei principi sanciti dalla Corte di Giustizia.

La SIAE conferma il proprio impegno contro il «secondary ticketing», fenomeno che danneggia gravemente i consumatori e i titolari del diritto d’autore. Il Consiglio di gestione ha approvato all’unanimità la modifica dell’art. 13 del «Permesso Spettacoli e Trattenimenti», inserendo una clausola che fa espresso divieto al titolare del permesso di fornire ticket di ingresso a piattaforme online e siti web del cosiddetto mercato secondario. Così la SIAE ha rafforzato il divieto alla rivendita dei biglietti a prezzo maggiorato rispetto a quello ufficiale.  La Società ha presentato un ricorso d’urgenza al Tribunale Civile di Roma e ha interessato della questione anche l’Agenzia delle Entrate per attività mirate volte a combattere un fenomeno che rappresenta un freno inaccettabile alla crescita economica, oltreché alle opportunità di lavoro nel settore dello spettacolo e della cultura.

La Società Italiana degli Autori ed Editori, in collaborazione con autori, artisti e operatori dello spettacolo, ha lanciato inoltre la petizione #noSecondaryTicketing, per tutelare i diritti dei propri associati e dei consumatori (soprattutto i più giovani) che si ritrovano a pagare anche fino a 10 volte in più i ticket di ingresso sul mercato parallelo. Il testo della petizione recita: «I concerti rappresentano un’occasione importante non solo per gli artisti che incontrano il loro pubblico ma anche per tutti coloro che lavorano con professionalità e passione alla riuscita dell’evento. Come autori, artisti e operatori dello spettacolo, siamo uniti contro chi specula sulla rivendita dei biglietti dei concerti attraverso alcuni siti web di secondary ticketing, una forma di ‘bagarinaggio online’. Il mercato secondario danneggia tutta la filiera, favorendo l’evasione e frenando opportunità di lavoro e di crescita economica nel settore dello spettacolo e della cultura. Siamo dalla parte del nostro pubblico che si ritrova ingiustamente a pagare anche fino a 10 volte in più i ticket di ingresso a causa di questo fenomeno. Promuoviamo la trasparenza del mercato e sosteniamo tutte le organizzazioni che danno valore al nostro lavoro e rispettano i consumatori. Per questo chiediamo l’abolizione del secondary ticketing attraverso l’oscuramento di tutte le piattaforme online che speculano sulla rivendita dei biglietti».

Continuano intanto le adesioni alla petizione, già sottoscritta da molti musicisti. In merito all’emendamento alla legge di bilancio per contrastare il fenomeno, presentato a novembre dal Governo, il presidente SIAE Filippo Sugar ha dichiarato: «Prendiamo atto con soddisfazione dell’emendamento alla legge di bilancio presentato dal Governo alla Camera dei Deputati per contrastare il secondary ticketing. La SIAE è già intervenuta nei giorni scorsi sollecitando regole chiare per la trasparenza del mercato della musica dal vivo a tutela dei consumatori, degli autori e di tutti coloro che operano nel settore, anche lanciando una petizione che è stata sottoscritta da tutti i più importanti autori italiani. Esprimo un particolare apprezzamento per l’intervento del ministro Dario Franceschini volto a stroncare un fenomeno intollerabile come quello del bagarinaggio online».      (Romina Ciuffa)




REPORTAGE AMATRICE. MARCO PEZZOPANE: ECCO COME I GIOVANI IMPRENDITORI ITALIANI AIUTANO AMATRICE

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Papa Giovanni XXIII aveva detto: «Molti oggi parlano dei giovani; ma non molti, ci pare, parlano ai giovani». Eppure hanno molto da dire, e da fare. Possono fare tanto di più, peraltro, animati da un senso della vita più vincente, costruito sulle credenze e sui valori, ma soprattutto sull’età che dà loro la forza di lottare di più. Così, ad Amatrice, molti sono stati i giovani che si sono impegnati a risolvere problemi, di ogni tipo e natura. Ne scegliamo uno che ne rappresenta molti, Marco Pezzopane, presidente del Gruppo dei Giovani Imprenditori di Rieti, che dal giorno del sisma lavora per alleviare le sofferenze pratiche delle popolazioni del luogo, di sua competenza territoriale. Aquilano, ha già provato sulla sua pelle cosa sia un terremoto a casa propria. La raccolta fondi dei Giovani Imprenditori di tutta Italia è avvenuta ed avviene giornalmente attraverso eventi e gruppi su WhatsApp, nelle forme più moderne, ma anche con la presenza costante sul posto. Questi under 40 hanno contribuito a far giocare i bambini della scuola amatriciana e sono intervenuti pragmaticamente su ogni esigenza fatta loro presente, per il tramite di Pezzopane, dal Centro operativo comunale di Amatrice.

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Domanda. Innanzitutto, cos’è il Gruppo Giovani Imprenditori?
Risposta. Il Gruppo riunisce tutti coloro che hanno un’età inferiore ai 40 anni ed hanno un’azienda propria o sono figli di imprenditori e figure analoghe. Le nostre attività sono tendenzialmente legate al mondo della scuola e delle start up che hanno avuto uno sviluppo dovuto principalmente a fenomeni di «social networking», e che si coadiuvano e creano eventi per cercare di favorire l’incontro con le aziende ed il mondo produttivo in generale.

D. In che modo affrontate i problemi della scuola?
R. Storicamente il Gruppo Giovani, al fine di favorire un giusto rapporto tra gli studenti e il mondo del lavoro, va presso le scuole e cerca di diffondere quella che è la cultura d’impresa, ossia le necessità che le imprese hanno quando cercano personale. La scuola per oggetto sociale non riesce a dare quel tipo di informazioni, quindi molto spesso quando ci troviamo a fare dei colloqui troviamo persone impreparate che non sanno relazionarsi con chi vuole loro offrire un lavoro, così ampliamo la conoscenza scolastica su come promuovere se stessi affinché l’addetto alle risorse umane nell’ambito di un colloquio lavorativo possa prendere in considerazione la professionalità di chi si propone. E sebbene la professionalità per un giovane che è entrato da poco nel mondo del lavoro non è in effetti presente, ci sono delle caratteristiche che si possono mettere in evidenza.

Schermata 2016-10-31 a 19.19.28D. Da quanto tempo esiste il Gruppo dei Giovani Imprenditori?
R. Da quarant’anni. Il Gruppo fa sempre capo a Confindustria a livello nazionale, e tutte le Confindustrie a livello territoriale hanno le proprie sedi. Il primo presidente nazionale del Gruppo dei Giovani Imprenditori è stato Luigi Abete, nel 1976.

D. Come si svolgono le attività a livello nazionale?
R. Teniamo grandi eventi, come quello di Santa Margherita Ligure e il congresso di Capri, due momenti molto importanti nei quali noi giovani imprenditori portiamo istanze che a volte sono di rottura, a volte sono propositive, cioè chiediamo alla parte istituzionale che cosa vorremmo che il Governo facesse per favorire l’imprenditoria giovanile e, in generale, la crescita del Paese. A livello territoriale cerchiamo di replicare quello stesso modello organizzando eventi che possano stimolare le istituzioni regionali e locali affinché si compia la promozione dell’imprenditori giovanile, tanto è vero che molti risultati li abbiamo ottenuti proprio essendo di supporto all’attività istituzionale dei Governi che quotidianamente ci accompagnano nella nostra vita. Operiamo come Unindustria, che è stata la prima Confindustria a livello locale su base regionale: inizialmente per ogni provincia c’era una Confindustria, mentre ora, con la sparizione delle province e la modifica del titolo V della Costituzione, i nostri senior hanno avuto l’intuizione di ammettere che relazionarsi con l’istituzione locale non aveva più senso perché tantissime funzioni solo sono in capo alla Regione, ed ha creato un’unica Confindustria locale, però su base regionale, spostando sulle Regioni il livello di rappresentanza. Così ad oggi il presidente di Unindustria, attualmente Filippo Tortoriello, porta le istanze di tutti i territori del Lazio direttamente al presidente della Regione, Nicola Zingaretti, cosa che prima era più difficile perché non era tra i due ruoli riconosciuto lo stesso grado istituzionale trovandosi su due piani diversi, uno regionale ed uno locale. È stata una grande rivoluzione che si riflette anche sul nostro statuto; anche le altre Confindustrie locali si stanno aggregando per innalzare il livello delle relazioni tra Regioni e la Confindustria a livello regionale.

D. All’ultimo vostro recente congresso tenutosi a Capri avete parlato di Amatrice. In che termini?
R. Ne abbiamo parlato formalmente e abbiamo portato avanti la nostra raccolta fondi. Subito dopo il terremoto, con il presidente regionale Fausto Bianchi abbiamo deciso che la nostra associazione benefica «Impresa da bambini» diventasse l’organo interregionale, ovvero nazionale, di raccolta fondi per tutti i giovani imprenditori d’Italia. L’associazione è nata per fare opere di beneficienza all’interno della Regione Lazio. Grazie a questa iniziativa in tutti gli eventi locali, regionali e nazionali del Gruppo siamo in grado di portare avanti la nostra raccolta fondi, e in una lettera il presidente nazionale dei Giovani Imprenditori di Confindustria Marco Gay dichiara che parte di questi fondi andranno ai bambini delle popolazioni terremotate. Stiamo valutando alcuni progetti che ci sono stati proposti. Una volta terminata la raccolta fondi vedremo a quanto ammonterà il nostro budget e ne disporremmo parte a favore di Amatrice, Accumoli e Arquata. A dicembre terremo l’evento «Interregionale del Centro», una «macroconfindustria» che riunisce le 4 regioni centrali Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo, e parleremo di alcuni temi anche relativi al sisma, oltre ad effettuare ancora una volta una raccolta fondi da destinare a «Impresa da bambini».

Schermata 2016-10-31 a 19.20.19D. Quali progetti specifici avete adottato per Amatrice?
R. Il progetto che è nato subito dopo il terremoto è «Adotta una scuola», attraverso il quale ci impegniamo per apportare benefici all’attività scolastica rivolta specificamente ai bambini. Le cose da fare qui sul territorio sono tante, è chiaro che noi ci dedicheremo ad un piccolo aspetto, il mondo della scuola, ma daremo anche visibilità all’esterno; il 13 settembre in occasione dell’apertura dell’anno scolastico ad Amatrice è venuto il presidente Marco Gay, ed ha incontrato il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, il commissario straordinario Vasco Errani, il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi, ed è stato un momento di condivisione e di sostegno verso queste popolazioni. In particolare il Gruppo del Lazio ha fatto una buona raccolta e da subito si è attivato il nostro supporto avendo io un contatto con il Coc: il Centro operativo comunale mi indicava le necessità più urgenti e noi provvedevamo, ad esempio nel fornire gasolio, acqua potabile, cartoleria di vario genere per le scuole, frigoriferi e congelatori. Nel giro di 48 ore consegnavamo il tutto. Siamo stati i primi a portare, come Gruppo Giovani di Confindustria, delle cose qui ad Amatrice, e il presidente nazionale è stato il primo a venire qui nei territori a prendere coscienza della portata del sisma.

D. Come avete provveduto alla consegna del materiale alla scuola?
R. C’è stata un’assoluta vicinanza da parte di tutti, ho ricevuto supporto e disponibilità, è stato un movimento spontaneo venuto dal cuore verso le popolazioni colpite, e quando abbiamo consegnato i giocattoli ai bambini è stata un cosa stupenda e commovente. Il mio lavoro è stato quello di organizzare e di seguire l’evolversi delle situazioni, quindi coordinare al più possibile le richieste che venivano dal Coc e poi, con l’apertura dell’anno scolastico, procedere alla raccolta dei giochi e fare sì che tutto potesse funzionare. Trascorrevo ad Amatrice quattro giorni a settimana per vedere come procedevano i lavori a scuola.

D. Avete coinvolto il sindaco?
R. Sergio Pirozzi sarà ospite a Capri in videoconferenza, perché l’idea è quella di mantenere l’attenzione alta su queste zone, anche perché la fase post terremoto non è finita, anzi, è appena iniziata.

D. Quanti giovani siete?
R. Sul Lazio siamo circa 220 iscritti, ma siamo tutti coinvolti, non solo noi del Lazio.

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D. Lei, aquilano, ha vissuto due terremoti. Ha notato delle differenze particolari?
R. Differenze non ce ne sono, noto solo una grandissima forza di volontà e un carattere forte delle popolazioni, anche se la ricostruzione sarà un processo che li accompagnerà per molto tempo.

D. Per quanto riguarda la prevenzione cosa ha da dire?
R. Sulla prevenzione io auspico che parta il progetto di Casa Italia, che è stato ipotizzato e che è necessario. Se per le macchine ogni quattro anni è obbligatoria la revisione, perché non dovrebbe esserlo anche per la casa? Questo è il dilemma che si è posto il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente, in realtà è una cosa di buon senso perché bisogna creare la cultura della sicurezza, bisogna avere la coscienza che la casa in cui viviamo è a tutti gli effetti sicura.

D. Sono i giovani che devono maggiormente inserirsi in questo processo di evoluzione culturale.
R. Se noi siamo ancora di più parte diligente in questo percorso, sicuramente la generazione che verrà dopo noi ne avrà giovamento.

D. Ma non si capisce perché questo non è stato ancora fatto.
R. Guardiamo avanti. Io non guardo nello specchietto retrovisore. Non è stato fatto? Va bene, ma guardiamo avanti. Non significa che da oggi non si possa fare.

D. Le istituzioni hanno reagito bene dal suo punto di vista?
R. Sì, ritengo ci sia stata una buona risposta e si sente che c’è una grande sensibilità, e questo aiuta.

(di ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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REPORTAGE AMATRICE. SINDACO SERGIO PIROZZI: NON PARLIAMO DI IERI NÉ DI OGGI, PARLIAMO DI DOMANI

Schermata 2016-11-02 a 13.58.34Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice, allenatore di calcio, parla non di «terremotati» ma di «sfrattati a tempo», perché guarda al futuro e sa che questa è solo una situazione transitoria. Al suo secondo mandato. I morti non torneranno in vita, ma Amatrice risorgerà. Lo incontriamo al Coc, il Centro operativo comunale di Amatrice, dove si è insediato, oltre il sindaco, il gruppo emergenza, cuore pulsante del coordinamento del lavoro di tutti i soccorritori e degli addetti alla gestione post sisma in loco.

Domanda. Sono appena stati stanziati 35 milioni di euro per l’emergenza e già altri 220 milioni per la ricostruzione. Pensa di aver ottenuto il giusto?
Risposta. Il decreto è stato importante perché ha tenuto conto di un fattore economico del territorio. Mi riferisco al mondo delle seconde case che ad Amatrice era predominante poiché su 6.200 abitazioni ben 5 mila erano seconde case, per cui tutto quello che era il mondo economico si reggeva su chi veniva qui nei periodi estivi e in quelli invernali. Feci presente subito che era imprescindibile, nella fase di attuazione del decreto, che si tenesse conto di questa realtà, per cui aver strappato la contribuzione al 100 per cento sia per le prime che per le seconde case è un punto di partenza. Dissi che, se non si fosse intervenuti in tal senso, sarebbe stato utile ricevere il TFR in modo da andare via tutti.

D. Quanto serve?
R. Quattro miliardi e mezzo, tre miliardi e mezzo per i privati e un miliardo per gli edifici pubblici; gli aiuti che arrivano a noi sono per il sostegno alla gente.

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D. È stato anche un grande danno all’economia. Com’è tutelata?
R. Nel decreto per la prima volta si sono considerate le strutture temporanee, parlo del mondo dell’imprenditoria e del commercio che non c’è più avendo noi perso il 92 per cento delle attività, le quali erano tutte all’interno del centro storico. Con questo decreto sarà lo Stato a farsene carico. Noi siamo partiti immediatamente con la scuola, mentre la consegna delle case a tempo dovrà avvenire a Pasqua, ma dobbiamo riattivare tutto il tessuto economico. L’intervento deliberato dal Governo è stata una vittoria: non è mai stato un assalto alla diligenza, bensì un fatto che partiva da un’esigenza di chi vive la realtà e sa quali sono le problematiche e come devono essere affrontate. È chiaro che senza questo decreto oggi saremmo via tutti.

D. Invece così è più probabile che rimaniate tutti, e che tornino coloro che si sono spostati in altri Comuni.
R. Rimangono i residenti, tornerà il mondo delle seconde case, che veniva qui ad Amatrice perché c’erano servizi, commercio, artigianato e molto altro.

D. Era una cittadina molto attiva?
R. Sì, contava più di 1.200 posti letto tra alberghi, bed and breakfast, agriturismi, era un mondo in crescita, da poco era ripartito anche il caseificio che era stato chiuso 5 anni fa. Adesso la sfida sarà ricostruire bene. Se non ci fossero state queste misure, che io avevo caldeggiato dall’inizio, sarebbe stata la morte di Amatrice.

D. È stato facile ottenerle?
R. Erano logiche. Bisogna avere la capacità di chiedere il giusto, questo era un elemento indispensabile grazie al quale abbiamo ottenuto quanto spettava. Ci siamo visti parecchie volte con il commissario straordinario per la ricostruzione Vasco Errani per trattare questi argomenti.

Schermata 2016-11-02 a 13.57.54D. In questo momento come funziona Amatrice?
R. Al momento non c’è più niente, la gente lavora alla ricostruzione. Ho portato al Consiglio comunale un regolamento per dare un contributo a chi ha perso tutto, e parlo del mondo che non ha tutele come quello delle partite Iva e dei commercianti, regolamento che prevede per tali categorie un contributo fino a Pasqua, quando saranno consegnate le case temporanee.

D. Ci sono ancora degli sciami sismici?
R. Sì, ma siamo abituati.

D. Se siete abituati, perché non c’era prevenzione?
R. Su questo argomento di stupidaggini ne ho sentite tante. Qua sono crollati gli edifici pubblici, ma anche tantissimi privati. È stato un terremoto la cui portata è stata la più elevata degli ultimi 400 anni: a noi il terremoto de L’Aquila, che abbiamo sentito, non aveva fatto niente. È facile parlare di prevenzione, ma la verità è che qui c’è stato un evento catastrofico che ha fatto 236 morti, e nella cosiddetta «zona rossa» non è rimasto più niente.

D. Lei ha perso la casa?
R. No, ha riportato solo alcuni danni. Io abito in periferia, ma comunque in una zona attaccata al centro. Ho perso però tanti amici, non ho l’acqua calda, non ho il metano, ma questo non è un problema individuale, è un problema di tutti, e in questa fase bisogna convivere con tutte le problematiche.

D. Nessuno nasce sindaco di una città terremotata.
R. Io preferisco dire «sfrattato a tempo», perché se sei terremotato lo sei per tutta la vita. Noi vogliamo cambiare e riportare in vita Amatrice.

D. Quali sono le prospettive?
R. Qui c’è da ricostruire tutto, ma dopo la morte c’è sempre una vita e questa potrebbe essere anche l’occasione per una rinascita, per una presa di coscienza collettiva, per rendere più bella Amatrice di com’era. Ci vorrà tempo, ci vorrà pazienza, ci vorrà amore, ci vorrà la capacità di non mettere il problema personale davanti al problema collettivo. Dobbiamo fare come i nostri padri, che sono stati artefici della rinascita dell’Italia dopo la guerra mondiale: se ci sono riusciti loro, perché non dovremmo riuscirci noi?

D. Sulla tempistica per la consegna dei moduli abitativi lei ha dato il termine di Pasqua: sarà rispettato?
R. Sì, anche perché a Pasqua c’è il giorno della resurrezione, e non c’è modo migliore per rispettarlo. Ci saranno moduli abitativi di emergenza fatti bene, ma per la vera ricostruzione ci vorrà tempo.

Amatrice scatti Romina Ciuffa

D. La struttura del Coc, il Centro operativo comunale, costituisce al momento il punto di riferimento della popolazione. È stata messa in piedi per l’occasione?
R. La struttura già c’era ed ospitava la sede del Liceo scientifico, adesso è invece stata adibita alle esigenze dell’emergenza. Abbiamo solo questo, ma stanno consegnando altri moduli e ne faremo un ufficio ad hoc in cui io possa lavorare meglio.

D. Cosa sta imparando da Amatrice?
R. In questa fase la grande lezione per tutti è questa: noi giornalmente andiamo a duemila e non diamo il giusto valore a tante cose. Dopo questa esperienza riusciremo ad apprezzare tante piccole cose come ad esempio la doccia, l’acqua, un paio di scarpe, io mi sono sognato per quindici giorni la Coca Cola. In un mondo dove tutto si consuma ad una velocità eccessiva e non si dà valore a niente, forse questo è stato un grande insegnamento per me e mi auguro che sarà per i miei figli e per le giovani generazioni, perché in un attimo puoi perdere tutto quello che hai creato in una vita. La sera da solo, quando vado a letto, mi salgono i ricordi. Questo era un Comune con 100 mega in fibra, wi-fi gratuito, la raccolta differenziata era al 63 per cento, eravamo uno dei borghi più belli d’Italia. Se si è sindaco di una piccola comunità poi, si conoscono tutti, e coloro che sono morti per me non erano numeri, erano il fornaio, il macellaio, l’amico d’infanzia, il barbiere. Io non so se questa esperienza mi renderà migliore, ma sicuramente è un grosso bagaglio.

D. Tutti i contributi delle raccolte fondi arrivano davvero?
R. Noi abbiamo un conto corrente dedicato per l’emergenza terremoto, altri versamenti vanno direttamente sul fondo della Protezione Civile che è stata molto presente. Sono successe cose straordinarie, una fra tante: un ristoratore di New York, emigrato italiano, ha fatto una serata a base di pasta all’amatriciana, che è il nostro piatto, ed è venuto personalmente a consegnarmi un assegno di 3 mila dollari americani.

D. Chi ha perso tutto dove si trova adesso?
R. Tanti qui sono andati nelle seconde case che erano agibili, ma c’è un profondo senso di appartenenza al territorio.

D. I media come si comportano?
R. Ho letto poco perché qui non ci arrivano i giornali, anche perché le edicole non ci sono più. Io per primo ho perso la mia edicola-cartoleria. Ma è meglio non leggere, perché se leggi ti viene il sangue cattivo e invece devi essere concentrato non sul passato e sul presente, ma direttamente sul futuro. Ho avuto la fortuna di non leggere i giornali.

D. Il Trentino ha fatto la scuola. Come mai arriva da lì questo progetto?
R. Perché mi sono sbrigato. Ad Arquata stanno ancora in tenda. Ho fatto subito la presa di possesso dell’area e ho detto che bisognava partire dalla scuola. La Regione in quei primi giorni era ad Amatrice con la sua Protezione civile, e mi sono subito accordato con loro. In questi casi non si può perdere un attimo di tempo, bisogna fare, bisogna muoversi. (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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REPORTAGE AMATRICE. MAX DE TOMASSI: SE DOMO NON VA AL BRASILE È MARISA MONTE CHE VA A DOMO

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L’intervista di Romina Ciuffa a Max De Tomassi giornalista, esperto di Brasile e uno degli 8 residenti di Domo, dove ha portato in vacanza Marisa Monte pochi giorni prima del sisma.

Sono 69 le frazioni di Amatrice, la più distante è Domo, a 14 chilometri e 24 minuti secondo Google Map. Sita a 870 metri sul livello del mare, ha, d’inverno, 8 residenti. Tra questi il giornalista Rai Max De Tomassi, conduttore radiofonico della trasmissione «Brasil» e profondo conoscitore della cultura verdeoro. La sua casa è caduta, come le altre, il pagliaio, avente un tetto di legno, si è mantenuto. Si trovava all’interno dell’abitazione, alle 3:36 del 24 agosto, sua figlia Benedetta, che trovandosi in salone non è rimasta colpita dalle macerie che sono crollate nella sua camera da letto.

Domo ha una storia sismica interessante: infatti, nel 1639 era già stata completamente rasa a terra da un terremoto, e ricostruita. Ma più in là, dove ora si trova. Max De Tomassi mi descrive la situazione del suo «vilarejo», in portoghese brasiliano letteralmente «villaggio», e titolo di uno dei più noti brani della grandissima cantante Marisa Monte che proprio a Domo aveva trascorso, pochi giorni prima del sisma, le vacanze.

Domanda. Si è fatto molto parlare di Amatrice ma pochi si sono soffermati sulle frazioni che sono, comunque, rimaste colpite dal terremoto.
Risposta. È bene sottolineare l’importanza delle frazioni. Amatrice è un Comune di Rieti, recentemente il decreto ha dato determinate garanzie ai possessori di seconde case. A Domo, come nelle altre frazioni, molti posseggono una seconda casa, si tratta di una delle economie più importanti di Amatrice che riempie di persone tutto il territorio comunale per le vacanze estive ed invernali. Va enfatizzata l’importanza delle frazioni e quindi anche di un posto piccolo come Domo. Non ci sono frazioni particolarmente grandi, si possono trovare una quarantina di persone.

D. Lei è uno degli 8 residenti.
R. Sì, siamo 8, ma di frazioni come Domo ce ne sono tante. Domo è un posto unico, e qui subentra il campanilismo che è in ognuno di noi: quindi per me Domo è il posto più bello del mondo perché ci sono cresciuto, perché lì ho imparato ad andare in bicicletta, perché cacciavo le lucertole, raccoglievo i funghi con le castagne, facevo una vita libera. Domo è la libertà per tutti noi che ci siamo cresciuti e che ci siamo fatti grandi da quelle parti, Domo è il posto in cui i genitori aprono la porta di casa e dicono ai figli: «Torna a pranzo», e i figli rientrano soli perché non ci sono rischi di automobili o di altro tipo. È il posto ideale per meditare, per ritrovarsi, per fare le cose più semplici della vita, che sono anche le più belle: stare davanti al camino, fare passeggiate nel bosco, cercare le sorgenti di acqua purissima, pescare le trote con le mani, parlare con i pastori, mangiare formaggi appena fatti, in una dimensione d’uomo bucolica.

D. Domo è stata colpita dal sisma?
R. È stata colpita da un punto di vista architettonico. La maggior parte delle case sono inagibili, ma non ci sono stati morti.

D. Vi accorperanno nei moduli abitativi con altre frazioni?
R. Al Coc mi hanno detto che daranno moduli abitativi a chi ne farà richiesta e ne avrà il diritto, e li accorperanno in luoghi dove sarà più semplice fare opere di urbanizzazione.

Schermata 2016-11-02 a 13.18.18D. Una delle più grandi cantanti brasiliane, Marisa Monte, è venuta in vacanza a Domo pochi giorni prima.
R. A giugno mi trovavo in Brasile da lei, pranzavamo come sempre a casa sua, e mi ha manifestato il suo desiderio di fare un viaggio in Italia. Le ho proposto di venirmi a trovare in montagna, a Domo, per poi andare insieme al mare, in barca, per farle conoscere il Mediterraneo. Così è arrivata con suo marito e i suoi figli facendo una prima tappa a Venezia, città d’arte, passando per la montagna e quindi arrivando tutti insieme in Sardegna.

D. Ha avuto la fortuna di vedere luoghi che ora non esistono più.
R. Esatto, siamo stati anche a visitare Amatrice. Racconto un aneddoto: da poco mi ero tagliato i capelli dal mio barbiere di sempre, Pietro Serafini, di 84 anni, e incontrandolo lo salutai presentandolo. Così pensarono che sarebbe stata una esperienza farsi fare i capelli «all’italiana», e chiedemmo a Pietro se avesse due posti liberi per loro nel suo negozio. Lui li accolse con gioia e tagliò loro i capelli. Pietro, un simbolo di Amatrice, è morto sotto le macerie. Mi tagliava i capelli fin da quando avevo un anno, era lui ad avermi fatto il primo taglio.

D. La sua casa ha subito danni?
R. È inagibile, va abbattuta e ricostruita da zero.

D. Domo nel 1639 ha subito un altro terremoto, quindi era già stata ricostruita da capo.
R. Sì, ma era stata ricostruita in un’altra area: l’area del terremoto del 1639 adesso è solo un prato 400 metri più in là.

D. Sembrerebbe un triste destino.
R. È un’area sismica: non si può cambiare il destino spostandosi di 400 metri.

D. Ma oggi Domo non è completamente distrutta, si potrà ricostruire sopra lo stesso borgo.
R. Sì, inoltre le tecniche sono diverse, anche perché probabilmente la ricostruzione su case del 1600 sarebbe stata molto più complicata di oggi. Oggi si distrugge e si rifà.

D. Aggiungendo che ora c’è più cultura del terremoto, si potranno fare costruzioni antisismiche, anche se commettiamo spesso gli stessi errori.
R. Sì, ma consideriamo anche l’ignoranza dell’essere umano che dopo il primo terremoto ha costruito palazzi pensando che contro un tale cataclisma bastassero delle pareti profonde 60 centimetri. Con gli anni la legge è cambiata, ma le pareti e le mura sono rimaste le stesse di un tempo, nonostante la legge antisismica imponesse il tetto in cemento: eppure è stato proprio questo tipo di tetto che ha fatto crollare le case. Paradossalmente il mio pagliaio, avente un tetto di legno, non ha subito danni.

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D. Marisa Monte ha scritto una delle canzoni di maggior successo, «Vilarejo».
R. «Vilarejo» significa «villaggio», e già nel mio emotivo identificavo questo «vilarejo» di cui parlava il suo testo nella mia Domo. Quest’estate, quando eravamo a casa mia, sentivo Marisa parlare al telefono con la moglie di Caetano Veloso e le diceva proprio questo: che ci trovavamo in un vero e proprio «vilarejo», dove ci si conosce tutti, si mangia insieme, si vive in collettività.

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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EVANDRO DOS REIS: UN MICHAEL JACKSON DI “VERDEORO” COLATO

di ROMINA CIUFFAEvandro Dos Reis, chi non lo conosce? Tutti sanno che è stato, a Roma, uno dei fondatori del movimento brasiliano di questo millennio, importando dal Brasile la roda de samba che, con un altro folto gruppo di brasiliani, ha animato le notti prima della Fonderia, poi di molti altri luoghi e locali romani, come si fosse a Ramos, zona Nord di Rio de Janeiro, dove è attivo dal 20 gennaio del 1961 uno dei blocchi carnevaleschi più noti, quello dei Cacique de Ramos. Così Evandro, trasferitosi a Roma pieno di valigie musicali, ci ha trasportato da Roma a Ramos attraverso dei grandi capotribù, i Cacique de Roma. Da allora l’attività di questo paulista non è mai terminata in Italia, che grazie a lui ha conosciuto meglio non solo il Samba, nelle note della sua chitarra e del suo cavaco, ma anche il genere del Forrò, che Evandro predilige (oggi questa predilezione si è formalizzata nel gruppo neonato a San Paolo, i Matuto Baião) non mancando la tradizione della MPB, della quale Evandro Dos Reis ci rende partecipi da sempre. Tornato stabilmente in Brasile, trascorre vari mesi l’anno a Roma, facendo parte integrante e fondamentale dell’Orchestra di Piazza Vittorio, di recente essendo stato anche tra i protagonisti incontestabili del Roma Forrò Festival, figlio anche di quella generazione che al Beba do Samba di San Lorenzo ha avuto l’occasione di conoscere cosa voglia davvero dire “verde-oro”. Chi non conosce Evandro Dos Reis? Nessuno. Ma chi lo conosce bene, davvero? Pochi. Per questo, lo intervisto per dar conto di una realtà capiente che ci ha liberati dalle dissonanze, e sapere di Evandro cose in più: dov’è nato, cosa lo ha portato in Italia, etc.? E poi, chi è che sa che lui cominciò come i Jackson Five, nella band dei cugini, Tudo em Familia? Un brasiliano Michael Jackson, per noi “verdeoro colato”.

Evandro, puoi raccontare discorsivamente ed emotivamente la tua biografia? Sono nato a Osasco, in Brasile, in una famiglia di musicisti, mia mamma e le mie zie cantano benissimo, suo padre (mio nonno) e suo fratello suonano e costruiscono fisarmoniche, sono cresciuto ascoltando loro cantare nelle feste di famiglia, ma anche a pranzo o durante le faccende quotidiane. Quando ho fatto 6 anni mio cugino mi ha regalato uma chitarra classica e mio padre mi ha messo in uma scuola di musica dove ho studiato per 4 anni. A 10 anni sono entrato in Conservatorio, dove ho studiato per 7 anni; e nel mentre ho fondato la mia prima band Tudo em Familia assieme ai miei cugini, abbiamo fatto um sacco di concerti in giro per São Paulo e inciso un vinile in un festival di samba dove la prima canzone che io ho composto é arrivata quarta. A 17 anni mi sono iscritto alla Universidade Livre de Musica dove ho studiato per 4 anni e, appena finito, ho iniziato a lavorare in una nave da crociera. Lì ho conosciuto quella che poi sarebbe diventata mia moglie, e così sono finito in Italia.

In Italia quale è stata la tua esperienza? La prima persona con la quale ho lavorato in Italia è stato Giacomo Bondi, con lui ho collaborato come strumentista e come autore, e nel 2004 abbiamo inciso um cd, “Evandro Reis”, con delle mie canzoni arrangiate da lui. Tramite questo lavoro siamo stati invitati dal conduttore radiofonico di Rai Uno Max de Tomassi per fare un’intervista nella sua trasmissione Brasil: Max è stato ed è tutt’ora una persona con cui collaboro e chiacchiero volentieri di musica. Tramite lui ho lavorato prima con Franco Cava, suonando nella sua band in Italia, e poi com Jovanotti nella band che ha suonato al Live8.

In che modo sei entrato a far parte dell’Orchestra di Piazza Vittorio?  È una storia interessante: tre anni prima ero stato invitato da Mario Tronco a suonare con l’Orchestra di Piazza Vittorio (OPV) che in quel periodo aveva appena fatto il primo concerto, La cosa non si era conclusa e le nostre strade si erano divise, fino a quando due miei amici in vacanza dalla nave persero il treno che da Genova li avrebbe portati a Roma e, rimasti un giorno in più a Genova, la sera andarono a vedere l’OPV e a fine concerto, chiacchierando con il Maestro Tronco, hanno contestato il fatto che in un’Orchestra del genere non vi fosse un brasiliano. Mario parlò di me e loro, increduli, gli confidarono che il giorno seguente sarebbero stati ospiti a casa mia, così Mario gdiede loro il suo numero di telefono dicendo di chiamarlo. L’ho fatto e ci siamo dati appuntamento per settembre quando l’Orchestra avrebbe iniziato a registrare il suo secondo album “Sona”, senza sapere nel mentre che io suonavo nella band di Jovanotti e Jovanotti aveva invitato l’Orchestra a fare una partecipazione ad una canzone, così ci siamo rivisti proprio in occasione del Live8 e da lì è iniziata l’avventura più bella della mia vita: ho suonato con l’OPV per 8 anni e con essa ho realizzato tutti i sogni che un bambino che impara a suonare uno strumento musicale ha, ho inciso dischi incredibili, ho suonato nei più importanti palchi e del mondo, ho lavorato con produttori mondialmente conosciuti. L’Orchestra mi ha dato la possibilità di capire e conoscere musiche, culture, credenze e ideologie che porterò con me per sempre, ogni musicista che suona in quel gruppo potrebbe scrivere libri e libri di storie e conoscenze e convivere con questo: l’esperienza non ha prezzo! Il mio lavoro con l’Orchestra ha avuto un’interruzione nel 2012, la crisi aveva portato dei cambiamenti in Italia ed io nel mentre sentivo un’enorme curiosità di capire chi ero al di fuori del contesto di gruppo, L’Orchestra è comoda perchè ti fa sentire importante, ma volevo capire cosa avrei potuto combinare da solo, o semplicemente in un contesto diverso, così sono partito per una vacanza alla fine del 2012 ed ho deciso di restare in Brasile.

In sintesi: la mia storia con l’Orchestra di Piazza Vittorio comincia nel 2002 anche se il mio ingresso è stato nel 2005 dopo l’incontro sul palco del Live8 dove suonavo con Jovanotti e lui ha invitato l’Orchestra a partecipare alla presentazione, ho iniziato durante le registrazioni del disco Sona, poi nel 2006 e 2007 abbiamo girato il mondo con il disco ed il documentario, nel 2008 e 2009 abbiamo fatto il primo spettacolo teatrale, il Flauto Magico, dove io facevo uno dei 3 fanciulli, con il quale spettacolo abbiamo girato tanto; nel 2012 abbiamo fatto il disco Isola di Legno, con canzoni autorali  disco  che coincide con il mio ritorno al Brasile, fino al 2015 quando sono stato chiamato dal Maestro Mario a Roma per fare il Don Josè alla Carmen secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio.

Quali sono state le tue prime esperienze musicali? E come si è susseguita la tua carriera musicale fino ad oggi? Con i i miei cugini nel gruppo “Tudo em Familia” ho iniziato a suonare nei primi palchi “veri”, ho scritto le mie prime canzoni, ho inciso una canzone in un disco per la prima volta! La mia carriera musicale è stata piena di colpi di scena e molto intensa fino a qui, ho iniziato molto presto e tutto quello che io sono intelettualmente e ideologicamente parlando lodevo alla musica.

Chi sono stati i tuoi principali ispiratori? Musicisti o falegnami, genitori o insegnanti, bulli o matematici… che nomi? Da sempre sono ispirato dalle cose che mi circondano, sono sempre stato molto curioso ed ho sempre il perché dei bambini piccoli, la strada brasiliana, credo, sia stata la prima ispirazione, quando ero ragazzino si cresceva molto in fretta in Brasile, stavamo sempre per strada a giocare prima, amare e lavorare dopo, tutto molto velocemente. Ho da sempre preso ispirazione dalle cose che mi capitavano o incuriosivano, le mie storie d’amore (banale ma vero) sono state le prime ad uscire dalla mia mente per finire sulla carta, ma ho avuto anche muse ispiratrici della cui figura mi innamoravo, ma che non necessariamente divenivano storie d’amore, “Tatuagem” infatti, la prima canzone del disco della Matuto Baião l’ho scritta per una ragazza che ho visto ad un matrimonio, lei aveva un bellissimo tatuaggio sulla schiena. Poi ho scritto altre per lei che non ho ancora inciso e non siamo mai stati insieme… Scrivo spesso cose sul calcio, il calcio è troppo bello e non c’è bisogno di aggiungere altro.

Cosa ti ispira in questo momento? In questo perìodo sono molto ispirato dalla filosofia, il concetto delle cose: partendo dai greci fino al nostro periodo, leggo libri e libri, finisco uno che menziona un’altro e così via… Mario Sergio Cortella mi ispira molto, ma anche Clovis de Barros, tramite loro ho conosciuto Umberto Eco, ma anche Kant ed altri, a volte penso che impazzirò! Non ha fine questa cosa! Comunque l’ispirazione può partire nei modi più assurdi, ieri ero nella metropolitana e leggevo un post di un’amica, Carmel Dutra, che tornando da un viaggio spiegava la parola africana ubuntu che esprime una filosofia ed un antico concetto di etica: “Sono ciò che sono perché siamo tutti noi”. Alla fine lei ha scritto “porque sou o que sou pelo que nós somos”, sono ciò che sono per quello che siamo noi. Io ho commentato: “Ne uscirà fuori una bellìssima canzone”, e lei ha confermato: “Sarebbe bellissimo”. L’ispirazione tramite ciò che mi circonda!

La Banda Matuto Baião, appena nata, è il tuo passo musicale più recente, ed è un passo di Forrò. Puoi raccontare in che modo si è formata e cosa vi anima? La band è formata da 3 persone io, Tiago Nepomuceno e João Lopes, ci siamo conosciuti tramite Priscila D’Oro, assistente di direzione forrozeira e mia amiga del cuore che ho conosciuto a Roma. Quando siamo tornati in Brasile frequentavamo i forró di São Paulo e lei me li ha presentati, siamo diventati amici e condividevamo l’idea che la scena del “forró pé de serra” in Brasile non era molto creativa, ci sono molti musicisti e band valide ma molte cose sono semplicemente copie del lavoro fatto da Luiz Gonzaga. Noi volevamo fare un lavoro autorale, qualcosa che in grande o in piccolo contribuisse alla causa.

Sono brani autoriali: di cosa parlano? Chi li scrive? I brani li scriviamo io e Tiago Nepomuceno e i temi sono vari, ma in comune hanno la semplicità della vita quotidiana, cose semplici come il fatto di chi lavora tutta la settimana aspettando di andare al Forró nel fine settimana a ballare con una certa persona (“Passo a passo“), oppure di una persona che vive in campagna e riesce a vincere anche in un contesto urbano (“Resposta a saudade”), ecco, questioni di vita semplici, e a volte anche complicate. Obiettivamente, questo “penta”album ha una qualità molto elevata.

Il Forrò è sempre stato appannaggio di alcuni grandi (è proprio del Brasile “ripetere” brani altrui, differentemente dalle modalità italiane). Cosa ti/vi ha dato questo coraggio? Ho fatto sentire ad alcuni amici che hanno band o lavorano con il Forró i nostri brani quando ancora erano demo e la loro reazione era sempre meravigliata: “Tutti brani vostri? Non ci sono cover?”. Questo perché nel ambito del Forró esiste da sempre la filosofia di ri-registrare brani, a volte, con un arrangiamento molto simile alla versione originale. Noi pensiamo invece che è fondamentale avere un’identità di gruppo, nel disco è stata una scelta pensata anche per la quantità di musica che io e Tiago scriviamo, abbiamo molto materiale, ma anche nei nostri concerti a São Paulo le cover che facciamo sono pensate, sono meno conosciute e sono riarrangiate per avere la nostra impronta.

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Una sfida ad ampio margine, un “salto nel vuoto?”, o meglio: un Forrò acrobatico: sarà un successo in Brasile? C’è la possibilità che “vosso Forrò” possa essere ballato nel Pelourinho o alla Feira de São Cristòvão, o inserito nella programmazione accanto a “Esperando na Janela”? O più probabile nei club vip di San Paolo? Noi facciamo del nostro meglio per aprire un nostro spazio, più spazio riusciamo ad avere meglio è, in realtà il forro “pé de serra”, quello di Luis Gonzaga ha un pubblico specifico e fa più sucesso al sud del Brasile che al nord dove è nato. Quindi conquistare questo pubblico è il primo obiettivo.

Sappiamo che il Forrò è nordestino. Voi nascete più a sud (per non dire troppo più a est… fino a Roma). Com’è il panorama forrozeiro di San Paolo? São Paulo senza dubbio è il posto dove si balla più Forró “pé de serra” di tutto il Brasile, la stramaggioranza delle band di Forró sono di São Paulo, c’è Forrò dappertutto ma a San Paolo la cosa è veramente grande.

Che differenza c’è tra il Forrò paulista/paulistano e quello nordestino? Il Forró è venuto dal Nordest del Brasile ma è stato diffuso per il resto del Brasile tramite Rio de Janeiro negli anni 40 e ha avuto il primo momento di moda in tutto il Brasile negli anni 50, fino agli anni 70 ha sempre avuto una grande buona fetta di mercato, negli anni 70 e 80 è caduto a causa della crescita della bossa nova e della Jovem Guarda, in questo perìodo gli artisti si spostavano tra Rio e São Paulo dove molti nordestini venivano a tentare fortuna, ed andavano al Nordest nel periodo delle feste “juninas” (nel mese di giugno). Nei primi anni 90 è apparso al Nordest un nuovo tipo di Forró, non più con il trio sanfona (fisarmonica), zabumba e triangulo, ma con intere band, con batteria, basso, chitarra, ed una proposta molto più commerciale e molto meno autentica. Da allora al Nordest si suona più questo tipo di Forró mentre al Sudest è rimasta l’anima del Forrò tradizionale. Per carità, si suona il Forró tradizionale in tutto il Brasile e anche quello moderno si suona dapertutto ma sicuramente l’anima del Forró moderno è al nordest mentre il tradizionale è rimasto al sudest.

Puoi dirci cosa distingue questo “vosso” Forrò dal Forrò “deles”? Credo che il “nosso forrò” sia esattamente questo, un richiamo al Forrò che ho imparato dai miei genitori nordestini, un richiamo al Forró che é quello tradizionale, un omaggio ai compositori ed artisti che portano avanti una musica che è autentica brasiliana.

Perché “Matuto Baião”? Puoi spiegare al pubblico italiano il retroscena culturale, mentale, psicologico, ed anche nudo e crudo di questo nome? “Matuto” da noi è un persona che “non vive la vita di città”, una parola che molte volte è usata per un contadino o una persona che ignora certe cose come la tecnologia, al Nordest però si usa dire “matuto” a una persona intelligente “che pensa”, che “matuta”, riflette sulle cose. Io amo questa parola ed è stato il primo nome che Tiago ci ha suggerito. Mi fa pensare che il Baião, che è un ritmo, si sia personificato, o che il Baião è furbo, mi piace peensare a che faccia avrebbe avuto il “Matuto Baião”.

Cos’è il Baião? Baião è un ritmo brasiliano regionale, ballato al Nordest nelle feste popolari, registrato in vinile per la prima volta negli anni 30 con Luiz Gonzaga con la canzone omonima che spiega nel testo letteralmente “come si balla il baião”, da allora ballato in tutto il Brasile ma anche in molti posti del mondo, come Roma.

Sono solo 6 brani, in questa “Parte 1”. State procedendo a nuove composizioni? Dov’è possibile reperire il disco? Esiste un supporto fisico? Il disco è in tutte le piattaforme digitali, streaming o per download.

Avete in previsione un tour di presentazione in Brasile e/o in Europa/Italia? In Brasile stiamo suonando in posto importanti come il Remelexo a São Paulo, uno dei posti più importanti del Forrò “pé de serra”.

A Roma sei conosciuto molto per il Forrò, ma anche per aver portato, insieme ad altri brasiliani, la roda di samba dei Cacique de Roma. Puoi raccontarci come hai vissuto il Brasile romano, come lo hai visto evolvere e, dopo essere tornato in Brasile, come lo hai trovato ora che, di recente, sei tornato a farci visita? Roma è casa mia e per tanti versi mi piace molto che i brasiliani siano benvisti dal popolo italiano, mi piace che la nostra musica sia conosciuta dagli italiani, la comunità brasiliana a Roma è bella e folclorica, in generale ci si aiuta molto. La roda dei Caciques de Roma è stata una delle cose più belle che io abbia fatto nella vita, mi sono reso conto ancora di più quando sono tornato ed ho visto il Coletivo do Bigode, dove ci sono tante persone che suonavano con noi allora, mi piace ancora di più che quando ho visto per la prima volta tutti i musicisti erano italiani e la qualità della musica non ne rissentiva la mancanza di musicisti brasiliani. Questo è bello e fa capire il legato che i Caciques hanno lasciato.

Il Forrò in Italia: come lo trovi? Hai partecipato al Roma Forrò Festival. Com’è stata questa esperienza? Con chi hai avuto occasione di suonare? Sì, ho partecipato al Roma Forrò Festival e mi è piasciuto molto perché ho incontrato una comunità proveniente da tutta l’Europa apapssionata e che porta con avanti Francesca Maiolino il Forró autentico! Francesca sta facendo un gran lavoro con il Forró a Roma, la comunità è cresciuta molto e balla con maestria.

C’è qualche forrozeiro in Italia che è al livello di un forrozeiro brasiliano? Sì, ci sono persone che ballano il Forró alla grande in Italia o “meninão Ruggero” e la “menininha Martina” sono esempi ma potrei citarne molti altri, a partire da Francesca. Per me è bello vedere e far parte di questa realtà.

Come suona ai tuoi orecchi la pizzica? La pizzica è quasi una filosofia! È incredibile come si suona e come si balla, ho avuto la fortuna di suonare alla notte della taranta a Melpignano e la cosa è di un’altro mondo. Trovo che questa cultura regionale sia la motivazione per la quale voi imparate a ballare altri ritmi come la Salsa o il Forrò, siete un popolo di ballerini e di gente a cui piace fare festa, questo unito alla cultura poppolare forte che c’è in Italia vi aiuta molto a capirne altre manifestazioni simili.

Qual è l’obiettivo “sogno” che vorresti raggiungere? Credo di aver raggiunto molti di questi obiettivi, vorrei fare una carriera nella mia patria, ecco, questo sarebbe il sogno attuale.

Suonare… con chi? Un italiano/a e un brasiliano/a. E…? Se avessi avuto la possibilità avrei voluto suonare con Pino Daniele, ed in Brasile sicuramente con Gilberto Gil, il mio preferito.

Domanda per noi: come hai percepito “Rioma”? Ho scoperto Rioma conoscendo Romina!

Domanda a piacere (obbligatoria!) “Sei felice di quello che hai fatto fino ad ora con la musica?” Assolutamente sì.

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