EBBENE SÌ, IL CAR SHARING L’HO INVENTATO IO

C’è un pessimismo dilagante, il mondo va a rotoli. Ma ripassiamo la teoria dell’apprendimento sociale dello psicologo Albert Bandura, con una premessa: l’autoefficacia percepita si distingue dall’ottimismo e corrisponde alla convinzione di «sapere di saper fare». Un alto livello di autoefficacia percepita rende i compiti difficili occasioni per mettere alla prova le proprie capacità con forte aspirazione e impegno e agisce sui sistemi autonomico ed immunitario: aumenta la tolleranza della sofferenza, attiva difese nei confronti delle malattie, tiene le distanze da condotte e agenti patogeni ed integra il concetto di autostima. Dipende da attribuzioni causali: il «locus of control», la percezione che il controllo di determinate situazioni sia interno o esterno alla persona; la stabilità delle cause (la facilità del compito è stabile, la fortuna instabile); la controllabilità sui fattori in gioco. In un momento difficile come questo, è molto probabile che il «locus of control» della nostra vita sia collocato all’esterno: è lo Stato che non ci permette di, è la crisi che non rende possibile il, è la burocrazia, è l’America, sono i dem, sono i conservatori, è la corruzione…

È l’anticamera della depressione: attribuire un insuccesso a fattori esterni, instabili, incontrollabili, fa ritenere che i risultati negativi si verificheranno di nuovo, innescando una spirale di scarso impegno, sfiducia nelle proprie capacità e un senso di impotenza. Martin E. P. Seligman, descrivendo questo stile attributivo come caratterizzato da 4P – permanente, pervasivo, personale, pesante – elabora una vera e propria ricetta per il pessimismo. È invece caratterizzato dalla formula delle 4E l’ottimismo ottuso: sono le «e» che definiscono le situazioni dell’ottimista come estemporanee, esclusive, esterne, esigue, una predisposizione che conduce alla deresponsabilizzazione. Eppure un bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto nello stesso momento. È il «feel bullish», il sentirsi un toro, a predisporre al bicchiere mezzo pieno, ben rappresentato nella statua del «Charging Bull», toro di Wall Street, opera dell’italoamericano Arturo Di Modica che troneggia nel Bowling Green Park di New York. Ed è anche la locuzione «start up»: la scalabilità è il presupposto essenziale per lanciare sul mercato un’idea.

Era il 1986, avevo 10 anni quando inventai il «car sharing», mentre mio padre era intento a cercare posto per la macchina sotto il palazzo di Valentino: nessuno mi dette credito, ero troppo piccola. Mi trovavo a Piazza Mignanelli, a Roma, e ne parlai a mia sorella Giosetta, della mia stessa età. Internet non esisteva, i numeri di telefono di casa non avevano nemmeno il prefisso. Eppure elaborai un business plan sulla base delle domande che lei, sempre geniale, mi poneva. Avevo previsto la possibilità di installare, nelle vetture, un apparecchio che avesse registrato la carta prepagata dell’utente; che lo stesso sarebbe stato sanzionato per le infrazioni e responsabilizzato per eventuali incidenti; un’assicurazione completa; la possibilità di riparcheggiare le auto ovunque a Roma in modo che altri avrebbero potuto prelevarle nella medesima modalità. Avevo previsto tutto salvo una App, giacché non era tempo di App ed io non avevo ancora inventato Internet e smartphone. Non venni ascoltata se non da mia sorella, che dopo anni mi mandò un articolo sul bike sharing francese: avevamo, a quel punto, circa vent’anni. La vivemmo come una sconfitta personale. La mia intuizione avrebbe cambiato la modalità, l’approccio e la vita automobilistica del Paese. Ma, soprattutto, mi avrebbe resa miliardaria.

Il problema fu che non avevo inventato la start up. Ossia, troppo presa dai miei studi di scuola media, non avevo coscienza dell’esistenza di bandi e fondi per poter far progredire un’idea. E, soprattutto, nessuno mi avrebbe ascoltato, se non la mia gemella. Oggi la start up è il futuro del nostro ottimismo, unica possibilità per sentirsi un toro. Materassi sottovuoto sono quelli di Eve Sleep, prezzi competitivi e consegna a casa; ravioli cinesi con ingredienti italiani consegnati a domicilio quelli di Hujian Zhou, cinese residente in Italia da 20 anni, in società con un macellaio meneghino; cabine-letto per gli aeroporti, quelle notti infinite di scalo, ed ecco la ZzzleepandGo di tre ventenni, che ne hanno realizzato in casa il prototipo automatizzato completo di letto, wi-fi, sveglia, cromioterapia, luci a Led, contenuti multimediali e possibilità di prenotazione, ora presente negli aeroporti di Malpensa e Bergamo-Orio al Serio; ci sono i «supereroi» di Gabriele di Bella prenotabili online: colf, badanti, personal trainer, baby sitter, fisioterapisti, tuttofare.

Il figlio di Mogol, Francesco Rapetti, anziché cantare produce Nuvap, un dispositivo in grado di rilevare l’inquinamento negli spazi chiusi, che uno spedizioniere passerà a ritirare dopo una settimana per poi inviare un report al cliente con le soluzioni per eliminare gli agenti inquinanti. Per la salute c’è il rilevatore di ictus, Neuron Guard, start up di Mary Franzese, 30 anni; c’è Empatica, del trentaduenne Matteo Lai, per il rilevamento dei segnali fisiologici della vita quotidiana; c’è Eucardia, di Francesca Parravicini e del padre Roberto, cardiochirurgo di Milano; c’è D-Eye, prototipo dell’oculista Andrea Russo, che attraverso uno smartphone compie uno screening per una prima diagnostica sull’occhio del paziente. Flavio Lanese a 56 anni cambia vita e inventa SpeedyBrick, un mattone che si monta come i Lego; Solenica, del 24enne Mattia Di Stasi, produce Lucy, una lampada che insegue la luce del sole, idea nata dalla scomodità di un ufficio non luminoso e dall’illuminazione – è il caso di dire – che la luce della strada di fronte potesse essere ridirezionata nel punto giusto. Cinque sardi, riuniti a casa di nonna Elvira, inventano Sardex, una moneta che vale come l’euro, per far fronte alla crisi finanziaria (una sorta di Sardexit?) nella consapevolezza che la crisi della liquidità non corrisponda a una crisi di produttività: basta dare la possibilità di sostenersi a vicenda attraverso un mercato parallelo.

A chi si chiedesse come trovare i soldi per lanciare una start up (oltre trovare sponsor e finanziamenti), ovviamente, rispondono altre startup: Crowdbooks, del 42enne Stefano Bianchi, pubblica libri in crowfunding: chiunque può sostenere un progetto editoriale preacquistando una copia a prezzo scontato; DeRev, portale di raccolta di fondi del salernitano Roberto Esposito, ha trovato 1.463 milioni di euro per ricostruire a Napoli la Città della Scienza distrutta da un incendio; Iubenda, del 27enne Andrea Giannangelo, aiuta i clienti a costituire una start up innovativa in pochi passaggi online. Si può anche fare una colletta su Collettiamo, idea nata da tre giovani marsigliesi che si trovarono a raccogliere i soldi per organizzare la festa di Capodanno con parenti ed amici.

Personalmente, ho una soddisfazione: aver inventato il car sharing a 10 anni. Morale della favola: i bambini, ascoltiamoli. Il plagio, a volte, è telepatico.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – febbraio 2017




CARO DIRETTORE, MI AIUTI A USCIRE DALLA CAVERNA

CARO DIRETTORE, MI AIUTI A USCIRE DALLA CAVERNA di Romina Ciuffa. C’è chi mi chiede di parlare di Renzi, chi di Gentiloni, chi di Grillo. C’è chi vuole un articolo sulla Raggi e sul degrado di Roma. Mi hanno consigliato di scrivere della denatalizzazione e delle nuove statistiche sul crollo demografico. Ciascuno mi ha, in cuor suo, dettato un articolo intero: esigenza estrema di dire la propria, necessità di parlare di tematiche di interesse generale che io potrei a mio modo svolgere. Dentro di me mi sentirei, lo dico sinceramente, di parlare della morte di George Michael, simbolo di un’intera generazione che vola via, forse vittima di un suicidio. Mi sentirei di parlare dell’abuso dei nuovi network, che nuovi non sono più, e di come siamo manipolati dalla «sindrome della spunta blu» di WhatsApp, delle nevrosi che ne conseguono, dei danni neurologici, psicologici e somatici che la comunicazione «smart» ha introdotto e indotto. C’è chi mi chiede di parlare del terrorismo, dell’Isis, dei foreign fighter, di Trump, di un 2016 bisestile che, a quanto sembra, ha fatto più vittime che carnefici. Lo farò. Ma poiché anche io ho delle richieste da farmi, oggi ho deciso di scrivere una lettera al direttore: una lettera a me stessa.

«Caro direttore, 

Le scrive un’accanita lettrice di Specchio Economico. Sono anni che vi seguo, con voi entrando nel mondo delle realtà aziendali e istituzionali, leggendo dalle vostre righe le parole di chi questo mondo lo crea e lo distrugge. Sono una quarantenne plurilaureata, mi ritengono una persona sensibile, mi definiscono geniale, ma quando invio il mio curriculum in giro mi tacciano: ‘overqualified’. Ne ho interpretato il timore di avere tra i piedi una lavoratrice troppo preparata, che potrebbe avanzare pretese. Ne ho letto una profonda crisi del sistema, che anziché premiare gli studiosi e i lavoratori li teme. Non mi soffermerò, in proposito, sull’infelice frase del ministro del Lavoro Giuliano Poletti sulla fuga dei cervelli («Conosco gente che è bene sia andata via, questo Paese non soffrirà a non averli tra i piedi»). Mala-educazione che imperversa, disattenzione verso gli altri, disintegrazione dell’umanizzazione. C’è un Bastian contrario che abita questo Paese dissestato.

Il 2016 è stato un anno di perdita per gran parte di noi. C’è chi ha visto morire i propri cari (personalmente ho appena perso il mio più caro amico, Francesco, finito fuori strada in moto sulla via Salaria a causa di una buca – capitolina, capitombolina, capitolare – che il giorno dopo, come da tradizione, è stata subito ricoperta). Ci sono state bombe e persone esplose, altre inesplose, gli attentati sono all’ordine del giorno e a Capodanno – tralascio le polemiche sul divieto romano di fare i botti tradizionali, che peraltro condividevo – ho festeggiato nella mia taverna, in pieno centro a Roma, davanti al camino. Glielo dico per raccontarle un aneddoto che si è verificato. Due invitate mi hanno chiamato terrorizzate informandomi della loro rinunzia a venire. Spiegavano: giunte davanti al portone, hanno visto un arabo gettare una borsa sotto una macchina. Lo hanno fermato, ma lui è scappato alla velocità della luce. Si tratta di due persone di elevato spessore culturale e sociale: lungi da loro ogni riferimento ad una fobia spicciola da uomo di strada o alla stereotipicità del pregiudizio. Hanno chiamato i carabinieri, poi mi hanno avvisato: per la paura che tale pacco contenesse una bomba, preferivano rientrare a casa. Le ho tranquillizzate: c’è un carabiniere a casa mia, risolviamo tutto (per dovere di cronaca, i carabinieri chiamati non sono mai arrivati). Nella mia temerarietà, ho passato al setaccio tutte le autovetture parcheggiate davanti al portone fino a trovare una borsa di Chanel del valore di circa mille euro; senza dubitare l’ho aperta e vi ho trovato moltissime carte di credito e documenti: apparteneva ad un medico libanese iscritto all’Università americana di Beirut. Il carabinere presente al mio veglione ha fatto il resto, risolvendo la situazione. Le due invitate hanno partecipato alla nostra cena. 

Solo poco dopo, sono uscita nuovamente dal portone e ho trovato un italiano ed una spagnola nudi, alle prese con un rapporto sessuale completo in mezzo alla strada, in pieno centro storico. Li ho dapprima fotografati, poi ho detto loro che avrebbero potuto continuare indisturbati. L’uomo si è alzato e mi ha proposto in maniera aggressiva un rapporto sessuale. Ha insistito violentemente. Ho declinato, lui si è alterato ancora di più e ha detto a lei, a gambe aperte, ‘torniamocene al locale’. Per le strade v’erano solo ubriaconi, il centro di Roma era paragonabile ad un settore del Risiko, oltre a ciò pericoloso, indegno, sporco, violento, viziato. Con questa mia lettera, caro direttore, vorrei solo che lei sapesse che, sia pure le tematiche delle aziende e dello stato della politica siano rilevanti, c’è un mostro che adombra le nostre città. E quello non sono io, sia pure ‘overqualified’.»

Cara lettrice, farò riferimento al mito della caverna di Platone: prigionieri convinti che le ombre che vedono siano la realtà. Ammesso che uno di essi riuscisse ad uscire dalla caverna, le forme portate dagli uomini verso l’esterno gli sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; se gli fosse indicata la fonte di luce, egli rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco, il sole, le stelle, preferirebbe volgersi verso le ombre. Poi, finalmente capace di fissare la luce e di comprendere il valore del sole e della verità, avrebbe un sussulto pietoso: rientrare e liberare i compagni. Ma dovrebbe riabituare la vista al buio per rientrare nella caverna e riconoscere i compagni, dai quali sarebbe deriso per i suoi occhi rovinati, in una temporanea inabilità che non gli consentirebbe, nell’immediato, di spiegar loro il senso di realtà provato. Platone giunge ad immaginare che questi ultimi possano essere mossi da un istinto omicida nei riguardi dell’amico “illuminato” pur di non subire il dolore dell’accecamento e la fatica della salita necessaria ad ammirare le cose descritte.

Parafraserò ciò che lei descrive in questo modo: la nostra, o piuttosto la «loro» Italia, è una caverna. Il mio augurio più forte è quello che lei, almeno lei, riesca ad uscirne, come fece il filosofo, per vedere la luce. Il ladro di Chanel, i due ninfomani ubriachi, l’assenza di controlli: quelle non sono che ombre. Uscendo dalla caverna le dirò ciò che vedo, la realtà: la sparizione della civiltà, l’adeguarsi ad una maleducazione sessuale e sentimentale, la pericolosità di uno Stato che non tutela i cittadini. Non mi venga a dire il ministro Minniti che lo stragista di Berlino è stato trovato in Italia grazie agli sforzi compiuti dalle Forze dell’ordine: è stato un caso. Le auguro, cara lettrice, di abituare gli occhi quanto prima ad una nuova luce, e di uscire dalla caverna senza nemmeno raccogliere i suoi quattro stracci. Fuori ci sarò io ad attenderla: ma il suo amico Francesco dalla Giunta Raggi non potrà riaverlo. In Italia gli attentati ce li facciamo da soli.  Romina Ciuffa




QUOTE NERE PER RIABILITARE L’UOMO NERO

QUOTE NERE PER RIABILITARE L’UOMO NERO di ROMINA CIUFFA. Proporrei delle «quote nere». La problematica dell’immigrazione, fuori dal discorso politico, è qualcosa che ci riguarda. Siamo a tutti gli effetti un Paese globalizzato, che non deve solamente fare i conti con il terrorismo e la manovalanza, gli immigrati che rubano e gli immigrati che rubano lavoro agli italiani. Dobbiamo riuscire anche noi a divenire un Paese mulatto. Checché Salvini ne dica, il mondo è fatto di diversità ed integrazione. Non possiamo azzerarci continuamente parlando di extracomunitari che uccidono, spacciano, rapinano. Un anti-luogo comune è quello che vede l’immigrato svolgere mansioni che l’italiano non considererebbe. Perché, allora, non educare gli extracomunitari con un programma di sostegno, richiamarli legalmente all’interno del nostro Paese con borse di studio, fornir loro una formazione adeguata ed un curriculum di rispetto perché possano prender parte alla vita del Paese?

I fiorentini, i genovesi, i milanesi, i romani, non hanno saputo far meglio. Perché non «obamizzare» anche l’Italia? Proprio oggi che in Occidente avanza la minaccia Trump-Salvini, sarebbe il caso di intervenire. Nessuna donna ha mai richiesto «quote rosa», bensì l’accettazione delle proprie competenze e la valutazione di intelligenze flessibili, multidimensionali, femminili. È stato loro assegnato il colore rosa come si assegna alle bambine e si pretende da queste, prima ancora che maturino una personalità propria, che si colorino di delicatezza e gonne. Nel corso della loro formazione hanno dimostrato parità quando non supremazia nelle posizioni rilevanti: è questa la modernità. Ora serve una politica per gli scafisti. Inutile bloccare gli accessi ed inutile dar modo ai media di coprire gli spazi vuoti con foto di barche affondate e bambini sanguinanti sulle spiagge di Lampedusa. Inutile bloccare la storia: essa si verifica. Ne è esempio l’Occidente più occidentale, quello americano, che ha dato mandato ad un afroamericano di governare per otto anni le sorti del Paese, e nulla si è potuto avverso l’integrazione. Lo stesso valga per la candidatura di Hillary Clinton: avrà pur vinto Donald, ma è innegabile quanto dalla caccia alle streghe sia stato fatto per trasformarle prima in fate, quindi in donne di comando.

Quote nere, ovvero la possibilità di assumere candidati provenienti dal fenomeno immigratorio e imparare dalle loro differenze, da prospettive che giungono da mondi lontani e possibili, sebbene poveri. Povertà non è sinonimo di terrorismo né di incompetenza, tutt’altro: dalla povertà nasce la forza più dirompente, in grado di superare gli ostacoli deteriori cui un miliardario come Lapo Elkann non è in grado di far fronte, riuscendo addirittura a simulare un rapimento per ottenere dalla famiglia una somma di (soli) 10 mila dollari. Questo dà ancor di più conto della necessità di introdurre nel sistema elementi nuovi, scindendoli dalle dinamiche della criminalità e della discriminazione, per creare opportunità di crescita nel Paese e al di fuori di esso.

L’Italia non deve nulla all’immigrazione, a nessun cittadino «ariano» deve richiedersi di risolvere i problemi dell’extracomunitario, ma può di certo servirsi di nuove idee e valorizzare le differenze proprio come è avvenuto nel processo che ha reso la donna più uomo e le ha conferito posizioni prima d’ora inimmaginabili. Un istituto di formazione «nera» potrebbe creare un esercito di buona condotta ed esperienza pronto a lavorare in un Paese come il nostro che, in ogni caso, si trova a dover integrare immigrati senza cultura, proprietari di un background doloroso che li rende sofferenti e, dunque, pericolosi. Salvo prova contraria. Perché, allora, non prendere atto del fatto che, a fronte di una fuga di cervelli dall’Italia, ve n’è una altrettanto vigorosa che conduce all’Italia stessa i cittadini di Paesi limitrofi? Perché non creare un’alleanza con l’Uomo nero, che tanto ha terrorizzato generazioni i bambini di ieri per il sol fatto di essere un uomo diverso? 

Immagino una start up governata dall’Uomo nero, dal passato controverso e dalle origini guerrafondaie. Un uomo che, giunto in Italia, possa essere messo nella condizione di imparare ciò che il suo Paese non gli ha insegnato. Alfabetizzazione prima di tutto. Quindi scuola dell’obbligo e studi universitari, corsi di formazione e – un impegno – quello dell’accettazione dell’Altro, senza contestazione di credi ed orientamenti. A condizioni di reciprocità. Il problema non è quello del crocefisso in classe o dell’uso del burka: chi sceglie di entrare in un Paese ne segue le vicissitudini e vi si lega nel rispetto di una storia che non va mutata. Ma l’accoglienza dell’Uomo nero, affiancata da un’educazione civica e laica che lasci prevalere i valori sulle credenze e sulle prese di posizione, può cambiare il nostro mondo. Può cambiare finanche noi stessi.

Non è forse vero che l’italiano si lamenta in continuazione dei suoi governanti, delle istituzioni, del vicino di casa? Non appartiene allora, tale atteggiamento, ad un’abitudine conclamata, quella volta all’insoddisfazione e alla eteropercezione del pericolo e della responsabilità? E i governanti, le istituzioni, il vicino di casa, non sono forse, nella proporzione più plausibile, italiani, bianchi, dialettali? Cosa c’è di sbagliato, dunque, a fare uno sforzo quasi extraterrestre – ossia uno sforzo che, pur dovendo impiegare centinaia di anni per giungere a compimento, richieda invece pochi lustri, un’età quasi astrale in un pianeta dove il tempo corre diversamente – e accettare l’Uomo nero proprio come si accetta il «colpo di Governo» di un fiorentino? Cosa distingue un fiorentino da un siriano: la sicurezza ch’egli non compia un attentato? Perché: non lo ha forse, in un certo qual senso, compiuto?

E perché non cominciare dai bambini? I quali sono aperti ad ogni forma di società e di apprendimento. Disfano questo processo di legittimazione delle diversità i genitori che in un Paese straniero, accogliente, pretendono di mantenere abitudini e credi dei propri universi di provenienza. Come se un asiatico volesse trasferirsi in Groenlandia mantenendo i vestiti tailandesi: in poco tempo, morirebbe di freddo. Prendiamone atto. Un valdostano non potrebbe trasferirsi a Rio de Janeiro indossando il consueto pellicciotto. Perché ciò non dovrebbe valere per la religione? Perché la coesistenza di razze deve seguire il destino dell’utopia? Perché non ipotizzare una struttura in grado di fare della diversità un valore aggiunto? In uno spazio-tempo in cui, attraverso i social network, la parola «amicizia» è divenuta un contenitore vuoto, quando nello stesso istante con un click si partecipa ai funerali di Fidel Castro, alla vittoria di Donald Trump e alla morte di un’intera squadra di calcio brasiliana a seguito di un disastro aereo, possiamo veramente continuare a credere che l’Uomo nero sia così cattivo? (Romina Ciuffa)




ME NE VADO ERGO SUM

ME NE VADO ERGO SUM di Romina Ciuffa. Io me ne vado. Ergo sum. State facendo di tutto per cacciarci. Ci avete cresciuto con le lire, non con i flauti. Nella mitologia greca il dio Hermes uccise una tartaruga all’interno di una grotta, e nel suo carapace tese sette corde di budello di pecora costruendo la prima lira, che regalò ad Apollo al quale aveva rubato i nervi dei buoi per fabbricarla. Il dio del Sole, al suo suono, si commosse a tal punto da offrirgli un anello d’oro (primo sinallagma); regalò poi la lira ad Orfeo, cantore che piegò, suonandola, gli animali e tutta la natura. Tanto fece associare la lira alle virtù apollinee di moderazione ed equilibrio, in contrapposizione al flauto dioniseo che si associava ad estasi e celebrazione.

Così ci avete cresciuto con moderazione ed equilibrio, lira e Apollo, un dopoguerra che avete temuto e che vi ha fatto moderare ed equilibrare. Durò poco: una volta sbloccati dalle vostre prima razionali, poi irrazionali paure (simili a quelle derivanti dal disturbo post traumatico da stress, che segue una guerra o un evento di portata negativa), siete passati al flauto dioniseo: l’euro. Estasi e celebrazione. Dopo averci fatto fare l’Erasmus, avete invidiato i giovani che potevano trascorrere mesi di studio all’estero con le borse di studio delle università, e siete voluti entrare in Europa anche voi. Ci avete coinvolto in questa impresa e vi siete dati a Dioniso, il dio notturno, quello delle marachelle e delle baccanti. Avete così festeggiato con veline e olgettine, avete scambiato la lira per il flauto, vi siete sentiti europei mentre i vostri figli si interrogavano sul proprio futuro.

Avete bevuto vino made in Italy, spacciandolo per commercio ed export, avete liberato i sensi, vi siete atteggiati a grandi, una confraternita legata a Bruxelles, intanto l’Europa cresceva e Londra pensava. Avete giocato a fare gli ambidestri, usare entrambe le mani, prima la destra, poi la sinistra, poi la destra, poi la sinistra, accaparrandovi maggioranza e opposizione e mischiandovi. È un’ambidestra che vi parla: a volte sbaglio mano e cado dalla bicicletta, perché non ricordo qual’è quella giusta da usare in quella circostanza, scrivo con entrambe, arrotolo gli spaghetti con entrambe ma mangio il sushi solo con la sinistra. Ci sono cose che si possono fare solo se si è in grado, e voi, i politici, gli imprenditori, le lobbies, non siete ambidestri. Si è mancini o destrorsi quando si governa una nazione, si prendono delle posizioni e non ci si può permettere di cadere dalla bicicletta del Paese.

Con l’euro abbiamo visto restringersi i nostri contanti come fossero stati sbadatamente lasciati nei pantaloni in lavatrice. Abbiamo assistito, impotenti, alla rovina delle pensioni dei nostri nonni, dei nostri genitori, ed abbiamo perso ogni speranza di riceverne nel futuro. L’Italia continua a ripetersi che la crisi sta finendo, ed è proprio come quando una storia d’amore finisce e del dolore ci si ripete come ossessi: «Passerà». Ma si sa che l’unico modo per cui cessi è il chiodo schiaccia chiodo. Questo chiodo, inoltre, dovrà tenere un quadro di qualità, non un disegnino. La crisi non finirà senza un grande disegno, un Van Gogh, se europeo, un Caravaggio, per il made in Italy, con un chiodo che regga.

Io me ne vado, qui lo dico e qui lo nego. Nessuna intenzione di suonare questo flauto traverso, che di traverso va. Il flauto è uno strumento che nasce dalla bruttezza del dio Pan, invaghitosi della fanciulla Siringa la quale, inorridita dal di lui aspetto caprino, chiese a suo padre – la divinità fluviale Ladone – di trasformarla in modo che Pan non potesse riconoscerla. Così divenne una canna della palude, ma il suo innamorato, presente alla trasformazione, non la lasciò andar via e, sofferente, sospirò. Riporta Ovidio, nelle sue «Metamorfosi»: «(…) come Pan, quando credeva d’aver ghermito ormai Siringa, stringesse, in luogo del suo corpo, un ciuffo di canne palustri e si sciogliesse in sospiri: allora il vento, vibrando nelle canne, produsse un suono delicato, simile a un lamento e il dio incantato dalla dolcezza tutta nuova di quella musica». Così continuerò a parlarti, disse il dio. Un lamento. E noi, come la ninfa Siringa, costretti in una palude, trasformati nelle canne dell’euro dove soffiano i venti avversi dei governanti, che si fingono pieni d’amore per noi.

Ho nostalgia della lira, ammiro gli inglesi che si sono resi conto che più che una comunità quella europea è una comune fatta di «freakettoni» che non fanno altro che campare sulle spalle altrui. La fuga dei cervelli è una pena meritata. Nessuno ci ha dato il buon esempio. Appartengo a quella generazione di quarantenni che hanno vissuto senza telefonini ed internet per i primi venti anni di vita, che hanno sperato, che hanno visto Roma sotto la neve del 1985, e che improvvisamente si sono ritrovati a leggere i «tweet» del presidente del Consiglio, a vedere le foto del sindaco Raggi su Instagram, ad ascoltare Bruno Vespa e Gigi Marzullo tutte le notti come un supplizio, ritrovandoseli nella bolletta della luce.

Mi vergogno degli adulti di oggi, flautisti d’eccezione, che sperperano il mio patrimonio artistico, culturale, economico, intellettuale, danneggiandomi. Che per primi «postano» su Facebook, avallando il consumismo zuckerberkiano (ma, sottolineo, Mark Elliot Zuckerberg è del 1984, con la fortuna di essere nato in America e non a Little Italy). Me ne vado dall’Italia innanzitutto col cuore, che è già via. La cardiologia fa passi da gigante, ma non miracoli. L’Italia non si ama più, si suda. Io vado via, con la coda tra le gambe, per salvaguardarle dalle buche che non sono mai coperte. Me ne vado con il cervello, perché è già altrove che mi trovo. Non ascolto i comizi, non credo alle manovre mediatiche, non mi interesso di politica. Personalmente, suono il pianoforte: abituata a tasti bianchi e tasti neri, conosco le difficoltà e so affrontarle come si affrontano i diesis e i bemolle anche delle scale più complesse.

Io me ne vado, se non fate qualcosa per cambiare il mondo che governate e che vi tenete, se non la smettete di spartirvi il bottino, se non finanziate la ricerca, se non date, invece di creare, posti di lavoro: i vostri. Se non leggete i nostri curricula, se non proponete contratti su rimborso spese, al nero, stagionali. Io me ne vado a Londra a fare la cameriera e studiare il siciliano o il napoletano, sono certa di avere, a quarant’anni, più possibilità di essere notata lì che non prezzata qui. Avevo, per un attimo solo lo ammetto, avuto fiducia in un presidente che mi è coetaneo, era l’unica scusa che mi davo per accettare il suo «colpo di Stato», prendersi il potere senza elezioni e gestire un gioco referendario, al momento, che mi rende pentita dei miei studi di Giurisprudenza, quando mi insegnarono l’Assemblea costituente e mi indicarono da chi fosse composta. Non avrei mai immaginato che l’Italia potesse cadere così in basso. Ve la meritate, la fuga dei cervelli. Perché oggi «me ne vado, ergo sum» è l’unico brocardo.  (ROMINA CIUFFA)