PSICOLOGI DELL’AVIAZIONE: IL VOLERE CAPACE DI INTENDERE E DI VOLARE

di ROMINA CIUFFARoma, 24 giugno 2022. Facile dire “volare”, prova a “volare”. Un elemento, l’aria, che non ci appartiene se non perché abbiamo voluto appartenervi – dall’iconografica di dei con le ali ad Icaro, dagli aquiloni di stampo militare a Leonardo da Vinci, dai fratelli Montgolfier ai fratelli Wright fino a Fiorenza De Bernardi, Chesley Sullenberg, Samantha Cristoforetti. Facile cantare “Volare”, prova a pilotare un Boeing 747 o un Robinson 44. Prova ad avere la responsabilità di un volo e dei suoi passeggeri, lo stress psicofisico che da terra sale a bordo, anche le sfide della maniacalità egotica dell’essere un vero e proprio deus ex machina, è il caso di dire: un Dio in terra che governa una macchina. Volante.

La psicologia in aviazione è sempre stata presente, sin dai tempi iconografici, quando ancora l’aviazione non esisteva. Come dire: è nata prima la psicologia dell’aviazione dell’aviazione stessa. Ne è l’emblema n. 1 Icaro, identificazione di ambizioni smisurate incontrollabili e a qualunque costo, una nevrosi, dalla megalomania alla caduta nel vuoto. Ciò che è mancata è stata la dedica, da parte della psicologia stessa, di una branca interamente concentrata sull’aviazione stessa, che predisponesse – dopo un attento studio in specificità – gli strumenti per affrontare le continue, diverse, estenuanti, spesso troppo sotto pelle per non essere pericolose, sfide in cui il pilota e le altre figure correlate al volo si cimentano. E non solo in fase di crociera; non solo in fase di decollo e di atterraggio; sempre, nella “testa per aria”. Difatti: “Those who work in flight environment work in a hostile environment”, verbalizzava ad Amsterdam il dottor Frank S. Preston, direttore dei servizi medici di British Airways, durante il simposio “Safety and Efficiency in Airline Operations in the next 50 years” nel 1979, e più specificamente descriveva già alcune influenti caratteristiche psicofisiche e conseguenze del lavoro in aviazione nel suo articolo “Work in the Aviation Environment” del 1974.

Prima del 2018, nulla. Quindi, l’incipit: il Regolamento 2018/1042 della Commissione (EU) il 23 luglio 2018 (in Gazzetta il 27) che finalmente stabilisce “i requisiti tecnici e le procedure amministrative concernenti l’introduzione di programmi di sostegno e della valutazione psicologica dell’equipaggio di condotta e di cabina degli aerei”, e contiene la sintesi delle raccomandazioni elaborate dalla task force istituita dall’Agenzia europea per la sicurezza aerea (EASA) a seguito dell’incidente Germanwings del 2015.

GERMANWINGS 2015. L’Airbus A320-200, in servizio fra Barcellona (Spagna) e Düsseldorf (Germania) il 24 marzo 2015, precipitò al suolo con 150 persone a bordo per un’azione deliberata del primo ufficiale durante la fase di crociera sulle Alpi di Provenza francesi. Da quanto restava della scatola nera, emerse che il primo ufficiale Andreas Lubitz, approfittando dell’uscita del comandante Patrick Sondenheimer dalla cabina di pilotaggio, si barricò al suo interno e pilotò il velivolo diretto contro il suolo. Nella traccia audio furono registrati, dalle ore 9:34 UTC, i tentativi del comandante di rientrare in cabina, e alle 9:40 gli ultimi violenti colpi contro la porta della cabina. Il suicida tedesco si era ritirato per 11 mesi dall’attività per una grave depressione, fu poi giudicato idoneo a riprendere il comando; durante le indagini, in un bidone dei rifiuti fu rinvenuto un certificato medico che attestava che, il giorno dell’incidente, Lubitz sarebbe stato inabile al lavoro. La Germanwings non aveva avuto accesso a questa informazione, né avrebbe potuto considerate le norme tedesche a tutela della privacy.

 

Nella fase di recepimento delle norme europee interveniva anche il Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi (CNOP) con il Documento redatto dal Tavolo Tecnico del CNOP sulla Psicologia dell’Aviazione, approvato con deliberazione del CNOP n. 46 del 23 novembre 2018:

“È augurabile che sul tema in questione, e cioè sulla psicologia dell’aviazione, viste le esigenze e le richieste delle compagnie aeree, si possa quanto prima prevedere ed organizzare una formazione di terzo livello (corso di alta formazione, master, e – perché no – specializzazione post lauream), affinché i giovani professionisti possano orientare in maniera produttiva il proprio percorso professionale”. 

Da allora, sono sviluppati corsi e formazione per psicologi dell’aviazione, ma il percorso non è così scontato. In Italia, si distacca una realtà in particolare, invitata anche al Fly Future 2022 come organizzazione significativa per il futuro (e presente) dell’aviazione: IT-APA, l’Associazione di Psicologia dell’Aviazione in Italia, punto di riferimento per il settore che, nonostante le premesse semplici, è in realtà molto complesso.

Alessandra Rea, psicologa dell’aviazione e presidente di IT-APA, spiega (a margine di FLY Future 2022):

Ancora oggi, quando si pensa allo psicologo dell’aviazione si pensa al concetto classico, ma è più probabile trovarlo in cabina di pilotaggio che non dietro un lettino a prendere appunti”. Infatti, “si tratta di un professionista che è già operativo nell’aviazione, anche un comandante, e che opera applicando al mondo aeronautico le conoscenze e le metodologie proprie delle scienze psicologiche, con lo scopo di supportare i professionisti dell’aviazione a conseguire e mantenere performance che garantiscano elevati standard di sicurezza”.

Può pilotare l’aereo o curare l’attenzione ai passeggeri, può trovarsi in Torre di controllo o dirigere il traffico Ground; e, in più, è uno psicologo. Non è “solo uno psicologo”. Proprio questa la differenza fondamentale rispetto agli altri psicologi, come ad esempio le figure scolastiche: lo psicologo a scuola non è (necessariamente, probabilmente) un insegnante o un bidello; lo psicologo dell’aviazione invece, si trova front line, è parte integrante del sistema, lavora in un contesto di gestione del rischio e ha, come obiettivo, quello di garantire e migliorare i livelli di prestazione in un mondo che è in continuo cambiamento, produttivo di un tipo di fatica e stress le cui conseguenze possono essere molto più dannose che in altri settori.

Lo Human Factor è al centro di tutto.

Lo psicologo, in aviazione, può incontrarsi nei momenti della selezione, dell’addestramento, della valutazione (cui annualmente e sempre si è sottoposti nel mestiere aeronautico) e sì, anche del supporto sic et simpliciter, ossia sul noto “lettino”, se necessario. Lo incontrano, tra gli altri, i piloti, gli assistenti di volo, i controllori CTA, i manutentori, il personale Atsep (Air Traffic Safety Engineering Personnel*), non solo in entrata ma anche nel corso della carriera, nello spostamento di mansioni, nell’evoluzione. *ATSEP è il termine riconosciuto dall’ICAO (International Civil Aviation Organization) per indicare il personale tecnico coinvolto nelle operazioni di funzionamento, manutenzione ed installazione dei sistemi di comunicazione, navigazione, sorveglianza e gestione del traffico aereo (CNS / ATM).

Il Regolamento europeo al punto 2 chiarisce:

“L’Agenzia europea per la sicurezza aerea ha individuato un certo numero di rischi per la sicurezza e ha formulato una serie di raccomandazioni per attenuare tali rischi”. L’attuazione di alcune di esse esige “modifiche normative per quanto riguarda la valutazione psicologica dell’equipaggio di condotta prima di intraprendere voli di linea, la realizzazione di un programma di sostegno per gli equipaggi di condotta, l’esecuzione da parte degli Stati membri di test alcolemici casuali sui membri degli equipaggi di condotta e di cabina e l’esecuzione da parte degli operatori aerei commerciali di test sistematici per il rilevamento di sostanze psicoattive nei membri degli equipaggi di condotta e di cabina”.

In aviazione stress, sostanze, stati umorali, sono “cose diverse”: il termine fatigue in questo settore è usato per descrivere una stanchezza fisica e/o mentale che va ben oltre la normale definizione di spossatezza.

“Essa riguarda l’incapacità di esercitare i propri compiti nella cabina di pilotaggio rispettando le norme di sicurezza delle operazioni volo. In questo campo è auspicabile l’approfondimento delle componenti fisiche, psichiche ed ergonomiche in particolare per le strette relazioni presenti tra sistemi percettivo, cognitivo e sensoriale nell’interazione uomo macchina”Si tratta di alta quota, bassa umidità relativa, rumore e vibrazioni, radiazioni ionizzanti, aria in-door con la presenza di contaminanti fisici, chimici e biologici propri dell’attività di volo commerciale di linea, il cui insieme è certamente in grado di provocare una condizione di stress – la quale, protratta, esaurirà le capacità di adattamento e attiverà la comparsa di quadri patologici. Tale usura, maggiore e diversificata rispetto alle consimili attività professionali, “ci porta ad esemplificare che la fatica statisticamente è fattore del 75 per cento dei casi di depressione e contribuisce, sempre statisticamente, al 15-20 per cento degli incidenti fatali causati dall’errore umano di cui abbiamo i report”

Il Peer-Support è lo strumento principale individuato per favorire il coinvolgimento della categoria professionale sui temi del disagio psicologico, per diminuire paura, giudizio e stigma, per segnalare precocemente i comportamenti disfunzionali mettendo in atto percorsi di sostegno psicologico (qui il documento EPPSI Guide on Peer Support 2nd Edition October 2020). Si tratta del supporto dei “pari”: nel contesto di un programma di supporto “un pari” è un collega che condivide qualifiche ed esperienze professionali comuni ed ha riscontrato situazioni, problemi o condizioni simili con il personale che richiede assistenza. Il pari per ricoprire tale ruolo riceve idonea formazione.

Nelle situazioni di crisi, in cui il picco di stress è alto, i programmi di supporto offrono immediati protocolli che consentono di mettere in atto e sviluppare resilienza e di recuperare in un breve lasso di tempo capacità di funzionamento e di superamento dello stato di crisi, senza avere impatti sulla propria salute psico fisico sociale. Quando ciò non basta a garantire il recupero rapido della persona, si procede con il continuum di cura, esterno al programma ITAPA, per il tempo necessario, che si può configurare sotto forma di percorsi di trattamento psicoterapeutici o di coinvolgimento di specifici team medici specializzati.

Rea descrive l’Associazione che presiede:

“L’IT-APA e si inserisce nel network dell’EAAP (European Association for Aviation Psychology) che compone il ‘work package’ relativo al modello di competenze richieste dall’aviazione. Essa sostiene il benessere e la salute mentale dei professionisti nel mondo dell’aviazione, contribuisce al mantenimento di elevati standard di sicurezza supportando gli stessi professionisti e le organizzazioni a gestire meglio la loro performance, promuove e tutela la figura di psicologo dell’aviazione; inoltre compie attività di ricerca in vari ambiti, ad esempio in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma; supporta protocolli di ‘assessment’ per la valutazione, organizza corsi di formazione per i colleghi in aviazione e attiva programmi di supporto, in particolare due: uno dedicato alle organizzazioni e ai soci sostenitori, quali compagnie aeree di area fissa e rotante, una dedicata a chi è uscito dal mondo dell’aviazione a causa della pandemia”.

Quali i programmi dell’IT-APA? Micaela Scialanga psicologa dell’aviazione, comandante di linea, segretario generale dell’IT-APA, e coautrice del libro: “Dopo Germanwings, la vita del pilota di linea”, specifica:

“Il Regolamento per la prima volta obbliga le compagnie ad avere un programma implementato, gestito e coordinato da uno psicologo esperto in aviazione. Sono due i programmi. Il primo è il Support Program, di cui committenti sono le compagnie aeree e all’interno del quale tre psicologi dell’aviazione supportano il peer creato ne loro interno, e una squadra di piloti ‘peer’ iscritti ad IT-APA e da essa formati con un addestramento ricorrente ed incontri di confronto. Il senso del peer è fornire un confronto al professionista”Prosegue: “Il secondo programma è l’Here I Am, messo a disposizione gratuitamente per rispondere ai singoli che chiedono un contatto; fornisce tre colloqui gratuiti con uno psicoterapeuta esperto, che lavora su base volontaria; svolge un’attività per coloro che, per interruzione momentaneamente a o fine carriera, non hanno lavoro e si trovano in un momento di difficoltà. Il servizio è attivo dallo scorso dicembre, e dal primo giugno è esteso anche agli ex operatori di scalo”.

Che contributo può dare ITAPA allo sviluppo della carriera in aviazione?

“Aiutiamo a gestire lo stress e la fatica, a migliorare le abilità cognitive a partire dalla stessa preparazione degli esami, ad acquisire competenze utili a collaborare in modo efficace in team, forniamo un aiuto per l’orientamento nelle scelte e, in generale, un supporto nei momenti di difficoltà”, conclude il Comandante Scialanga.

Dove un controllore del traffico aereo incontra uno psicologo dell’aviazione? La risposta è del presidente Rea:

“Innanzitutto nella selezione. Quindi, entrerà e farà attività di formazione, con un modulo di Human Factor nel quale, a ancora, uno psicologo spiegherà. Successivamente, nel simulatore si avranno le prime difficoltà da stress per un carico di lavoro che comincia ad essere alto, con un impatto negativo sulla paura di essere valutati. Il supporto qui è fuori e dentro al simulatore. Concluso quell’iter, in torre o in un centro radar, si troverà sempre uno psicologo dell’aviazione a sostegno”. 

In IT-APA si sono domandati se l’applicazione della nuova regolamentazione europea possa incoraggiare i lavoratori dell’aviazione a ricercare aiuto dai peers e dagli psicologi. E hanno girato la domanda con un questionario a scelta multipla, nella ricerca Giving-Voice-to-Crew-Members-to-Enable-an-Effective-Support-Programme-Preliminary-Results-of-IT-APA-Support-Survey-2020. “Conclusion – The work underlines that the application of the EU Regulation may not be enough to encourage flight crews to request for help”. 

Ossia, potrebbe non essere sufficiente. I risultati confermano una riluttanza dei membri dell’equipaggio a chiedere aiuto. L’efficacia di un programma di sostegno è quindi strettamente connessa a precedenti interventi, il ​​cui scopo deve essere quello di promuovere una crescente domanda del servizio da parte dei futuri utenti. Per creare un circolo virtuoso, gli operatori dovrebbero sviluppare una campagna incentrata non solo sull’informazione sul programma di supporto (già obbligatorio), ma anche sullo sviluppo dell’autocoscienza degli equipaggi sul rapporto tra benessere psicologico e qualità delle prestazioni professionali e della vita personale. Inoltre, un’efficace attuazione del programma da parte degli operatori aerei dovrebbe andare al di là della conformità normativa minima: gli equipaggi di volo devono essere informati dei vantaggi derivanti dal programma di sostegno e coinvolti nella sua attuazione. Questo è l’unico modo per fornire loro un reale supporto in termini di benessere psicologico e per garantire la sicurezza e la qualità delle operazioni di volo.

“Volere volare” sì, ma che il volere sia capace di intendere e di volare.

Romina Ciuffa




SPAZIO: SULLA LUNA E SU MARTE, SI SPOSA E SI PARTE

di ROMINA CIUFFA. Reportage Spazio dal Fly Future 2022, l’evento ideato da Luciano Castro. 

È lui, l’astronauta della porta accanto. Franco Malerba, il primo italiano a varcare i confini della stratosfera e arrivare di là, consapevole di avere (il 2 per cento di) probabilità di arrivare nell’aldilà. Da Busalla (Genova) fino a 508 chilometri in su, sullo Space Shuttle Atlantis della NASA, per portare un satellite Tethered (letteralmente “legato”) nello Spazio e testarne le potenzialità indicate da Mario Grossi, che ne concepì il progetto già nel 1972 al fine di risolvere il problema delle comunicazioni adottando una lunga antenna di 100 chilometri, la quale si sarebbe potuta srotolare da un satellite posto in orbita geostazionari; e da Giuseppe “Bepi” Colombo, il “meccanico del cielo”, che ipotizzò sistemi a filo legati ad uno shuttle che potessero generare energia elettrica o sfruttare l’effetto fionda per immettere in orbita altri satelliti, e alla cui scomparsa – unita al fragore della prima tragedia dello Shuttle Challenger – si deve il procastinamento della missione, concretizzatasi solo nel 1992.

Per questo si può certamente affermare che la vita di Malerba fosse legata ad un filo. Esattamente tra il 31 luglio e l’8 agosto del 1992, a bordo della missione spaziale del Programma Space Shuttle (150imo volo umano nello Spazio) avente l’obiettivo primario del dispiegamento di EURECA (European Retrievable Carrier) dell’Agenzia Spaziale Europea e l’esperimento NASA/ASI Tethered Satellite System (TSS). Finalmente un astronauta italiano, ma anche una missione “in italiano”: infatti, “Agenzia Spaziale Italiana” era scritto tutto per intero per sottolineare la presenza dell’ASI, mentre oggi non è più necessario ricorrere all’iscrizione per esteso dell’intero nominativo, essendo sufficiente indicare “ASI”. Ovvero sia: l’ASI non ha più bisogno di introduzioni, ed è conosciuta a livello internazionale. Tanto che lo scorso 7 gennaio Samantha Cristoforetti ha ricevuto dalle mani del presidente della Repubblica Sergio Mattarella il tricolore italiano da portare sulla Stazione Spaziale Internazionale, verso la quale è partita il 27 aprile 2022 alle ore 09:52, decollando dal John F. Kennedy Space Center con la missione SpaceX Crew-4.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=Si1gzUNd0jg]

Ma le cose cambiano, e le referenze nello Spazio ora sono anche private, società appaltanti e grandi finanziatori lavorano per rendere lo Spazio un luogo “conosciuto”. Di questo è consapevole anche Paolo D’Angelo, fellow della branca italiana della British Interplanetary Society, giornalista ed esperto di missioni spaziali, che parla di vero e proprio turismo spaziale destinato ad ampliarsi enormemente, ma già attivo e concreto. Tanto che Astro-Samantha è stata selezionata per partire con la compagnia privata SpaceX (Space Exploration Technologies Corporation) fondata già nel 2002 dal multimiliardario Elon Musk allo scopo direndere lo Spazio accessibile e sostenibile grazie all’abbattimento radicale dei costi. Un abbattimento che, di certo, non sarà sufficiente a mandare “di là” semplici “ricchi”, o a fondare una “Hertz” delle astronavi; ma che di certo apre l’era dello sfruttamento commerciale dello Spazio e di una space economy volta a rendere l’umanità una specie multiplanetaria, capace di vivere anche lontano dalla Terra, includendo un nuovo movimento basato sull’innovazione, sulla Terra e sugli altri pianeti – a partire da Marte.

Malerba descrive il suo volo nello Spazio:

“Nel 1992 ero a bordo per portare nello Spazio un satellite molto particolare tenuto attaccato con un filo allo shuttle. Decollo: a bordo si sobbalza. I razzi laterali sono molto vigorosi e l’atmosfera resiste alla nostra avanzata. Rapidamente arriviamo in orbita ed il mondo cambia, siamo in assenza di peso e la Terra ci appare da lassù. Tutto diventa più complicato nella predisposizione degli esperimenti. La Terra ora è visibile attraverso uno degli oblò. Vengono in mente le fatiche prima di arrivare fin qui, le prove delle emergenze probabili o improbabili che possono capitare: ancora non è scomparso il ricordo dell’incidente nello Spazio (NDR: il disastro dello Space Shuttle Challenger avvenne la mattina del 28 gennaio 1986; venne distrutto dopo 73 secondi di volo causando la morte di tutte le 7 persone a bordo, ossia 6 astronauti e un’insegnante. La causa dell’incidente fu un guasto a una guarnizione). Giorni dopo, lo Shuttle rientra e si ricorda di essere un aereo oltre che un essere spaziale, volando come un aliante sul tappeto rosso degli eroi”.

“Eravamo i portatori di un messaggio di competenza e professionalità e per l’ASI, nata da poco nel 1988, era il debutto, con un astronauta dal passaporto italiano a bordo. Io ho volato con l’insegna dell’ASI, la Cristoforetti oggi lo fa con la maglietta dell’ESA”. 

Un progetto di grande portata, quello che vide Malerba andare in orbita come Prime Payload Specialist per la missione TSS-1:

“Dovevamo lanciare il Tethered e tenerlo attaccato al satellite con un cavo che assicurasse connessione elettrica e meccanica, potendo con esso interferire con il campo terrestre e, generare una differenza tra i due corpi, compiere gli esperimenti ipotizzati da Grossi e Colombo”. 

Ma andare nello Spazio per lui era già in programma nel 1978, quando lesse – su un ritaglio del Financial Times che un collega gli portò dalla Gran Bretagna – che l’Europa occidentale era stata chiamata a selezionare scienziati e ingegneri per partecipare al primo volo dello SpaceLab.

“Entrai nella rosa dei finalisti, ma il 9 maggio del 1978 avvenne l’omicidio Moro, cui seguì un grande caos politico”. Nonostante l’Italia fosse, dopo la Germania, secondo finanziatore del progetto, e per il principio del giusto ritorno dei Paesi finanziatori era a tutti gli effetti titolare di un posto in orbita, “ricevetti una telefonata in cui mi veniva comunicato che l’Italia non avrebbe fatto parte della missione”. Partì un astronauta tedesco. “Allora avevo 32 anni, l’età ideale: prima è difficile diventare astronauta per mancanza di competenze, dopo, invece, si ha davanti un orizzonte che non giustifica più il costo dell’addestramento”. 

“Io rimasi comunque fedele all’impegno, e l’Italia investì di più nello Spazio. Furono anni magici per lo Spazio italiano, con progetti ben finanziati che costituirono la base di ciò che è oggi”Cercasi astronauta per il programma Tethered dell’Asi: “L’ultima mia chance. Ottenni il mio biglietto d’imbarco”. 

Così partì nel 1992, per otto giorni nello Spazio con Claude Nicollier dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea), Loren Shriver, Andrew Allen, Jeff Hoffman, Franklin Chang-Diaz e Marsha Ivins, della NASA. Lo Shuttle Atlantis era progettato e realizzato da Alenia Spazio di Torino, i bracci telescopici prodotti da Piaggio Aerospace e gli strumenti dai laboratori degli scienziati italiani e americani, con finanziamenti rispettivamente di ASI e NASA.

Talmente tethered furono gli astronauti imbarcati, che circolarono foto e vignette in cui si ritraevano attorcigliati ad un filo. Ride bene chi ride per ultimo: il cavo che teneva il satellite vincolato allo Shuttle si srotolò solo per 260 metri dei 20,7 km previsti, a causa di un problema tecnico causato da un bullone troppo sporgente, ma la lunghezza ottenuta servì a studiare come rilasciare, controllare e recuperare il satellite, e il sistema si rivelò più facile da controllare e più stabile di quanto previsto. Missione riuscita.


“La ISS è la base attuale per lavorare nello Spazio, microgravità ed orbita bassa (400 chilometri), in assenza di peso. La giornata dura 90 minuti, siamo fuori dai ritmi terrestri ma siamo molto vicini ancora alla Terra. Si mangiano ancora cose come la piadina di Samantha, che lei spiega in un recente TikTok (NDR)   che arrivano da una logistica terrestre. Una flotta di bettoline spaziali riforniscono la ISS regolarmente, qualche settimana prima che arrivi il nuovo equipaggio arriva quanto necessario per il loro mantenimento”.


Sulla Luna e su Marte, si sposa e si parte – e si dà principio all’arte – è il caso di dire ormai.

“Gli insediamenti lunari saranno più complessi nel rifornimento: se vorremo realizzare habitat permanenti (ossia relativamente lunghi), sarà necessario inventare l’agricoltura lunare in LowG, bassa gravità. Così nell’esplorazione lontana per Marte, dove saremo esposti all’assenza di peso e a radiazioni per lungo tempo e dovremo essere autonomi nel cosmo”.

Per questo Malerba ha una soluzione, che integra nel suo SpaceV (Space Vegetables o Space Veg), startup italiana fondata nel 2021 con sedi a Genova e Nuoro, che ha un posto nell’ecosistema spaziale attraverso l’impegno nello sviluppo della sua tecnologia Multilevel Adaptive Greenhouse (nella foto sotto). In un motto: come coltivare al meglio le piante negli avamposti extraterrestri. Si tratta di intervenire sui sistemi biorigenerativi e ricreare l’equilibrio terrestre nello Spazio.

“Sulla Terra c’è equilibrio tra il regno vegetale e il regno animale: il primo produce e consuma C02, mentre i nostri rifiuti prima o poi riciclati possono servire come alimentazione per il mondo vegetale. Similmente dovremmo provvedere in un mondo in cui non avremo a disposizione una Terra «tutta pronta». Sulla ISS si sperimentano alcune coltivazioni: nella serra Veggy ad esempio,  le piante crescono anche in MicroG. Avere una buona alimentazione è fondamentale per gli astronauti, già stressati per le differenti condizioni”.

Nel tema dei sistemi rigenerativi Stefania De Pascale, professoressa di orticoltura e floricoltura della Federico II di Napoli, parla di colonie spaziali.

“L’astronauta del futuro sarà un agricoltore o un agronomo, nonché un geografo, dovrà sapere di tutto. Dovremo riciclare rifiuti nell’ambito di un’alimentazione vegetale per poter sopravvivere a Marte”, spiega Malerba, e dà il suo contributo: “SpaceV progetta una serra multipiano adattiva; su ogni piano può coltivarsi un vegetale diverso. La serra verticale implementa il principio adattativo e utilizza più ripiani mobili che si adattano in altezza permettendo una resa produttiva per unità di volume nell’unità di tempo molto alta. Modificando il livello dei piani si riesce a sfruttare al massimo il volume disponibile mentre le colture crescono”.  

Nel video seguente, il funzionamento della serra adattiva multilivello ad uso spaziale.


A proposito di mestieri interplanetari, Gianluca Casagrande, direttore del Geographic Research and Application Laboratory (GREAL), dell’Università Europea di Roma, spiega il rapporto tra geografia e Spazio:

Esogeografia, uno dei possibili futuri della geografia: stiamo parlando dell’attività umana al di fuori della Terra. I geografi arrivano dopo gli astronauti, e quelli di adesso sono simili a quelli del 500: uomini che non viaggiavano, e avevano il paradosso di raccontare mondi che non potevano fisicamente toccare, ma della cui esperienza facevano sintesi. Oggi comincia il controllo dello Spazio, ci sono già fenomeni di inquinamento delle orbite, è un percorso oggettivamente intrapreso. I geografi sono interessati ai progetti di insediamento e vita nello Spazio, ai fortunati viaggiatori, alle riflessioni di chi porta avanti questi programmi e costruisce sulle esperienze precedenti. E questo è il futuro”.

Nel video seguente, l’intervento del prof. Gianluca Casagrande il 24 maggio 2022 nel corso dell’evento Fly Future.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=JvbxJLTuD8A]


Un’altra proposta di Malerba è nello sport spaziale. L’assenza di peso non fa bene e l’astronauta deve allenarsi sempre, con ciò togliendo comunque tempo alla missione. Così l’astronauta europarlamentare si è domandato:

“Non sarebbe meglio creare un sistema rotante, fatto con due veicoli collegati da un cavo che girano nello Spazio i quali, avanzando, garantiscano a bordo una parvenza di gravità, o gravità artificiale, dovuta alla rotazione ossia all’accelerazione centrifuga? Nei miei calcoli ho valutato la necessità di un cavo lungo circa due chilometri, con una rotazione di 60 secondi, con il risultato della mia equazione pari a L=2~1800“.


Guerra in Ucraina, sanzioni, NATO, in una parola: Russia. Ne siamo dipendenti “anche” nello Spazio? A spiegarlo è Gabriele Mascetti, capo ufficio del Volo Spaziale Umano dell’ASI:

“Le stazioni spaziali non sono tanto lontane. Estendere la presenza umana al di fuori dei nostri confini, contro radiazioni improponibili: non è ancora possibile al giorno d’oggi affrontarle da un punto di vista tecnologico, ma è il costo il limite più grande. Nessun Paese è in grado di supportare da solo questa sfida. La destinazione ultima è Marte, e passa attraverso la Luna, banco prova per testare le nostre capacità di vivere in un ambiente spaziale. I nuovi astronauti hanno una tuta privata, le Agenzie nazionali pagano e appaltano, aziende di liberi servizi si affacciano sul mercato”. 

L’ESA ha confermato la sospensione della collaborazione con l’Agenzia spaziale russa Roskosmos per il programma ExoMars, che prevedeva il lancio verso Marte del primo rover europeo e della piattaforma scientifica russa Kazačok con un vettore Proton nell’estate 2022.

“C’è una situazione di crisi in Europa, la guerra in Ucraina ci fa rendere conto che dobbiamo lottare per una nostra indipendenza, non possiamo più lanciare il primo rover come programmato, a causa di questo conflitto. Ora più che mai c’è bisogno di gente motivata ad arrivare nello Spazio. Servizi di cargo, supply, gestiti da privati, lo stesso per la parte Crew: fino due anni fa gli astronauti viaggiavano su veicoli russi, ora viaggiano su veicoli americani e privati. Lo stesso accade nell’HLS, l’Initial Human Landing System, oggetto di una competizione NASA privata, e c’è chi sta investendo anche senza aiuti governativi”.

Nel video qui sotto, un intervento di Mascetti  aFly Future 2022.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=3UFbFj8Qv-k]


La crisi post pandemia ha colpito il mondo, e sembrerebbe non vi sia scampo per il momento. Nemmeno la luce, il gas, le automobili sono più abbordabili, il carburante è salito alle stelle. Ma, come lui, alle stelle salgono anche i simil-proprietari spaziali, e le selezioni alla Star Treck sono sempre più ampie, i posti dell’autobus Galassia sono numerosi e liberi. Sebbene in sovrapprezzo. Il Covid, nello Spazio, non fa danni.

“Il mercato del lusso non è scalfito dalla crisi”, spiega Mascetti, “e nel 2020, mentre il mondo si fermava, le aziende operanti nello Spazio hanno continuato a marciare in tutta velocità. C’è una selezione in corso e si apriranno prospettive per volare più lontano oltre che in orbita terrestre. Le nuove selezioni comprendono meno astronauti titolari e più riserve – da 9 selezionati a 20/30 astronauti abilitati – per tenere il team sempre fresco e favorire il ricambio generazionale”.


In sintesi, oggi non si sogna solo dello Spazio, ma si sogna anche dallo Spazio. Ho chiesto a Malerba cosa sognasse da lì, se l’inconscio avesse preso piede sulla razionalità scientifica, quali le paure oltre il coraggio, a che filo fosse intimamente legato nella missione-del-filo Tethered. Cosa potremmo mangiare se vivessimo finalmente su Marte: solo verdurine? C’è spazio per Darwin? O meglio: c’è Spazio per Darwin? Ed altre domande anticonvenzionali di appannaggio di chi, nonostante quanto si dica (“Né di Venere né di Marte, non si sposa non si parte, né si dà principio all’arte”), intende sposarsi sia su Venere che su Marte, e decisamente partire per dar principio all’arte. 

“TETHERED. Appeso a un filo”. L’intervista di Romina Ciuffa a Franco Malerba – versione integrale: 

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=ANeZELRpywo]

Romina Ciuffa

 

 




LUCA PARMITANO: LO SPAZIO, UN NERO CHE CONOSCO BENE

#tbt di ROMINA CIUFFA. Spazio, luglio 2014Ripubblico un’intervista risalente al luglio del 2014 (Specchio Economico), perché lo spazio ha tempi interplanetari che, sulla Terra, valgono poco.

Chiedere a Luca Parmitano di parlare del «suo» spazio è difficile. Difficile perché ciò che lui ha fatto è nei sogni dell’umanità: lo spazio, vetta irraggiungibile di un mondo di cui facciamo parte senza averne coscienza né percezione. Così, parlare con questo maggiore dell’Aeronautica Militare e astronauta dell’ESA selezionato tra tutti dà la sensazione di una conversazione con un marziano. E come conversare con un marziano? In che lingua? Cosa chiedergli? Cosa hanno visto i suoi occhi? E il suo cuore? E la paura? E l’immensità? E le stelle? E l’abisso, l’infinito, la galassia, le luci e il buio, la vita, la relatività, la piccolezza, le misure? E il coraggio?

Ma quando poi il «marziano» è italiano, le domande vengono. E capiamo poi che l’Italia e lo spazio non sono lontanissimi. In effetti il nostro è stato il quinto Paese a mettere in orbita un satellite dopo Urss, Usa, Gran Bretagna e Canada, ed è tra i fondatori, nel 1975, dell’Agenzia spaziale europea (ESA), 13 anni prima del debutto, nel 1988, dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). Lo shuttle Atlantis decolla per la missione STS-46 dal Kennedy Space Center il 31 luglio 1992, portando in orbita Franco Malerba, il primo astronauta italiano dell’ASI, per quasi 8 giorni in orbita insieme a 6 compagni di viaggio. Il secondo volo del TSS (TSS-1R) avviene durante la missione STS-75 dello shuttle Columbia, lanciato il 22 febbraio 1996 per 15 giorni con due italiani a bordo: Umberto Guidoni e Maurizio Cheli (da sinistra nelle foto qui sotto). L’Italia e l’ASI sono intanto i protagonisti del volo spaziale abitato con un’industria italiana (Alenia Spazio, poi diventata Thales Alenia Space).

Nel 1998 l’ESA istituisce ufficialmente l’European Astronaut Corps (EAC), con sede a Colonia e, dopo l’attività spaziale di Malerba e di Cheli, Guidoni è stato poi il primo astronauta europeo ad entrare nella stazione spaziale internazionale, anticipando Paolo Nespoli e Roberto Vittori; quest’ultimo parte il 25 aprile 2002 con il lancio dal cosmodromo di Baikonur, in Kazakistan, della Soyuz TM-34. Circa ogni sei mesi una Soyuz arriva sulla ISS (la Stazione spaziale internazionale, in lingua inglese International Space Station) con tre astronauti a bordo, due dei quali danno il cambio all’equipaggio, mentre il terzo rientra con l’Expedition precedente sulla vecchia Soyuz dopo qualche giorno, ed è nuovamente Vittori a partire il 15 aprile 2005, arrivando sulla ISS due giorni dopo per trascorrervi 10 giorni e compiere gli esperimenti della missione ESA Eneide sponsorizzata dal Ministero della Difesa e dalla Regione Lazio e supportata dalla Finmeccanica e dalla Camera di Commercio di Roma; Vittori farà un terzo volo nello spazio con la missione DAMA.

Paolo Nespoli è invece il protagonista della missione Esperia (shuttle Discovery in partenza dal Kennedy Space Center il 23 ottobre 2007), e torna in orbita anche nella missione MagISS tra il 15 dicembre 2010 per documentare lo spazio.

Durante la quarta selezione ESA, sono ancora due su sei i nuovi astronauti italiani: Luca Parmitano e Samantha Cristoforetti, quest’ultima la prima donna italiana nello spazio alla fine del 2014 sulla Soyuz TMA-15M. Parmitano è partito il 28 maggio 2013 per tornare a novembre, dopo 166 giorni, 6 ore e 19 minuti nello spazio, la prima missione di lunga durata dell’Agenzia Spaziale Italiana.

Il 27 novembre scrive sul suo blog dallo spazio: «Il portello della Soyuz appena chiuso è come la copertina di un libro appena finito di leggere. Il senso di abbandono è sorprendente, fino a che non si comprende che l’ultima pagina non è altro che l’invito ad aprire la prima del prossimo libro. Ancora una volta sono il primo ad installarmi nel sedile: la microgravità mi facilita il compito, e ricordo con quanta fatica compivo gli stessi movimenti, a terra, appena sei mesi fa. Il mio ultimo sguardo dallo spazio mostra una rotazione lenta e non inattesa. Tutto fuori è di un nero che conosco bene. Dentro, noi ci guardiamo intorno, tre pollici sollevati davanti a noi per confermare che stiamo bene. Io sto ridendo come un bambino. Sento fortemente il senso di simmetria, quasi palindromica, di quello che sto vivendo: sei ore di volo mi hanno portato sulla Stazione – sei ore fa ero ancora a bordo, ora sono tornato. Nulla è cambiato, nulla sarà mai uguale»

Domanda. Cosa l’ha portata a volare, prima in cielo, poi nello spazio?
Risposta. La parola chiave è «passione»: ho sempre sognato di volare, attratto dal volo e dalla libertà uniti al prestigio del lavoro del pilota militare. Il momento chiave è stato nel 1993 quando, negli Stati Uniti, mi ha ospitato in uno «scambio da studente» un navigatore militare e poliziotto. Innanzitutto mi affascinò molto il fatto che una persona così interessante e umana facesse un lavoro come quello, perché ci sono pregiudizi nei confronti dei militari, della loro mentalità e del lavoro che fanno. Mi sorprese molto. Fece inoltre riemergere il mio desiderio di volare, e decisi di tentare il concorso nell’Accademia Aeronautica. Dopo 4 anni ero pilota militare, non un lavoro di ufficio né un lavoro che si fa per i soldi o per passare il tempo, tutto il contrario invece. Ho vissuto il mio lavoro come un aspetto che mi definisce come persona.

D. Come sono collegati i due lavori di pilota e astronauta?
R. Sono stato prima pilota di caccia, poi pilota sperimentatore, e da lì a divenire astronauta è stata un’evoluzione. In realtà l’Aeronautica è da sempre molto vicina al lavoro spaziale, soprattutto l’Aeronautica Militare italiana, che ha con esso un legame storico. Per quanto mi riguarda, un vero e proprio sogno che avevo sempre inseguito.

D. Lei è passato a svolgere missioni come astronauta in quanto selezionato dall’Agenzia spaziale europea?
R. Nel 2008 l’Esa ha bandito un concorso a livello europeo per 4 astronauti, ed io con molta umiltà ho dato tutto quello che potevo nell’intero anno di selezione: la mia passione, il mio desiderio, l’intelligenza, gli studi, la mia esperienza lavorativa. Sono anche stato fortunato perché mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto con la giusta esperienza e la giusta età.

D. Fino ad allora lei non solo è stato un valido pilota dell’Aeronautica Militare, ma ha ricevuto onorificenze, una specialmente con riguardo alle modalità in cui ha evitato un drammatico incidente aereo. Può descrivercelo?
R. Uno degli aspetti più importanti del nostro lavoro, che si accentua ancora di più quando si tratta di un lavoro operativo, è che veniamo addestrati e pagati per fare scelte difficili che vanno dalla risoluzione di emergenza all’impiego di armamento in ambienti operativi. Quel giorno in particolare, l’11 maggio del 2005, ero in esercitazione sopra il Mar della Manica, volavo verso Ovest per poi fare un ingresso in Francia e simulare un attacco insieme ad altri velivoli. Mentre ero sul mare a bassissima quota, cercando di sfuggire ai radar degli aerei nemici, ho avuto l’impatto con un grosso volatile. Ero a bassissima quota, a 30 metri sul livello del mare, a una velocità di oltre 900 chilometri orari che separavano di pochi istanti il mio veicolo dall’impatto. Le condizioni erano tali da permettermi di eiettarmi senza poi avere conseguenze, le procedure mi consentivano di abbondare il veicolo, ma sapevo che l’aereo avrebbe potuto schiantarsi sopra territori abitati, per cui prima di lanciarmi ho cercato di fare un controllo del mio aereo, se funzionava ancora, se il motore dava ancora spinta, se il velivolo era danneggiato al punto di non poter volare oppure se era controllabile. L’aereo aveva subito danni ma volava, quindi potevo provare a salvare la situazione. Decisi di mantenere il controllo del velivolo e mi presi la responsabilità di portarlo a terra, anche se in condizioni meno ottimali: l’impatto con il volatile aveva distrutto l’abitacolo e rotto il mio casco, avevo perso le cartine, ero ricoperto di sangue e piume dell’uccello oltre che di vetri, e l’aereo era danneggiato anche all’esterno mentre il tettuccio rischiava di staccarsi. Ho continuato a volare in questo modo per poter rientrare nell’unica base che conoscevo nella zona, in Belgio, e al momento dell’atterraggio non avevo nessuna visuale frontale, il tettuccio era distrutto e non era trasparente e ho utilizzato la visuale laterale per portare a terra l’aereo. In questi casi o si viene puniti o si viene premiati: io sono stato fortunato e sono stato premiato con una medaglia d’argento al valore aeronautico dal presidente della Repubblica.

D. Il 28 maggio 2013 è partito con la Soyuz TMA-09M dal Cosmodromo di Baikonur, in Kazakistan, in direzione della Stazione spaziale internazionale, per la missione «Volare» dell’ASI. Vi è rimasto fino a novembre 2013 insieme al russo Fedor Nikolaevic Jurcichin e l’americana Karen L. Nyberg. A che fini era rivolta la missione?
R. In una missione di 166 giorni noi facciamo veramente tante cose, ma posso riassumerle in tre parole: scienza, tecnologia, esplorazione. Quando si parla di spazio e di stazione spaziale internazionale, questi sono i tre aspetti importanti che noi trattiamo. In primo luogo la scienza, che è un momento fondamentale delle nostre missioni sulla stazione perché l’ISS è un laboratorio orbitale – questo è un aspetto poco noto ai più – ma di fatto è uno dei laboratori più avanzati esistenti. Sono quattro i laboratori in orbita con la possibilità di effettuare esperimenti di tutti i tipi, dalla fisiologia alla biologia, alla meccanica dei fluidi, all’ingegneria dei materiali all’osservazione terrestre. La stazione spaziale è anche un luogo in cui noi sperimentiamo la nuova tecnologia, e nelle missioni abbiamo iniziato sin dal momento del lancio perché la nostra navetta aveva delle innovazioni sia nel software che nell’hardware: siamo stati il primo equipaggio internazionale a compiere la manovra di aggancio alla stazione rapida, quindi in sole 6 ore dal momento del lancio all’attracco. Poi durante tutta la missione abbiamo effettuato vari esperimenti per lo sviluppo di tecniche ad ultrasuoni e molto altro. Scienza e tecnologia insieme ci consentono di fare esplorazione.

D. Cosa vuol dire fare esplorazione volando a 400 chilometri di quota 16 volte al giorno?
R. Vuol dire che noi ora, utilizzando quei primi due elementi, la scienza e la tecnologia, siamo in grado di preparare la strada a chi nel futuro riuscirà a compiere missioni interplanetarie, e stiamo studiando come l’uomo possa sopravvivere a lungo in orbita per periodi superiori ai sei mesi. È un’esplorazione che nasce dalla conoscenza e dallo sviluppo di cose che ancora non abbiamo inventato, e in questo senso è importantissima, è il primo passo di un lungo cammino. Se tutto ciò non fosse abbastanza, c’è un aspetto che, una volta tornati a terra, a me piace evidenziare: per me lo spazio e il volo spaziale umano hanno una capacità di dare ispirazione che è imbattibile. Noi non parliamo solo agli studenti, parliamo agli scienziati, ai dirigenti, ai politici. La capacità di dare una spinta motivazionale e di ispirazione verso quello che l’uomo è in grado di fare elevandosi al di là delle bruttezze degli uomini e della terra è unica, e non esiste nessun altro ambito lavorativo che ha questa capacità di dare speranza.

D. Nello spazio ha svolto due «attività extraveicolari», definite più popolarmente ma impropriamente «passeggiate spaziali». In cosa consistono?
R. «Passeggiata spaziale» è una traduzione molto impropria del termine «spacewalk» perché non rende l’idea della complessità di un’attività extraveicolare, che dura tutta una giornata e che richiede moltissimo allenamento, preparazione e addestramento, è molto fisica poiché richiede di trascorrere 6 ore e mezza all’esterno della stazione in un ambiente estremo in cui lavorare è incredibilmente faticoso. Chiamarla «passeggiata» è veramente riduttivo: non c’è nulla della passeggiata, si va fuori a lavorare. Nel mio caso c’erano due attività ben separate in cui abbiamo lavorato in molte direzioni; la prima attività extraveicolare è stata dedicata soprattutto all’installazione definitiva di due elementi costruttivi della stazione, già posizionati in un luogo non permanente. Altre attività erano tese a riportare dentro degli oggetti di esperimenti che erano stati esposti nel vuoto negli ultimi anni, cose che ho fatto io personalmente, mentre l’ISS riconfigurava dei cavi elettrici per migliorare le prestazioni della stazione spaziale.

D. Nella seconda di esse ha avuto un incidente imprevisto ma è riuscito a rientrare nella stazione. Può descriverci l’avaria, mai verificatasi prima ad altri?
R. La seconda attività extraveicolare, dedicata all’installazione di alcuni cavi e di altri elementi al fine di preparare la stazione per l’arrivo di un modulo russo, è stata interrotta da un’avaria meccanica della mia tuta spaziale che ha inondato il casco di acqua e mi ha costretto a rientrare in emergenza completamente isolato, quindi al buio senza poter vedere, né sentire, né parlare, e respirando solo dalla bocca perché il mio naso era già ricoperto di acqua. Non ci si può addestrare all’esperienza che ho affrontato io, anche perché è una situazione imprevista, inoltre perché non si può ridurre in generale l’allagamento di un casco; tra l’altro non era mai accaduto prima, quindi è stato un incidente mai sperimentato. Siamo però addestrati a pensare in termini operativi e quindi alla risoluzione dei problemi, conosciamo bene il nostro scafandro, conosciamo la stazione dentro e fuori, ho passato letteralmente centinaia di ore sott’acqua per imparare a muovermi in tutte le condizioni: la risoluzione di un’emergenza come questa non è merito dell’astronauta, ma di chi a terra ci ha addestrati, di tutto il team che ha lavorato e ha portato alla risoluzione del problema.

D. In quanti eravate nello spazio nella missione «Expedition 34»?
R. Sulla stazione eravamo in 6 come equipaggio. Abbiamo delle navette che ci portano su e giù, e quelle hanno un equipaggio di 3 persone: il comandante, il pilota che ero io, e il passeggero che era Karen L. Nyberg, la quale non aveva in missione un ruolo attivo. Più specificamente: per andare e tornare dalla stazione si utilizza la Soyuz che è una navetta, e all’interno di essa ognuno ha un proprio ruolo. Quello principale l’ha il comandante che si occupa dell’assetto della navetta e ha la responsabilità generale della missione, essendo l’unico che può vedere il terreno dalla sua posizione. Il pilota si occupa della strumentazione, quindi il mio lavoro è stato quello di controllare che i motori, i computer, i sistemi di supporto alla vita funzionassero perfettamente. Il passeggero ha un ruolo attivo quando serve, ma non un ruolo specifico perché durante il volo questi compiti sono delegati al comandante e al co-pilota. Peraltro, una volta giunti sulla stazione, Karen aveva un ruolo assolutamente primario quale responsabile del modulo e del segmento militare.

D. Com’è l’Italia nel settore dell’astronautica?
R. È un Paese estremamente protagonista. La stazione spaziale è costruita con moduli e nodi, gli enormi cilindri che costituiscono i moduli abitativi: cinque dei moduli abitativi della stazione sono stati costruiti in Italia, grazie a un accordo bilaterale tra ASI e NASA, in base al quale l’Italia ha fornito all’agenzia statunitense i moduli abitativi, ottenendo opportunità di volo aggiuntive e utilizzo scientifico della Stazione. Il nostro modulo Columbus, che è il laboratorio europeo, è stato costruito in Italia; il Nodo 2, che è quello in cui noi dormiamo e lavoriamo, è stato costruito in Italia; il Nodo 3, la cupola che è la nostra finestra nella quale abbiamo fatto tutte le foto che poi ho inviato a terra durante quei mesi, anche quella è stata costruita in Italia. Quest’ultima, il PMM Leonardo, è il posto preferito dagli astronauti, un modulo logistico in cui scriviamo tutto quello che abbiamo a bordo della stazione e che riusciamo a metterci dentro, ed è uno degli ultimi pezzi aggiunti alla stazione. Quindi cinque moduli permanenti che sono il 40 per cento del volume abitabile della stazione sono stati costruiti in Italia; a questo 40 per cento vanno aggiunte due astronavi da trasporto cargo che sono state costruite in Italia: l’ ATV, «Automated Transfer Vehicle» europeo, ossia una nave europea ma costruita in Italia, e la Sinus, che è un’astronave americana, il cui motore pressurizzato è opera italiana. Ci si dovrebbe chiedere per quale motivo una ditta americana si rivolga all’Italia per costruire delle astronavi: il motivo è che la nostra industria aerospaziale, nel campo delle costruzioni, è tra le migliori nel mondo.

D. Questa è stata la sua unica missione per ora? Tornerà a volare?
R. Sì, sono stato selezionato nel 2009 e ho volato nel 2013, diciamo che sono il primo della mia classe a volare, ho un’aspettativa a lungo termine perché ho 37 anni ed è presto per andare in pensione.

D. È stato nominato «ambasciatore» del semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea: come svolgerà il suo incarico?
R. A me non piace inventarmi nulla ed ho un’idea molto stabile. La mia aspettativa è quella di raccontare una storia, non è la mia storia ma la storia di un’opportunità. Da giovanissimo sono partito dalla Sicilia per avvicinarmi di più all’Italia come pilota militare. Ho fatto un’esperienza internazionale, e sono cresciuto in un sistema aeronautico che era ed è italiano ma che mi ha avvicinato all’Europa. La stazione spaziale europea mi ha educato allo spazio e mi ha permesso di realizzare uno dei sogni più grandi della mia vita, volare nello spazio. Quando andiamo a considerare questa opportunità straordinaria, vediamo che per noi italiani l’Europa rappresenta un mondo intero di sviluppo in cui possiamo crescere e migliorare, in cui possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo. In questo senso noi italiani dobbiamo desiderare di essere europei. In questi giorni si fa molto parlare di ideologie antieuropee come se l’Europa fosse un’imposizione, ma noi italiani dobbiamo ricordarci che il nostro è uno dei Paesi fondatori dell’Europa, e perciò dobbiamo desiderare di essere ancora più europei di quanto siamo adesso: non si perde la propria identità diventando europei, ma si acquista forza e coscienza sociale, si diventa più forti e più evoluti. Io sono un astronauta del corpo europeo ma ho volato in una missione tutta italiana generata dalla nostra Agenzia spaziale italiana, e il fatto di vivere e lavorare all’estero non vuol dire che non sono italiano, anzi mi consente di portare il contributo italiano dove posso e nel modo migliore. Negli ultimi 5 anni ho vissuto in Francia, in Germania, ho viaggiato tanto in Russia, e ora mi trovo negli Usa, a Houston, ma non per questo sono meno italiano.

D. Lo spazio è romantico ma poiché, come per le attività extraveicolari, non è una passeggiata ma un lavoro complesso e pericoloso, si concilia con la famiglia?
R. Non posso pensare di realizzare i miei progetti senza avere il supporto di mia moglie che è con me a Houston insieme alle mie figlie, e dei miei genitori, che sono in Sicilia, a Catania. Mia moglie è americana, per lei vivere a Houston è semplice e non problematico. Bisogna dire che chi sceglie un lavoro come il mio è cosciente che esiste un rischio e l’affronta. È molto ingenuo pensare che non si corrano pericoli, ma i rischi sono minimizzati dai nostri ingegneri che sono veramente in gamba e compiono un lavoro straordinario, facendo dimenticare quando sia complesso e pericoloso vivere e lavorare nello spazio.

D. Le manca lo spazio? Esiste un «mal di spazio», un po’ come il mal d’Africa?
R. Moltissimo, assolutamente sì.

D. Soltanto che in Africa ci si può tornare, volendo.
R. Esatto, invece nello spazio no. Mi manca moltissimo. Mentre ero in orbita ho scritto un blog in cui ho parlato delle attività extraveicolari, del vivere nello spazio, del lavoro di scienza, di tutto, inviando il blog a terra a chi si occupava della pubblicazione. Leggetelo.

ROMINA CIUFFA

 




SETTIMANA DEL CERVELLO 2019: CHE GENERE E CHE GENDER DI CERVELLO?

In collaborazione con PSICHELOGIANon dovrebbe essere solo una l’anno, la settimana del cervello. Dovrebbero essere 366 giorni, almeno. Ma intanto un passo. Al via dall’11 marzo la Settimana Mondiale del Cervello alla sua quarta edizione, appoggiata dall’Enpap, l’Ente di previdenza e assistenza degli psicologi: 834 eventi in 800 città e oltre mille professionisti psicologi, psicoterapeuti, neuropsicologi, biologi, neuroscienziati, medici, logopedisti, insegnanti, tutti con l’obiettivo di diffondere i benefici e i progressi delle scoperte neuroscientifiche e di “animare il cervello”. La “Brain Awareness Week” nella versione italiana è coordinata dalle psicologhe Donatella Ruggeried Elisabetta Grippa.

GUARDA TUTTI GLI INTERVENTI

Per il presidente dell’Enpap Felice Torricelli, un dato vale la pena sottolineare: “Abbiamo sempre più strumenti che ci consentono di intervenire in maniera efficace per aiutare le persone a vivere una vita di migliore qualità: collaborare in maniera costruttiva e creativa tra professioni diverse mettendo insieme punti di vista diversi sul cervello, che non è soltanto il substrato fisiologico su cui costruiamo la nostra attività fisica, ma è anche un elemento di studio su cui convergono attenzioni da parte di discipline professioni molto varie, a disposizione di tutti per dare più possibilità a una vita piena e più dignitosa”.

Felice Torricelli, presidente dell’ENPAP

Federico Zanon, vicepresidente ENPAP

Molta attenzione è data al genere, nelle sue varie declinazioni: orientamento sessuale, coppie di fatto, discriminazioni, rapporti donna-ricerca. Federico Zanon, vicepresidente dell’ente di previdenza, spiega:

“La ricerca scientifica sulla psicologia delle differenze di genere sta aiutando a fare luce sulle reali caratteristiche che differenziano uomini e donne, differenze che sono molto lontane dagli stereotipi popolari su cui si fondano le gravi discriminazioni di cui la nostra società purtroppo è ancora intrisa. Queste discriminazioni, purtroppo, hanno effetti tangibili e molto concreti: dal gender pay gap alle difficoltà che le donne incontrano nel mondo del lavoro. Contiamo che la psicologia e i suoi risultati scientifici possono giocare un ruolo determinante nei prossimi anni per un’evoluzione sul piano dell’eguaglianza e dei diritti civili, e contro ogni forma di discriminazione basata sul genere e sull’orientamento sessuale”.

Istituita nel 1996 dalla Dana Alliance for Brain Initiatives, in corso ogni anno a marzo, la campagna italiana “La Settimana del Cervello” è organizzata e coordinata da Hafricah.net, portale di divulgazione neuroscientifica partner della Dana Foundation e creato da Donatella Ruggeri, psicologa e coordinatrice dell’evento.

Le psicologhe Elisabetta Grippa e Donatella Ruggeri

Dal 2007 Hafricah.net funge da anello di congiunzione tra il mondo accademico e il pubblico interessato all’argomento. Di anno in anno, sono cresciuti i consensi e le iniziative offerte ai cultori della materia e ai cittadini. Rispetto all’edizione precedente, quella del 2019 interessa tutte le Regioni (erano 19 nel 2018), gli eventi e i momenti di incontro sono 234 in più, e i professionisti impegnati sono passati da 600 a 1.139.

In questa edizione, come sottolinea la psicoterapeuta Elisabetta Grippa, è stato introdotto anche il Progetto Scuola, curato da Giorgia Marziani e Nicoletta Agostinelli e dall’Associazione Calliope. Il progetto ha vinto un prestigioso premio di riconoscimento da parte della Federation of European Neuroscience Societies (FENS), volto a dare a bambini ed adolescenti, attraverso un opportuno linguaggio, nuove conoscenze scientifiche, e inserendole in un apposito eBook di teorie e attività da svolgere in classe. Oltre ad offrire momenti dedicati alla conoscenza, nelle scuole potranno essere effettuati screening sulle abilità dell’apprendimento, per l’identificazione precoce dei DSA (disturbi specifici dell’apprendimento).

Da destra a sinistra: Federico Zanon, vicepresidente ENPAP, psicologo; Felice Damiano Torricelli, presidente ENPAP, psicologo; Antonella De Minico, moderatrice; Donatella Ruggeri, psicologa e UX designer, coordinatrice nazionale Settimana del Cervello; Elisabetta Grippa, psicologa, coordinatrice nazionale della Settimana del Cervello

“La figura dello psicologo è vicina ai bisogni delle persone, diffonde conoscenza–specifica Grippa–. Cominciare a compiere quest’opera già a partire dalla giovane età aiuta ad avere consapevolezza nelle scelte quotidiane, ad attuare decision making, a riconoscere le notizie vere da quelle false mettendole in discussione aldilà di pregiudizi e stereotipi. Perché la conoscenza rende liberi, più riflessivi e più inclini al pensiero critico”. Aumentano anche le possibilità di effettuare screening cognitivi per gli adulti, promossi con un protocollo uguale in tutta Italia e coordinati dalla Scuola di specializzazione in Neuropsicologia del Dipartimento di Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma, che ha dato all’evento il patrocinio istituzionale.

Michela Balconi, coordinatrice del progetto dell’Unità di ricerca in Neuroscienze sociali e delle emozioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

È inoltre introdotto il paradigma dell’hyperscanning: cosa accade nel nostro cervello e in quello dell’interlocutore quando iniziamo a interagire durante una conversazione e in che modo ci si sintonizza? Non più l’attenzione ad un cervello, bensì a due, in interazione, in una neuroscienza “a due persone”. Tema che trova applicazione utile in diversi settori, sociale, aziendale, clinico e riabilitativo, a cui risponde la professoressa Michela Balconi, coordinatrice del progetto dell’Unità di ricerca in Neuroscienze sociali e delle emozioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

“Divulgare, diffondere, oggi, vuole anche dire utilizzare i social network“, sottolinea la RuggeriL’edizione 2019 della Settimana del Cervello è anche online e sui social. In rete sono state lanciate due campagne: #chegeneredicervello e #ricerchepazze. La prima indaga sulle innegabili differenze tra cervello femminile e maschile, sottolineando come queste differenze siano un punto di forza e non un motivo per continuare ad alimentare gli stereotipi di genere; la seconda si propone di intrattenere il pubblico raccontando alcuni tra gli studi neuroscientifici più stravaganti.

Iscrivendosi alla newsletter del sito www.settimanadelcervello.it si può ricevere l’eBook “Share some Lobe”, ricco di informazioni scientifiche sul personaggio Mr. Brain (link diretto per iscrizione alla newsletter: http://bit.ly/2GYMOtf).

La settimana terminerà, ma l’auspicio è che il cervello non faccia la stessa fine. (ROMINA CIUFFA)

#gallery-1 { margin: auto; } #gallery-1 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 33%; } #gallery-1 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-1 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */




JURACY: EPOCA “JURASSICA” DEL BRASILE A ROMA

Fino a poco tempo fa Roma era un altro Brasile. Solo chi c’era, chi lo ha vissuto, sa cos’era; chi è arrivato dopo, è arrivato dopo la partenza di troppi brasiliani che hanno fatto la storia della brasilianità romana, fuggiti, nella gran parte dei casi, perché l’Italia non aveva, né ha, più alcunché da offrire. Uno di costoro è Luis Juracy Rangel Lemos: astrofisico, malandro, sambista. 5 anni a Roma per un dottorato in Astrofisica relativistica, nel 2012 torna in Brasile e con lui va via un pezzo di «riomanità» pura, pirandelliana, nella quale ogni samba costituisce un pezzo di poesia d’autore. L’epoca “jurassica” è terminata. Oggi è di passaggio a Roma per le sue ricerche “interplanetarie”. Pubblicammo, alla sua partenza, un cartaceo interamente dedicato a lui (oggi al link http://www.scribd.com/doc/86905581/RIOMA-1-Juracy-lampo-di-raggi-gamma) per spiegare, a tutti coloro che lo avevano conosciuto o ne avevano sentito parlare, chi è Juracy: lo riproponiamo, per aggiornarlo nel futuro prossimo con il prosieguo sella sua storia e la descrizione di molti altri dei brasiliani che hanno collaborato a rendere Roma… Rioma.

JURA

RODA PLANETARIA

La gente dice: È matto. Oppure: Vive in un mondo di fantasia. O ancora: Come può confidare in cose prive di logica? – ma il guerriero continua ad ascoltare il vento e a parlare con le stelle. Paolo Coelho (da Manuale del guerriero della luce) qui sembra descrivere  Juracy. Di lui si dice «è matto»: vederlo per anni nel suo completo bianco da malandro non può che condurre un osservatore superficiale a tale conclusione. Vive in un mondo di fantasia ogni qualvolta, mentre suona un samba, Juracy si ferma, mi prende l’orecchio e comincia a descrivere tutta la storia della singola composizione: l’autore, il racconto, il momento storico, e vi aggiunge finanche considerazioni personali. Fantasia perché, ad un tratto, nei suoi insight proietta fuori di sé tutte le stelle che ha dentro e invita a guardarle. Juracy è quello che, durante un samba, mi ha spiegato tutta la sua tesi di laurea in Astrofisica partendo da un discorso sulla linguistica e, con estremo rigor di logica, giungendo alle statistiche del cosmo. Poi torna a sambare nella sua Malandragem personale, totale: l’essere Juracy significa un cosmo nel quale i pianeti si riuniscono attorno a un cerchio, il Sole, per danzare un samba luminoso, vera e propria roda interplanetaria.

Schermata 2014-04-14 a 18.51.31

 

JURACY, LAMPO DI RAGGI GAMMA
«Il segreto non è prendersi cura delle farfalle, ma prendersi cura del giardino, affinché le farfalle vengano da te. Alla fine troverai non chi stavi cercando, ma chi stava cercando te» (Farfalle, Màrio Miranda Quintana, poeta delle piccole cose). È questa la chiosa iniziale che scelgo per parlare di Luis Juracy Rangel Lemos. C’è un motivo. Non è trascorso giorno in cui Juracy non abbia ricordato a tutti l’importanza della poesia e della cultura brasiliana, dell’approfondimento, dell’analisi. Guardare al cielo – un astrofisico lo fa – rende  ciò che è lontano vicino, esperibile.

La cultura è una stella. Lo si capisce anche solo dalla risposta ad una domanda semplice: come ti chiami? «Luis era il nome del mio nonno materno, Juracy il nome di mio padre; Rangel il cognome di mia madre, venezuelana, Lemos di mio padre, paulista. Il nome Juracy deriva dalle lingue indigene Tupi-Guarani e significa persona che fa del bene». Non solo. Specifica: «Sono nato negli Llanos venezuelani il 27 marzo 1980. Mio nonno materno è originario della Cordigliera delle Ande, vicino a San Cristobal, alla frontiera con la Colombia; mia nonna materna nacque su un’isola caraibica, Margarita. Mia nonna paterna è originaria del sertão pernambucano, discendente da un olandese e un’indigena. Mio nonno paterno era un alagoano mulatto dell’Agreste. Fu un importante leader nella regione del Pontal do Paranapanema contro lo sfruttamento dei contadini; venne ucciso dalla polizia del dittatore Getulio Vargas nel 1953. Mio padre aveva solo 4 anni».

Astrofisico, in Italia dal 2006 con una borsa di studio, Juracy ha discusso la propria tesi di dottorato il 15 dicembre 2011 ed è tornato in Brasile, dopo essersi reso noto nel panorama romano. Approfondire le origini di un «cittadino del mondo», come si definisce, è essenziale per capirne l’essenza, quella che lo ha portato a guardare il cosmo da Roma. Il padre di Juracy studiò Fisica a Mosca tra il 1970 e il 1976. Per la presenza su territorio brasiliano della dittatura militare, proveniendo da una famiglia di sinistra, ritenne più sicuro il Venezuela, dove nel 1976 vi si recò ad insegnare Fisica. «Fu lì che conobbe mia madre, dando lezioni di fisica, e lì che si sposarono ed ebbero tre figli (le mie due sorelle, una del 1977, l’altra del 1981). Nel 1986 mio padre trovò lavoro a Boa Vista, capitale dello Stato di Roraima, vicino alla Foresta Amazzonica». Questo Stato ha circa 200 mila abitanti su una dimensione poco inferiore all’Italia.

Schermata 2014-04-14 a 18.56.13

Juracy nuota negli igarapés, i corsi d’acqua amazzonici. La regione è abitata da un insieme di etnie differenti: «Ho imparato il portoghese con i figli degli immigranti». Dopo 6 anni e mezzo, suo padre ottiene un lavoro al Cefet (Centro Federal de Educação Tecnológica) di Paraná, a sud, più precisamente a Medianeira, al confine con l’Argentina e il Paraguai, freddo d’inverno sotto zero, abitato da discendenti europei, fondamentalmente tedeschi ed italiani del nord. Una delle terre più fertili del mondo, oggi ancora di stampo prevalentemente agricolo, prima dominata da una foresta molto fitta, la Mata Atlântica. «Il Paraná è uno Stato molto ricco. Presi parte al movimento studentesco della scuola superiore finché, nel febbraio del 1999, non mi recai a studiare Fisica nella UFSCar, l’Università federale di São Carlos, all’interno dello Stato di São Paulo», secondo l’Enade (Exame Nacional de Desempenho dos Estudantes) la migliore università del Paese. L’esperienza è molto positiva, il modello prende spunto da quello nord-americano: «Una interazione incredibile, campionati sportivi oltre le aspettative, finanche un campionato di Fisica».

Nel febbraio del 2004 Juracy inizia un dottorato in Cosmologia presso l’Osservatorio di Valogno, all’interno del Dipartimento di Astronomia dell’Università federale di Rio de Janeiro. «I due anni e mezzo trascorsi a Rio hanno costituito i momenti più intensi della mia vita. Una città estremamente violenta, nel contempo meravigliosa: la natura, le spiagge, la gente, le rode de samba, il teatro e milioni di altre qualità. Fu a Rio che iniziò la mia passione per il samba, nei locali senza amplificazione, nelle rode attorno ai tavoli, nelle strade, mai dimenticando di cantare i samba più antichi come si chiedessero benedizioni per i loro stessi compositori; i duelos versados, duelli di improvvisazione; i testi profondi, le tematiche forti – amore, politica, storia, valori, satira -. Tutto questo catturò la mia attenzione. Allora capii l’importanza della cultura popolare e come la sua conservazione sia necessaria al benessere di un popolo».

Il 17 ottobre del 2006 Juracy parte per l’Italia con una borsa di dottorato in Astrofisica relativistica nell’Università La Sapienza. A Roma arriva solo il 17 dicembre: prima trascorre un mese a Pescara ed uno a Parigi. Studia il fenomeno del Gamma Ray Burst, l’esplosione di raggi gamma, intensi lampi che possono durare da pochi millisecondi a diverse decine di minuti. Queste potenti esplosioni di GRB costituiscono il fenomeno più energetico finora osservato nell’universo. «Ancora non siamo riusciti a spiegarci come sono prodotti».

 

Il primo anno a Roma è anche l’anno della scoperta della musica italiana, principalmente Fabrizio De Andrè e il genere della pizzica. «Eppure con il tempo, il samba è tornato ad essere la mia valvola di fuga per uccidere la saudade della mia terra. In Europa ho appreso almeno l’80 per cento di tutto ciò che so del samba stesso. Ma in Italia ho studiato anche la storia europea, quindi quella cinese, ed ho conosciuto più di 10 Paesi europei e, tra le altre, le città Dublino, Istanbul, Barcellona e Stoccolma. Credo che il livello dell’università italiana sia molto elevato, sebbene abbia io stesso assistito al crollo della sua qualità, dovuto probabilmente ai Governi che si sono susseguiti e alle continue crisi che non fanno che portare con sé verso il basso tutto il sistema didattico».

Ma la chiosa finale è sempre di Quintana: «Non so cosa vogliono da me questi alberi, questi vecchi angoli di strada, da essere così miei solo guardandoli un istante.»

 

MALANDRO

Il sambista è un personaggio classico  brasiliano, caratterizzato da un’attitudine furba; negli anni 30 e 40 ad esso ci si riferiva con il termine di malandro, figura somigliante al Casanova italiano, uomo non sposato che possiede molte donne, non lavora eppure ha sempre denaro, spesso vinto al gioco; lo mantengono le donne e la musica. Ha sempre la meglio. Indossa un completo bianco e un cappello Panama e cammina dondolando con una navalha de barbear in mano (il rasoio di barbiere). Oggi «malandro» costituisce quasi un titolo nobile. Esempio della Malandragem carioca è il cantautore Bezerra da Silva.

Malandragem: Define-se como um conjunto de artimanhas utilizadas para se obter vantagem em determinada situação (vantagens estas muitas vezes ilícitas). Caracteriza-se pela engenhosidade e sutileza. Sua execução exige destreza, carisma, lábia e quaisquer características que permitam a manipulação de pessoas ou resultados, de forma a obter o melhor destes, e da maneira mais fácil possível. Contradiz a argumentação lógica, o labor e a honestidade, pois a malandragem pressupõe que tais métodos são incapazes de gerar bons resultados. 

 

 

Qui sotto la pagina del cartaceo di RIOMA BRASIL (per leggerlo bene: http://www.scribd.com/doc/86905581/RIOMA-1-Juracy-lampo-di-raggi-gamma) che uscì in tutta Roma, con il servizio su Juracy. Chi ne possiede l’originale… ha un pezzo da collezione. Romina Ciuffa




FURIO HONSELL: DA UDINE ALLA REGIONE, I DIRITTI CIVILI NEL PATRIMONIO FRIULIANO

LA VIDEOINTERVISTA

A circa 20 chilometri dalla Slovenia, 100 dall’Austria, 150 dalla Croazia, di certo Udine è più vicina all’est europeo che non all’Italia. In molti sensi. E nonostante potrebbe fregiarsi di un senso quasi «padano», nordico, per la sua altitudine, ricchezza, posizione, e rivendicare più di altre Regioni italiane la distanza da Roma, in senso politico, è una città di integrazione e di diritti civili. Per definizione. Sarà, il fatto che il Friuli-Venezia Giulia ha già uno Statuto speciale, dunque autonomia ed esperienza; sarà che in questi ultimi 10 anni è stata retta da un sindaco di centro-sinistra; sarà che l’identità friuliana non si misura sulla carta ma sul campo, e che esiste una lunga storia di emigrazione ed immigrazione che vede Udine attiva (ne sono testimoni i «fogolâr furlans», associazioni di friuliani nel mondo); sarà la coabitazione con l’Europa, quella del nord e dell’est.

Sarà tutto questo, ma di certo Udine risulta – anche dopo il terremoto del 1976 (scosse a maggio e a settembre) che vide lì proprio il suo epicentro – florida. La ricostruzione fu rapida e completa e subito, a due giorni dal sisma, il Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia stanziò con effetto immediato 10 miliardi di lire. Il modo in cui venne gestito il dramma è ancora alto esempio di efficienza.

I dieci anni per il doppio mandato dell’attuale sindaco Furio Honsell stanno per terminare: dal 28 aprile 2008 al 31 dicembre 2017 la città, che ha appena ospitato al Festival Mimesis i più grandi filosofi e pensatori italiani, è uno dei capoluoghi italiani dei diritti civili anche grazie a lui. Il caso di Eluana Englaro, costretta 17 anni in stato vegetativo per accanimento terapeutico; le unioni civili (è di Honsell la trascrizione del matrimonio di Adele Palmieri e Ingrid Owen prima che ci fosse una legge ad hoc), la protesta dei quattro dipendenti della Gros Market di Pradamano (sul tetto è salito anche il sindaco), l’accoglienza dei rifugiati e dei vicini di casa. Honsell, nato a Genova, già rettore dell’Università di Udine, matematico e rigoroso scientifico, ora è pronto per la sfida alle regionali.

D. Da Genova a Udine: che percorso l’ha portata in Friuli?
R. Sono arrivato la prima volta a Udine da studente universitario in autostop, poi da professore con un concorso nazionale. La mia prima lezione si è svolta nel lontano anno accademico 1988-1989. All’epoca era un’università molto giovane, e per non disturbare quelle limitrofe l’avevano obbligata ad avere dei corsi allora considerati secondari: Informatica, Conservazione dei beni culturali, Agraria. Questo la dice lunga su quanto sia difficile prevedere il mondo. Sono stato rettore dal 2001 al 2008, anno in cui mi sono dimesso; solo dopo mi sono candidato come sindaco. Da rettore ho conosciuto molto del territorio sotto tantissimi profili. Sono stato il propugnatore, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo millennio, di quella che è stata chiamata la terza missione dell’università: il servizio al territorio, posto che la prima fu quella meramente didattica, e la seconda, con Friedrich Wilhelm Von Humboldt agli inizi dell’Ottocento, di ricerca. Quando mi sono candidato, l’ho fatto con la lista civica di sinistra Innovare con Honsell.

D. Due mandati, questo giunge al termine. Quali i suoi riferimenti in questi 10 anni?
R. Innanzitutto ho firmato il patto dei sindaci 202020 nel 2009. Esso prevede l’abbattimento del 20 per cento delle emissioni di CO2 da fonti fossili, l’aumento della percentuale energetica da fonti rinnovabili e l’efficientamento, quindi la riduzione dei consumi energetici del 20 per cento. Mi sono ispirato molto alla sostenibilità ambientale. I 17 SDG, «sustainable development goals» delle Nazioni Unite, prima ancora che li facessero, erano nella mia visione. Una delle cose delle quali sono più orgoglioso è che da rettore si progettò un grande sistema di cogenerazione di energia elettrica e calore in ospedale, con un sistema di raccolta e di ritrasferimento, attraverso un sistema di teleriscaldamento, a tutta la città: sono dovuto diventare sindaco per varare questo tipo di servizio pubblico. Oggi abbiamo diversi edifici, tra cui il Palamostre, riscaldati con calore che altrimenti andrebbe sprecato.

D. Udine è più «sostenibile» ora?
R. C’è tutto uno spettro di iniziative, inclusa l’illuminazione a led di tutta Udine. Quindi, una cosa che poche città hanno è il regolamento edilizio obbligatorio, che io ho varato per far sì che l’involucro di un edificio non abbia dispersione termica. Altra stella polare è l’essere parte della rete europea «healthy cities», città sane, dell’Organizzazione mondiale della sanità; siamo sempre stati la città di riferimento nella promozione degli stili di vita sani e della salute, intesa come benessere dei cittadini non solo fisico ma anche emotivo e relazionale.

D. È stato (ed è) anche un sindaco innovativo, non senza ricevere polemiche. Dalle unioni civili all’eutanasia.
R. Una delle cose che deve fare un sindaco è dare forza a chi ha buone idee. In città ci sono 100 mila abitanti e con l’unione dei Comuni stiamo arrivando a 150 mila. Pensi ad esempio ai matrimoni: ci sono quelli in fin di vita, quelli in carcere, ci sono le unioni civili per le quali mi sono battuto molto avendo avuto anche conflitti con il prefetto. Ho registrato una delle prime, e quando è passata la legge abbiamo fatto sì che non ci fosse discriminazione. Molte sono state le situazioni anche non previste dove si è dovuto fermamente difendere i diritti civili, ad esempio quando nella casa di riposo «La Quiete» abbiamo reso giustizia a Beppino Englaro, padre di Eluana, sottoposta per anni ad alimentazione forzata.

D. Un suo commento sull’eutanasia?
R. Parlo di diritto alla giustizia. Se legge la sentenza della Corte di appello avrà le lacrime agli occhi, ma non dubbi: non di eutanasia si è trattato, ossia procurare la morte in modo razionale o socratico, né di accanimento terapeutico, ma dell’articolo della Costituzione che dice che si possono rifiutare le cure. Chiamai il presidente Napolitano per chiedergli di non firmare la legge che gli stava passando Berlusconi perché illegittima, e mi disse che non lo avrebbe fatto.


Beppino Englaro con una foto della figlia Eluana

D. In Friuli è molto vivo il tema dell’immigrazione e dei richiedenti asilo, considerato anche il territorio. Come lo ha affrontato?
R. Abbiamo vissuto negli ultimi 5 anni un arrivo massiccio di coloro che il sud Italia ha mandato al nord e di quelli provenienti da altri luoghi, come Pakistan o Afghanistan, con picchi di duemila persone; ora siamo a circa mille. Non ho mai rifiutato: abbiamo mantenuto un alto livello di civiltà dando ospitalità a tutti in modo anche autonomo, considerato che il Governo di allora li lasciava in giro nel periodo in cui dovevano fare i documenti. Non solo li ho ospitati nelle palestre, nelle tende, nei parchi, ora 350 vivono in appartamenti e con la Croce Rossa abbiamo avviato l’apertura a tali fini di alcune caserme chiuse. Ad Udine spiccano ora romeni in primis, poi albanesi, quindi ghanesi. Questi ultimi sono stati sostituiti dalle ucraine, per via del lavoro da badanti: abbiamo un indice di vecchiaia di 218, ossia ogni 100 under 14 abbiamo 218 over 65. Udine conta 100 mila abitanti e degli 800 bambini nati lo scorso anno la metà ha genitori stranieri. L’età media degli udinesi è di 47 anni, ma se togliamo gli stranieri va ben oltre i 50. Ecco perché bisogna integrare gli stranieri, è questa la grande sfida. Abbiamo in Friuli 110 chilometri quadrati di aree militari dismesse, su 400 siti. L’intera superficie di Udine copre 56 chilometri quadrati. Perciò alcune caserme, come la Cavarzerani, sono state recuperate per i richiedenti asilo. Quando è in gioco questo tema, si fa appello ad aspetti umorali e superficiali; bisognerebbe invece pianificare in che modo promuovere l’inclusione sociale. Noi l’abbiamo fatto perché è tra i valori della città, e correlato c’è quello dell’equità. Quarto degli obiettivi europei di sviluppo sostenibile e uno degli aspetti più delicati dell’attuale coesistenza civile è proprio quello della disparità economica e sociale.

D. Un decennio di cambiamento, dunque, e accrescimento?
R. Ho fatto piantare in città anche il «ginkgo biloba», un albero importante: pochi sanno che è il primo che crebbe, spontaneamente, ad Hiroshima, quando tutto era stato raso al suolo. Questo è il significato del mio mandato. Non so se Udine è cresciuta con me, senz’altro mi auguro di non averla danneggiata. Quando incontro qualcuno che mi dice che sono il peggior sindaco dal dopoguerra – ogni tanto capita – rispondo sempre: «Aspetti di vedere il prossimo». La critica c’è sempre. Una delle sindromi psicologiche più comune è quella dell’availability bias: i cittadini ritengono più importante ciò che è più disponibile, quindi chiedono di chiudere le buche nelle strade. Ma quando l’ho fatto, mi hanno nuovamente interpellato perché, senza buche, le auto correvano troppo ed erano divenute pericolose. In compenso, ho rifatto le palestre nelle scuole perché bambini e atleti non abbiano cemento sotto ai piedi ma una superficie assorbente atta a non creare lesioni.

D. Udine e l’Europa: cosa c’è?
R. Innanzitutto ci sono la reputazione ed il prestigio che i friulani hanno nel mondo; inoltre ci sono i «fogolâr furlans» che consentono di trovare friulani ovunque. C’è anche l’Udinese, un forte veicolo dell’identità friulana (una delle più antiche d’Italia essendo nata nel 1896, ndr): ho rifatto lo stadio vendendolo, sa che mi costava più di un milione l’anno per tenerlo ai vertici richiesti dalla Uefa? Ora è dell’Udinese per 99 anni.

D. E gli udinesi si sono lamentati del cambio di nome, non più Stadio Friuli ma Dacia Arena: l’Udinese Calcio spa ha imposto la denominazione commerciale cedendo il «naming right» alla casa automobilistica rumena.
R. Avrei fatto un contratto di «naming», i consiglieri comunali non l’hanno voluto fare. E pazienza.

D. Si è sentita la crisi ad Udine e, più in generale, in Friuli?
R. Sono divenuto sindaco quando in Italia è iniziata la recessione economica, ma con certe operazioni siamo riusciti a compensare le minori entrate. Per esempio, con il led la spesa per l’illuminazione pubblica è scesa da 3 a 1,8 milioni, così come la spesa per il riscaldamento degli edifici pubblici è scesa da 3 a 1,2 milioni l’anno. La recessione ha colpito soprattutto i settori maturi e quelle aziende che non controllavano la filiera ma erano subfornitori per qualcun altro. Chi aveva una forte internazionalizzazione e il controllo della filiera produttiva è andato molto bene, chi vendeva il made in Italy all’estero non ne ha sofferto, chi faceva componentistica in molti casi è fallito. Deve pensare che in Friuli abbiamo avuto sempre diaspora e immigrazione, fino ad un fatto che si pensava fosse la fine di tutto e invece non lo è stato, il terremoto: poteva essere il colpo di grazia, ma è stata una scintilla. Abbiamo avuto un rinascimento e siamo diventati terra di immigrazione, fino al 2008. La stessa università è nata per il terremoto. Si diceva che il Friuli dovesse uscir fuori dal terremoto con la testa, ossia con l’università, alla maniera dei vivi, che sono tirati fuori dalle macerie dal capo, e non dai piedi, ossia con una nuova emigrazione, alla maniera dei morti. (ROMINA CIUFFA)


Romina Ciuffa, Loggia del Lionello (Udine)

GALLERY (photo ROMINA CIUFFA)

#gallery-2 { margin: auto; } #gallery-2 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 33%; } #gallery-2 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-2 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */




FIERACAVALLI, MARCO DI PAOLA: FISE, LO SPORT EQUESTRE È SENZ’ALTRO UNA DELLE RISORSE DA «CAVALCARE»

VIA COL VENETO – di ROMINA CIUFFA

L’arte equestre è il perfezionamento delle cose semplici (Nuno Oliveira, universalmente considerato l’ultimo dei grandi maestri dell’equitazione). Ed è anche una grande risorsa di ecosostenibilità ed educazione. Fieracavalli è l’evento di riferimento in Italia, ma per il mondo, e da ben 119 anni si tiene nella città scaligera: il binomio Verona-cavallo è un’identità culturale, storica ed economica con origini molto antiche. Difficile, se non addirittura impossibile, immaginare questa città senza i suoi cavalli, simbolo della sua essenza e della sua internazionalità. Da sempre punto di riferimento nell’allevamento e nella commercializzazione dei prodotti di allevamento equino, per questa zona geografica prima tappa storica fondamentale è il 1772, anno in cui Bibbiena progettò e seguì la costruzione del primo quartiere fieristico per cavalli, muli, asini e bardotti. Per più di 100 anni qui si svolsero concorsi ippici con relativo mercato dei migliori esemplari, fino ad arrivare alla fatidica tappa del 1898.

Quell’anno ebbe inizio la moderna storia fieristica scaligera: la prima edizione della Fiera dei Cavalli e dell’Agricoltura. Da semplice mercato equino ha subìto nel corso degli anni uno sviluppo esponenziale, diventando ufficialmente nel 1950 Fiera internazionale e affermandosi come manifestazione leader del panorama equestre mondiale. D’altro canto Verona, per collocazione geografica, si trova al centro degli assi commerciali portanti che collegano i grandi mercati europei ed è ancora oggi punto nevralgico di smistamento di merci e di persone. La presenza di questo importante appuntamento annuale ha influenzato profondamente la zona geografica di riferimento portando allo sviluppo di numerose piccole e medie imprese manifatturiere, nate inizialmente come supporto al mondo equestre e alle sue variegate attività. Fondamentale è l’abilità della manifestazione di mantenere vive le tradizioni nobili e antiche del cavallo, soprattutto a partire dal dopoguerra, momento in cui la notevole crescita economica ed agricola lo ha parzialmente emarginato dalla vita dell’uomo.

Fieracavalli è, oggi, un «catalizzatore d’interesse» per coloro che attraverso il cavallo si riconoscono in un nuovo modo di concepire la vita, legando insieme sport, arte, solidarietà, storia, tempo libero, turismo e avventura. Giunta a fine ottobre alla sua 119esima edizione, consolida il primato di manifestazione di riferimento in Europa per il settore equestre: superati anche quest’anno i 160 mila visitatori, arrivati a Verona in quattro giorni, e dall’estero il 16,5 per cento in rappresentanza di 63 Paesi. Duecento gli eventi che hanno animato i 12 padiglioni della fiera, tra gare sportive di altissimo livello come la Jumping Verona, competizioni morfologiche, discipline western, show e attività didattiche. La prossima edizione, la numero 120, è già stata fissata dal 25 al 28 ottobre 2018.

Del settore equestre parla uno dei suoi principali rappresentanti, Marco Di Paola, presidente della Fise, la Federazione Italiana Sport Equestri, fondata a Roma nel 1926.

Domanda. Fieracavalli 2017, un bilancio. Ed una previsione per il 2018, anno in cui compirà ben 120 anni. Cosa è accaduto in tutti questi anni? E soprattutto, cosa accadrà?
Risposta. Il bilancio non può che essere positivo. Fieracavalli 2017 ha dimostrato l’ottimo stato di salute del nostro movimento sportivo. Inoltre la Fiera di Verona è all’altezza delle aspettative, coma ha dimostrato anche la 119esima edizione. L’appuntamento è molto apprezzato dai nostri appassionati. Il 2018 segnerà un grande e importantissimo traguardo per Verona Fiere: dovremo aspettarci delle sorprese, ma ne parleremo a breve dopo che sarà definitivamente archiviata anche per gli addetti ai lavori l’edizione di quest’anno. La Fise e la dirigenza della Fiera lavorano a un progetto molto ambizioso.

D. Critiche a Fieracavalli provenienti dal pubblico: si torni a pensare ai cavalli e non ai panini. Il senso è: la Fiera sta diventando più un bancomat di settore, agli espositori è chiesto un «dazio» elevato, al pubblico l’entrata costa cara, e dentro le spese sono alte anche per mangiare; mentre, alla fine, i cavalli sono pochi, ed è tutto incentrato sullo «spettacolo». Questo mi è stato riferito da molti che ho ascoltato per le strade della Fiera in quei giorni. Non hanno tutti i torti. Come risponde?
R. La Fise in realtà non è direttamente coinvolta in questa fase degli aspetti organizzativi. Ritengo pertanto che a questa domanda possa rispondere la Fiera. Ritengo altresì che Fieracavalli sia ormai diventata una delle fiere più importanti al mondo, per l’offerta che propone. Ogni anno unisce in una sola settimana tutto ciò che ruota intorno al mondo del cavallo. Bisognerebbe verificare quello che succede in appuntamenti analoghi in altre nazioni, come Francia per Equita Lyon o Germania per Equitana. Non credo ci si discosti molto, anzi. Inoltre le presenze dimostrano che gli appassionati non disertano l’appuntamento.

D. Recente insediamento nella presidenza e, nel programma, un bel cambio di marcia: quale? Quali i problemi trovati irrisolti? Quale le prime azioni già compiute? Come si distinguerà il suo mandato?
R. Sicuramente un bel cambio di marcia per rendere la federazione molto più «smart» e utile a produrre servizi a tutti i tesserati. La Federazione è uscita da una gestione commissariale ma sta procedendo a passo veloce verso una definitiva ripresa. Non posso dire di aver trovato particolari criticità, se non il fatto di dover ottemperare al piano di risanamento. È certamente una difficoltà, perché siamo costretti ad accantonare annualmente delle risorse che avremmo potuto investire diversamente, ma dobbiamo seguire le indicazioni del CONI. Ciò non vuol dire che siamo particolarmente limitati nelle diverse iniziative. La nostra è una federazione florida. Siamo riusciti, infatti, ad abbattere la pressione relativa alle tasse federali sugli istruttori, sui tesserati che portano medaglie con i loro sacrifici sportivi e attraverso la riduzione delle tasse di sponsorizzazione. Stiamo lavorando al progetto delle affiliazioni, che partirà dal 2018, consentendo un abbattimento dei costi, necessario per dare respiro a chi deve occuparsi della base. Dovrebbero essere altri a giudicare, però se dovessi dire per cosa si distinguerà il mio mandato, direi certamente per aver dato vita a una federazione che sta vicino al tesserato e pronta a gestire l’ente a due velocità, stando attenta alle esigenze della base, ma anche a quelle dello sport di vertice.

D. Lo sport, tra i primi quello equestre, riveste un ruolo educativo particolare nei confronti dei giovani. Cosa fate per la formazione e l’educazione?
R. Lo sport in genere ricopre un ruolo educativo, il nostro credo abbia in questo senso un valore aggiunto, perché si pratica con un altro essere vivente: l’atleta cavallo. Stiamo lavorando al progetto di formazione e con grande attenzione a quella dei nostri educatori di base, ovvero coloro che hanno a che fare con i bambini. Attraverso il Progetto Pony Fan Club i nostri tecnici federali stanno girando l’Italia, per spiegare l’iniziativa della federazione, volta sì a incrementare i numeri attraverso la pratica dei giochi pony, ma volta anche e soprattutto all’impiego di una nuova metodologia di insegnamento. L’equitazione in quanto sport deve necessariamente modernizzarsi e adeguarsi alle esigenze dei giovani. È inutile girarci intorno. I nostri istruttori sono dei veri educatori e devono cooperare con i genitori e, perché no, anche con la scuola per la crescita dei giovani.

D. I tesserati che non praticano agonismo di vertice, ossia gli amatori, sono il 93,22 per cento e sono loro che fanno vivere tutta la federazione, ma le risorse finanziarie e tecniche dei dipartimenti è speso per servire la minima percentuale di patentati che gareggiano ad alto livello internazionale. Da una parte ciò è congruo, per dare visibilità al professionismo e al settore equestre, dall’altra è incompatibile con il senso della rappresentanza tout court. Quali misure prenderà?
R. È evidente che il ruolo principale di una federazione è quello di vincere medaglie. Delegati a questo compito, è chiaro, sono le prime squadre del nostro sport. Le vittorie sono molto utili per dare visibilità al nostro sport, basti pensare che grazie a queste siamo nuovamente presenti nelle testate giornalistiche che contano. Più media si interessano di noi. Abbiamo creato una grande base di amatori, ma non solo, basti pensare a quanti oggi tengono il cavallo a casa, nelle campagne. Il cavallo attira e avvicina tanta gente al nostro sport. È proprio grazie al fatto che la stampa ci conferisce più attenzione che la crescita del nostro sport può essere registrata anche a livello di base. Abbiamo restituito l’importanza che meritano, per esempio, a manifestazioni come le Ponyadi o Ponylandia, interamente dedicate al mondo dei giovani che sostengono il nostro sport attraverso la passione e il sacrificio. Le medaglie servono sia per assolvere alla nostra missione sportiva sia per dare più visibilità al nostro sport.

D. Come la federazione tutela le istanze delle varie categorie rappresentate?
R. La nostra è una federazione molto attenta alle esigenze dei propri tesserati. Attraverso i nostri dipartimenti dialoghiamo con i vari ministeri interessati, mi riferisco alle problematiche dei trasporti dei cavalli, della salute etc. Proprio in questi mesi stiamo lavorando a stretto contatto con il ministero della Salute per le vicende che riguardano il trasporto dei cavalli e il famoso modello 4. Sono state cambiate le regole, nell’era della digitalizzazione, i nostri dipartimenti sono a lavoro per trovare le migliori soluzioni con le varie istituzioni e poi comunicare direttamente con i tesserati.

D. Firmato l’accordo con l’Istituto per il Credito sportivo e l’iniziativa «Top of the sport». Di cosa si tratta, nello specifico?
R. Si tratta di una nuova grande opportunità di sviluppo per gli sport equestri. La nostra è stata la prima federazione a stipulare l’accordo con l’ICS dopo la presentazione alla Giunta nazionale del CONI. Si tratta di un’iniziativa che garantisce, per i prossimi tre anni, a tutte le associazioni affiliate la possibilità di usufruire di finanziamenti denominati «mutui light» della durata massima di 7 anni per un credito erogato dalla banca dello sport da 10 mila a 60 mila euro. Tutti gli affiliati potranno fare richiesta attraverso una procedura istruttoria semplificata e con la sola garanzia nella misura dell’80 per cento concessa da parte del Fondo di garanzia, fondo dello Stato in gestione al Credito sportivo. L’Istituto del credito sportivo si è impegnato a garantire finanziamenti per un importo massimo di 3 milioni di euro anche per investimenti in centri federali, impianti di preparazione olimpica e attrezzature top. Credo sia un’opportunità volta alla crescita che il nostro mondo non può farsi sfuggire.

D. È prossima l’assemblea generale della FEI, Fédération Equestre Internationale. In che modo la Fise è considerata, e quali gli argomenti che porterete alla platea internazionale?
R. Cesare Croce è il nostro rappresentante per i rapporti internazionali, quindi non solo per la FEI, ma anche per la EEF (Federazione Equestre Europea). Croce, già presidente della Fise per ben tre quadrienni, è la persona più adatta a ricoprire questo incarico, per la competenza, il carisma e la grande considerazione a livello internazionale. In FEI ha ricoperto per diversi anni anche il ruolo di presidente del Gruppo I, ovvero in rappresentanza delle maggiori federazioni d’Europa. Credo che questo basti per capire che a livello internazionale la Fise ha grandi interlocutori ed è quindi tenuta in grande considerazione. Alla prossima assemblea sono tante le argomentazioni poste dalla FEI sul tavolo di lavoro, dalle prossime Olimpiadi di Tokyo ai regolamenti delle varie discipline. L’Italia sarà in grado come sempre di dire la sua.

D. Come si distingue l’Italia nel contesto equestre?
R. Negli ultimi anni l’Italia è ritornata grande e, per via delle ottime prestazioni dei nostri atleti oggi, è una delle nazioni da battere. I nostri cavalieri sono tra i più temuti quando entrano in campo nelle gare più prestigiose. Basti pensare che mai prima d’ora un italiano ha mai raggiunto le posizioni apicali di Lorenzo De Luca, che quest’anno è stato secondo al mondo, e che proprio quest’anno disputerà la Top Ten di Ginevra (mai successo per un italiano), riservata ai migliori dieci cavalieri del mondo. De Luca e Alberto Zorzi occupano la seconda e quarta posizione del ranking del Global Champions Tour, la formula uno del salto ostacoli mondiale. È vero, il salto è la nostra disciplina principe ma abbiamo medagliati e grandi campioni anche nel dressage, con Valentina Truppa, nel volteggio, con Anna Cavallaro, nel reining, con una squadra campione d’Europa nel 2015 o con Giovanni Masi, campione europeo 2015. Insomma, il nostro è un movimento in grande crescita e i nostri atleti si fanno rispettare.

D. La Fise prende parte, insieme al CONI e Roma Capitale, al progetto di rilancio e valorizzazione di Piazza di Siena. Qual è il progetto, quali le aspettative, quali i costi, quale il vostro impegno?
R. È un progetto davvero importante per la nostra federazione, per gli sport equestri, per la città e per lo sport in generale. Abbiamo stretto un accordo che ci lega al CONI nell’organizzazione del concorso praticamente per otto anni. Abbiamo il dovere di far brillare questo evento sportivo. È questo il nostro obiettivo. Sarà la nuova era di Piazza di Siena che, insieme a Villa Borghese, per la Federazione Italiana Sport Equestri è come una seconda casa. È per questo che partecipiamo con grande passione ed entusiasmo al progetto di rilancio e valorizzazione del sito, sede del tradizionale concorso ippico capitolino. Poter contribuire al ritorno del manto erboso nell’ovale romano è per noi un motivo di grande soddisfazione. Questo magico luogo, nel pieno centro di Roma, è stato testimone della storia del nostro splendido sport. Proprio per questo abbiamo, anche noi, il dovere di prendercene cura. Abbiamo subito affrontato i costi di riqualifica e di sgombero della sabbia, adesso insieme al CONI e soprattutto con le maestranze del Comitato Olimpico partirà il progetto di piantumazione dell’erba.

D. 610 mila ettari di territorio agricolo destinati all’equitazione, il settore vitivinicolo ne occupa 770 mila: l’equitazione è una forma di economia sostenibile «poco conosciuta». Ogni cavallo genera un indotto annuo che va da 30 a 45 mila euro e l’equiturismo coinvolge 100 mila appassionati e vale 900 milioni di euro. In che modo la Fise, ed il settore, si occupano di sostenibilità?
R. Credo che il cavallo faccia da solo sostenibilità. Abbiamo un indotto che è sconosciuto ai più. Basti pensare a chi ferra i cavalli, a chi coltiva il fieno, a chi produce mangime. Tutte attività che si ricollegano al nostro mondo. Il turismo equestre è senz’altro una delle attività che bisogna «cavalcare». Abbiamo presentato il programma del nostro nuovo dipartimento Equitazione di campagna. Attraverso questa disciplina, forse la più praticata, anche al di fuori della nostra federazione riusciremo a dare ulteriore visibilità al nostro sport e lo faremo facendo capire che andare a cavallo non vuol dire solo saltare o fare lezione in maneggio, ma può voler dire ammirare le bellezze architettonico-culturali e naturalistiche ad altezza di sella. In questo l’Italia non ha nulla da invidiare a nessuno.

D. Marco Di Paola: mi parla di lei?
R. Ho iniziato a montare da bambino con Adriano Capuzzo al Pony Club Roma. Ho svolto la carriera agonistica da Junior e Young Rider sotto la guida anche di Duccio Bartalucci e ho fatto i ritiri federali ai Pratoni del Vivaro con il colonnello Raimondo d’Inzeo. Sono stato ufficiale dei Carabinieri a cavallo nel Gruppo Sportivo. Sono avvocato, e gestisco un gruppo di aziende che opera nella filiera dell’edilizia. Sono comproprietario del glorioso Pony Club Roma, comproprietario del circolo Asperteam che ho anche costruito a Roma, cavaliere amatore e proprietario con un team di amici di una scuderia di cavalli di prima squadra di salto ostacoli, affidata a Luca Marziani. Ho deciso di candidarmi alla guida della Fise perché i grandi maestri che ho avuto mi hanno trasmesso l’enorme passione per lo sport equestre. Ho deciso di dedicarmi alla crescita del nostro sport e alla costruzione di una federazione moderna e al passo con i tempi: vorrei dimostrare che siamo un movimento di gente operosa, valida, onestà e in grado di allevare, far crescere e affermare cavalieri e cavalli italiani ai massimi livelli internazionali. (ROMINA CIUFFA)

GALLERY (photocredit ROMINA CIUFFA)

#gallery-3 { margin: auto; } #gallery-3 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 33%; } #gallery-3 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-3 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */

 




VERONA: FLAVIO TOSI, DA SINDACO A SINDACO, ECCO LA QUARTA GAMBA DEL CENTRODESTRA

VIA COL VENETO – di Romina CiuffaCapuleti e Montecchi, il clima a Verona è simile. L’amore non c’entra. Un nuovo sindaco da giugno, Federico Sboarina, e qui con me l’uscito, Flavio Tosi, che è stato primo cittadino per 10 anni rendendo la città una capitale d’Europa. I temi che affrontiamo con chi ha governato la città degli innamorati, della lirica, del marmo, dello Spritz, sono quelli dell’agognata (ma quanto?) autonomia del Veneto, degli scontri politici in seno alle divisioni del centrodestra, delle opere da realizzare o realizzate a Verona, della crisi dell’Arena (è del 16 ottobre l’incontro tra il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e Sboarina che ha sancito la fine del commissariamento. Tosi riassume l’accaduto degli ultimi anni: «Una pessima figura internazionale), della revoca del project financing per risollevare l’ex Arsenale austriaco «Franz Josef I» che da tempo attende una riqualificazione, del tema del degrado e dell’insicurezza balzato di recente alle cronache.

Espulso dalla Lega di Matteo Salvini nel 2015 durante il suo secondo mandato scaligero, Tosi – capogruppo per la lista Tosi all’opposizione, presidente dell’Autostrada A4 Brescia-Padova, segretario di Fare!, ed anche presidente di Federcaccia Veneto – è definito, insieme al suo movimento, la «quarta gamba del centrodestra»: l’alternativa a Salvini in un progetto che vuole raggruppare tutte le forze di centrodestra che attualmente non si riconoscono nei partiti tradizionali quali Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega Nord, caratterizzata da un pragmatismo «che va oltre i classici schemi ideologici».

Ecco come Tosi aborre il «periodo ipotetico dell’impossibile».

Domanda. Il Veneto è risultato in prima linea nella richiesta di autonomia dallo Stato centrale, grazie agli sforzi condotti dal suo leader Luca Zaia. A cosa porterà questo percorso, dal suo punto di vista di politico e di cittadino?
Risposta. Porterà a quello che è previsto dalla Costituzione, né più né meno di quello che immagino otterranno le altre Regioni che hanno avviato lo stesso percorso. È una trattativa tutto sommato neanche tanto complessa, aldilà dei proclami, che ha il seguente contenuto: lo Stato passa delle competenze e gira le risorse che spende per esse alla Regione di riferimento perché ne disponga autonomamente. Su questa base credo che il Veneto, la Lombardia, l’Emilia Romagna e chi altri decidesse di procedere in tal senso possano avere un gioco semplice, non ostacolato dal Governo, purché si resti in questo binario. È chiaro che se per fare campagna elettorale si immettono contenuti non praticabili, come la richiesta di trattenere il 90 per cento delle tasse nella Regione e diventare speciali come il Trentino Alto Adige, si rende tale percorso inutile e, a quel punto, non c’è via d’uscita perché la trattativa è impostata male a monte, non essendo in linea con la Costituzione.

D. A chi si riferisce in particolare?
R. Al Veneto. Mentre la Lombardia e l’Emilia Romagna hanno chiesto alcune deleghe, il Veneto oltre ad esse ha chiesto il 90 per cento delle tasse così come avviene in Trentino Alto Adige. Se segue questa impostazione, la nostra Regione non approderà da nessuna parte: lo Stato, su queste basi, neanche comincerà a trattare.

D. Perché è accaduto questo?
R. Il tema è elettorale: pur essendo Roberto Maroni dello stesso partito di Luca Zaia, mentre gli altri governatori mirano a portare a casa il risutato a Zaia interessa fare campagna elettorale. È un dato di fatto oggettivo: la prima uscita che ha fatto dopo l’esito referendario – poi rimangiata in un solo giorno in quanto bocciata da Forza Italia – è stata la richiesta di Statuto speciale. Così il governatore ha abbassato il tiro chiedendo comunque il 90 per cento delle tasse, anche questo impossibile per buon senso: lo Stato non può dare più risorse di quelle che spende, è una partita di giro e non può andare in difficoltà con i suoi conti. Glielo ha detto anche il deputato e vicesegretario della Lega Nord Giancarlo Giorgetti.

D. Ragionando sui temi specifici del Veneto, sarebbe giusto in effetti che si prendesse la specialità dello Statuto?
R. Se la ottenesse il Veneto, la pretenderebbero anche la Lombardia, il Piemonte, l’Emilia Romagna e quelle altre Regioni che avrebbero da guadagnarci, ma lo Stato fallirebbe poiché si regge sul residuo fiscale attivo di alcune Regioni – in particolare la Lombardia con circa 54 miliardi, il Veneto e l’Emilia Romagna con circa 15 – mentre altre come Sicilia, Calabria, Lazio, Campania, Trentino, drenano i soldi dallo Stato centrale. Porre una simile ipotesi equivale a formulare un periodo ipotetico dell’impossibile.

D. Lei a cosa punterebbe?
R. A portare a casa quello che è possibile portare. Al referendum ho votato sì. Lo Statuto speciale magari averlo, ma sono realista e so che è impossibile ottenerlo, inutile chiederlo.

D. Un commento veloce sulla situazione catalana?
R. L’autonomia di cui gode la Catalogna è già straordinaria, un grado altissimo, tranquillamente paragonabile a quella del Trentino Alto Adige, e non capisco per cosa protestino. Sono un federalista, non un secessionista. È chiaro che il Governo spagnolo gli abbia impedito di secedere.

D. A Verona in particolare, quali sono stati gli esiti referendari?
R. C’è stata un’affluenza non alta – il 46 per cento per la città in sé – rispetto alla media regionale che ha sfiorato il 60 per cento, per vari motivi. Come anche in altre votazioni, ad esempio la Brexit che ha avuto connotazioni diverse nelle grandi città e nei piccoli Comuni, l’affluenza è stata mediamente inferiore rispetto alla provincia. Siamo sempre stati considerati, e un po’ ci riteniamo, una «periferia dell’Impero»: Verona ha un rapporto di minore «affetto» rispetto al resto del Veneto, siamo «un po’ lombardi», ossia diversi come tutte le realtà di confine, e abbiamo anche una storia che è diversa: la Repubblica Serenissima è passata anche da Verona, ma per un periodo più breve e meno intenso.

D. Come si è verificato il passaggio dal suo mandato (doppio) al nuovo sindaco scaligero?
R. Il centrodestra si è presentato diviso. Sommando i voti che ha preso la mia coalizione – al primo turno il 24 per cento – a quelli del nuovo sindaco Sboarina – al primo turno il 29 per cento – e a quelli delle altre liste civiche, si arriva ai voti che normalmente prende il centrodestra a Verona, ossia circa il 60 per cento. Al ballottaggio sono andate le due coalizioni del centrodestra, rimanendo escluso il centrosinistra, e quelli che sono rimasti fuori dal ballottaggio hanno votato prevalentemente per il centrodestra tradizionale.

D. Oltre alla vittoria del nuovo sindaco, ci sono stati altri motivi che hanno portato «l’altro centrodestra» a vincere queste elezioni?
R. Sicuramente hanno inciso i miei rapporti con la Lega, da cui nel 2015 sono stato espulso da Salvini. Questo ha cambiato le prospettive sulla città. Già nel mio ultimo mandato avevo all’opposizione Forza Italia, il PDL, più in generale il centrodestra tradizionale, così come il centrosinistra e il M5S. L’unica forza in maggioranza con me negli ultimi 5 anni è stata la Lega. Ciò che è cambiato questa volta è che anche la Lega è passata dall’altra parte.

D. Perché è stato espulso da Salvini?
R. Un modo di vedere profondamente diverso, gli atteggiamenti rispetto all’uscita dall’euro, alla flat tax, alla secessione ed altro. Ci sono stati periodi in cui per Salvini chi stava nella Lega obbligatoriamente doveva sostenere l’uscita dall’euro o essere secessionista, cosa che non sono mai stato. Affrontiamo i temi politici con differenti approcci: io sono pragmatico, lui cavalca anche l’impraticabile. È la differenza che passa tra Salvini e Zaia da una parte, più populisti, e Maroni dall’altra, più pragmatico. Il populismo elettoralmente paga: Maroni ha fatto una campagna referendaria molto istituzionale, sui contenuti, non caricandola con tematiche indipendentiste, e in Lombardia è andato a votare il 40 per cento degli aventi diritto; da noi la campagna di Zaia ha portato a votare quasi il 60 per cento dei veneti.


Flavio Tosi e Matteo Salvini

D. In cosa si distingue principalmente la sua decennale gestione scaligera da quella che Verona si aspetta ora da Sboarina?
R. Verona, nei 10 anni della mia gestione, è passata dall’essere una città provinciale semisconosciuta all’essere una città europea, con un flusso turistico che è aumentato in maniera straordinaria e con grandi investimenti, rendendosi quello che oggi è il motore economico del Veneto rispetto a città, come Padova o Venezia, con le quali Verona si è sempre confrontata. Oggi è lei quella più dinamica, più attrattiva di investimenti, più ricca di potenzialità. Abbiamo fatto un salto di qualità. Sboarina nelle sue prime mosse ha cercato di bloccare alcune iniziative imprenditoriali già avviate, rischiando di portarle indietro. Dal mio punto di vista un sindaco deve favorire gli investimenti, non bloccarli.

D. Può essere più specifico?
R. Per esempio, per l’ex Arsenale austriaco, complesso in centro, avevamo completato la procedura per un project financing pubblico e privato di recupero, e il nuovo sindaco l’ha affossata a settembre con una delibera del Consiglio comunale. Avevo chiuso la gara, avevo assegnato il progetto; alla fine del mandato la nuova amministrazione starà ancora parlando di come risolvere la questione. La grande contraddizione è che il mio operato è stato votato a suo tempo dallo stesso Sboarina, che componeva la mia coalizione. Un altro esempio: avevamo previsto la trasformazione commerciale di una serie di immobili, la nuova Giunta ha dichiarato che la impedirà.


Federico Sboarina e Flavio Tosi

D. Questo avviene per dinamiche politiche, ossia di passaggio da un sindaco all’altro , o perché effettivamente ci sono divergenze nella visione della città che lui ha reso note in campagna elettorale, e per questo è stato scelto rispetto alla coalizione che lei rappresenta?
R. La cosa paradossale è che gran parte di coloro che sono ora nell’amministrazione attuale mi appoggiavano in uno dei miei due mandati, appartenevano alla mia maggioranza, erano d’accordo con il mio operato. Hanno fatto una campagna elettorale di contrapposizione: essendo loro la naturale omogeneità della mia squadra, in quanto la componevano – il sindaco è stato mio assessore nel primo mandato così come parte della sua Giunta, e alcuni attuali consiglieri comunali sono stati miei consiglieri comunali -, si sono dovuti differenziare in tutto e per tutto nonostante avessero votato in precedenza quanto ora stanno bloccando. Aspettiamo però la parte propositiva, è ancora troppo presto per parlare a quattro mesi dall’insediamento. Come avvenuto per l’ex Arsenale, pur proveniendo dalla stessa parte politica e avendo condiviso una serie di provvedimenti, i nuovi insediati hanno dovuto smentirli per non diventare solo una brutta copia della mia amministrazione. Il loro maggior sostenitore, oggi, è l’estrema sinistra, che ne elogia le scelte. È una cosa singolare, ma per me è normale rispetto a ciò che è stata la campagna elettorale, tanto è che l’estrema sinistra al ballottaggio li ha votati.

D. Rispetto all’Arena di Verona, lei l’ha seguita negli ultimi dieci anni fino al recente commissariamento. Come è possibile che un così importante e riconosciuto bene pubblico entri in crisi?
R. Il sold out dell’Arena è dovuto alle attività dell’extra-lirica, ossia a quelle che fanno i privati noleggiando di fatto il monumento; con la lirica viene venduta la metà dei biglietti. È un problema italiano, non veronese: il pubblico della lirica è generalmente in calo mentre il pubblico dell’extra-lirica è generalmente in crescita. Quando mi sono insediato, si facevano non oltre tre eventi l’anno di extra-lirica, oggi siamo a quasi 50. Ho differenziato il prodotto, portando l’extra-lirica in Arena. Ma oggi tutte le fondazioni liriche in Italia, a parte Milano e Venezia, sono in difficoltà: questo perché il modello di gestione è sbagliato, bisogna puntare su un modello più privatistico. Dopo aver fatto un lungo braccio di ferro con i sindacati, avevamo chiesto di mettere in liquidazione l’ente pubblico per trasformarlo in privato; con il commissariamento, invece, c’è da aspettarsi che nel giro di qualche anno le difficoltà finanziarie torneranno tante quante prima. Questo è il destino dell’Arena di Verona e di tutte le fondazioni liriche in Italia, che oggi hanno complessivamente 400 milioni di euro di debito, di cui 25 milioni sono veronesi. Alla fine dei conti, siamo tra quelli che stanno «meno peggio». Infatti le entrate, che prima erano migliori anche per la contribuzione pubblica, sono costantemente in calo.

D. Si attende un «Central Park» veronese, grande, immensa area che Rfi, Rete ferroviaria italiana, dovrebbe auspicabilmente passare al Comune. L’AD Maurizio Gentile ha rassicurato Verona. Cosa accadrà?
R. Questa amministrazione non rientra coi tempi nel compimento del programma perché le Ferrovie, proprietarie dell’area, hanno già dichiarato che non potranno liberarla prima del 2024, ossia oltre il mandato dell’attuale sindaco. Inoltre, sperare che le Ferrovie – le quali hanno valorizzato molte aree simili in altre città, come ad esempio Bologna – regalino al Comune mezzo milione di metri quadri, che frutta loro una voce in bilancio di circa 90 milioni, mi sembra sia una pia illusione. Anche da un punto di vista contabile il progetto è di difficile realizzazione, in quanto l’area è in parte di proprietà di Mercitalia Logistics, controllata delle Ferrovie dello Stato Italiane. Il mio predecessore Paolo Zanotto aveva proposto che metà dell’area – edificabile – restasse alle Ferrovie, e metà – il parco – venisse ceduta al Comune di Verona: questo, probabilmente, era un progetto più realistico.

D. La polemica sui tema sicurezza e degrado in città a Verona, esplosa poco dopo il nuovo insediamento, da cosa è stata generata?
R. Lo ha detto lo stesso segretario provinciale della Lega Paolo Paternoster in una conferenza stampa alla stazione: a Verona è peggio di prima. La sicurezza dipende da come si gestiscono le Forze dell’Ordine, in particolare la Polizia municipale. Vediamo cosa succederà. Stiamo documentando il problema sicurezza monitorando la presenza di senza fissa dimora e quant’altro, e lo facciamo andando in giro per le piazze, ai semafori, nei parchi, a filmare la situazione. Il coordinamento con le Forze dell’Ordine c’era già durante il mio mandato. Ma saranno i veronesi a valutare se le cose andranno meglio in questi anni. (ROMINA CIUFFA)




MAURIZIO DANESE (VERONAFIERE), DAL BALCONE DI ROMEO E GIULIETTA AL BALCONE INDUSTRIALE DEL MADE IN ITALY

VIA COL VENETO (di ROMINA CIUFFA). Da Vinitaly a Fieracavalli, gli eventi fieristici più «in» del nostro Paese avvengono nella città dell’amore, quella che prima di tutto è collegata, nella letteratura ed ormai nell’immaginario collettivo, alla storia «eccellentissima e lamentevolissima» di Romeo e Giulietta. Di certo la scaligera – dodicesima provincia italiana per numero di imprese – è, sotto il profilo culturale (ed, indirettamente, del business), una delle più fruttifere di Italia, luogo di incontro naturale tra turismo ed affari, in vicende che seguono la forza e la testardaggine dei due innamorati shakespeariani, ma che finiscono, invece, bene. E non muore nessuno. Nata nel 1898, la Fiera di Verona inaugura con una edizione sperimentale dedicata ai cavalli alla presenza di Vittorio Emanuele III nell’attuale Piazza della Cittadella (a due passi da piazza Bra e dall’Arena), sintetizzando le vocazioni della campagna veronese e le tradizioni che fanno risalire all’807 d.C. la prima fiera tenutasi sul sagrato della Basilica di San Zeno, anche ampliandosi con altri capi di bestiame e, in generale, nel settore agricolo. Alla Fiera Cavalli si affiancò sin dal 1899 una mostra di automobili, a dar lustro al primo inventore del motore a scoppio, il veronese Bernardi.

Nel 1930 avvenne la trasformazione in ente autonomo, che dalla location centrale dovette spostarsi nel 1948, essendo presto divenuta insufficiente l’area di originale competenza, ed occupare la zona industriale a sud della città, attuale complesso di Veronafiere, così potendo ospitare gli eventi principali italiani, oltre alla storica Fieracavalli (di cui quest’anno si è tenuta la 119esima edizione): da ArtVerona ad Elettroexpo (fiera dell’elettronica e del radioamatore), Fieragricola, Job&Orienta, Marmomac (per l’industria del settore litico), Model Expo Italy (modellismo statico e dinamico), Motor Bike Expo (moto), Samoter (macchine per il movimento terra e da cantiere), Progetto Fuoco (dedicata al riscaldamento da biomasse legnose), Innovabiomed (industria biomedicale), Cosmobike Show (fiera sul mondo delle biciclette), fino alla più nota, Vinitaly.

Ed ora una nuova iniziativa «a doppia targa»: collaborazione storica quella tra parmigiani e scaligeri che oggi sfocia in Wi·Bev riunendo le tecnologie per il «wine & beverage», settore che per macchinari, attrezzature e tecnologie per la viticoltura e l’enologia conta 3,6 miliardi di euro e il cui 70 per cento è derivato dall’export. Il Wine&Beverage Technologies Event, co-organizzato da Fiere di Parma (sotto la guida di Gian Domenico Auricchio), è già in programma dal 4 al 5 dicembre 2018 nell’ambito di «wine2wine», subito dopo la vendemmia, quando le aziende vitivinicole non sono più impegnate nelle operazioni di campagna. Wi·Bev unirà il momento espositivo al confronto diretto tra aziende del settore, fornitori di macchine e impianti nonché tecnici della filiera, oltre a «capitalizzare gli aspetti ‘smart’ dell’esperienza innovativa di Cibus Connect–ha sottolineato Antonio Cellie, amministratore delegato di Fiere di Parma–associandola ad un palinsesto di approfondimenti specifici e mirati al comparto tecnico e produttivo della filiera vitivinicola e non solo».

Travalicati i confini della città e della nazione, promuovendo eventi fieristici nei Paesi extraeuropei maggiormente interessati alla produzione italiana – tra tanti, la Cina e il continente asiatico, in cui Veronafiere gioca un ruolo da protagonista per l’Italia sulla Via della Seta – Veronafiere è oggi il primo organizzatore diretto di manifestazioni in Italia, secondo per fatturato e ai vertici in Europa, con oltre cento anni di esperienza nel settore ed una posizione geografica strategica, al centro delle maggiori direttrici intermodali europee. Un hub naturale per la promozione internazionale del sistema industriale e dell’eccellenza made in Italy, che fornisce strutture e servizi aggregativi a visitatori ed espositori. Il fatturato è generato per l’87 per cento da fiere di proprietà ed organizzate direttamente, delle quali detiene il know-how completo, dalla pianificazione strategica alla realizzazione tecnica-operativa. La gestione del marketing, della comunicazione, del quartiere e dei servizi, una rete di delegati presenti in tutto il mondo, relazioni forti con le istituzioni nazionali ed i mondi associativi sono gli asset sui quali si fonda Veronafiere.

A proposito di internazionalizzazione, si è appena tenuto a Johannesburg, in Sudafrica, il tradizionale Ufi Congress di fine anno, che ha visto diversi seminari dedicati ai temi più caldi per l’industria fieristica. L’Italia, con un folto gruppo di delegati, ha visto una importante serie di nomine all’interno dell’organizzazione mondiale delle fiere, a partire da Corrado Peraboni (già amministratore delegato di Fiera Milano ed ora chairman di Cipa Fiera Milano Publicações e Eventos) per la presidenza dell’Associazione mondiale delle fiere (Ufi), il quale ha dato risalto alla strategia «PIN» (Promote, Inform e Networking), come base su cui l’ecosistema delle fiere deve sempre di più fondare la propria crescita e sviluppo industriale. La nuova nomina alla presidenza riafferma il valore del comparto fieristico italiano nel contesto internazionale, insieme alla rinnovata composizione del Board of Directors, cui per i prossimi tre anni è stato confermato Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere, nella carica di primo vicepresidente dello European Chapter; oltre a lui nominati anche Matteo Marzotto, vicepresidente esecutivo di Italian Exhibition Group, e Giorgio Contini, direttore internazionale di BolognaFiere.


Marco Di Paola, Giovanni Mantovani e Maurizio Danese

Parla il presidente di Veronafiere Maurizio Danese, operativo per il triennio 2015-2018, socio di un gruppo di aziende che opera nel settore della fornitura di prodotti alimentari al canale Horeca, consigliere della Camera di commercio di Verona e vicepresidente vicario di Confcommercio Verona.

Domanda. Quali le strategie per il futuro di Veronafiere con il Comune?
Risposta. L’amministrazione comunale veronese è il socio di maggioranza relativa di Veronafiere spa. Abbiamo illustrato il piano industriale di sviluppo al 2020 che prevede investimenti pari a 94 milioni di euro, così come stiamo ragionando insieme sul ridisegno del quartiere sud della città sul quale insiste la Fiera di Verona.

D. Dopo una battuta d’arresto del 2015, Veronafiere è ripartita. Come? Quali i numeri oggi?
R. Nel 2015 non c’è stata nessuna battuta d’arresto. Semplicemente Veronafiere, nell’interesse del Paese, ha risposto ad una domanda specifica da parte del Ministero delle Politiche agricole e di Expo per occuparsi della realizzazione del Padiglione del Vino all’Esposizione universale di Milano. Abbiamo quindi dovuto mettere mano ad un investimento molto più ingente di quanto preventivato ma, se non l’avesse fatto la Fiera di Verona con Vinitaly, con tutte le difficoltà che Expo ha dovuto incontrare, non sarebbe stato possibile offrire un’esperienza unica come quella che ha rappresentato il padiglione «Vino -A Taste of Italy», visitato da oltre 2,1 milioni di persone, di cui il 20 per cento straniere. In quell’anno, in cui sono stato nominato presidente proprio a fine Expo, il consiglio di amministrazione di Veronafiere ha deciso di inserire quanto investito nel bilancio 2015 che, senza questi extra costi, avrebbe chiuso con un Ebitda di 8,1 milioni di euro.

D. Come è avvenuto il processo di trasformazione in spa?
R. La trasformazione in società per azioni ha seguito l’iter previsto dalla normativa regionale, iniziato con la nostra richiesta il 4 luglio 2016. In poco più di sei mesi abbiamo quindi compiuto tutti passaggi tecnici, burocratici e legislativi, con il via libera dalla Regione del Veneto arrivato ad ottobre, fino al 29 novembre 2016 con la trasformazione in spa, entrata poi in vigore ufficialmente dal 1° febbraio 2017.

D. Può indicare alcuni aspetti del Piano industriale di sviluppo al 2020 relativi a Veronafiere?
R. Con questo piano industriale gli obiettivi che si intendono conseguire sono fondamentalmente due. Rafforzare il ruolo di leadership mondiale in particolare nelle filiere «wine&food» e marmo-costruzioni e continuare a essere un motore di produzione di ricchezza per la città e per il territorio. In questo contesto prevediamo al 2020 un volume d’affari obiettivo di 113 milioni di euro con un Ebitda di 21,9 milioni di euro, pari al 19 per cento dei ricavi.

D. Giovanni Mantovani è ora nel Board of Directors dell’Ufi, la Global Association of the Exhibition Industry. In che modo Veronafiere avrà voce in quella sede, anche in rappresentanza italiana, e non solo scaligera?
R. Non è la prima volta che Veronafiere ha un proprio rappresentante nel board dell’Ufi, di cui siamo membri dal 1932. In questa sede porteremo tutta la nostra esperienza di organizzatori di manifestazioni dal 1898, ma ragionando sempre in ottica di promozione del sistema fieristico italiano nel suo complesso.

D. Fieracavalli 2017 ha avuto un grande successo. Sogna di portare i cavalli in Arena: c’è speranza, anche in occasione del 120esimo compleanno di Fieracavalli nel 2018?
R. Fieracavalli ha chiuso l’edizione 2017 superando ancora le 160 mila presenze, di cui il 16 per cento dall’estero, da 63 nazioni. L’idea di riportare un evento equestre di altissimo livello in Arena, nel cuore di Verona, fa proprio parte di alcune iniziative che stiamo valutando in occasione dei 120 anni della manifestazione. Sarebbe di sicuro un evento indimenticabile per la città e per tutti gli appassionati di questo mondo.

D. Non solo Vinitaly: molti gli accordi, molte le esposizioni e i contenuti. Quali, per lei, i principali, e quali i nuovi obiettivi?
R. Veronafiere organizza in media più di 60 manifestazioni all’anno. Oltre a Vinitaly e Fieracavalli, penso a Marmomac, il primo salone al mondo per la filiera della pietra naturale e delle tecnologie, e poi Fieragricola, dedicata al settore primario, senza tralasciare il mondo delle macchine da costruzioni, con Samoter. Questi sono soltanto alcuni dei nostri marchi più conosciuti e di successo. Il nostro obiettivo resta sempre quello di consolidare il portafoglio di rassegne leader, sviluppare le potenzialità esistenti, anche attraverso collaborazioni e partnership, e aumentare significativamente la quota di mercato e la redditività, posizionando così saldamente la Fiera di Verona tra le più importanti realtà internazionali del settore.

D. Veronafiere all’estero, come è rappresentata? Come è vista? Oltre a Italian Wine Channel, cosa c’è?
R. L’estero è sempre più chiave di crescita fondamentale per il nostro business. Ogni anno sono in media una ventina gli appuntamenti che realizziamo in oltre 10 nazioni nei settori del «wine&food» e del «building&construction». Con gli eventi fieristici, le missioni commerciali e le attività formative delle nostre «academy» abbiamo creato una community globale del vino e del marmo, in particolare negli Stati Uniti, in Brasile e in Cina, ma stiamo concentrando negli ultimi anni gli sforzi anche in Africa e in Medio Oriente, mercati dal grande potenziale. La nostra forza è quella di essere prima di tutto ambasciatori, insieme alle aziende, di molte eccellenze del made in Italy.

D. Veronafiere in Brasile con Veronafiere do Brasil: perché il Brasile?
R. Il Brasile è l’economia più importante del Sudamerica e, nonostante la recente crisi, è ancora una delle aree a più alto tasso di crescita dell’area. Per la nostra attività è un punto strategico nel comparto lapideo, ma stiamo valutando anche nuove iniziative nel settore vitivinicolo, vista la posizione privilegiata di accesso ai vicini mercati dell’area Nafta.

D. L’innovazione digitale ha cambiato la fieristica?
R. L’innovazione digitale ha cambiato tutto il nostro mondo, non soltanto quello fieristico. Da Veronafiere una attenzione particolare a riguardo è rivolta ai processi e alla gestione dei rapporti con i clienti e il mercato. Abbiamo un progetto specifico inserito nel piano industriale di sviluppo, con investimenti importanti sia in termini di formazione che di servizi.

D. Quali, secondo lei, le modalità per rilanciare l’Italia nell’economia positiva attraverso la fieristica?
R. Le fiere sono da sempre uno strumento fondamentale per la promozione internazionale e lo sviluppo dell’export. In Italia, per il 75 per cento delle piccole e medie imprese, sono anche l’unico momento di visibilità estera. Un ruolo di leva economica che è riconosciuto dal Ministero per lo Sviluppo economico e dall’Ice-Agenzia che dal 2015 hanno inserito alcune manifestazione fieristiche, tra cui Vinitaly e Marmomac, tra quelle strategiche per il Paese. In questo caso la via è una sola: fare squadra tra sistema-fiere nazionale, imprese e Governo per presentarsi uniti sui mercati stranieri, coordinando le risorse in azioni mirate di incoming e outgoing.

D. Turismo fieristico e congressuale: quali le peculiarità?
R. Le fiere rientrano a pieno diritto anche nel settore Mice (Meeting Incentive Congress & Events), come gestori di mete privilegiate per il turismo d’affari e i congressi. Veronafiere all’attività «core» che porta alle manifestazioni ogni anno 1,2 milioni di visitatori, affianca quella di un centro congressuale che organizza 330 eventi all’anno con 85 mila partecipanti di media. La Fiera di Verona vanta poi una location unica, a poca distanza dal centro storico di una città patrimonio dell’Unesco e nella top ten delle mete turistiche italiane.

D. Perché scegliere Veronafiere? Come si distingue dalle altre fiere italiane?
R. Oltre ad avere quasi 120 anni di esperienza nel settore, il nostro più grande plus è quello di essere organizzatori diretti della quasi totalità delle nostre manifestazioni di successo. Significa che Veronafiere non si limita a vendere gli spazi espositivi del proprio quartiere, ma l’87 per cento del proprio fatturato è generato da fiere che sono di nostra proprietà e di cui curiamo direttamente crescita, sviluppo e rapporti con i mercati e gli stakeholder. (ROMINA CIUFFA)

GALLERY (photocredit ROMINA CIUFFA)

#gallery-4 { margin: auto; } #gallery-4 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 33%; } #gallery-4 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-4 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */




SEBASTIANO ZANOLLI: ECCO COME FARE, CON (MOTIV)AZIONE, LA GRANDE DIFFERENZA

«Io sono un manager, uno di quegli odiati o invidiati personaggi che passano la vita tra meeting e target, tra down-sizing e market share, tra presentazioni in power point e key account arrabbiati». Si presenta così, nel suo primo libro del 2003 («La grande differenza», Franco Angeli), Sebastiano Zanolli. Da allora sono cambiate molte cose. E infatti già scriveva: «La capacità di prevedere è senza dubbio una caratteristica dei grandi realizzatori», e specificava: «Non sto parlando di indovini o di lettura delle carte. Sto parlando dell’attitudine ad agire nel presente, avendo in mente il futuro». Citando Charles F. Kettering: «Tutti dovremmo preoccuparci del futuro, perché là dobbiamo passare il resto della nostra vita», personalmente scriverei: «Tutti dovremmo preoccuparci del futuro, perché là dobbiamo passare il resto del nostro presente».

Questo ha fatto Zanolli: si è talmente impegnato a comprendere come da un’azione oggi derivino le azioni di domani, come dall’autodisciplina scaturiscano risultati significativi, come dal benessere di un solo individuo derivi il benessere dell’azienda che lo impiega prima, dell’intera società dopo, che è divenuto uno «speaker motivazionale». Ante litteram: quando cominciò ad occuparsi di «motivare» (lui ci dirà, in questa intervista, che il suo obiettivo è «ispirare»), non esisteva la figura del «coach» o «counsellor», che tanto va di moda oggi. Ha precorso i tempi ed ora ispira gli ispiratori, motiva anche i motivatori. Lo paragonerei al suggeritore che è nascosto nel «gobbo» del palco, durante uno spettacolo in teatro. Colui che dice le battute giuste a chi le pronuncia dinnanzi alla platea.

Zanolli è colui che spiega alle aziende – non alla persona giuridica ma alle persone fisiche che la compongono – «perché» e non «come» raggiungere gli obiettivi. E nella crisi che il mondo sta vivendo, la depressione economica affianca quella patologica a tal punto da non distinguersi più quale, tra le due, sia la causa e quale sia l’effetto. Così l’azienda chiama Zanolli, che da Bassano del Grappa arriva, intriso di energia veneta, e spiega come sviluppare il sistema reticolare attivante, meccanismo che scatta quando si decida a darsi un ordine attraverso la sua continua ripetizione nella nostra testa, in modo che il subconscio si programmi per realizzarlo, attivandosi ed accrescendo la sensibilità e la consapevolezza verso le idee e le persone.

Convinzione e connessioni, ecco la chiave, l’effetto leva della nostra motivazione. Zanolli lo sa.

LA VIDEOINTERVISTA

L’INTERVISTA

Domanda. Manager, scrittore e speaker motivazionale. Qual è stato il suo percorso di vita?
Risposta. Dopo aver preso la laurea in Economia e commercio ho cominciato a lavorare da subito come venditore, avendo per caso incontrato il titolare di un’azienda di tessuti che cercava un assistente che lo seguisse in giro per il mondo. Mi piaceva viaggiare, e dovevo imparare a proporre merce, cosa che io, essendo figlio di un artigiano, non avevo imparato. Avevo imparato però che funzione del benessere nella vita è il lavoro, e più si vuole più si deve lavorare. Entrato nel mondo delle vendite, mi resi conto che non era così, che il venditore non ha diritti, li ha il cliente, e a quel punto viene a mancare la connessione logica tra lavoro e risultati che è invece presente nel lavoro di un operaio. Cominciai così a confrontarmi con gli addetti ai lavori, rendendomi conto che la maggior parte di essi non sapeva darmi risposte, così decisi di scriverle io: nel 2003 uscì «La grande differenza», che ebbi la fortuna di pubblicare con la Franco Angeli attraverso un amico che mandò il mio manoscritto alla redazione. Il libro ha cominciato a vendere, quindi vendere bene, ed è ora un «long seller» da 24 ristampe. Ne sono nati argomenti di approfondimento.

D. Dove nasce l’azione?
R. C’è chi attende di far qualcosa che dia significato e che renda significativa la propria esistenza, ma non si mette in moto. Si deve muovere se stessi e muovere gli altri in relazione a risultati economici. Non a tutti interessa la connessione tra le azioni ed il risultato che devono ottenere. Ho riflettutto sulle galassie degli obiettivi personali: la paura, la presenza di altri che possono essere di supporto, la possibilità di essere a sua volta di aiuto, le reti di direzione, tutti temi relativi al «marchio personale», non alla persona ma al personaggio. Avevo notato che, mentre nell’aspetto esistenziale si è persone ed è importante essere significativi per se stessi, nel gioco sociale di mercato e liberista vale il personaggio, la sovrastruttura che si crea attorno alla propria persona. Mi sono accorto che ci sono personaggi che possono portare a casa risultati senza essere persone, e persone che non essendo personaggi non riescono a portare a casa risultati. Vincent Van Gogh e Pablo Picasso sono due esempi speculari: uno muore povero, l’altro riesce a sfondare in vita. Non voglio soffermarmi troppo sul tema della ricchezza, ma come manager l’aspetto del risultato economico resta importante: negare che il benessere materiale sia una cosa cui ambiamo, non fosse altro che per mantenere i genitori anziani, è impossibile. Ho scritto molti altri libri, ed hanno ampliato la mia superficie di contatto con il pubblico non aziendale mentre continuavo a fare il manager in azienda. I miei libri mi hanno fatto promozione e le aziende hanno cominciato a chiamarmi per fare delle consulenze. Così è nato questo lavoro. Ed ho la fortuna di avere grande passione per una materia per cui il mercato è disponibile a pagare.

D. Chi la cerca?
R. Mi chiamano per la formazione in aula o all’interno di kermesse. In quest’ultimo caso, è richiesto un intervento più mirato che è racchiuso in un tempo breve, teso a motivare istantaneamente.

D. In cosa consiste il suo lavoro da manager, e come si affianca alla strada parallela dello «speech» aziendale?
R. Il mio lavoro consiste nel fare «employer branding», quelle attività utili a tenere lucido il marchio dell’azienda non tanto nei confronti dei consumatori, cui pensa il reparto del marketing, bensì nei confronti degli attori che hanno a che fare con il marchio da fuori, quindi università, organizzazioni, enti politici, Comuni, ossia coloro che devono avere una buona idea del marchio, inclusi i dipendenti, i talenti e le persone che escono dalle università ed aspirano ad un luogo di lavoro come quello che l’azienda offre. Mi occupo dell’aspetto qualitativo dell’organizzazione, non tanto per i consumatori quando dal punto di vista del benessere dei lavoratori, coinvolgendo il tema dell’attrattività dell’azienda per uno studente che vuole crescere. Al di là del fattore economico, lo studente che si affaccia sul mercato si pone questa domanda: qual’è l’azienda in cui si sta meglio, che mi farà crescere di più, che mi arricchirà? Tale lavoro si sposa molto bene con i temi del facilitatore, anche se spesso mi definiscono un «motivatore» o un «coach»; non che io mi ribelli a queste definizioni, sono solo più semplici.

D. È davvero possibile «motivare» con un discorso o con un libro?
R. Il motivatore presume di entrare in un posto ed uscirne dopo aver motivato le persone che lo hanno ascoltato. Nella mia esperienza non ho mai visto nessuno motivare qualcun altro: ho visto qualcuno «ispirare» qualcun altro. La motivazione è sempre frutto di ragionamento, di un sentimento interno. Si può preparare la tavola, sistemare il fiore, poi è il meccanismo che si sviluppa all’interno della persona che deve mangiarvi a farle apprezzare il contesto e scegliere tra un ristorante e l’altro. Una motivazione sorta per il solo fatto di aver ascoltato uno «speech» è una motivazione di breve durata, come camminare sui carboni ardenti. Possiamo lasciarci ispirare, ma la motivazione è più sofisticata.

D. La sua storia da «ispiratore» è iniziata in un momento in cui non era troppo in uso del resto, e figure simili non esistevano. Ora può essere l’ispiratore degli ispiratori, mentre prima non aveva qualcuno cui ispirarsi e da cui, in seconda facie, essere motivato.
R. Vero. Questo è importante. Mi citano nelle tesi, mi cercano. Il fatto di essere partito in un momento in cui il mercato non presentava tale offerta mi ha consentito di fare quello che faccio e di dedicarmi ad entità plurime, creando relazioni costruttive: infatti, lavorando con le persone sulla loro motivazione e in modo accorto ed onesto, è difficile che non si sviluppino buoni rapporti. Questo fattore apre un altro ventaglio di possibilità. Anche l’online si avvale delle raccomandazioni degli altri; il «feedback», che è frutto di un’esperienza e di una relazione, è sempre più importante. Credo molto nello strumento delle relazioni, e va trattato con cura perché la linea che c’è tra il raccomandare chi è meritevole e la malversazione è sottile, e la fa da padrona la morale che ciascuno di noi sposa.

D. La democrazia di internet dà più manforte alla lealtà di queste relazioni, contrastando una forma di favoritismo verso amici attraverso il «feedback»?
R. C’è assolutamente più trasparenza.

D. In un momento di economia stagnante e di «low profile», come «ispirerebbe» un’azienda depressa, in senso economico ed in senso psicologico, che deve trovare delle basi in un mondo di altre aziende che si trovano nella medesima condizione?
R. Per me non esiste l’azienda, mi riferisco sempre alle persone all’interno della stessa. Quando mi chiamiamo a fare interventi di tipo motivazionale, ossia che serva a cambiare stato alle persone, suggerisco di valutare l’obiettivo: crearne uno interessante fa nascere spontaneamente una motivazione. Il problema sorge quando l’azienda ha un obiettivo che il lavoratore non avverte come proprio, o non capisce. La prima dice al secondo come deve cambiare per spostarsi da un punto A ad un punto B; cambiare, per la base aziendale coincide con un maggior carico di lavoro, una maggiore flessibilità, velocità aumentata, non sempre un aumento di stipendio. Il «motivatore» deve dimostrare come l’obiettivo che l’azienda si pone in un dato momento costituisca una tappa fondamentale per arrivare all’obiettivo specifico dei singoli individui. Ossia: perché il lavoratore sia soddisfatto, si deve per forza passare per la soddisfazione aziendale. In questo modo e con tale consapevolezza si crea motivazione nel singolo.

D. Nella maggior parte dei casi, però, l’obiettivo che motiva il lavoratore si semplifica in un solo elemento: la retribuzione.
R. Questo, in un’economia stagnante, è molto limitante. Per qualche motivo l’azienda potrebbe non avere la capacità di pagare di più, ma a conti fatti quello che diciamo è una mezza verità: la gente non è motivata dallo stipendio. O meglio, il congruo stipendio è senza dubbio un fattore igienico, ma dopo alcuni mesi dall’aumento della remunerazione, questo non fornisce già più la motivazione che ne era alla base. Ciò non vuol dire che non si debba pagare i dipendenti, tutt’altro; ma se si pensa di poter motivare i singoli solamente con i soldi si sbaglia. Senza considerare che a volte l’azienda non può nemmeno farlo, e spesso deve addirittura tagliare in quanto carente di risorse adeguate. Il lavoro da fare in questo caso verte sempre sul significato: domandare il senso di ciò che il lavoratore sta facendo. In che modo sarà differente? Come sarà migliore una volta entrato nel percorso di cambiamento proposto dall’azienda? Questo passaggio, che non è affatto semplice, avviene attraverso un ragionamento che va fatto con i singoli, riflettendo sui loro obiettivi, mettendo poi sullo stesso tavolo la direzione dell’azienda e la direzione individuale. Quando, attraverso ragionamenti che in parte sono di pancia e in parte di testa, si riesce ad allineare i due cerchi azienda-individuo e a creare un’intersezione sempre maggiore, è lì che scatta la motivazione: esattamente là dove il cerchio della testa (fare qualcosa perché conviene) e il cerchio della pancia (fare qualcosa perché piace) sono il più sovapposti possibile. Grazie a questa congruenza, il sacrificio non è più tale e vissuto negativamente. Questo capita a pochi, fortunati personaggi. Possiamo sperare che una piccola intersezione tra i due cerchi ci sia. Il mio lavoro è quello di cercare di allargarla il più possibile soprattutto dove emozione e pensiero non coincidono: per uno stilista è più probabile che ciò che piace coincida con ciò che conviene, per chi produce bulloni tale congruenza non è tanto immediata, se tutta la giornata lavora sulla pressa. Ci sono impieghi in cui tutto ciò che vale è: «Dammi i miei mille, prendi le mie 8 ore», ma non sono quelli che auspichiamo per i nostri figli, auguriandoci per loro un lavoro che riempia anche il cuore oltre alla tasca e alla testa. Vengo di solito chiamato, in realtà, a parlare in ambiti nei quali le mansioni non sono così acri: per pulire degli uffici non si chiede motivazione di solito.

D. Per chi zappa la terra, paradossalmente, potrebbe esserci molto più cuore. Più è grande la struttura, meno è motivante la mansione – mi viene in mente la rivoluzione industriale, ancor di più il film di Charlie Chaplin «Tempi moderni».
R. La sfida che hanno strutture aziendali è proprio quella di tenere motivate le persone, e sono imprescindibili alcuni meccanismi fondamentali, primo tra tutti l’ascolto delle persone, che sempre dicono cosa vorrebbero essere o vorrebbero avere. È evidente che una economicità è richiesta e non dico che bisogna ascoltare tutti, ma non dico nemmeno che non bisogna ascoltare nessuno. Questo dipende dalla volontà di chi ha in mano le leve organizzative: se è in grado di allineare gli interessi aziendali con quelli individuali, l’azienda ha vinto.

D. Diverso è il caso delle strutture pubbliche?
R. Sì. Quando lo statale ha una totale assenza di motivazione, come è noto, è perché è troppo grande la distanza tra il senso del lavoro ed il suo svolgimento: nessuno capisce più perché sta apponendo un timbro su un foglio, e nessuno chiede più nemmeno se sia stato fatto, con conseguente deresponsabilizzazione e demotivazione. Quando non c’è un perché, nessuna cosa è motivante, ma questo è un problema del sistema. Nel pubblico, essendo storicamente mancati i controlli necessari, tale problematica si è diffusa di più.

D. Com’è cambiato, negli anni, il senso di apartenenza ad un’azienda?
R. Il più grande cambiamento è stato quello provocato da internet, con l’accesso alla conoscenza generale in qualunque momento. Ciò vuol dire anche che qualunque cosa si conosca in un dato momento è irrilevante, motivo per cui i giovani non danno più peso alle competenze del professore e, di riflesso, al professore stesso. Cosa resta? Bisogna investire nella capacità di fare connessioni, che è ancora appannaggio degli umani e non delle macchine. Se si ha un lavoro che non ha bisogno di connessioni, il livello minimo di salario è in effetti determinato dalla disperazione degli operatori; in un lavoro di tipo euristico-creativo, la capacità fondamentale è quella di inventare cose e connessioni per creare, attraverso una sintesi, qualcosa di importante.

D. In realtà la motivazione serve non solo per fare il lavoro del «bullone», ma anche per il creativo che, a maggior ragione, ha bisogno di ispirazione e non di meccanicità.
R. Dipende sempre dall’intelligenza con cui si affronta la vita. Non è strano che si sia demotivati se si adotta un approccio statico, ossia si rinuncia alla curiosità.

D. Il punto è che la curiosità, a volte, è come la bellezza: o si è belli o si è brutti. È nel Dna. Poi, e solo in seguito, diviene una questione soggettiva, per cui ad alcuni sembra bello qualcosa che per altri non lo è. Ma alla base si hanno categorie che possono applicarsi sin dalla genesi. La curiosità non fa parte di queste?
R. È vero che la bellezza va comunque aiutata e mantenuta, ed è così anche per la curiosità.

D. Ma in questo caso, quello della curiosità, c’è anche una sorta di «metapensiero»: bisognerebbe avere la curiosità di essere curiosi per divenirlo.
R. C’è un motivo fondamentale per cui dovremmo comunque dare significato: il mondo funziona a partire dai nostri bisogni base, che crediamo di aver colmato, e in quanto già soddisfatti in via generale pensiamo di dover partire da questo livello superiore senza far più riferimento ai bisogni base. Tanti si sono dati da fare, ma se domattina il mondo smettesse di produrre energia elettrica, saremmo da capo.

D. Ossia, bisognerebbe far capire che se siamo demotivati tutti, ci fermiamo tutti. E che non possiamo demotivarci a turno, per far proseguire il mondo.
R. Esattamente. Alla fine, il punto chiave è quello degli esistenzialisti: che senso ha la vita? Da un punto di vista tecnico nessuno: si viene al mondo, poi si muore.

D. Il motivatore non è il primo esistenzialista, che si è dovuto motivare?
R. Lo è per forza di cose. Si deve piantare un chiodo e dire: questo è. Chi è interessato alla motivazione dice: io sono contento per il fatto che sono. Non c’è niente da spiegare. Sono, e quindi sono contento. E da lì si parte a dare un continuo significato in una storia che è la nostra e che noi stessi ci raccontiamo. Ma essa è vera? Non ha rilevanza che lo sia: gli avvenimenti di una storia sono oggettivi, il significato lo assumono nel momento in cui vengono messi all’interno di una relazione da parte del narratore. È proprio lì il lavoro: dare senso a qualcosa che senso non ha. (ROMINA CIUFFA)

GALLERY

#gallery-5 { margin: auto; } #gallery-5 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 33%; } #gallery-5 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-5 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */