PSICOLOGIA DELL’ASTRONAUTICA: DA GAGARIN AL CONVEGNO ITAPA

di ROMINA CIUFFA. La Psicologia dell’Astronautica inizia nel 1961 con il lancio del primo uomo nello spazio. Alla pubblicazione “La psicologia e il cosmo”, che Jurij Gagarin (astronauta che il 12 aprile 1961 compiva il primo volo orbitale attorno al globo) scrisse insieme a Vladimir Lebedev, può farsi risalire – dicono – il primo testo di psicologia dell’aviazione, del tipo spaziale. Il volumetto era già pronto, ma venne pubblicato postumo: uscì dopo la scomparsa – avvenuta il 27 marzo 1968 nel corso del collaudo di un aereo sperimentale, precipitando con l’apparecchio in un campo a trenta chilometri da Mosca – del suo autore astronautico, colto dal fascino pioniere di una nuova umanità volante e stellare, e da emozioni che aveva già messo per iscritto in “Non c’è nessun dio quassù” e in “Quello che ho visto nello spazio. Psicologia e cosmo nell’esperienza del primo uomo a volare tra le stelle”. Cosa è dei valori dell’uomo, del suo legame con il mondo, con la vita a terra, con i suoi cari e con l’umanità in genere, quando si trova immerso in un’atmosfera estranea a tutto ciò che è “esistenza” o “casa”? Come sono alterate le percezioni, le valutazioni distorte, modificati i criteri di obiettività? Cosa vuol dire essere lontanissimi dalla comfort zone?

Probabilmente, come in guerra, si arriva facilmente a raggiungere un disturbo da stress post traumatico, seppure, anziché la trincea o la morte dei soldati, l’uccisione dei nemici, le ferite, si viva l’esperienza più grande ed “esistenzial-attiva” che una qualunque forma sulla Terra (dalla foglia al girino all’uomo) possa sperare di compiere. E, guardando indietro, non si vede una trincea, non si sente l’odore del sangue: lì, guardando dietro a sé, si staglia un muro di grandezza e infinità, il muro dello spazio. Ossimoro che può spingere chi è stato lassù – per la prima o per l’ultima volta, in un giro orbitale o mettendo il piede sul suolo lunare, lavorando o semplice passeggero miliardario di una missione “sightseeing” – a morire di “nullità”.

Fu attribuita a Gagarin la frase “non c’è nessun dio quassù”, ma sembra (da quanto dichiara colonnello Valentin Vasil’evič Petrov, docente presso l’accademia aeronautica militare intitolata allo stesso Gagarin, suo intimo amico) che fu il politico Nikita Chruščëv a pronunciarla per sostenere la campagna antireligiosa dell’epoca (“Perché state aggrappati a Dio? Gagarin volò nello spazio, ma non vide Dio!”, aveva detto nel corso di una sessione plenaria del Comitato centrale del Partito comunista sovietico). Di certo la sua psicologia, però, ne fu colpita, a prescindere dall’anelito spirituale, e il poeta Salvatore Quasimodo parlò di una esaltazione della “intelligenza laica dell’uomo” relativamente al carattere essenziale del volo di Gagarin, come riportato nella quarta di copertina del testo pubblicato da Editori Riuniti. Tanto che “La psicologia e il cosmo” può essere considerato il primo testo di Psicologia dell’aviazione.

Lo fece notare anche Vladimir Lebedev – primo essere umano a lasciare la sua capsula spaziale per rimanere sospeso liberamente nello spazio compiendo la prima attività extraveicolare della storia – a Lorenzo Mezzadri, presidente dell’Italian Flight Safety Committee (IFSC), l’associazione italiana di esperti di sicurezza del volo impegnata nel miglioramento della sicurezza aerea all’interno della comunità aeronautica italiana. L’Italian Flight Safety Committee nasce sull’esperienza di quanto già realizzato con successo in altri Paesi: Stati Uniti (Flight Safety Foundation) e Regno Unito (UK Flight Safety Committee). La denominazione anglofona dell’associazione è frutto di questo retaggio.

Mezzadri ne parla nel corso di un incontro – lo scorso 6 maggio a Roma – in cui si sono riuniti i maggiori esperti italiani ed europei sulla psicologia dell’aviazione per il primo convegno organizzato dall’Associazione italiana Psicologia dell’Aviazione (ITAPApresieduta da Alessandra Rea, sodalizio formato da psicologi ed esperti di human factor che opera dal 2019 e che rappresenta oggi il polo italiano di aggregazione culturale sul tema. Alla presenza di Alessio Quaranta, direttore generale dell’ENAC, Maurizio Paggetti, CEO dell’ENAV, e David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, che lo hanno introdotto, si è snocciolata la tematica dell’Aviation Psychology e della salute mentale e benessere dei professionisti dell’aviazione, includendo la parte spagnola con Adela González Marín (presidente dell’AEPA, Asociación Española de Psicología de la Aviación) e Francisco Santolaya Ochando (presidente del Consejo General de la Psicología).

Mezzadri, oltre a presiedere l’IFSC, è docente presso l’Università La Sapienza di Roma della materia Psicologia aeronautica ed aerospaziale, insegna presso l’Ispettorato superiore di Sicurezza del volo dell’Aeronautica militare italiana e presso l’Università statale “MGU” di Mosca, è ricercatore negli studi sul fattore umano nei voli spaziali internazionali di NASA, ESA e Rosskosmos e lavora con l’ATO Urbe Aero.

Riassume Mezzadri: 

“Nel 1957 si lancia lo Sputnik, ed è la prima volta che un oggetto costruito dagli umani riesce a superare l’atmosfera e a rimanere in orbita; nello stesso anno il primo essere vivente, la cagnetta Laika (il nome non era quello, “Laika” si riferisce alla razza) viene lanciato nello spazio. Si arriva alla psicologis aerospaziale con il 1961, quando l’Unione Sovietica lancia il primo uomo nello spazio, Jurij Gagarin, dunque la prima donna nel 1963, Valentina Tereskova. È del 1965 la prima attività extraveicolare (EVA), la prima volta che un uomo apre un portellone di una nave spaziale ed esce con la propria tuta, senza sapere se potrà sopravvivere a temperature estreme, mancanza di ossigeno e di atmosfere: fu Aleksej Leonov, con cui ho avuto l’onore di lavorare, che è venuto a mancare poco tempo fa, innamorato del nostro Paese e della psicologia: fu proprio lui a regalarmi un libro, che considerava essere il primo libro sull’Aviation Psychology, scritto dallo stesso Jurij Gagarin insieme a Vladimir Lebedev”.

 
Vladimir Lebedev

Prosegue:

“Il primo volo sulla Luna, Apollo 11, è del 1969; del 1971 la prima stazione permanente Salyut 1, del 1975 il primo incontro e attracco nello spazio tra Usa e Urss con Apollo e Soyux con Aleksej Leonov. Era momento di massima tensione tra i due Paesi, e i due presidenti di allora avevano deciso di dare un segnale di disgelo e di mandare i loro uomini nello spazio per mostrare che si poteva dialogare, e mi fa piacere dirlo adesso, nel momento in cui stiamo, sperando che psicologia e astronautica possano riunire piuttosto che dividere. Nel 1981 fu effettuata la prima missione nello spazio dello Shuttle Columbia, e nel 1986 toccò alla stazione spaziale russa MIR. Nel 1998 si ebbe la prima vera cooperazione spaziale internazionale, la ISS, International Space Station (giapponesi, europei, canadesi ed americani). Il 2004 è un’altra data fondamentale perché abbiamo l’ingresso dei privati nell’esplorazione spaziale, in orbita bassa, con Space Ship One, e nel 2008 in volo orbitale con SpaceX Falcon I, mentre nel 2012 attracca alla ISS la prima navicella privata SpaceX Dragon, fino al 2020, anno del primo volo con equipaggio creato da un ente privato, SpaceX Crew Dragon”.

Le istituzioni, in questo caso la NASA, sono sempre presenti coordinando le attività dei privati. La motivazione è giuridica: i privati possono compiere questo tipo di attività, lanciare razzi o satelliti, però se avviene un incidente in volo di aviazione responsabile è la compagnia aerea con le sue assicurazioni, per quanto riguarda il trattato sulla liability internazionale nello spazio, invece, responsabile diretto è il Paese di lancio e non la società privata che lo ha effettuato. Questo il motivo per cui gli Stati Uniti in questo caso sono coinvolti con la Nasa in prima persona.

Quando si parla di aeronautica, e quando di astronautica? 

“Quando parliamo di psicologia dobbiamo capire subito qual è l’ambito di appartenenza e l’ambiente in cui ci si trova ad operare. La differenza tra astronautica e aeronautica è fissata nel bounder della Kármán Line, una linea immaginaria posta ad un’altezza di 100 chilometri (330.000 ft) sopra il livello del mare che segna convenzionalmente il confine tra l’atmosfera terrestre e lo spazio esterno, oltre la quale lo spazio è di tutti. Infatti, la rarefazione dell’aria oltre quel limite non consente all’aeroplano di sostenersi ancora con le leggi dell’aeronautica, ed interviene il fattore velocità: per questo le capsule spaziali non hanno una forma particolarmente aerodinamica, non essendo questa importante per il volo oltre certi limiti. Questa è la prima divisione tra aeronautica e astronautica”.

Il primo problema che hanno gli psicologi dello spazio è la scarsità di materiale umano. Nella storia dell’esplorazione spaziale abbiamo solo 565 astronavi dal 1957, 500 uomini e 65 donne, di cui 7 astronauti italiani (Roberto Vittori e Paolo Nespoli ne hanno fatte tre), ed è difficile lavorare con questi dati, essendo statisticamente molto bassi.

“È molto difficile riprodurre quello che succede in orbita qui sulla Terra, cosa abbastanza diversa rispetto al mondo aeronautico dove si hanno simulatori molto sofisticati. L’assenza di gravità è l’ostacolo più ingombrante. Esistono dei voli parabolici, ossia dei voli in cui gli aerei compiono parabole salendo e scendendo per circa trenta volte, ma il momento in cui si sperimenta la fluttuazione non dura oltre 30 secondi, per cui è difficile abituare l’astronauta all’assenza di gravità che sperimenterà nello spazio. Nelle piscine, invece, ci si immerge con una tuta riempita d’aria per simulare le attività extraveicolari, che consente di galleggiare sott’acqua senza salire e senza scendere. Si fanno corsi di sopravvivenza, nel caso nel rientro qualcosa andasse storto: a parte lo shuttle, si cade giù come sassi”.

Uno dei problemi nella psicologia degli astronauti prima della missione è il workload management. L’addestramento viene fatto in tre luoghi diversi: Giappone, per la presenza di simulatori di una parte della ISS, a Colonia per altre parti, negli Usa, e infine nel Paese di lancio, in un solo anno. Ciò comporta problematiche anche culturali e di background professionale, a partire dal team building. Se prima gli equipaggi erano composti da soli americani o soli russi, da un certo punto in poi si è cominciato ad avere degli equipaggi misti, necessitandosi così degli approcci diversi.

Durante la missione, gli astronauti devono scontrarsi con:

  1. stress sensoriale e motorio (zero G di gravità);
  2. mancanza di privacy;
  3. disturbi del sonno (un giorno sulla Terra equivale a 90 minuti nello spazio);
  4. rischio di conflitti interpersonali a bordo;
  5. lontananza dalla famiglia e dalle persone care; in una parola sola, dalla Terra.
Dopo la missione, i problemi riguardano:
  1. il riadattamento alla gravità;
  2. il reinserimento nella vita quotidiana;
  3. la sindrome dell’adattamento post missione (depressione, ansia, difficoltà di adattamento).

Rispetto a questi punti psicologici, Mezzadri cita il libro “Moondust – In Search of the Men Who Fell to Earth”, in cui il giornalista Andrew Smith rintraccia i nove membri sopravvissuti del gruppo d’élite che ebbe l’opportunità di essere a bordo delle missioni Apollo, per trovare le loro risposte alla domanda: “Dove vai dopo essere stato sulla Luna?”. L’intervista venne interrotta da una telefonata che annuncia la morte di uno dei dodici moonwalkers, Pete Conrad.

Romina Ciuffa




ITA LIKES LUFTHANSA (TRA “POSTORI” ED IMPOSTORI)

Roma, 3 marzo 2023. Mi lascerò trascinare dal filo del discorso in un volo sì, ma pindarico, e parlerò qui di due cose: 1) il verde-Alitalia e l’incontro paventato tra ITA e Lufthansa; 2) il fenomeno della “influencer-sizzazione” di piloti e cabina crew. 

1) Dove è ricresciuto l’estirpato verde-Alitalia? Fallita Alitalia, nasce ITA (con un nome che richiede l’accostamento ad “Airways” per non confondersi con un semplice suono, in realtà acronimo di Italia Trasporto Aereo) – ITA Airways. Neonata, si parlava già di un nuovo futuro da brand Alitalia (lungimirantemente acquistato da Ita). Il volo ITA l’italiano lo prende così, solo per fare voli diretti, l’Alitalia si prendeva per “fede”, per avere accanto quegli assistenti di volo (ex hostess e stewards), per sdraiarsi in ambiente amico, perché il verde era stare a casa, sebbene ne parlassimo malissimo: non era vero. ITA la si prende così, per disperazione, sapendo anche che solo alla fine della transazione di acquisto si aggiungono spese del bagaglio che non sono incluse, ovunque si vada: vera e propria low cost con prezzi high, le valigie da 23 kg non sono comprese nel prezzo del volo intercontinentale che dà la pretesa di partire “leggeri”.

A noi la scelta: leggeri o alleggeriti.

Pare se la comprino i tedeschi. Altro giro, altra corsa, altro volo: arriva la Deutsche Lufthansa AG, che punta ad acquisire una partecipazione nella compagnia italiana con l’acquisizione iniziale di una quota di minoranza, ed opzioni per l’acquisto delle restanti azioni poi, presentando al Ministero dell’Economia e delle Finanze italiano la bozza di MoU (Memorandum of Understanding) e, quando sarà firmato il protocollo d’intesa, arricchendo la transazione con negoziati su base esclusiva prediligendo la forma di un investimento azionario, dell’integrazione commerciale e operativa di ITA nel Lufthansa Airline Group e delle conseguenti sinergie. Per Lufthansa Group, l’Italia è il mercato più importante al di fuori dei suoi mercati interni e degli USA, tanto per viaggi d’affari quanto privati,​​ merito della forte economia orientata all’esportazione e dello status belpaesino di uno dei migliori luoghi di vacanza d’Europa.

Sottoscriverei: vacanza. Viverci? Meglio fare vari scali.

Ma se noi pensiamo a casa, non pensiamo a ITA. Non c’è nulla che ricordi Alitalia se non la lingua ufficiale, corretto nell’ottica di un cambio di “rotta”, non nel senso di  un’appartenenza reciproca (Alitalia è nostra, noi siamo Alitalia). Proprio come nelle pubblicità di oggi non c’è nulla che ricordi il Carosello: il Carosello si seguiva, si correva alla tv (chi l’avesse) alle otto di sera, e BOOM, pubblicità. Oggi durante i “consigli per gli acquisti” ci si assenta, si fa un veloce (nemmeno troppo, data la durata degli annunci) zapping, si fa la pipì e si scola la pasta: e meno male che c’è la pubblicità, per le vesciche di tutti. Come non bastasse gli annunci non si guardano più per comprare:  cosa pubblicizzava? Chi se lo ricorda. Morta di recente pure la camicia coi baffi.

Così ITA. Ci si sale perché è l’unica che, se tutto va bene (non sono poi così tanti i collegamenti), non fa scalo, spendendo obtorto collo di più di British o Wizz e altre, che garantiscono prezzi inferiori. Si sale su ITA, ci si guarda intorno (vediamo le differenze con Alitalia), ci si sente “strani”, a disagio quasi, e si chiudono gli occhi, in attesa di “il capitano vi informa che fra qualche minuto atterreremo”. In Alitalia c’era la famiglia, come dove c’era Barilla: c’era casa. Oggi invece, oltre ad essersi “volatilizzato”  tutto il cabin crew  prima impiegato in Alitalia (ci sono i sindacati e i ribelli, ci sono coloro che hanno ripreso il posto incorporati in ITA, ci sono coloro che “postano” vorticosamente, ci sono coloro che si sono dovuti rifare una vita, e quelli che hanno imparato a conoscere le mogli e spadellano come gran parte della popolazione globale post-Covid).

Niente più biglietti gratis per hostess e compagn*, per pilota e amici, niente più voli da regalare, niente più sex symbolism degli impiegati dell’aria, che ora divengono veri e propri fantasmini in cabina e che, anche per questo, si sono messi ad instagrammare a tutto spiano per dare un senso e sfondare, chissà, il muro del suono non a 343 m/s bensì in stile Ferragni.

2) C’è una compagnia aerea nel mondo che stia mettendo un freno al dilagare di un fenomeno pericoloso e non professionale quale quello del post? Fotografarsi e fare video durante l’orario di lavoro: è la resa dei conti. Selfie sexy dentro alle ventole dei motori, selfie nei bagni, selfie coi passeggeri, selfie coi bambini in cabina, selfie di qua, selfie di là, sperano di guadagnare soldi, quantomeno followers, con blog e fotarelle da nuova generazione, eppure sono disperati. Tra “postori” e “impostori”, hanno perso il senso della loro professione. Hanno perso il volo – lo hanno preso fisicamente, ma ne hanno perso il valore (valore di volare) e, volando, postano, che è come dire: stanno sempre in basso, nei pressi di un server. Prima da terra si sognava di volare, ora in volo si sogna di atterrare. Così, atterriti, volano e servono (a pagamento) polletti implasticati, senza più il benessere di sentirsi completi attraverso il lavoro, scendono gli scalini dell’aeroplano come Shakira in una sfilata di Victoria Secret, e sfilano al gate, certi di essere ammirati da tutti per la divisa. Finalmente a terra.

Sul social TikTok sono cinquantenni (+) che, dopo aver pilotato 747 per anni o portato da professionisti interessanti e invidiati i vestiti verde-Alitalia, si trovano a fare i ventenni, cercare followers, espletare balletti nei corridoi degli aereomobili, sapendo che tra i sedili non saranno presi per pazzi, esaltati, troppo vecchi, poco professionali. Piuttosto riceveranno likes. L’assistente di volo comunque, vola e, mentre spiega sul suo canaletto TikTok seguito da migliaia di spettatori, ops, visualizzatori, come si tira la catena sull’aereo o ci si rapporta con una turbolenza, guadagna lo stipendio.

Così il pilota, che non decolla senza una GoPro sul capolino. Altro che spiegare una turbolenza: chissà che l’amministratore delegato Lufthansa non faccia un TikTok per allinearsi coi tempi. Comprare ITA non basta, serve il like.

Romina Ciuffa




PSICOLOGI DELL’AVIAZIONE: IL VOLERE CAPACE DI INTENDERE E DI VOLARE

di ROMINA CIUFFARoma, 24 giugno 2022. Facile dire “volare”, prova a “volare”. Un elemento, l’aria, che non ci appartiene se non perché abbiamo voluto appartenervi – dall’iconografica di dei con le ali ad Icaro, dagli aquiloni di stampo militare a Leonardo da Vinci, dai fratelli Montgolfier ai fratelli Wright fino a Fiorenza De Bernardi, Chesley Sullenberg, Samantha Cristoforetti. Facile cantare “Volare”, prova a pilotare un Boeing 747 o un Robinson 44. Prova ad avere la responsabilità di un volo e dei suoi passeggeri, lo stress psicofisico che da terra sale a bordo, anche le sfide della maniacalità egotica dell’essere un vero e proprio deus ex machina, è il caso di dire: un Dio in terra che governa una macchina. Volante.

La psicologia in aviazione è sempre stata presente, sin dai tempi iconografici, quando ancora l’aviazione non esisteva. Come dire: è nata prima la psicologia dell’aviazione dell’aviazione stessa. Ne è l’emblema n. 1 Icaro, identificazione di ambizioni smisurate incontrollabili e a qualunque costo, una nevrosi, dalla megalomania alla caduta nel vuoto. Ciò che è mancata è stata la dedica, da parte della psicologia stessa, di una branca interamente concentrata sull’aviazione stessa, che predisponesse – dopo un attento studio in specificità – gli strumenti per affrontare le continue, diverse, estenuanti, spesso troppo sotto pelle per non essere pericolose, sfide in cui il pilota e le altre figure correlate al volo si cimentano. E non solo in fase di crociera; non solo in fase di decollo e di atterraggio; sempre, nella “testa per aria”. Difatti: “Those who work in flight environment work in a hostile environment”, verbalizzava ad Amsterdam il dottor Frank S. Preston, direttore dei servizi medici di British Airways, durante il simposio “Safety and Efficiency in Airline Operations in the next 50 years” nel 1979, e più specificamente descriveva già alcune influenti caratteristiche psicofisiche e conseguenze del lavoro in aviazione nel suo articolo “Work in the Aviation Environment” del 1974.

Prima del 2018, nulla. Quindi, l’incipit: il Regolamento 2018/1042 della Commissione (EU) il 23 luglio 2018 (in Gazzetta il 27) che finalmente stabilisce “i requisiti tecnici e le procedure amministrative concernenti l’introduzione di programmi di sostegno e della valutazione psicologica dell’equipaggio di condotta e di cabina degli aerei”, e contiene la sintesi delle raccomandazioni elaborate dalla task force istituita dall’Agenzia europea per la sicurezza aerea (EASA) a seguito dell’incidente Germanwings del 2015.

GERMANWINGS 2015. L’Airbus A320-200, in servizio fra Barcellona (Spagna) e Düsseldorf (Germania) il 24 marzo 2015, precipitò al suolo con 150 persone a bordo per un’azione deliberata del primo ufficiale durante la fase di crociera sulle Alpi di Provenza francesi. Da quanto restava della scatola nera, emerse che il primo ufficiale Andreas Lubitz, approfittando dell’uscita del comandante Patrick Sondenheimer dalla cabina di pilotaggio, si barricò al suo interno e pilotò il velivolo diretto contro il suolo. Nella traccia audio furono registrati, dalle ore 9:34 UTC, i tentativi del comandante di rientrare in cabina, e alle 9:40 gli ultimi violenti colpi contro la porta della cabina. Il suicida tedesco si era ritirato per 11 mesi dall’attività per una grave depressione, fu poi giudicato idoneo a riprendere il comando; durante le indagini, in un bidone dei rifiuti fu rinvenuto un certificato medico che attestava che, il giorno dell’incidente, Lubitz sarebbe stato inabile al lavoro. La Germanwings non aveva avuto accesso a questa informazione, né avrebbe potuto considerate le norme tedesche a tutela della privacy.

 

Nella fase di recepimento delle norme europee interveniva anche il Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi (CNOP) con il Documento redatto dal Tavolo Tecnico del CNOP sulla Psicologia dell’Aviazione, approvato con deliberazione del CNOP n. 46 del 23 novembre 2018:

“È augurabile che sul tema in questione, e cioè sulla psicologia dell’aviazione, viste le esigenze e le richieste delle compagnie aeree, si possa quanto prima prevedere ed organizzare una formazione di terzo livello (corso di alta formazione, master, e – perché no – specializzazione post lauream), affinché i giovani professionisti possano orientare in maniera produttiva il proprio percorso professionale”. 

Da allora, sono sviluppati corsi e formazione per psicologi dell’aviazione, ma il percorso non è così scontato. In Italia, si distacca una realtà in particolare, invitata anche al Fly Future 2022 come organizzazione significativa per il futuro (e presente) dell’aviazione: IT-APA, l’Associazione di Psicologia dell’Aviazione in Italia, punto di riferimento per il settore che, nonostante le premesse semplici, è in realtà molto complesso.

Alessandra Rea, psicologa dell’aviazione e presidente di IT-APA, spiega (a margine di FLY Future 2022):

Ancora oggi, quando si pensa allo psicologo dell’aviazione si pensa al concetto classico, ma è più probabile trovarlo in cabina di pilotaggio che non dietro un lettino a prendere appunti”. Infatti, “si tratta di un professionista che è già operativo nell’aviazione, anche un comandante, e che opera applicando al mondo aeronautico le conoscenze e le metodologie proprie delle scienze psicologiche, con lo scopo di supportare i professionisti dell’aviazione a conseguire e mantenere performance che garantiscano elevati standard di sicurezza”.

Può pilotare l’aereo o curare l’attenzione ai passeggeri, può trovarsi in Torre di controllo o dirigere il traffico Ground; e, in più, è uno psicologo. Non è “solo uno psicologo”. Proprio questa la differenza fondamentale rispetto agli altri psicologi, come ad esempio le figure scolastiche: lo psicologo a scuola non è (necessariamente, probabilmente) un insegnante o un bidello; lo psicologo dell’aviazione invece, si trova front line, è parte integrante del sistema, lavora in un contesto di gestione del rischio e ha, come obiettivo, quello di garantire e migliorare i livelli di prestazione in un mondo che è in continuo cambiamento, produttivo di un tipo di fatica e stress le cui conseguenze possono essere molto più dannose che in altri settori.

Lo Human Factor è al centro di tutto.

Lo psicologo, in aviazione, può incontrarsi nei momenti della selezione, dell’addestramento, della valutazione (cui annualmente e sempre si è sottoposti nel mestiere aeronautico) e sì, anche del supporto sic et simpliciter, ossia sul noto “lettino”, se necessario. Lo incontrano, tra gli altri, i piloti, gli assistenti di volo, i controllori CTA, i manutentori, il personale Atsep (Air Traffic Safety Engineering Personnel*), non solo in entrata ma anche nel corso della carriera, nello spostamento di mansioni, nell’evoluzione. *ATSEP è il termine riconosciuto dall’ICAO (International Civil Aviation Organization) per indicare il personale tecnico coinvolto nelle operazioni di funzionamento, manutenzione ed installazione dei sistemi di comunicazione, navigazione, sorveglianza e gestione del traffico aereo (CNS / ATM).

Il Regolamento europeo al punto 2 chiarisce:

“L’Agenzia europea per la sicurezza aerea ha individuato un certo numero di rischi per la sicurezza e ha formulato una serie di raccomandazioni per attenuare tali rischi”. L’attuazione di alcune di esse esige “modifiche normative per quanto riguarda la valutazione psicologica dell’equipaggio di condotta prima di intraprendere voli di linea, la realizzazione di un programma di sostegno per gli equipaggi di condotta, l’esecuzione da parte degli Stati membri di test alcolemici casuali sui membri degli equipaggi di condotta e di cabina e l’esecuzione da parte degli operatori aerei commerciali di test sistematici per il rilevamento di sostanze psicoattive nei membri degli equipaggi di condotta e di cabina”.

In aviazione stress, sostanze, stati umorali, sono “cose diverse”: il termine fatigue in questo settore è usato per descrivere una stanchezza fisica e/o mentale che va ben oltre la normale definizione di spossatezza.

“Essa riguarda l’incapacità di esercitare i propri compiti nella cabina di pilotaggio rispettando le norme di sicurezza delle operazioni volo. In questo campo è auspicabile l’approfondimento delle componenti fisiche, psichiche ed ergonomiche in particolare per le strette relazioni presenti tra sistemi percettivo, cognitivo e sensoriale nell’interazione uomo macchina”Si tratta di alta quota, bassa umidità relativa, rumore e vibrazioni, radiazioni ionizzanti, aria in-door con la presenza di contaminanti fisici, chimici e biologici propri dell’attività di volo commerciale di linea, il cui insieme è certamente in grado di provocare una condizione di stress – la quale, protratta, esaurirà le capacità di adattamento e attiverà la comparsa di quadri patologici. Tale usura, maggiore e diversificata rispetto alle consimili attività professionali, “ci porta ad esemplificare che la fatica statisticamente è fattore del 75 per cento dei casi di depressione e contribuisce, sempre statisticamente, al 15-20 per cento degli incidenti fatali causati dall’errore umano di cui abbiamo i report”

Il Peer-Support è lo strumento principale individuato per favorire il coinvolgimento della categoria professionale sui temi del disagio psicologico, per diminuire paura, giudizio e stigma, per segnalare precocemente i comportamenti disfunzionali mettendo in atto percorsi di sostegno psicologico (qui il documento EPPSI Guide on Peer Support 2nd Edition October 2020). Si tratta del supporto dei “pari”: nel contesto di un programma di supporto “un pari” è un collega che condivide qualifiche ed esperienze professionali comuni ed ha riscontrato situazioni, problemi o condizioni simili con il personale che richiede assistenza. Il pari per ricoprire tale ruolo riceve idonea formazione.

Nelle situazioni di crisi, in cui il picco di stress è alto, i programmi di supporto offrono immediati protocolli che consentono di mettere in atto e sviluppare resilienza e di recuperare in un breve lasso di tempo capacità di funzionamento e di superamento dello stato di crisi, senza avere impatti sulla propria salute psico fisico sociale. Quando ciò non basta a garantire il recupero rapido della persona, si procede con il continuum di cura, esterno al programma ITAPA, per il tempo necessario, che si può configurare sotto forma di percorsi di trattamento psicoterapeutici o di coinvolgimento di specifici team medici specializzati.

Rea descrive l’Associazione che presiede:

“L’IT-APA e si inserisce nel network dell’EAAP (European Association for Aviation Psychology) che compone il ‘work package’ relativo al modello di competenze richieste dall’aviazione. Essa sostiene il benessere e la salute mentale dei professionisti nel mondo dell’aviazione, contribuisce al mantenimento di elevati standard di sicurezza supportando gli stessi professionisti e le organizzazioni a gestire meglio la loro performance, promuove e tutela la figura di psicologo dell’aviazione; inoltre compie attività di ricerca in vari ambiti, ad esempio in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma; supporta protocolli di ‘assessment’ per la valutazione, organizza corsi di formazione per i colleghi in aviazione e attiva programmi di supporto, in particolare due: uno dedicato alle organizzazioni e ai soci sostenitori, quali compagnie aeree di area fissa e rotante, una dedicata a chi è uscito dal mondo dell’aviazione a causa della pandemia”.

Quali i programmi dell’IT-APA? Micaela Scialanga psicologa dell’aviazione, comandante di linea, segretario generale dell’IT-APA, e coautrice del libro: “Dopo Germanwings, la vita del pilota di linea”, specifica:

“Il Regolamento per la prima volta obbliga le compagnie ad avere un programma implementato, gestito e coordinato da uno psicologo esperto in aviazione. Sono due i programmi. Il primo è il Support Program, di cui committenti sono le compagnie aeree e all’interno del quale tre psicologi dell’aviazione supportano il peer creato ne loro interno, e una squadra di piloti ‘peer’ iscritti ad IT-APA e da essa formati con un addestramento ricorrente ed incontri di confronto. Il senso del peer è fornire un confronto al professionista”Prosegue: “Il secondo programma è l’Here I Am, messo a disposizione gratuitamente per rispondere ai singoli che chiedono un contatto; fornisce tre colloqui gratuiti con uno psicoterapeuta esperto, che lavora su base volontaria; svolge un’attività per coloro che, per interruzione momentaneamente a o fine carriera, non hanno lavoro e si trovano in un momento di difficoltà. Il servizio è attivo dallo scorso dicembre, e dal primo giugno è esteso anche agli ex operatori di scalo”.

Che contributo può dare ITAPA allo sviluppo della carriera in aviazione?

“Aiutiamo a gestire lo stress e la fatica, a migliorare le abilità cognitive a partire dalla stessa preparazione degli esami, ad acquisire competenze utili a collaborare in modo efficace in team, forniamo un aiuto per l’orientamento nelle scelte e, in generale, un supporto nei momenti di difficoltà”, conclude il Comandante Scialanga.

Dove un controllore del traffico aereo incontra uno psicologo dell’aviazione? La risposta è del presidente Rea:

“Innanzitutto nella selezione. Quindi, entrerà e farà attività di formazione, con un modulo di Human Factor nel quale, a ancora, uno psicologo spiegherà. Successivamente, nel simulatore si avranno le prime difficoltà da stress per un carico di lavoro che comincia ad essere alto, con un impatto negativo sulla paura di essere valutati. Il supporto qui è fuori e dentro al simulatore. Concluso quell’iter, in torre o in un centro radar, si troverà sempre uno psicologo dell’aviazione a sostegno”. 

In IT-APA si sono domandati se l’applicazione della nuova regolamentazione europea possa incoraggiare i lavoratori dell’aviazione a ricercare aiuto dai peers e dagli psicologi. E hanno girato la domanda con un questionario a scelta multipla, nella ricerca Giving-Voice-to-Crew-Members-to-Enable-an-Effective-Support-Programme-Preliminary-Results-of-IT-APA-Support-Survey-2020. “Conclusion – The work underlines that the application of the EU Regulation may not be enough to encourage flight crews to request for help”. 

Ossia, potrebbe non essere sufficiente. I risultati confermano una riluttanza dei membri dell’equipaggio a chiedere aiuto. L’efficacia di un programma di sostegno è quindi strettamente connessa a precedenti interventi, il ​​cui scopo deve essere quello di promuovere una crescente domanda del servizio da parte dei futuri utenti. Per creare un circolo virtuoso, gli operatori dovrebbero sviluppare una campagna incentrata non solo sull’informazione sul programma di supporto (già obbligatorio), ma anche sullo sviluppo dell’autocoscienza degli equipaggi sul rapporto tra benessere psicologico e qualità delle prestazioni professionali e della vita personale. Inoltre, un’efficace attuazione del programma da parte degli operatori aerei dovrebbe andare al di là della conformità normativa minima: gli equipaggi di volo devono essere informati dei vantaggi derivanti dal programma di sostegno e coinvolti nella sua attuazione. Questo è l’unico modo per fornire loro un reale supporto in termini di benessere psicologico e per garantire la sicurezza e la qualità delle operazioni di volo.

“Volere volare” sì, ma che il volere sia capace di intendere e di volare.

Romina Ciuffa




SPAZIO: SULLA LUNA E SU MARTE, SI SPOSA E SI PARTE

di ROMINA CIUFFA. Reportage Spazio dal Fly Future 2022, l’evento ideato da Luciano Castro. 

È lui, l’astronauta della porta accanto. Franco Malerba, il primo italiano a varcare i confini della stratosfera e arrivare di là, consapevole di avere (il 2 per cento di) probabilità di arrivare nell’aldilà. Da Busalla (Genova) fino a 508 chilometri in su, sullo Space Shuttle Atlantis della NASA, per portare un satellite Tethered (letteralmente “legato”) nello Spazio e testarne le potenzialità indicate da Mario Grossi, che ne concepì il progetto già nel 1972 al fine di risolvere il problema delle comunicazioni adottando una lunga antenna di 100 chilometri, la quale si sarebbe potuta srotolare da un satellite posto in orbita geostazionari; e da Giuseppe “Bepi” Colombo, il “meccanico del cielo”, che ipotizzò sistemi a filo legati ad uno shuttle che potessero generare energia elettrica o sfruttare l’effetto fionda per immettere in orbita altri satelliti, e alla cui scomparsa – unita al fragore della prima tragedia dello Shuttle Challenger – si deve il procastinamento della missione, concretizzatasi solo nel 1992.

Per questo si può certamente affermare che la vita di Malerba fosse legata ad un filo. Esattamente tra il 31 luglio e l’8 agosto del 1992, a bordo della missione spaziale del Programma Space Shuttle (150imo volo umano nello Spazio) avente l’obiettivo primario del dispiegamento di EURECA (European Retrievable Carrier) dell’Agenzia Spaziale Europea e l’esperimento NASA/ASI Tethered Satellite System (TSS). Finalmente un astronauta italiano, ma anche una missione “in italiano”: infatti, “Agenzia Spaziale Italiana” era scritto tutto per intero per sottolineare la presenza dell’ASI, mentre oggi non è più necessario ricorrere all’iscrizione per esteso dell’intero nominativo, essendo sufficiente indicare “ASI”. Ovvero sia: l’ASI non ha più bisogno di introduzioni, ed è conosciuta a livello internazionale. Tanto che lo scorso 7 gennaio Samantha Cristoforetti ha ricevuto dalle mani del presidente della Repubblica Sergio Mattarella il tricolore italiano da portare sulla Stazione Spaziale Internazionale, verso la quale è partita il 27 aprile 2022 alle ore 09:52, decollando dal John F. Kennedy Space Center con la missione SpaceX Crew-4.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=Si1gzUNd0jg]

Ma le cose cambiano, e le referenze nello Spazio ora sono anche private, società appaltanti e grandi finanziatori lavorano per rendere lo Spazio un luogo “conosciuto”. Di questo è consapevole anche Paolo D’Angelo, fellow della branca italiana della British Interplanetary Society, giornalista ed esperto di missioni spaziali, che parla di vero e proprio turismo spaziale destinato ad ampliarsi enormemente, ma già attivo e concreto. Tanto che Astro-Samantha è stata selezionata per partire con la compagnia privata SpaceX (Space Exploration Technologies Corporation) fondata già nel 2002 dal multimiliardario Elon Musk allo scopo direndere lo Spazio accessibile e sostenibile grazie all’abbattimento radicale dei costi. Un abbattimento che, di certo, non sarà sufficiente a mandare “di là” semplici “ricchi”, o a fondare una “Hertz” delle astronavi; ma che di certo apre l’era dello sfruttamento commerciale dello Spazio e di una space economy volta a rendere l’umanità una specie multiplanetaria, capace di vivere anche lontano dalla Terra, includendo un nuovo movimento basato sull’innovazione, sulla Terra e sugli altri pianeti – a partire da Marte.

Malerba descrive il suo volo nello Spazio:

“Nel 1992 ero a bordo per portare nello Spazio un satellite molto particolare tenuto attaccato con un filo allo shuttle. Decollo: a bordo si sobbalza. I razzi laterali sono molto vigorosi e l’atmosfera resiste alla nostra avanzata. Rapidamente arriviamo in orbita ed il mondo cambia, siamo in assenza di peso e la Terra ci appare da lassù. Tutto diventa più complicato nella predisposizione degli esperimenti. La Terra ora è visibile attraverso uno degli oblò. Vengono in mente le fatiche prima di arrivare fin qui, le prove delle emergenze probabili o improbabili che possono capitare: ancora non è scomparso il ricordo dell’incidente nello Spazio (NDR: il disastro dello Space Shuttle Challenger avvenne la mattina del 28 gennaio 1986; venne distrutto dopo 73 secondi di volo causando la morte di tutte le 7 persone a bordo, ossia 6 astronauti e un’insegnante. La causa dell’incidente fu un guasto a una guarnizione). Giorni dopo, lo Shuttle rientra e si ricorda di essere un aereo oltre che un essere spaziale, volando come un aliante sul tappeto rosso degli eroi”.

“Eravamo i portatori di un messaggio di competenza e professionalità e per l’ASI, nata da poco nel 1988, era il debutto, con un astronauta dal passaporto italiano a bordo. Io ho volato con l’insegna dell’ASI, la Cristoforetti oggi lo fa con la maglietta dell’ESA”. 

Un progetto di grande portata, quello che vide Malerba andare in orbita come Prime Payload Specialist per la missione TSS-1:

“Dovevamo lanciare il Tethered e tenerlo attaccato al satellite con un cavo che assicurasse connessione elettrica e meccanica, potendo con esso interferire con il campo terrestre e, generare una differenza tra i due corpi, compiere gli esperimenti ipotizzati da Grossi e Colombo”. 

Ma andare nello Spazio per lui era già in programma nel 1978, quando lesse – su un ritaglio del Financial Times che un collega gli portò dalla Gran Bretagna – che l’Europa occidentale era stata chiamata a selezionare scienziati e ingegneri per partecipare al primo volo dello SpaceLab.

“Entrai nella rosa dei finalisti, ma il 9 maggio del 1978 avvenne l’omicidio Moro, cui seguì un grande caos politico”. Nonostante l’Italia fosse, dopo la Germania, secondo finanziatore del progetto, e per il principio del giusto ritorno dei Paesi finanziatori era a tutti gli effetti titolare di un posto in orbita, “ricevetti una telefonata in cui mi veniva comunicato che l’Italia non avrebbe fatto parte della missione”. Partì un astronauta tedesco. “Allora avevo 32 anni, l’età ideale: prima è difficile diventare astronauta per mancanza di competenze, dopo, invece, si ha davanti un orizzonte che non giustifica più il costo dell’addestramento”. 

“Io rimasi comunque fedele all’impegno, e l’Italia investì di più nello Spazio. Furono anni magici per lo Spazio italiano, con progetti ben finanziati che costituirono la base di ciò che è oggi”Cercasi astronauta per il programma Tethered dell’Asi: “L’ultima mia chance. Ottenni il mio biglietto d’imbarco”. 

Così partì nel 1992, per otto giorni nello Spazio con Claude Nicollier dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea), Loren Shriver, Andrew Allen, Jeff Hoffman, Franklin Chang-Diaz e Marsha Ivins, della NASA. Lo Shuttle Atlantis era progettato e realizzato da Alenia Spazio di Torino, i bracci telescopici prodotti da Piaggio Aerospace e gli strumenti dai laboratori degli scienziati italiani e americani, con finanziamenti rispettivamente di ASI e NASA.

Talmente tethered furono gli astronauti imbarcati, che circolarono foto e vignette in cui si ritraevano attorcigliati ad un filo. Ride bene chi ride per ultimo: il cavo che teneva il satellite vincolato allo Shuttle si srotolò solo per 260 metri dei 20,7 km previsti, a causa di un problema tecnico causato da un bullone troppo sporgente, ma la lunghezza ottenuta servì a studiare come rilasciare, controllare e recuperare il satellite, e il sistema si rivelò più facile da controllare e più stabile di quanto previsto. Missione riuscita.


“La ISS è la base attuale per lavorare nello Spazio, microgravità ed orbita bassa (400 chilometri), in assenza di peso. La giornata dura 90 minuti, siamo fuori dai ritmi terrestri ma siamo molto vicini ancora alla Terra. Si mangiano ancora cose come la piadina di Samantha, che lei spiega in un recente TikTok (NDR)   che arrivano da una logistica terrestre. Una flotta di bettoline spaziali riforniscono la ISS regolarmente, qualche settimana prima che arrivi il nuovo equipaggio arriva quanto necessario per il loro mantenimento”.


Sulla Luna e su Marte, si sposa e si parte – e si dà principio all’arte – è il caso di dire ormai.

“Gli insediamenti lunari saranno più complessi nel rifornimento: se vorremo realizzare habitat permanenti (ossia relativamente lunghi), sarà necessario inventare l’agricoltura lunare in LowG, bassa gravità. Così nell’esplorazione lontana per Marte, dove saremo esposti all’assenza di peso e a radiazioni per lungo tempo e dovremo essere autonomi nel cosmo”.

Per questo Malerba ha una soluzione, che integra nel suo SpaceV (Space Vegetables o Space Veg), startup italiana fondata nel 2021 con sedi a Genova e Nuoro, che ha un posto nell’ecosistema spaziale attraverso l’impegno nello sviluppo della sua tecnologia Multilevel Adaptive Greenhouse (nella foto sotto). In un motto: come coltivare al meglio le piante negli avamposti extraterrestri. Si tratta di intervenire sui sistemi biorigenerativi e ricreare l’equilibrio terrestre nello Spazio.

“Sulla Terra c’è equilibrio tra il regno vegetale e il regno animale: il primo produce e consuma C02, mentre i nostri rifiuti prima o poi riciclati possono servire come alimentazione per il mondo vegetale. Similmente dovremmo provvedere in un mondo in cui non avremo a disposizione una Terra «tutta pronta». Sulla ISS si sperimentano alcune coltivazioni: nella serra Veggy ad esempio,  le piante crescono anche in MicroG. Avere una buona alimentazione è fondamentale per gli astronauti, già stressati per le differenti condizioni”.

Nel tema dei sistemi rigenerativi Stefania De Pascale, professoressa di orticoltura e floricoltura della Federico II di Napoli, parla di colonie spaziali.

“L’astronauta del futuro sarà un agricoltore o un agronomo, nonché un geografo, dovrà sapere di tutto. Dovremo riciclare rifiuti nell’ambito di un’alimentazione vegetale per poter sopravvivere a Marte”, spiega Malerba, e dà il suo contributo: “SpaceV progetta una serra multipiano adattiva; su ogni piano può coltivarsi un vegetale diverso. La serra verticale implementa il principio adattativo e utilizza più ripiani mobili che si adattano in altezza permettendo una resa produttiva per unità di volume nell’unità di tempo molto alta. Modificando il livello dei piani si riesce a sfruttare al massimo il volume disponibile mentre le colture crescono”.  

Nel video seguente, il funzionamento della serra adattiva multilivello ad uso spaziale.


A proposito di mestieri interplanetari, Gianluca Casagrande, direttore del Geographic Research and Application Laboratory (GREAL), dell’Università Europea di Roma, spiega il rapporto tra geografia e Spazio:

Esogeografia, uno dei possibili futuri della geografia: stiamo parlando dell’attività umana al di fuori della Terra. I geografi arrivano dopo gli astronauti, e quelli di adesso sono simili a quelli del 500: uomini che non viaggiavano, e avevano il paradosso di raccontare mondi che non potevano fisicamente toccare, ma della cui esperienza facevano sintesi. Oggi comincia il controllo dello Spazio, ci sono già fenomeni di inquinamento delle orbite, è un percorso oggettivamente intrapreso. I geografi sono interessati ai progetti di insediamento e vita nello Spazio, ai fortunati viaggiatori, alle riflessioni di chi porta avanti questi programmi e costruisce sulle esperienze precedenti. E questo è il futuro”.

Nel video seguente, l’intervento del prof. Gianluca Casagrande il 24 maggio 2022 nel corso dell’evento Fly Future.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=JvbxJLTuD8A]


Un’altra proposta di Malerba è nello sport spaziale. L’assenza di peso non fa bene e l’astronauta deve allenarsi sempre, con ciò togliendo comunque tempo alla missione. Così l’astronauta europarlamentare si è domandato:

“Non sarebbe meglio creare un sistema rotante, fatto con due veicoli collegati da un cavo che girano nello Spazio i quali, avanzando, garantiscano a bordo una parvenza di gravità, o gravità artificiale, dovuta alla rotazione ossia all’accelerazione centrifuga? Nei miei calcoli ho valutato la necessità di un cavo lungo circa due chilometri, con una rotazione di 60 secondi, con il risultato della mia equazione pari a L=2~1800“.


Guerra in Ucraina, sanzioni, NATO, in una parola: Russia. Ne siamo dipendenti “anche” nello Spazio? A spiegarlo è Gabriele Mascetti, capo ufficio del Volo Spaziale Umano dell’ASI:

“Le stazioni spaziali non sono tanto lontane. Estendere la presenza umana al di fuori dei nostri confini, contro radiazioni improponibili: non è ancora possibile al giorno d’oggi affrontarle da un punto di vista tecnologico, ma è il costo il limite più grande. Nessun Paese è in grado di supportare da solo questa sfida. La destinazione ultima è Marte, e passa attraverso la Luna, banco prova per testare le nostre capacità di vivere in un ambiente spaziale. I nuovi astronauti hanno una tuta privata, le Agenzie nazionali pagano e appaltano, aziende di liberi servizi si affacciano sul mercato”. 

L’ESA ha confermato la sospensione della collaborazione con l’Agenzia spaziale russa Roskosmos per il programma ExoMars, che prevedeva il lancio verso Marte del primo rover europeo e della piattaforma scientifica russa Kazačok con un vettore Proton nell’estate 2022.

“C’è una situazione di crisi in Europa, la guerra in Ucraina ci fa rendere conto che dobbiamo lottare per una nostra indipendenza, non possiamo più lanciare il primo rover come programmato, a causa di questo conflitto. Ora più che mai c’è bisogno di gente motivata ad arrivare nello Spazio. Servizi di cargo, supply, gestiti da privati, lo stesso per la parte Crew: fino due anni fa gli astronauti viaggiavano su veicoli russi, ora viaggiano su veicoli americani e privati. Lo stesso accade nell’HLS, l’Initial Human Landing System, oggetto di una competizione NASA privata, e c’è chi sta investendo anche senza aiuti governativi”.

Nel video qui sotto, un intervento di Mascetti  aFly Future 2022.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=3UFbFj8Qv-k]


La crisi post pandemia ha colpito il mondo, e sembrerebbe non vi sia scampo per il momento. Nemmeno la luce, il gas, le automobili sono più abbordabili, il carburante è salito alle stelle. Ma, come lui, alle stelle salgono anche i simil-proprietari spaziali, e le selezioni alla Star Treck sono sempre più ampie, i posti dell’autobus Galassia sono numerosi e liberi. Sebbene in sovrapprezzo. Il Covid, nello Spazio, non fa danni.

“Il mercato del lusso non è scalfito dalla crisi”, spiega Mascetti, “e nel 2020, mentre il mondo si fermava, le aziende operanti nello Spazio hanno continuato a marciare in tutta velocità. C’è una selezione in corso e si apriranno prospettive per volare più lontano oltre che in orbita terrestre. Le nuove selezioni comprendono meno astronauti titolari e più riserve – da 9 selezionati a 20/30 astronauti abilitati – per tenere il team sempre fresco e favorire il ricambio generazionale”.


In sintesi, oggi non si sogna solo dello Spazio, ma si sogna anche dallo Spazio. Ho chiesto a Malerba cosa sognasse da lì, se l’inconscio avesse preso piede sulla razionalità scientifica, quali le paure oltre il coraggio, a che filo fosse intimamente legato nella missione-del-filo Tethered. Cosa potremmo mangiare se vivessimo finalmente su Marte: solo verdurine? C’è spazio per Darwin? O meglio: c’è Spazio per Darwin? Ed altre domande anticonvenzionali di appannaggio di chi, nonostante quanto si dica (“Né di Venere né di Marte, non si sposa non si parte, né si dà principio all’arte”), intende sposarsi sia su Venere che su Marte, e decisamente partire per dar principio all’arte. 

“TETHERED. Appeso a un filo”. L’intervista di Romina Ciuffa a Franco Malerba – versione integrale: 

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=ANeZELRpywo]

Romina Ciuffa

 

 




L’AEREO È MIO E ME LO GESTISCO IO

Ciò che rende pilota un pilota è la solitudine. Non tutte le donne sanno star da sole. Il distacco da terra: senza di esso non si vola. Le ali sono per chi ama il silenzio, per chi ha dolore sulle scapole, per chi ha paura di volare (non c’è atterraggio senza paura: questa consente di sopravvivere, darwiniano meccanismo di difesa). Le donne, più leggere, sono fatte per l’aria più di alcuni uccelli. Volano per passione o per lavoro, praticano tutti gli sport aeronautici, pilotano ogni tipo di velivolo (ultraleggeri, aerei certificati, motoalianti, deltaplani, paramotori, mongolfiere, aerei di linea, caccia, astronavi), si riuniscono in manifestazioni Flydonna, non temono il pregiudizio e sono più attente e preparate degli uomini: è stata proprio una donna, la 24enne Maxi J., copilota, a recuperare con una manovra acrobatica l’Airbus A320 della Lufthansa colpito a marzo del 2008 da una raffica della tempesta Emma durante un atterraggio ad Amburgo, impedendo lo schianto dell’aereo e salvando la vita ai 131 passeggeri e all’equipaggio. In guerra feroci, vere combattenti: l’Unione Sovietica ricorse a tre reparti aerei da combattimento rosa, le “streghe della notte”, che non indossavano il paracadute ritenendo più onorevole morire sui propri aerei.

Fu la prima equiparazione aeronautica tra uomini e donne e andarono tre medaglie di Eroe dell’Unione Sovietica al maggiore Marina Mikhailovna Raskova e alle sue colleghe, che stabilirono un record mondiale di volo nonstop a bordo di un ANT-37 nell’estrema Siberia orientale, coprendo circa 6.000 chilometri in 26 ore e 29 minuti. Ieri ribelli, oggi audaci. Come la romana Angie Ciuffoletti, campionessa europea di paramotore, anche detentrice di un guinness di velocità e di tutti i titoli che spettano a una numero uno. Angie l’ho conosciuta una volta che atterrai sul campo di volo di Otricoli. Ero partita con un Tecnam P92 dalla Flyroma – l’aviosuperficie di un grande uomo volante, Italo Marini, colui che “battezza al volo” quasi tutto il Centro Italia, ma non solo – per assistere a un raduno di paramotoristi; la sera davanti a un camino più grande di noi, quello della Club House, questa paramotorista mi ha raccontato di sé. È in aria da quando era piccola. “Vedere mio padre volare mi ha reso come lui”, ossia immortale. Ogni volta che la incontro ha i piedi per terra ma la testa – bionda, effimera – è dove si trova la sua vela. Perennemente insoddisfatta, e ha ragione: “Al volo, ma soprattutto al paramotore, non è prestata attenzione. Ho vinto praticamente tutti i premi, non solo in Italia, ed è come se fossi una disoccupata tra le tante”. Non è come in America, dove le atlete sono stimate e appoggiate: Angie vince, e la si dimentica.

Ma non è sola. L’Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) nel 2006 evidenziava un aumento negli ultimi anni delle donne pilota: tra il 1980 e il 1999 solo 51 donne risultavano iscritte all’Albo della Gente dell’Aria, mentre in poco più di 5 anni – dal 2000 al 2006 – il numero arrivava a 88. In quella data, l’apporto femminile nel trasporto pubblico era di 6 comandanti e 67 pilote su velivoli di linea, 3 comandanti e 29 pilote su velivoli non di linea, 4 comandanti e 10 pilote su elicotteri non di linea; quindi, 20 istruttrici di volo, di cui 18 su velivoli e 2 su elicotteri. Tra di esse l’altoatesina Martha Heissenberger, prima pilota italiana di mongolfiera; Maddalena Schiavi, allora 48 anni di volo alle spalle; la pilota di elicotteri Paola Bogazzi, titolare dell’Avmap Satellite Navigation, che si occupa di cartografia e sistemi Gps. Io stessa.

Dall’Aeronautica Militare proviene il tenente pilota Stefania Ida Irmici, del 6° Stormo di Ghedi, prima pilota di tornado: il padre non fece nemmeno il servizio militare ma lei a 22 anni aveva un sogno: guidare un jet. “Si può essere donna e pilota allo stesso tempo”, dice. La giovane Charlotte Costantini mi spiega: lei, che è un’antropologa, porta gli aerei dell’AirOne, vola 20 giorni al mese su tratte europee e si sottopone a un addestramento continuo e check rigorosi. Pregiudizi? “Molti. Una volta proprio una signora, appreso che a pilotare sarebbe stata una donna, ha chiesto di scendere dall’aereo. Ma sono riuscita a calmarla. C’è diffidenza ma anche molta solidarietà a bordo, soprattutto da parte delle passeggere”. E aggiunge: “Una volta ho volato con un comandante donna, ma è stato un evento eccezionale”.

Eppure lei, Samantha Cristoforetti, è andata oltre. Non solo aviatrice: è la prima astronauta italiana e la terza in Europa, dopo l’inglese Helen Sharman (che ha volato nel 1991) e la francese Claudie Andre-Deshays (sulla ISS nel 2001). Nata a Milano nel 1977 e residente in provincia di Trento, è tenente pilota di velivoli AM-X e AM-XT in servizio presso il 32° Stormo con base ad Amendola. Alla selezione per lo spazio, che prevedeva la scelta di 6 astronauti, avevano partecipato più di 8500 aspiranti. Laureata all’Università Tecnica di Monaco di Baviera e all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, è stata la prima donna a ricevere l’onoreficienza della “Sciabola d’onore”.

Allora vado in volo. Decollo dalla Flyroma, pista 09 per vento traverso proveniente da sud-est. Questa navigazione mi porta fuori dai nostri confini senza un piano di volo ben definito. Dallas, Texas. “Sono consapevole che sto rinunciando ad avere una famiglia”, mi confessa Katie Braun, capitano nella Horizon Airlines, istruttore di volo e pilota che negli anni ha insegnato a molti allievi a volare, parecchi di essi italiani e “tutti scioccati di avere un’istruttrice donna”. A capo di un jet Bombardier canadese di 70 posti, è sottoposta continuamente allo stupore di passeggeri e primi ufficiali, nonostante nella sua compagnia su 600 dipendenti 60 siano donne. Ma solo poco più di venti capitane. “Le mie vacanze le faccio in aereo”, com’è naturale.

Riparto. Com’è naturale. Innanzitutto faccio un touch-and-go sull’aereoporto RHV di San José, in California, intitolato a quell’Amelia Reid nota per essere una delle prime donne nell’aviazione americana (la prima pilota del Nebraska, Evelyn Sharp, la iniziò al volo nel 1939), che ha insegnato a volare a più di 4 mila allievi. Un’Amelia da non confondere con la Earhart, protagonista di un (risibile) film che racconta la vicenda della pilota che non lasciò tracce di sé dopo la trasvolata che da Miami la portò a Porto Rico, lungo la costa nord-orientale del Sud America, in Africa, India e Nuova Guinea; dopo 22.000 miglia – ne mancavano 7 mila per compiere il giro del mondo – venne persa a poca distanza dall’isola di Howland, carburante esaurito e comunicazione interrotta. Per alcuni l’operazione fu il prodotto di una missione di spionaggio (nell’isola di Mikumaroro venne ritrovata la suola di una scarpa dello stesso modello e numero di quelle indossate da Amelia), per altri l’aviatrice fu fatta prigioniera dai giapponesi con l’accusa di essere una spia ed in seguito giustiziata mentre, secondo il documentario della National Geographic “Where’s Amelia Earheart”?, sarebbe sopravvissuta ai campi di prigionia e tornata in America sotto falso nome. Che quasi mi pare di vederla in volo.

Per rifornimento atterro ad Ellington, Connecticut. Manica a vento ferma, velocemente libero la pista. Unico aeroplano fra tanti elicotteri per parlare con Susanne Hallen, della scuola della North East Helicopters: “Per lavoro piloto gli Air Atlanta Helicopters, per diletto i choppers”, come l’R-22, un gioiellino sul quale volo spesso anch’io, brevettata e innamorata, e ne conosco le meraviglie dell’atterraggio sulla vetta più alta e innevata di un cucuzzolo d’Appennini, o della merenda accanto alla croce alta del Tuscolo. “Ho il brevetto di pilota commerciale (CPL, ndr) e sono prossima a conseguire i brevetti da istruttore (CFI e CFII, ndr)”.

Si solleva un polverone, vento traverso, meglio proseguire: decollo ala al vento e piede destro, direzione sud-est, bussola 140 gradi, Messico. Lisa Cooper proviene dal Missouri: per 8 anni ha vissuto a Portland, nell’Oregon, lavorando per l’Horizon Air, sussidiaria dell’Alaska Airlines. Pilota un CRJ-700 tra l’America occidentale, il Messico e il Canada: “Volo sin dai tempi del college e voglio entrare in una compagnia di bandiera”.

Quindi bussola 120, Brasile. Dall’alto Copacabana, l’aeroporto di Maricà, il Cristo di Rio, ma mi dirigo (270 gradi) verso San Paolo dove Clarissa Pereira mi racconta il suo primo volo da solista: “L’ho fatto a 18 anni su un elicottero leggero. Da allora non ho mai smesso di volare” e, finite le riprese del video Atlas Brazil per Discovery Channel per le quali ha messo a disposizione le proprie abilità, le hanno detto: “Grazie Clarissa, ci hai incoraggiato a volare”.

Incoraggia anche me per la mia traversata sopra l’Atlantico e rientro a Roma in volo strumentale notturno sopra un aereo di cartone. Atterro per pista 27, il vento ora spira da nord e punta la manica a vento in posizione consueta, ripongo le mie ali nell’hangar della Flyroma e mi fermo un attimo, in silenzio. L’odore è quello dell’erba umida ed è quasi l’alba. Nessuno sa che ho preso un ULM per attraversare l’oceano e parlare di donne. Solo uno struzzo ed un maiale mi guardano. Il primo allunga il collo e, nonostante ali inette al volo, dal mio sguardo si convince che un giorno lo faranno volare. Il secondo mi chiede com’è il cielo, perché i maiali non possono guardarlo. Gli rispondo che è come una donna: inafferrabile. E quasi vive meglio lui, che non lo sa. (ROMINA CIUFFA)

 




REPORTAGE AMATRICE: FLY ROMA, QUEI VOLI SOLID-ALI

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Originale contributo quello del Fly Roma, campo di volo a est di Roma tra i più noti nel centro Italia. Il suo presidente Italo Marini ha promosso un’iniziativa di solidarietà per Amatrice indicendo due giorni di volo per tutti. I piloti iscritti all’Associazione, e molti altri giunti da fuori per dare aiuto fattivo, sono montati sui propri aerei ed elicotteri per far volare i visitatori dell’aviosuperficie, che sono giunti numerosi ed hanno apprezzato enormemente l’iniziativa. In questo modo è stata data la possibilità a tutti di provare il volo, in aeroplano e in elicottero, a prezzi bassissimi; le spese del carburante e della manutenzione dei velivoli sono state tutte a carico dei piloti, che dunque hanno contribuito non solo operativamente bensì anche economicamente, e in questo modo sono stati raccolti i fondi destinati alle popolazioni colpite.

Le due originali giornate hanno previsto anche la presenza di cavalli trainati da carrozze, grazie al contributo di Pasquale Macchione e dei suoi collaboratori, che hanno reso la giornata ancora più originale e speciale. Altri fondi sono stati raccolti attraverso un bar ed un ristorante, creati per l’occasione, in modo da coinvolgere anche convivialmente gli ospiti dell’aviosuperficie. Italo Marini ha dichiarato: «Sono molto soddisfatto  del risultato, ma potremmo tutti i giorni fare di più. Volando, siamo sempre attaccati al cielo e ci piace pensare di avvicinarci a nostro modo alle tante vittime del sisma, toccando il cielo mentre la terra trema. Ma quando atterriamo, dobbiamo esser vicini a coloro che sono salvi». (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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BENEDETTO MARASÀ: ECCO COME L’ENAC STA RIFORMULANDO IL PRIMO REGOLAMENTO SUI DRONI

Il regolamento dell’Enac è a tutti gli effetti il primo in Europa e forse nel mondo ad occuparsi di «droni» o «Sapr» (che definisce mezzi aerei a pilotaggio remoto senza persone a bordo, non utilizzati per fini ricreativi e sportivi): veri e propri «robot telecomandati» come quelli che si vedevano nei cartoni animati in tempi non sospetti. Anche solo questo paragone rende chiara la complessità della materia che, oltreché nuova (dunque sconosciuta, dunque pericolosa), può chiamare in causa problematiche connesse all’uso improprio che di tali mezzi-strumenti può esser fatto in un continuum che va dalla negligenza, imprudenza, imperizia (colpa) al dolo vero e proprio del diritto penale. Tanto da essere coinvolte le Forze dell’Ordine. E richiama anche scenari fantascientifici di un futuro (ora quasi presente) in cui le strade sono dominate da velivoli.

E dai droni il regolamento Enac, emanato in attuazione dell’art. 743 del codice della navigazione, distingue immediatamente gli aeromodelli (specificando che questi ultimi non sono considerati aeromobili ai fini del loro assoggettamento alle previsioni del suddetto codice e possono essere utilizzati esclusivamente per impiego ricreazionale e sportivo). Il fatto di precisare sin da subito che siano due cose diverse (e diversamente regolate) rende conto del contrario: ossia della gran poca differenza che intercorre tra questi mezzi, entrambi pilotati remotamente, proprio come i robot della nostra infanzia. Ai sensi del regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 216/2008, sono di competenza dell’Enac i Sapr di massa massima al decollo non superiore a 150 chili e tutti quelli progettati o modificati per scopi di ricerca, sperimentazione o scientifici. Inoltre, non sono altresì assoggettati alle previsioni i Sapr Stato di cui agli articoli 744, 746 e 748 del codice della navigazione; i Sapr che hanno caratteristiche di progetto tali per cui il pilota non ha la possibilità di intervenire nel controllo del volo; i Sapr che svolgono attività in spazio chiuso; i Sapr costituiti da palloni utilizzati per osservazioni scientifiche o da palloni frenati.

Ne parla Benedetto Marasà, vicedirettore generale dell’Enac.

Domanda. L’uso dei droni è, nel primo regolamento, distinto rispetto alla sua criticità, ossia pericolosità: come?
Risposta. Questo regolamento, formalmente del novembre 2013, è in realtà entrato in vigore quattro mesi dopo. Esso costituisce una prima elaborazione rispetto al nulla che c’era prima, lo abbiamo chiaramente strutturato considerando le criticità legate non solo al tipo di operazioni che si effettuano, ma anche al tipo di macchina che si usa. Registriamo innanzitutto 2 categorie per peso: droni sotto i 25 chili, a loro volta distinti tra operazioni critiche e operazioni non critiche, e droni superiori ai 25 chili, che consideriamo sempre al pari di operazioni critiche perché le dimensioni, il peso, la velocità, sono caratteristiche che includono di per sé la criticità, a meno che non vengano usati in aperta campagna o in luoghi disabitati, nei quali possono essere impiegati per riprese cinematografiche o per controllare le condizioni delle montagne, delle slavine. Le operazioni critiche sono quelle che si svolgono in ambienti congestionati, cioè dove ci sono persone, installazioni, centri abitati; quelle non critiche si svolgono su luoghi poco frequentati o quantomeno dove non ci sono rischi per la sicurezza e per l’ambiente.

D. Il diverso impiego del drone rende differenti le formalità cui ottemperare?
R. Al di sotto dei 25 chili teniamo anche conto del fatto che si tratta di macchine abbastanza semplici, quindi non richiediamo un certificato di navigabilità né la licenza del pilota, ma un’attestazione di competenza in un regime semplificato. Se l’attività non è critica essa viene autodichiarata dall’utilizzatore del drone e noi ne prendiamo nota anche perché, potendo l’impiego di tale mezzo non essere pacifico, dobbiamo sapere chi lo sta usando e in quale area. Per i droni che operano in aree critiche o superiori ai 25 chili, ci vuole un’autorizzazione formale rilasciata da noi; nel primo regolamento in effetti non avevamo previsto una licenza di pilotaggio, ma solo un’attestazione di conoscenze del pilota rilasciata da una scuola autorizzata, quindi noi autorizziamo la scuola, la quale svolge un programma di addestramento che dobbiamo riconoscere e che rilascia l’attestazione di competenza.

D. Verificate la competenza delle scuole una per una?
R. Lo facciamo a livello preventivo. La scuola che si proponga come centro di addestramento per piloti od operatori ci presenta un programma di addestramento, noi ne valutiamo la congruità, quindi viene pubblicizzata sul nostro sito. Oggi ce ne sono già circa 80.

D. Come si fa a scegliere una scuola dato che ce ne sono tantissime?
R. Onestamente non so dire; noi in questi casi siamo sempre combattuti se stilare un elenco ufficiale dove chiaramente poi convoglierà il mercato, oppure no. In tale ultimo caso chiunque si presenti all’Enac con il proprio programma, che sia valutato da noi positivamente, si immetterà nel mercato senza comparire in una lista Enac, e starà all’operatore o al pilota scegliere dove andare. Non è una vera e propria certificazione quella che noi diamo alle scuole di pilotaggio, è più un riconoscimento basato sui programmi che intendono svolgere e sulla serietà delle persone che vi fanno parte. E se molte di queste scuole sono anche centro di addestramento per persone navigate con una certificazione riconosciuta a livello europeo, ci sono anche scuole private.

D. Da un certo punto di vista si tratta di aeromodelli, dei quali si parla anche nel regolamento in una sezione apposita. Quali le differenze dal vostro punto di vista?
R. Gli aeromodelli oggi possono raggiungere anche delle velocità notevoli, e sono repliche di aeroplani in scala ridotta. Sono da tenere sotto controllo, ma più in termini di obblighi che di verifiche, e infatti per essi noi abbiamo inserito, nella terza ed ultima parte del regolamento, dei requisiti da rispettare, e devono volare in ambienti riservati, fuori dal possibile impatto con le persone, ma non vi sono verifiche da parte nostra, né dichiarazioni da presentare. Ma ora le cose stanno evolvendo a livello europeo e mondiale, e cominciano a spuntare non solo i regolamenti degli altri Paesi.

D. Quale sarà l’impatto dell’Europa nel settore?
R. Noi siamo stati i primi in Europa, e forse anche nel mondo, a fare questo regolamento. Ma oggi ne sappiamo di più, ci sono molte iniziative, la Commissione europea si è anche espressa in una dichiarazione durante una conferenza internazionale nel mese di marzo, e l’Easa, l’Agenzia europea della sicurezza aeronautica, ha emesso delle linee guida. Anche se in questo momento sono dei «concetti» e non sono dei veri e propri regolamenti, è chiaro che in qualche modo ci dobbiamo avvicinare alle indicazioni internazionali, perciò abbiamo predisposto due modifiche essenziali al nostro regolamento: innanzitutto vogliamo distinguere i droni al di sotto dei 2 chili che, in caso di perdita di controllo o impatto, non creano, sempre che lo creino, un danno eccessivo, soprattutto se si adottano criteri di protezione. Per questi piccolissimi droni abbiamo in mente una sorta di liberalizzazione nel senso di non prevedere nemmeno un’autorizzazione, a meno che non vogliano essere utilizzati in aree abitate. Abbiamo anche una riserva delle Forze dell’Ordine, con le quali stiamo discutendo per cercare di evitare un regime estremamente restrittivo giustificato dai timori sull’uso improprio. Un’ipotesi che faceva la Polizia era che addirittura per ogni volo di un drone essa fosse avvisata, e questo ci sembra eccessivo, per il rischio di bloccare un settore che comunque non vogliamo appesantire dal punto di vista dell’innovazione. C’è una grande paura che queste cose possano diventare armi, soprattutto in questi tempi, ma dovremmo limitare di aprire le finestre quando passa un corteo. Certo che determinate precauzioni sono importanti, ma non dobbiamo far diventare il drone uno strumento «criminoso» per definizione. Il nuovo regolamento dovrebbe semplificare l’impiego dei droni fino a 2 chili, tra i 2 e i 25 chili mantenere le caratteristiche attuali, per i droni superiori ai 25 chili strutturare un vero e proprio regime di sorveglianza con certificazione di navigabilità individuale, licenza da rilasciare al pilota, un’attestazione di sicurezza, ed un regime che bene o male è quello degli aeromobili.

D. Come stanno reagendo le grandi società dell’aviazione generale italiana?
R. Cominciano ad esserci anche iniziative importanti, ad esempio abbiamo aperto un «test center» a Grottaglie, in provincia di Taranto; nella stessa area, infatti, l’Alenia produce le parti del Boeing 787 in uno stabilimento che impiega più di 1.500 persone. Abbiamo nominato l’aeroporto di Grottaglie come test center proprio per avere un posto dove fare la sperimentazione con i droni. L’Agusta a luglio vi porterà un elicottero a pilotaggio remoto, che viene costruito in Polonia, che è chiaramente un drone anche se all’interno dell’elicottero c’è il «pilota di sicurezza», un pilota che sta a bordo ma solo per intervenire in caso di perdita del controllo remoto; e l’intenzione dell’Agusta è avere un elicottero di più di 750 chili non pilotato. La Piaggio ha già prodotto il P180, velivolo da 9 posti che in ambito militare è già in fase di sperimentazione a Trapani, e che in ambito civile potrebbe diventare un drone con una capacità di carico notevole di quasi mille chili.

D. Il trasporto passeggeri su un drone, con il pilota da terra e da remoto, è futuribile?
R. In futuro sarà così, ma non è qualcosa che si realizzerà nei prossimi 10 anni. I droni militari, a titolo di esempio, effettuano controlli da remoto da 8 mila chilometri e anche più di distanza. Dobbiamo prevedere che tra 20 anni probabilmente questa diventi una realtà anche in ambito civile. Tutte le iniziative in tema di droni, soprattutto quelle fatte da grandi aziende, non hanno lo scopo di riprendere matrimoni o fare film, ma si orientano verso un trasporto industriale. Le regole cominciano ad esserci, ma il settore industriale è più avanti delle regole. Oggi abbiamo la pressione dell’industria grande e piccola, e giornalisti che vorrebbero essere autorizzati a utilizzare droni da un chilo con telecamera istallata per fare riprese e scoop. Ma il problema non è tanto il singolo, quanto un insieme di droni che, alzandosi per aria, possono scontrarsi e cadere.

D. Si corre anche il pericolo che tanti droni si scontrino tra di loro in situazioni più movimentate.
R. La sperimentazione si sta muovendo in quest’ottica e segue alcuni criteri tecnologici, il primo è quello di un controllo che limiti il raggio d’azione in modo da creare una specie di schermo intorno, ed è chiaro che questo si può fare solamente con un controllo di tipo computerizzato. Il secondo criterio è quello di operazioni fuori dal campo visivo dell’operatore, cosa che in ambito militare è una realtà, ma che nel civile risulta più complessa: bisogna affrontare il discorso della tecnologia e del controllo satellitare. È chiaro che in questa fase iniziale e sperimentale è importante che le condizioni siano quelle dichiarate dai costruttori, ma c’è anche il problema dei materiali: cioè molti dei droni che oggi sono sul mercato non hanno affidabilità aeronautica, la vita delle pale dell’elica o del rotore nei droni che si comprano al negozio di giocattoli è di 5 ore, dopo si rompono; l’elica deve compiere centinaia di giri al minuto, e se non è costruita con caratteristiche aeronautiche è inaffidabile. Se si compra un drone online non è certo che esso abbia le garanzie che noi riteniamo necessarie per il volo aeronautico.

D. Non si può semplicemente comprare un drone e «farlo volare»?
R. La tendenza è questa, lo compro e lo faccio volare; perciò dobbiamo provare a non essere invasivi nel senso di non richiedere il rispetto di requisiti impossibili o troppo restrittivi. Ci stiamo muovendo in un’ottica di valutazione del rischio, e il rischio è nella velocità, nell’ambiente in cui si opera, nelle caratteristiche di sicurezza del mezzo, nella privacy, tutti argomenti nuovi per noi e assenti in tema di aeroplani. Siamo in un momento di maggiore consapevolezza e chiarezza, guardando a un settore che sta esplodendo da un punto di vista industriale con centinaia di iniziative direi non difficili da regolare ma difficili nel bilanciamento tra regole e sviluppo.

D. Avete anche affrontato il tema dei droni legati a un cavo: in quali casi i droni sono «messi al guinzaglio»?
R. Il cavo è un elemento di garanzia soprattutto quando il drone viene utilizzato in ambienti congestionati. Ancora oggi non abbiamo la certezza che i dispositivi elettronici siano talmente affidabili da garantirne il controllo totale, quindi in certi casi prescriviamo le operazioni con il cavo, e tutto questo quando non è dimostrata l’affidabilità totale del controllo del drone. Si tratta soprattutto dei casi di riprese cinematografiche, oggetto di molte richieste che ci pervengono. Il cavo garantisce che, nel caso di perdita di controllo in zone critiche, come può essere una piazza del centro di Roma, si riporti a terra il drone senza problemi.

D. Come si può punire l’abuso di coloro che usano droni senza essere in possesso dei requisiti richiesti?
R. Con le Forze dell’Ordine abbiamo rapporti quotidiani sotto questo punto di vista, ma noi facciamo le regole, poi è chiaro che esse devono essere rispettate e che per farlo ci vuole la coscienza civile. Una delle cose che stiamo facendo è lavorare per identificare coloro che utilizzano il drone, apponendo ad esempio targhette con codice a barre così che tali mezzi possano essere rintracciabili, oppure più semplicemente tenere un registro degli utilizzatori tale che all’occorrenza si possa individuare chi è che ha fatto danno. Ovviamente le sanzioni non dobbiamo stabilirle noi.

D. Posso prendere un drone, portarlo in un altro Paese e farlo volare lì?
R. No, in questo momento ci sono le barriere, non c’è riconoscimento. Con gli altri Paesi ci sono scambi continui di notizie, informazioni e regolamenti, ma non c’è un riconoscimento. Ognuno ha le proprie regole di volo. Nelle proprietà private l’operatore si assume la responsabilità, ma noi stiamo sempre parlando di ambienti pubblici. Per un drone straniero in Italia il discorso è lo stesso, e la buona norma vuole che si capisca che tipo di autorizzazione ha e così convalidarne il volo se presenta caratteristiche simili a quelle richieste. In futuro ci saranno condizioni di reciprocità, una volta che sarà emanata la regolamentazione europea, già in fase di sviluppo; l’Easa sarebbe pronta, a fine anno, con una prima bozza per i droni di semplice costruzione, e presto potremmo avere regole internazionali.

D. Ci sono limiti di velocità e di tempo per il volo?
R. L’utilizzo del drone, almeno in attività quali osservazione, rilevamenti e fotografie, non è lunghissimo, parliamo di un tempo di 15-20 minuti, dopodiché il mezzo deve tornare, anche perché ha delle batterie che ne limitano l’autonomia. Certo è che quando cominceranno a volare i droni a combustibile il problema si porrà, oggi l’autonomia è limitata ad una mezz’ora e niente più, e costa poco farlo scendere e cambiare la batteria.

D. La telecamera deve essere verificata?
R. No, non ci occupiamo della telecamera, l’importante è che sia istallata in maniera sicura, poi la sua tipologia dipende dall’uso che se ne voglia fare. Oggi ci sono droni con telecamere notevoli o con più telecamere. Per quanto riguarda la privacy, quando abbiamo fatto il primo regolamento abbiamo interpellato anche l’Autorità che ci ha suggerito una frase che abbiamo riportato nel regolamento, che fondamentalmente dice che l’operatore è responsabile di utilizzare il drone nel rispetto di tutte le norme della privacy, quindi non può andare a fotografare delle persone o guardare dentro le case, quindi chiaramente la privacy impone delle regole ma poi dopo è la coscienza e la moralità dell’operatore che ne deve fare buon uso.

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Luglio/Agosto 2015

 




VITO RIGGIO: ALL’ENAC SPETTA REGOLAMENTARE IL FUTURO, E AL FUTURO NON SI PUÒ DIRE DI NO

Il codice della navigazione, all’articolo 743 come emendato dal decreto legislativo n. 96 del 9 maggio 2005, definisce aeromobile «ogni macchina destinata al trasporto per aria di persone o cose. Sono altresì considerati aeromobili i mezzi aerei a pilotaggio remoto, definiti come tali dalle leggi speciali, dai regolamenti dell’Enac e, per quelli militari, dai decreti del Ministero della Difesa. Le distinzioni degli aeromobili, secondo le loro caratteristiche tecniche e secondo il loro impiego, sono stabilite dall’Enac con propri regolamenti e, comunque, dalla normativa speciale in materia». È dunque all’Ente nazionale per l’aviazione civile che spetta l’arduo compito di regolamentare «il futuro», ciò che era nei film fino a poco fa, città prese d’assalto da mezzi volanti e privacy, sicurezza, libertà messe in discussione: i mezzi aerei a pilotaggio remoto (Sapr), comunemente noti come droni, sono aeromobili caratterizzati dall’assenza di un equipaggio a bordo. Tanto basta per capirne sia le potenzialità, sia i rischi connessi al fatto che il volo di un drone è governato da diverse tipologie di «flight control system», gestiti in remoto da piloti a terra. Ma al futuro non si può dire di no.

Così l’Enac ha accolto le richieste delle quattro associazioni di settore – Assorpas, UASIt, Fiapr e AIDroni – e sta oggi rivedendo la normativa dedicata ai velivoli comandati a distanza, rendendone pubblica una versione preliminare, e alleggerendo tensione e regole. L’interesse per l’impiego di questi aeromobili negli ultimi tempi sta crescendo esponenzialmente in diverse attività per le potenzialità di impiego che si intravedono tra cui sorveglianza del territorio, rilevamento delle condizioni ambientali, trasmissione dati, riprese aeree, impieghi agricoli, compiti di ordine pubblico; ma resta complesso e pericoloso l’impiego di un dispositivo che supera anche i 25 chili, che può cadere, attraverso il quale possono essere compiute azioni lecite ed illecite (tratto dalla stampa: di recente un ingegnere indiano ha inserito a distanza un virus nel software del velivolo e lo ha dirottato).

L’Enac (e con lui l’Italia) è stato tra i primi enti in Europa a dare formalità alla questione: il regolamento «Mezzi aerei a pilotaggio remoto» viene incontro alle esigenze espresse da costruttori e operatori del settore di avere un quadro regolamentare di riferimento in grado di garantire uno sviluppo ordinato e in sicurezza di questa nuova realtà. Non esiste ancora un unico standard di riferimento europeo, e l’Icao (International Civil Aviation Organization) è impegnata a sviluppare le modifiche agli allegati per ricomprendere nella loro applicabilità anche questi mezzi. I Sapr possono essere utilizzati anche per applicazioni in ambienti ostili come monitoraggio di incendi, ispezioni di infrastrutture e di impianti, sorveglianza del traffico stradale. In questo contesto rappresentano anche un’opportunità di sviluppo per l’industria nazionale dei costruttori di Sistemi aeromobili a pilotaggio remoto.

Ne parla Vito Riggio, presidente dell’Enac.

Domanda. Già verso il secondo regolamento. Cosa dobbiamo attenderci?
Risposta. Siamo stati tra i primi in Europa a fare un primo regolamento, adesso elaboriamo il secondo tenendo conto di una serie di osservazioni che sono emerse in questo primo periodo. Al momento ci concentriamo sull’uso dei droni, più avanti verificheremo se ci saranno garanzie di sicurezza anche per l’impiego nei trasporti.

D. Un drone che trasporterà merci e persone senza pilota, ossia un vero e proprio mezzo telecomandato?
R. Questo è ancora in fase sperimentale.

D. Quali sono i punti che l’Enac ritiene più rilevanti?
R. Ci confrontiamo con problemi molto grandi: se fuori e in campagna gli amatori possono godere di una relativa tranquillità, ma tenendo sempre sotto controllo il comando del drone, per quanto riguarda la città sono molto cauto perché capisco le esigenze connesse all’uso di tale strumento, ma capisco ancora di più la sicurezza. In città e nei centri abitati il drone può cadere e provocare lesioni gravi o la morte di chi è colpito; i mezzi superiori ai 25 chili sono dei veri e propri aerei, è necessaria un’autorizzazione con relativo corso.

D. Si sta assistendo alla proliferazione dei corsi per droni. Sono tutte sicure e certe e, soprattutto, l’esperienza di questi pochi anni di attività dei droni può essere sufficiente a lasciare il mercato libero per le scuole?
R. In questo periodo ci sono una sessantina di scuole, mi sembra esagerato. Diciamo che è la moda del momento, ci si illude del fatto che adesso si è aperto un nuovo campo di lavoro e che tutti possono diventare piloti di droni. Speriamo sia così, ma con cautela.

D. Però sicuramente può portare lavoro.
R. Da una parte sì, ma non so quanto. Spero che il mercato si sviluppi, porti lavoro e si investa soprattutto nella ricerca e nella sicurezza. È chiaro che si apre un campo su cui dobbiamo lavorare, anche d’intesa con gli americani e con la Commissione europea, per cercare di sviluppare tutte le applicazioni possibili ed avanzate.

D. La sicurezza come la si può monitorare, oltre che prevenire?
R. Impedendo l’uso dei droni in città e nei luoghi affollati. Per operazioni in tali contesti si dovrà chiamare un esperto certificato dall’Enac, non chiunque: non ci s’improvvisi pilota di droni. Il drone non è un giocattolo, è questo il messaggio che deve passare, e anche se di soli 5 chili può recare grandi danni. Bisogna essere in grado di pilotarlo.

D. Ci sono problemi anche connessi alla privacy.
R. Questo lasciamolo al Garante, a cui spetterà stabilire delle norme, noi ci occupiamo della parte tecnica. La privacy ormai è ridotta al minimo, e il Garante fa molto poco per tutelarla: lasciamogli almeno i droni.

D. Quali sono le linee principali del regolamento?
R. La prima è che sopra i 25 chili ci vuole un vero e proprio brevetto da pilota, mentre per quanto riguarda i droni sotto i 25 chili stiamo rivedendo le norme. Sarà comunque necessaria la certificazione e l’autodenuncia per l’impiego del drone, e si faranno indagini sull’attendibilità di chi opera.

D. Anche prescrivendo un patentino, questo si prende con sole poche ore di scuola: quanto è congeniale?
R. Poche ore di scuola sono già qualcosa, poi se c’è bisogno di fare di più si farà di più, però già il fatto d’identificare il drone come un vero e proprio oggetto volante, e quindi un aereo sia pure pilotato a distanza, è un’affermazione di principio importante. Il pilota di droni è un pilota vero e proprio.

D. Tranne per il fatto, non di poco conto, che non rischia la propria vita ma la fa rischiare solamente agli altri, questa è l’unica differenza con i piloti regolari che salgono a bordo, forse con più responsabilità.
R. Non è una differenza da sottovalutare, dobbiamo trovare l’equivalente, non possiamo impedire lo sviluppo tecnologico perché provoca un danno, si tratta invece di prevenirlo e di regolarlo, e a questo penseranno gli esperti a livello internazionale.

D. Quali sono le differenze con gli altri Paesi?
R. Si sta cercando di armonizzare il tutto a livello europeo, ognuno però è andato un po’ per conto suo. È un problema nella Commissione parlamentare europea fare un regolamento, che prima si fa e meglio è.

D. Perché in Italia è intervenuto l’Enac invece che il Parlamento?
R. Il Parlamento italiano non c’entrerà mai, anche perché l’Enac ha piena autonomia sul piano tecnico e non ha bisogno del Parlamento perché applica i regolamenti. Quando interviene il regolamento europeo il Parlamento italiano cessa di avere autorità. Noi abbiamo delegiferato tutta la materia tecnica dell’aeronautica, e quando non ci sono regolamenti c’è l’autonomia tecnica dell’Enac; il Parlamento non riesce a fare le leggi importanti, figuriamoci una legge sui droni.

D. Come siete giunti alla definizione di queste norme, chi avete interpellato?
R. C’è stata una consultazione nella bozza del regolamento con delle associazioni che si sono appena costituite con gli utilizzatori di questo mezzo, ma ci fidiamo molto del fatto che noi siamo presenti in tutti gli organismi internazionali, soprattutto con il nostro vicedirettore generale Benedetto Marasà che fa parte, insieme al direttore generale, di tutti i comitati sulla sicurezza e di tutti gli organismi internazionali con ruoli di rilievo. L’Italia è considerata al sesto posto nel campo dell’aviazione civile nel mondo.

D. Perché avete ritenuto non necessario un certificato acustico?
R. Perché questi strumenti non superano le soglie consentite di rumore. Il vero rumore in città lo fanno le macchine, il vero problema è il disastro urbano.

D. Il drone ha dei limiti di altezza?
R. È evidente che dipende dal peso perché quelli sopra i 25 chili hanno una propulsione maggiore, quelli sotto i stanno in uno spazio vigilato, devono esservi meccanismi anticollisione e devono poter essere tracciabili nello spazio, come tutto quello che si muove. Ci sono droni di oltre 300 chili.

D. Dove pensa ci porterà questa evoluzione?
R. Penso che noi, in generale e non solo nel pilotaggio remoto, avremo il chilometro zero in tutto il mondo: nel prossimo futuro si arriverà in qualunque parte del mondo in 2 ore e non più in 24, faccio riferimento al volo superorbitale. Per i droni nello specifico non so dire, di certo aiuterà a vedere cose che a terra non sono visibili, importantissime dal punto di vista della tutela del patrimonio dei beni culturali, della vigilanza antincendio, della vigilanza sulle linee elettriche; si potranno prevenire incendi, rotture, guasti. Il resto deve ancora venire, può darsi che nel settore dei trasporti si riesca a consegnare la merce in un centro di smistamento in modo più sicuro e veloce di quanto accada adesso. È come le applicazioni, il drone è una grande «App», ovviamente c’è bisogno di gente che ci metta cervello e soldi per svilupparla. L’interesse c’è, e come tutte le App che hanno un rendimento economico, stanno sul mercato e sono finanziabili, si trovano i soldi: il mondo è pieno di soldi, sono le idee che spesso mancano.

D. Il drone notturno invece, ci sarà?
R. Ci stanno lavorando. Non è difficile dal punto di vista della tecnologia.    (ROMINA CIUFFA)

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GENERALE TIZIANO TOSI: UNA SQUADRA AEREA AL TOP, MA OCCORRE PENSARE ANCHE AL FUTURO

Frequentava solo il quarto anno del Liceo quando gli capitò di passare per caso vicino alla pista dell’aeroporto di Parma. In cielo un aeroplano stava compiendo delle acrobazie. Si fermò per almeno un quarto d’ora a guardare per aria, attaccato alla recinzione. La passione del volo, da sempre; oltre ad essa, quella per l’organizzazione militare, che lo spinse nel 1969 ad entrare nell’Accademia Aeronautica. Il Generale Tiziano Tosi comanda oggi la Squadra Aerea dell’Aeronautica Militare. «Capii sin da subito che non era solo il volo che cercavo, ma qualcos’altro, una formazione più completa, quella del dirigente e del comandante di uomini, che più avanti, una volta affievolitasi la scintilla del volo operativo, mi avrebbe dato la forte spinta per mantenermi costantemente attivo». Con il brevetto di pilota militare acquisito su G91-T, diviene «combat ready» su F-104S nell’ambito del 10° Gruppo Caccia; ricopre vari ruoli fino al trasferimento allo Stato Maggiore Aeronautica, dove entra nelle attività di pianificazione finanziaria collegate alla gestione dei programmi, di cui si appassiona. Comanda il 4° Stormo «Amedeo D’Aosta» a Grosseto, rientra allo Stato Maggiore, dove dirige il 1° Reparto «Ordinamento e Personale»; comanda il Centro Sperimentale di volo di Pratica di Mare, a Roma, «un periodo meraviglioso, perché mi ha aperto orizzonti di conoscenza incredibili: il mondo della sperimentazione, della connessa logistica d’avanguardia nonché quello della gestione delle nuove tecnologie». Quindi guida l’Ufficio Generale di Controllo Interno su mandato diretto del Capo di Stato Maggiore; passa a comandare il Comando Logistico dell’Aeronautica, poi guida la Direzione per l’impiego del personale militare dell’Aeronautica.

Oggi nel nuovo ruolo di Comandante della Squadra Aerea, che riveste dall’inizio del 2011, si occupa di addestramento, operazioni belliche, missioni umanitarie, volo, controllo del traffico, meteorologia, radar, cartografia, librerie elettroniche, software per gli aerei e sicurezza dei loro piloti. In tutto comanda 22 mila uomini, la metà esatta dell’Aeronautica.

Domanda. Cos’è esattamente il Comando della Squadra Aerea?
Risposta. È l’Alto Comando gerarchicamente sovraordinato ai Reparti e alle Unità operative periferiche dell’Aeronautica che ha il compito di addestrare e mantenere ad adeguati livelli di prontezza ai fini dell’eventuale impiego degli uomini e dei mezzi assegnati.

D. Nel 1999 ha visto la luce la struttura organizzativa attuale degli Alti Comandi, poi di recente modificata. Come si è evoluto questo settore?
R. L’Aeronautica nel 1999 ha intrapreso una strada di ristrutturazione molto profonda, passando da un’organizzazione territoriale, frutto di una concezione dottrinale di distribuzione delle forze sul territorio figlia della guerra fredda, ad una che prevedeva accorpamenti organizzativi in pilastri macro-funzionali corrispondenti alle quattro capacità fondamentali della forza armata: la formazione del personale (Comando Scuole Aeronautica Militare); la preparazione e l’addestramento delle forze (Comando Squadra Aerea); la funzione logistica (Comando Logistico); l’impiego operativo delle forze (Comando Operativo delle Forze Aeree). Il CSA, di recente, è stato ulteriormente ristrutturato perché si è constatata la possibilità di realizzare, mediante una sua «fusione» con il Comando Operativo delle Forze Aeree, una virtuosa sinergia di risorse ed una più efficace sintesi di capacità. L’unificazione è avvenuta meno di un anno fa e si sta ancora lavorando per ottimizzare la più complessa struttura che ne è derivata; essa ha un grande ulteriore vantaggio: il suo Comandante è unico e diretto interlocutore del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare per tutte le attività «operative» della forza armata.

D. Dove è situato l’Alto Comando?
R. Il Comando della Squadra Aerea ha sede a Roma, presso l’aeroporto di Centocelle, unitamente al suo Stato Maggiore e ad alcuni comandi dipendenti; il Comando delle Forze da Combattimento è situato a Milano mentre il Comando delle Operazioni Aeree, si trova a Poggio Renatico, in provincia di Ferrara.

D. Quali i vantaggi di questa sinergia?
R. A Centocelle è ubicato il Comando Operativo di vertice Interforze, espressione operativa del Capo di Stato Maggiore della Difesa, che ne realizza le direttive, controlla le attività nei teatri e, a tutti gli effetti, ne è il braccio operativo. La fusione CSA-COFA ha fatto migrare a Centocelle la capacità di pianificazione operativa delle missioni aeree. Al Comando delle Operazioni Aeree di Poggio Renatico rimane oggi la capacità di gestire in concreto le operazioni aeree. Questa nuova vicinanza operativa COI-CSA permette di realizzare il «plug-in to operate» delle forze aeree del Comando della Squadra Aerea in maniera ancora più spedita ed efficace. La co-ubicazione di questi comandi favorisce inoltre l’instaurarsi di rapporti interpersonali fra gli operatori, che sono alla base di ogni proficua collaborazione. Un contatto interpersonale, infatti, può ispirare una buona decisione laddove sia richiesto supporto tecnico appropriato; in tal modo, nel momento in cui sarà necessario agire, si sarà già efficacemente orientati. Chiamo questa la nostra «funzione premiante», la cui validità è stata confermata dai risultati conseguiti nella gestione della crisi libica. In definitiva: la nuova struttura, preparata su basi teoriche, ha superato positivamente il vaglio concreto delle operazioni.

D. Quali sono le missioni in Libia?
R. L’Aeronautica Militare non è coinvolta solo in volo con parte dei propri velivoli, ma è pesantemente impegnata anche a terra per fornire un qualificato supporto logistico generale, il cosiddetto «combat service support», a tutte le nazioni della Nato che hanno deciso di prendere parte all’operazione e a quelle non Nato che operano comunque dalle nostre basi. Sono migliaia le sortite decollando dalle basi italiane in questi mesi di operazioni e tale numero implica uno sforzo logistico non indifferente: tutti gli assetti della forza armata stanno svolgendo la propria attività operativa o a diretto supporto della stessa.

D. I nostri piloti si occupano anche di missioni umanitarie?
R. Una caratteristica delle crisi degli ultimi anni è proprio l’esigenza umanitaria che si associa alla loro primissima fase, per cui si richiede in prima istanza un intervento, che può consistere nel prelevare connazionali o nel dare supporto a chi fugge da una realtà pericolosa. Normalmente questa attività viene svolta con mezzi militari che possono essere di due tipi, gli aeroplani o le navi. L’aeroplano ha il grande vantaggio di operare su grandi distanze arrivando più rapidamente, stazionare per poco tempo e decollare nuovamente anche da aeroporti di ridotte dimensioni. Di conseguenza esso è il vettore preferibile per le missioni in cui sia richiesta rapidità e immediatezza di intervento. La nostra 46esima Brigata Aerea, anche nella crisi libica, ha compiuto molteplici missioni con i velivoli C-130J ed ha evacuato più di mille persone. Dalla base di Sigonella hanno operato anche i C-130J di due Paesi alleati, anch’essi coinvolti nell’evacuazione di civili in fuga. L’Aeronautica Militare è da sempre protagonista di missioni di evacuazione di personale come dimostrato dai più recenti impegni in Iraq, Egitto, Tunisia, Kosovo ecc.

D. In che consiste l’addestramento?
R. Nei compiti del Comando della Squadra dell’Aeronautica Militare c’è quello di addestrare il personale per l’impiego operativo. Noi cominciamo ad interessarci dell’addestramento al termine della fase di formazione iniziale, che è curata dal Comando delle Scuole ed è rivolta ai giovani vincitori di concorso che accedono agli istituti di formazione della forza armata dove permangono fino al completamento dell’iter istruzionale; tale iter comprende attività di selezione e prove attitudinali e garantisce una solida preparazione propedeutica all’avvio dell’addestramento operativo. Una organizzazione complessa come quella di una forza armata moderna prevede la presenza delle più svariate professionalità che spaziano dalle attività prettamente operative, come volo o forze speciali, a quelle più generiche, dall’amministrazione personale e beni, segreteria ed altro, tutte parimenti necessarie a conseguire e mantenere le capacità operative dei Reparti. Per tutte queste professionalità, peraltro comuni alle tre categorie degli Ufficiali, dei Sottufficiali e della Truppa, il CSA garantisce l’addestramento iniziale e il mantenimento delle qualifiche professionali.

D. Terminano tutti questo iter?
R. Sostanzialmente sì, il livello qualitativo del personale proveniente dagli istituti di formazione non rende necessarie ulteriori selezioni; a volte interveniamo per rivedere scelte iniziali non sviluppatesi secondo le inclinazioni o le reali capacità dell’individuo. Il nostro ruolo è anche quello di orientare il personale alle mansioni più congeniali ad ogni individuo con iter di formazione specifici che possono durare mesi o anni. Si passa da corsi di poche settimane per gli Avieri ai molti mesi necessari per l’abilitazione su un differente aeroplano, in gergo tecnico «passaggio macchina», o  «combat readiness» di un Ufficiale pilota o navigatore.

D. Su cosa si basa l’addestramento?
R. Abbiamo due parametri di riferimento fondamentali: la concretezza e la credibilità. Dobbiamo essere concreti nel dare ai nostri ragazzi strumenti veramente utili per affrontare la professione, ed altresì essere credibili nel fornire loro un addestramento efficace che premi gli sforzi profusi. La credibilità deve però rivolgersi anche verso l’esterno: in contesti internazionali i nostri uomini devono ottenere la concreta e piena accettazione da parte dell’ambiente in cui si trovano ad operare. Fino ad oggi il nostro personale non solo è stato accettato bene e gode di considerazione professionale, ma sovente ha ricevuto il plauso di chi lo ha impiegato o lo sta impiegando nei contesti operativi. E non mi riferisco solo ai piloti «accettati» come capi formazione in «pacchetti» di capacità multinazionali, o ai comandanti che operano in posizioni chiave e di responsabilità all’interno di strutture Nato o EU, ma anche a Sottufficiali ed Avieri che hanno ricevuto attestati ed onorificenze Nato o di singoli Stati stranieri a suggello di attività od azioni particolarmente meritorie.

D. In che modo l’Aeronautica investe nelle risorse umane?
R. L’uomo è un sistema d’arma che dura 40 anni: lo prendiamo a 20 anni, lo lasciamo a 60. In questi 40 anni dobbiamo progressivamente portarlo a incrementare le proprie capacità nelle difficoltà e in situazioni diverse per avere sempre una risposta di alto livello qualitativo. L’uomo va incentivato costantemente o il suo rendimento decresce; per questo abbiamo attivato continui cicli di mantenimento ed incremento della professionalità. Questo continuo sforzo, teso a migliorare le capacità professionali ed umane dei singoli, è coerente e ben si coniuga con una fondamentale disponibilità di progressione di carriera: oggi in Aeronautica Militare chi entra da aviere può andare a casa anche con i gradi di colonnello. Come diceva Napoleone, «ogni soldato ha il bastone da maresciallo nello zaino». Investiamo sul personale, ma abbiamo un problema di organico: la nostra organizzazione ha una struttura ben precisa che presuppone la presenza di organici qualificati. Il personale che dopo 40 anni di servizio lascia la forza armata deve essere reintegrato per evitare discontinuità organiche che possano avere un impatto sulle capacità operative e vanificare gli sforzi addestrativi. Le attuali restrizioni nel reclutamento di giovani produrranno i maggiori effetti fra un paio di lustri quando cominceremo ad avere le prime mancanze di personale anche in posizioni chiave.

D. Ciò penalizzerà la Squadra Aerea dei prossimi anni?
R. Chi non pensa al futuro automaticamente si preclude la possibilità di esserne protagonista. Questo discorso non avrà impatto sulla nostra generazione, ma su quelle future: tuttavia sono certo che, nella continuità logica di ciò che avviene oggi, sarà possibile trovare soluzioni adeguate per non far decadere le capacità operative oggi espresse dal CSA.

D. Qual’è oggi la situazione dei mezzi?
R. Operativamente osservo che i mezzi che il CSA ha a disposizione sono, in larghissima parte, «allo stato dell’arte»; negli anni è stata seguita una politica lungimirante ed attenta da parte di chi ha avuto la responsabilità di orientare queste scelte. Avendo mezzi aggiornati e la capacità di operare nella maniera corretta grazie all’addestramento condotto negli anni, riusciamo a svolgere a pieno i nostri compiti, anche se dobbiamo fare quotidianamente i conti con pesanti restrizioni di budget. Ancora una volta, però, ci aiuta la «concretezza».

D. Cosa avviene in Afghanistan?
R. Il nostro obiettivo è di onorare sempre gli impegni internazionali che l’Italia ha assunto. In Afghanistan siamo presenti con un contingente di terra per contribuire alla difesa delle installazioni; siamo anche fra i pochi ad operare in quel teatro con una significativa «task force» aerea formata da alcuni sistemi d’arma di ultima generazione come i «Predator», che sono velivoli non pilotati, da velivoli aerotattici AM-X e da velivoli da trasporto C-27J e C-130J per i collegamenti tattici e strategici dentro e fuori dal teatro operativo. Il nostro ruolo in Afghanistan, attivo sia in volo che a terra, ha origini lontane quando proprio l’Aeronautica si insediò ad Herat per costruirne, con l’allora Reparto Mobile di Supporto, tutte le infrastrutture logistiche ed operative che oggi sono l’ossatura portante della base italo-spagnola.

D. L’Aeronautica garantisce la difesa dello spazio aereo nazionale ma anche tutte le attività di soccorso. Perché se ne parla di meno?
R. Perché queste sono attività quotidiane e non richiamano attenzioni straordinarie. Tuttavia non sono affatto marginali; al contrario richiedono risorse e cura perché rivolte a settori (difesa dei cieli e soccorso/aiuto a chi è in difficoltà) di grande importanza. Se non fosse garantita la continua presenza di uomini e mezzi del CSA ne sentiremmo immediatamente gli effetti negativi. È proprio relativamente allo sforzo prodotto ogni giorno per assicurare queste attività, che solo inappropriatamente sono considerate ancillari rispetto alle operazioni reali nei teatri operativi. Debbo rilevare come esso sia svolto in silenzio, lontano dai riflettori, con grande senso di responsabilità e sacrificio da un consistente numero di donne e di uomini a cui va attribuito un meritatissimo riconoscimento di valentia professionale.     (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Luglio/Agosto 2011




QUARTETTO D’ELICOTTERI

di ROMINA CIUFFA (pilota di elicottero ed aereo). Pubblicato su AVIAZIONE SPORTIVA, aprile 2009. Questo è un volo e noi stiamo tutti volando. Ed è un sogno e noi stiamo tutti dormendo: lo ha fatto un visionario, il tedesco Karlheinz Stockhausen, eccentrico, narcisista, pur sempre Stockhausen, padre dell’elettronica moderna, uno dei più grandi compositori del XX secolo. «Questo brano è dedicato a tutti gli astronauti del mondo», asserì messianico quando lo consegnò al violinista Irvine Arditti, che gli aveva chiesto un quartetto d’archi, un genere che lui non avrebbe mai scritto. Poi sognò violini e rotori, un ritmo serrato, le pale di un elicottero al pari di violini. E sia: un quartetto d’elicotteri.

Scrive Stockhausen: «Ebbi un sogno: ascoltavo e vedevo l’immagine di quattro esecutori che suonavano in quattro elicotteri in volo. Nello stesso tempo vedevo un pubblico numeroso in una sala di proiezione e altre persone in piedi, fuori dalla sala, in una grande piazza all’aperto. (…) Per gran parte del tempo i quartettisti suonavano tremolii che si mescolavano benissimo con i timbri e i ritmi delle eliche e dei motori degli elicotteri, utilizzati come strumenti musicali. (…) Quando mi risvegliai ebbi viva la sensazione che mi fosse stato comunicato qualcosa dal cosmo di cui non dovevo svelare nulla». Nasce così uno dei maggiori e più complessi lavori musicali mai realizzati, l’Helicopter String Quartet, e diviene la terza scena del Mercoledì, parte della monumentale opera lirica Licht, esagerata, tra le più voluminose mai scritte nella storia della musica e anche esemplare interesse di Stockhausen per la cosmologia, le formule matematiche, le proporzioni geometriche e le allegorie. Nelle sue intenzioni, Mittwoch rappresenta il rapporto tra conflitto e riconciliazione, nel Quartet è il percorso dalla terra al cielo, un viaggio dal terrestre verso l’utopia. I tre caratteri principali del ciclo (Nascita, Conoscenza e Morte) scelgono il teatro del cielo per mettere in scena la metamorfosi che dallo stadio terrestre della Guerra porta all’utopia celeste della Solidarietà.

«I musicisti all’interno dei quattro elicotteri – precisa Stockhausen – devono seguire il ritmo dei motori e delle pale: sono dunque i piloti ad influenzare il tempo dell’esecuzione. Di tanto in tanto i quattro solisti si ritrovano ad eseguire lo stesso ritmo anche se sono isolati e si trovano a qualche chilometro di distanza l’uno dall’altro». In questo modo gli elicotteri divengono strumenti musicali e le pale corde accordate. Il cielo, uno studio di registrazione. In prima mondiale il 26 giugno 1995 quando, nel corso dell’Holland Festival, volarono sulla città di Amsterdam i quattro elicotteri stockhauseniani, arancioni; oggi, per la terza esecuzione mondiale, sorvolano Roma e decollano dall’Auditorium nell’ambito del Festival delle Scienze i violinisti del Quartetto Arditti (due violini, una viola e un violoncello), audaci interpreti di un sogno. Visionari quanto il loro creatore. Il cielo è piovoso al pari dell’inconscio stockhauseniano.

Lui aveva previsto tre microfoni: uno per lo strumento, uno per la voce, il terzo all’esterno, accanto alle pale, ad afferrare il suono del motore, dell’aria, del volo. Gli altoparlanti della Sala Sinopoli restituiscono un rombo, mentre sullo schermo all’interno dell’Auditorium si disegna l’immagine dell’elicottero che si stacca da terra. Quindi, altri tre elicotteri si uniscono e il quartetto degli angeli meccanici traccia un grande cerchio nei cieli di Roma per far “diventare musica un battito d’ali”. Lo schermo si divide in quattro, uno per elicottero, uno per musicista. L’evento è presentato a terra dallo scienziato Piergiorgio Odifreddi che parla di sogni, cieli, angeli e dei calcoli matematici usati per far scorrere il suono nello spazio. Uno dei quattro elicotteristi impegnati è Gianni Bugno, due volte campione mondiale di ciclismo, oggi appassionato di volo: è pilota di elisoccorso ed è stato pilota dell’elicottero di ripresa del Giro d’Italia 2008. L’esibizione è di 18 minuti e 36 secondi. Le voci sono indicate negli spartiti in quattro diversi colori, come le camicie dei quattro artisti; la partitura è complessa, affatto orecchiabile – stride – e gli strumenti non hanno un procedimento melodico definito. Un delirio.

Si diventa Stockhausen tutte le volte che si realizza l’irrealizzabile, che si dà spago a un sogno. Quando si hanno deliri di onnipotenza («Sono stato istruito su Sirio e ci ritornerò anche se vivo ancora a Kürten»). Quando ci si stacca dalla pista e si decolla, fino a quando non si tocca terra ancora. Questo quartetto d’elicotteri dà atto dell’inafferrabilità di un suono sordo, di una sviolinata senza armonia, dell’assordante pesantezza dell’essere, passeggeri a bordo dell’elicottero di un genio; imita con il suono degli archi e delle pale il linguaggio del cosmo; si addentra nell’immaginifico. Sognare di volare si lega al simbolismo della salita, della discesa e della caduta; Freud vedeva nel volo onirico l’espressione di un desiderio fisico non soddisfatto nella realtà. Stockhausen lo ha avverato, in qualche modo. Che ciò sia di spunto anche per il più grande dei sonnambuli.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su AVIAZIONE SPORTIVA (diretto da Rodolfo Biancorosso) – aprile 2009