ITA LIKES LUFTHANSA (TRA “POSTORI” ED IMPOSTORI)

Roma, 3 marzo 2023. Mi lascerò trascinare dal filo del discorso in un volo sì, ma pindarico, e parlerò qui di due cose: 1) il verde-Alitalia e l’incontro paventato tra ITA e Lufthansa; 2) il fenomeno della “influencer-sizzazione” di piloti e cabina crew. 

1) Dove è ricresciuto l’estirpato verde-Alitalia? Fallita Alitalia, nasce ITA (con un nome che richiede l’accostamento ad “Airways” per non confondersi con un semplice suono, in realtà acronimo di Italia Trasporto Aereo) – ITA Airways. Neonata, si parlava già di un nuovo futuro da brand Alitalia (lungimirantemente acquistato da Ita). Il volo ITA l’italiano lo prende così, solo per fare voli diretti, l’Alitalia si prendeva per “fede”, per avere accanto quegli assistenti di volo (ex hostess e stewards), per sdraiarsi in ambiente amico, perché il verde era stare a casa, sebbene ne parlassimo malissimo: non era vero. ITA la si prende così, per disperazione, sapendo anche che solo alla fine della transazione di acquisto si aggiungono spese del bagaglio che non sono incluse, ovunque si vada: vera e propria low cost con prezzi high, le valigie da 23 kg non sono comprese nel prezzo del volo intercontinentale che dà la pretesa di partire “leggeri”.

A noi la scelta: leggeri o alleggeriti.

Pare se la comprino i tedeschi. Altro giro, altra corsa, altro volo: arriva la Deutsche Lufthansa AG, che punta ad acquisire una partecipazione nella compagnia italiana con l’acquisizione iniziale di una quota di minoranza, ed opzioni per l’acquisto delle restanti azioni poi, presentando al Ministero dell’Economia e delle Finanze italiano la bozza di MoU (Memorandum of Understanding) e, quando sarà firmato il protocollo d’intesa, arricchendo la transazione con negoziati su base esclusiva prediligendo la forma di un investimento azionario, dell’integrazione commerciale e operativa di ITA nel Lufthansa Airline Group e delle conseguenti sinergie. Per Lufthansa Group, l’Italia è il mercato più importante al di fuori dei suoi mercati interni e degli USA, tanto per viaggi d’affari quanto privati,​​ merito della forte economia orientata all’esportazione e dello status belpaesino di uno dei migliori luoghi di vacanza d’Europa.

Sottoscriverei: vacanza. Viverci? Meglio fare vari scali.

Ma se noi pensiamo a casa, non pensiamo a ITA. Non c’è nulla che ricordi Alitalia se non la lingua ufficiale, corretto nell’ottica di un cambio di “rotta”, non nel senso di  un’appartenenza reciproca (Alitalia è nostra, noi siamo Alitalia). Proprio come nelle pubblicità di oggi non c’è nulla che ricordi il Carosello: il Carosello si seguiva, si correva alla tv (chi l’avesse) alle otto di sera, e BOOM, pubblicità. Oggi durante i “consigli per gli acquisti” ci si assenta, si fa un veloce (nemmeno troppo, data la durata degli annunci) zapping, si fa la pipì e si scola la pasta: e meno male che c’è la pubblicità, per le vesciche di tutti. Come non bastasse gli annunci non si guardano più per comprare:  cosa pubblicizzava? Chi se lo ricorda. Morta di recente pure la camicia coi baffi.

Così ITA. Ci si sale perché è l’unica che, se tutto va bene (non sono poi così tanti i collegamenti), non fa scalo, spendendo obtorto collo di più di British o Wizz e altre, che garantiscono prezzi inferiori. Si sale su ITA, ci si guarda intorno (vediamo le differenze con Alitalia), ci si sente “strani”, a disagio quasi, e si chiudono gli occhi, in attesa di “il capitano vi informa che fra qualche minuto atterreremo”. In Alitalia c’era la famiglia, come dove c’era Barilla: c’era casa. Oggi invece, oltre ad essersi “volatilizzato”  tutto il cabin crew  prima impiegato in Alitalia (ci sono i sindacati e i ribelli, ci sono coloro che hanno ripreso il posto incorporati in ITA, ci sono coloro che “postano” vorticosamente, ci sono coloro che si sono dovuti rifare una vita, e quelli che hanno imparato a conoscere le mogli e spadellano come gran parte della popolazione globale post-Covid).

Niente più biglietti gratis per hostess e compagn*, per pilota e amici, niente più voli da regalare, niente più sex symbolism degli impiegati dell’aria, che ora divengono veri e propri fantasmini in cabina e che, anche per questo, si sono messi ad instagrammare a tutto spiano per dare un senso e sfondare, chissà, il muro del suono non a 343 m/s bensì in stile Ferragni.

2) C’è una compagnia aerea nel mondo che stia mettendo un freno al dilagare di un fenomeno pericoloso e non professionale quale quello del post? Fotografarsi e fare video durante l’orario di lavoro: è la resa dei conti. Selfie sexy dentro alle ventole dei motori, selfie nei bagni, selfie coi passeggeri, selfie coi bambini in cabina, selfie di qua, selfie di là, sperano di guadagnare soldi, quantomeno followers, con blog e fotarelle da nuova generazione, eppure sono disperati. Tra “postori” e “impostori”, hanno perso il senso della loro professione. Hanno perso il volo – lo hanno preso fisicamente, ma ne hanno perso il valore (valore di volare) e, volando, postano, che è come dire: stanno sempre in basso, nei pressi di un server. Prima da terra si sognava di volare, ora in volo si sogna di atterrare. Così, atterriti, volano e servono (a pagamento) polletti implasticati, senza più il benessere di sentirsi completi attraverso il lavoro, scendono gli scalini dell’aeroplano come Shakira in una sfilata di Victoria Secret, e sfilano al gate, certi di essere ammirati da tutti per la divisa. Finalmente a terra.

Sul social TikTok sono cinquantenni (+) che, dopo aver pilotato 747 per anni o portato da professionisti interessanti e invidiati i vestiti verde-Alitalia, si trovano a fare i ventenni, cercare followers, espletare balletti nei corridoi degli aereomobili, sapendo che tra i sedili non saranno presi per pazzi, esaltati, troppo vecchi, poco professionali. Piuttosto riceveranno likes. L’assistente di volo comunque, vola e, mentre spiega sul suo canaletto TikTok seguito da migliaia di spettatori, ops, visualizzatori, come si tira la catena sull’aereo o ci si rapporta con una turbolenza, guadagna lo stipendio.

Così il pilota, che non decolla senza una GoPro sul capolino. Altro che spiegare una turbolenza: chissà che l’amministratore delegato Lufthansa non faccia un TikTok per allinearsi coi tempi. Comprare ITA non basta, serve il like.

Romina Ciuffa




ADDIO ANTONIO MARINI, MORTO SUPERSTITE DEI TERRORISTI

di ROMINA CIUFFA (22 agosto 2019). Fino alla fine un superstite, un sopravvissuto alla giustizia-come-si-deve, quella del tempo che fu, che fino all’ultimo non è stato ucciso da chi lo voleva morto. Lo si conosce come l’uomo dell’antiterrorismo, il Pubblico Ministero con PM maiuscole come in un bravo codice di procedura penale; io lo conosco come colui che, pur vedendomi crescere, mi chiamava “direttore”. Non una figura a caso nel patrimonio meteoritico italiano e mondiale della Giustizia, anche l’uomo che ha regalato a Papa Wojtyla il proiettile che non lo uccise, sottraendolo ai reperti giudiziari perché, a fini processuali, non serviva più. Se lo diceva lui, era così. E in questo modo fece sì che quel frammento di piombo fosse incastonato, come voleva Giovanni Paolo II, nella corona della Madonna di Fatima. A tutt’oggi.

Oggi che Antonio Marini non c’è più da ieri, 21 agosto. I giornali si sono precipitati a pubblicare i loro coccodrilli, tutti uguali, nessuno distinto, e probabilmente già pronti essendo lui portatore di un male inesorabile che, per il principio di non contraddizione, non lo ha scalfito minimamente nell’essere, lasciandolo – come sempre – nel suo umore e nella sua forza.

Ne sono testimone: mi chiamava carico di intenzioni, di costanza, mandava messaggi e foto, e parlava di futuro. Suo e del suo libro, la raccolta degli articoli sul terrorismo che lo hanno reso da sempre un grande collaboratore del nostro Specchio Economico, progetto che aveva quasi terminato con il direttore Victor Ciuffa ma che la scomparsa di quest’ultimo fermò. O meglio, rallentò. Ogni mese, per decine di anni, Marini scriveva per noi due rubriche: Giustizia e Terrorismo. Con costanza e attualità, con il senso del tempo e l’importanza di fissarlo.

Umilmente consapevole di non essere uno qualunque, non un “comune mortale”, nel combattere – prima come Procuratore generale facente funzioni, poi avvocato generale della Corte d’appello capitolina – delicate lotte in delicati processi come quelli sull’attentato al Papa, sulla strage della scorta di Aldo Moro in via Fani e il di lui omicidio, sulla morte della studentessa della Sapienza Marta Russo, sull’agguato, firmato dalle nuove Brigate Rosse, costato la vita al giuslavorista Massimo D’Antona.

Alcuni suoi processi sono raccolti nel suo sito in un’apposita sezione: http://www.antoniomarini.com/processi-2/. Il libro voluto da lui e da Victor Ciuffa sul terrorismo uscirà entro l’anno.

Marini muore “in sordina” perché è il giorno in cui, caduto il Governo, se ne attende uno nuovo (i veri eroi non amano essere notati). E così è per me più opportuno dar conto, con le sue stesse parole negli anni, di come si sia sviluppata quella politica (nello specifico antiterroristica) che è anche alla base del cambiamento di oggi in tema di “straniero”.

Ricordando che mi chiamava ogni volta e mi diceva: “Direttore, ti ho mandato l’articolo. Leggilo e dimmi cosa ne pensi”.

  • “Ci si chiede: quanta libertà siamo ancora disposti a sacrificare in nome della sicurezza?”, (ottobre 2006);
  • “Uno dei nodi ancora da sciogliere nella lotta al terrorismo internazionale è la definizione stessa di terrorismo (…)”, (novembre 2006);
  • “Ora, non v’è dubbio che la costituzione delle unità investigative interforze costituisca un importante passo in avanti nell’azione di contrasto del terrorismo internazionale e che, ferma restando l’assoluta libertà del pubblico ministero di avvalersi di altre strutture di polizia giudiziaria nello svolgimento delle indagini, tali unità sapranno fornire un contributo particolare all’accertamento dei delitti più gravi di terrorismo. (…) Le unità antiterrorismo non hanno ancora visto la luce, mentre la pianta malefica del terrorismo internazionale cresce invece a vista d’occhio giorno dopo giorno. A quanto pare, si teme di provocare un accavallamento di competenze e una dispersione del patrimonio investigativo o, peggio ancora, una trasfusione sul piano giudiziario di attività che sono principalmente mirate alla polizia di sicurezza. Ma forse la ragione del ritardo è un’altra. Mancano le risorse finanziarie necessarie a rendere operativo il progetto, risorse che dovrebbero essere individuate e reperite da ministri degli Interni in quelle già disponibili, senza generare nuovi capitoli di spesa. Come al solito la coperta è troppo corta: in mancanza di nuovi fondi, se si copre una parte si rischia di scoprire l’altra (…)”, (gennaio 2007);
  • “L’esperienza accumulata in questi ultimi anni nella lotta al terrorismo dimostra che la comunicazione via internet costituisce uno dei mezzi più efficaci e meno controllabili per organizzare cellule terroristiche e fare proselitismo (…)”, (gennaio 2006);
  • “Mentre le esigenze di prevenzione e di repressione del terrorismo anche internazionale non possono assumere alcun rilievo relativamente al rispetto di alcuni diritti intangibili e assoluti, esse possono però giustificare l’adozione di misure restrittive incidenti sull’esercizio di altri diritti, purché siano soddisfatte le condizioni all’uopo previste dalle singole disposizioni che li tutelano (…)”, (luglio 2007);
  • “Insomma, è tempo di gettarsi dietro le spalle le due tragiche ideologie che hanno dominato il secolo scorso con il loro delirio totalitario. Quanto agli ex terroristi, è tempo che smettano di cercare tribune da cui esibirsi, fornire la loro versione dei fatti, tentare ancora subdole giustificazioni. Lo Stato democratico che intendevano abbattere si è mostrato fin troppo generoso nei loro confronti. Pur avendo il diritto di reinserirsi nella società dopo aver pagato i conti con la giustizia, devono farlo con discrezione e misura, senza mai dimenticare le proprie responsabilità morali che non sono meno importanti di quelle penali (…)”, (giugno 2008);
  • “Così come non dovrebbero dimenticare le proprie responsabilità morali anche coloro che hanno contribuito a teorizzazioni aberranti e a campagne di odio e di violenza da cui sono scaturite le peggiori azioni terroristiche, ovvero hanno offerto al terrorismo motivazioni, attenuanti, coperture e indulgenze fatali. Il riferimento ai «cattivi maestri» e ai tanti fiancheggiatori rimasti impuniti appare evidente (…)”, (giugno 2008);
  • “L’esigenza di combattere il terrorismo non fa venire meno il divieto di estradare o; di espellere lo straniero dal territorio dello Stato quando esistono seri e concreti motivi per ritenere che esso corra il rischio reale di essere sottoposto, nel Paese di destinazione, a tortura o a trattamenti inumani e degradanti (…)”, (settembre 2008);
  • “Configura il delitto di «atto di terrorismo», previsto e punito dall’articolo 280 bis del Codice penale, aggravato dalla finalità di eversione dell’ordine costituzionale, la collocazione di un ordigno micidiale sul davanzale di una finestra dell’ufficio elettorale del candidato alle elezioni per il rinnovo del Parlamento della Repubblica (…)”, (settembre 2010);
  • “Si va consolidando la tendenza a considerare il territorio europeo non più solo un riparo e una retrovia logistica, ma anche un teatro operativo e una base per pianificare iniziative da consumare altrove (…)”, (dicembre 2010);
  • “È, però, principio centrale del diritto internazionale dei diritti umani che esso debba tenere il passo con il mondo che cambia. Alcune delle più gravi violazioni dei diritti umani sono oggi commesse da o per conto di attori non statali che operano in situazioni di conflitto di un tipo o dell’altro, anche mediante reti terroristiche nazionali o internazionali. Di qui l’esigenza di adeguare la normativa alla realtà, riconoscendo le vittime degli atti di terrorismo come vittime di gravi violazioni di tale diritto (…)”, (ottobre 2012);
  • “Il prolungarsi della crisi economica aumenta i fattori di rischio sul fronte dell’eversione e del terrorismo (…)”, (maggio 2013);
  • “Non v’è dubbio che l’Isis, a differenza di altri gruppi terroristici che combattono in Iraq e in Siria, abbia un grande «appeal» tra i giovani stranieri, spesso occidentali (…)”, ottobre 2014.

Non solo il grande PM Marini. Anche un uomo di mondo, che amava l’Opera e le prime, le cene tra amici, perché no la mondanità sic et simplicter ma sempre e comunque colta, le presentazioni dei libri, gli incontri ad altro livello, i salotti di un certo tipo (frequentatore assiduo di quelli di Anna Maria Ciuffa, sempre in prima linea nel giro dei grandi invitati), le alleanze mentali, le rivelatrici disquisizioni su Italia ed internazionale con tutti, ma anche chiacchierate alla mano, contraddistinte da serietà, giocosità, buon umore, dolcezza, energia (insignito anche del Premio Simpatia 2015 nella Sala del Campidoglio). Sempre con la moglie Elisabetta, una coppia nota nel mondo romano ed italiano per intelligenza ed  affettuosità, classe, presenza (spesso ritratta sul Dagospia di Roberto D’Agostino).

Per me il Palazzaccio, la Corte dove mi riceveva e restavamo a parlare per lungo tempo al fluire del Tevere. Per me la promessa di portarmi al Carcere di Regina Coeli, che non conoscevo, sapendo che avevo esercitavo da psicologa in quello di Rebibbia. Per me, giurista e penalista, ma soprattutto grande costituzionalista, un esempio da seguire.

Andato in pensione solo nel 2015, ricevendo subito il Premio alla Carriera Giudiziaria e il Premio Colosseo D’oro. La nuova, più definitiva assenza di Antonio Marini lascia un vuoto invalicabile nel panorama intellettuale e culturale italiano e nella lista di coloro che possano essere consultati per “capire cosa fare”, soprattutto in un momento – quello odierno – in cui mancano combattenti tanto da non esserci nemmeno un voto, e così, con essi, le idee e l’onestà intellettuale, l’esperienza, il coraggio, l’animo. Viene meno un giudice, un uomo di legge, un lottatore, un sentimentale, un romantico, un cervello, un amico.

Solo un terrorista non è riuscito a sconfiggere, ma lo si ricorderà per quelli che ha fermato. In tutti i casi incluso l’ultimo, risolutivo, con una costante: senza paura. (Romina Ciuffa, il tuo direttore e la tua amica)

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“MEMENTO ROMI: NON VENDO REALTÀ MA SOLIDI SOGNI”. APRE LO STORE DI ROMINA CIUFFA

MEMENTOROMI – THE STORE
NON VENDO REALTÀ MA SOLIDI SOGNI

www.mementoromi.com

Apre lo STORE di ROMINA CIUFFA.

“MEMENTO ROMI” perché? Per non ricordare che “devi morire” (il latino “memento mori” dei Romani), ma per ricordare che ci sono io. A realizzare sogni, solidi. Inconsci, cognitivi. Senza dei quali non si è. Ossia: «Respice post te. Hominem te memento»: guarda dietro di te, ricordati che sei umano. Ed aggiungo: sogna, avvera.

Spiegazione razionale: per istinto di autoconservazione e per gestire le centinaia di richieste su ogni mia attività, che ricevo ogni giorno, alias per dare a chi mi segue l’attenzione che merita ed un canale specifico, ho creato MEMENTO ROMI, visitabile da ora su www.mementoromi.com. Attraverso di esso, saranno acquistabili e gestibili moltissimi prodotti.

Aprono il negozio queste collezioni:

  • WRITING ON DEMAND (per chi voglia scrivere una storia, un’autobiografia, un racconto che ha in mente, una poesia, un libro di settore, una tesi, e per ogni altro caso di scrittura in ogni genere letterario; e ancora servizi giornalistici, articoli ed interviste, ghostwriting)
  • MUSIC ON DEMAND (canzoni e musica scritte appositamente sulle vostre storie, se richiesto anche arrangiate e prodotte);
  • FLY ON DEMAND (voli in elicottero ed aereo, autogiro, acrobatici, droni, scuola);
  • REAL ESTATE (affitto di location esclusive, opzioni di bed&breakfast, eventi);
  • PUBBLICAZIONI (la mia casa editrice, i moltissimi libri che abbiamo pubblicato in 40 anni, le collezioni o gli arretrati delle nostre riviste, i libri firmati da me usciti con altre case editrici, ogni pubblicazione che riterrò meritevole anche… di pubblicare);
  • VIDEOCHANNEL (un canale con solo alcuni dei miei troppi servizi divisi settorialmente, e la possibilità di chiedere un servizio videogiornalistico per i vostri eventi e qualsivoglia interesse).

Con tali prodotti e collezioni si parte solo, ma IL SITO È IN CONTINUO AGGIORNAMENTO e saranno, con la forza dei giganti, introdotti prodotti su prodotti di ogni tipo. Consiglio iscrizione alla mailing list (NO SPAM), anche per ricevere il primo regalo di sconto-benvenuto. Al momento, molti prodotti sono in saldi, con buoni a scadenza discrezionale. D’ora in poi, accetterò solo comunicazioni per tali servizi tramite quel canale, dunque non più mail su Facebook e telefonate mentre mangio con suppliche di pubblicazione, od il classico “fammi volare ti prego”.

C’è tutto, e ci sarà talmente tanto di più da far impazzire gli eclettici. Questo è solo il primo annuncio generico. Ringrazio sinceramente chi, tormentandomi per anni con richieste, per me sinonimo di apprezzamento, mi ha dato la forza di impegnarmi di più, fino a questo.

Rammento solo una cosa: MEMENTO ROMI. Perché io non vendo realtà, ma solidi sogni.

Romina Ciuffa

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NON VENDO REALTÀ MA SOLIDI SOGNI
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CASO WEINSTEIN: DALLA CONSIDERAZIONE DELLA DONNA ALLA «consiDESIDERIzzazione»

Parlo da uomo a uomo e non mi nascondo: sono più maschilista che femminista. Oltre a ciò, sono sempre stata dichiaratamente darwiniana, e con ciò intendo sollecitare riflessioni sulla natura umana: animale. Dotato di maggiore intelletto l’essere umano (forse), pur sempre un predatore il maschio. Ma, poiché tutta la vicenda Harvey Weinstein (rinvio ai giornali in cerca di click per comprendere la polemica scatenata dall’attrice Asia Argento) ha sollevato un polverone contro il sesso maschile, mi permetto di concentrarmi sull’altro punto di vista non molto considerato, quello dell’uomo, a partire da un tweet dell’attore Alec Baldwin in risposta alla stessa Argento (dopo, si sono reciprocamente bloccati su Twitter, rendon noto i media più educativi): «I casi sono due: se dipingi tutti gli uomini con lo stesso colore, o finisci il colore o finisci gli uomini».

Anzi, parto da un attimo prima, il momento in cui io stessa dico: quanto piace alle donne essere oggetto di considerazione? La definirei, coniando, una «considesiderizzazione», invero. Da che mondo è mondo, la donna fino ad una certa età ha un fare scocciato in reazione alle «molestie» subite da passanti che le sussurrano (o gridano) commenti eleganti o impropri sulle sue bellezze; dopo quella certa età, i commenti tendono a diminuire (in proporzione seni e labbra tendono ad aumentare a suon di chirurgia, per ristabilire l’equilibrio dalla natura violato). Non mi sono mai sentita infastidita da tali complimenti, in qualunque modo mi fossero espressi, tutt’altro: li ho sempre ritenuti – commenti e tentativi più sfrontati – sintomo di un’umanità che, fortunatamente, resta stabile nel suo divenire riproduttivo, istintivo. La considero non una questione «maschile», bensì educativa, scolastica, didattica, formativa, culturale. Avrei dovuto, dovrei, denunciarli tutti?

Parrebbe di sì, ora che so che la modella italo-filippina Ambra Battilana Gutierrez (anche testimone antiberlusconiana nel Ruby bis) ha guadagnato un milione di dollari a seguito di un accordo firmato con Weinstein, sebbene con esitazione e la motivazione che «con quei soldi avrei potuto aiutare mia madre e dare un futuro a mio fratello». Dichiarare questo le fa onore? «Armiamoci e partite». Resto cieca senza capire perché, se tanto molestata ed affranta, non abbia sporto denuncia, piuttosto abbia compensato l’amor proprio con una somma di denaro, quantificandosi. E cieca sono nei confronti di Asia Argento, che parla di maiali nonostante il padre abbia firmato il film «Phenomena» (non dovrebbe impressionarsi più di tanto) ma oggi si sveglia patrocinante di una class action con un mandato tacito firmato da tutte le donne del mondo che «hanno subito molestie» senza dichiararle nella sede ad uopo adibita.

Quando è accaduto a me, un no secco, anche educato, ai «big», ha fermato il mio conto in banca a un livello meritocratico. Avevo già la garanzia di un bestseller, cui mi opposi declinando l’offerta sinallagmatica del mio proponente di turno. Il quale non mi offese, né mi offende, tutt’altro: mi spinse a dimostrare quanto valessi a prescindere da quanto piacessi, e sulla mia autostima ciò ha avuto un effetto dirompente, quello di sentirmi più bella, in quanto desiderata, ma principalmente quello di scrivere meglio oggettivamente. Migliorarmi per migliorare l’intero sistema. Fare.

Per me una ballerina usa la testa prima dei piedi, un’attrice la capacità prima della recitazione. La verità è che le donne vogliono essere corteggiate, provocare, avere posizioni di prestigio «a costo di» sedurre. Per chiunque mastichi il Codice penale, la locuzione «a costo di» è sinonimo di una declinazione dell’elemento soggettivo del reato: il dolo eventuale. Meglio detto: l’agente (in questo caso la seduttrice) non vorrebbe commettere l’azione, ma al fine di ottenere lo scopo primario accetta anche le conseguenze eventuali di una condotta (in questo caso, la seduzione). L’esempio da manuale è la corsa in automobile su una strada trafficata: non c’è dolo diretto di uccidere ma è molto probabile che, in certe circostanze, possa provocarsi un incidente. È escluso qui il dolo volontario, in quanto l’agente non «vuole» in cuor suo che esso accada, ma non si è nemmeno nell’ambito della colpa; tanto che il penalista parla di «colpa cosciente» per indicare il caso sottostante in cui colui che agisce si rappresenta e prevede il risultato offensivo e, tuttavia, erroneamente ritiene con certezza che detto risultato non si verificherà nonostante la condotta. Siamo ad un passo dalla responsabilità oggettiva che la nostra Costituzione nel suo art. 27 esclude, affermando senza giri di parole che la responsabilità penale è personale; e che il delitto preterintenzionale (oltre l’intenzione) fa rientrare dalla finestra del Codice penale.

Ritengo che, in molti degli improvvisi casi segnalati dalle «attricette» e dalle altre professioniste (alcune delle quali presenti ad Arcore o in altri luoghi simili in cui si pratica bunga-bunga), la vittima possa assumere un ruolo attivo, e oscilli tra colpa cosciente e dolo eventuale. Gli artt. 609bis e seguenti del nostro Codice penale proteggono la libertà sessuale e il diritto di esplicare liberamente le proprie inclinazioni personali, impedendo altresì che il corpo possa essere senza consenso utilizzato da altri ai fini di soddisfacimento erotico. Le violenze vanno distinte dalle molestie dell’art. 660, che richiedono una petulanza (ed escludono il reato continuato per definizione) od altro biasimevole motivo negli atti di disturbo (spesso integrati nel mobbing). È qui impossibile non chiamare in causa la famosa «sentenza dei jeans», la quale però ha tutt’altro «sex-appeal». Infatti, in essa si parlava di stupro decontestualizzato, disfunzionale.

Asia Argento e Harvey Weinstein al Festival di Cannes (2004)

Ciò di cui parla Asia Argento (con le dichiarazioni sulle molestie subite dal produttore 20 anni fa) è (nel codice italiano almeno, e cercando di valutare la situazione in termini generali dal punto di vista del nostro ordinamento) l’abuso di autorità, che la legge n. 66 del 15 febbraio 1996 inserisce accanto alla violenza e alla minaccia a scopo sessuale. Fossi il giudice, chiederei all’accusa di definire il concetto di autorità: è tale quella di colui che sceglie chi parteciperà o meno alla produzione di un film multimilionario? Non entro nel merito del caso Weinstein, non ero presente quelle centinaia di volte che il grande seduttore ha violentato le sue inconsapevoli e sorprese vittime durante un provino, un colloquio, una cena; né lo ero negli altri innumerevoli casi di star oggi accusate dello stesso crimine (e non faccio a meno di tener presente il film «Rivelazioni», in cui le molestie sono commesse, in mobbing, da una donna – l’attrice Demi Moore – ai danni di un suo dipendente di sesso maschile – l’attore Michael Douglas -).

“Rivelazioni”, con Demi Moore e Michael Douglas

Distinguo tra stupri, molestie, violenze e abusi generici, da una parte, e sistemi che si sono sempre nutriti di tale consuetudine, dall’altra. I primi sono coperti a tutti gli effetti dalla fattispecie penale; i secondi entro certi limiti. E invito a esporre denuncia, strumento funzionale al perseguimento del criminale, non dei propri scopi, il quale va utilizzato in giudizio, non a mezzo stampa. In quest’ultimo caso, come dalla fattispecie di abuso sono stati tratti vantaggi dalla vittima, così similmente dall’impiego dei media: l’ottenimento di una copertina, di un titolo, di una presenza nel talk show, magari una parte in un film. Sicuramente un posto di rilievo dal parrucchiere.

L’uomo è predatore, ma – se è l’uguaglianza di genere che sosteniamo – la donna non è preda. Usa le armi della seduzione e, ove non lo faccia, non è vittima inerme di un sistema patriarcale. Non più. Ha posti di rilievo in politica, in azienda, nel cinema, ovunque voglia; sa tenere testa a un uomo. Quando, per forza fisica, non vi riesca, è stupro. Quando, per forza intellettuale, non vi riesca, è stupida. O fin troppo intelligente. Ed ora basta chiacchierare: tutte a lavorare. (ROMINA CIUFFA)

 




CATALUNYA VS SPAGNA: NE FACCIO UNA QUESTIONE EDIPICA E NEUROLINGUISTICA

Trovo che la Catalunya sia come un adolescente che, in piena febbre di crescenza, è in freudiana lotta con il padre. E che Madrid sia un classico padre, protettivo ed egoista, nel contempo amorevole, che non vuole dare al proprio figlio l’indipendenza di cui questi ha bisogno per crescere. Come in ogni conflitto intrafamiliare, entrambi hanno ragione: il primo, perché anela a un’indipendenza che gli spetta, voglioso che gli vengano ricosciuti l’individuale esistenza nel mondo, i talenti e le capacità; il secondo, perché come i padri è geloso della dipartita e interessato alla permanenza.

E uno schiaffo dal padre, uno schiaffo da Madrid a Barcellona, è ammesso dall’art. 154 del codice civile spagnolo che, modificato e «intenerito» dalla legge n. 54 del 2007, conferisce ai genitori la facoltà di esercitare la patria potestà impiegando un tratto autoritario in combinato disposto con il successivo art. 155, il cui oggetto è un dovere di obbedienza del minore «a sus padres». Purché non si sconfini nel reato di lesioni dell’art. 147 del codice penale, non giustificate dallo ius corrigendi attribuito al genitore a soli fini educativi, né nel secondo comma dell’art. 173, che fa riferimento all’abitualità di un condotta domestica degradante, fisica o psichica. Per la dottrina, la sberla è ok. Reiterata o violenta, o senza fini di educazione, no.

La Spagna ha il «diritto di correggere», a suon di sberle, la Catalunya?
La domanda pregiudiziale è: che tipo di relazione c’è tra Madrid e Barcellona? La Catalunya è figlia della Spagna?

È una questione storica: l’attuale Catalogna, nel Paleolitico medio pertinenza di greci e cartaginesi, poi parte dell’Impero Romano, quindi insediata dai Visigoti, è conquistata dai Mori e chiamata al-Andalus, organizzata in regni e contee che parlano catalano, aragonese, basco, castigliano-leonese e galiziano, infine inglobata nell’Impero carolingio con buona pace dell’indipendenza. I limiti territoriali del Principato dei «cathalani» vengono definiti solo con il passaggio, sotto la casata di Barcellona, alla Corona d’Aragona. La conquista delle Baleari e di Valenzia, quindi di Sicilia, Sardegna (ad Alghero tuttora si parla catalano) e Napoli, e il passaggio alla Corona di Spagna per unione dinastica, danno respiro ai catalani fino all’avvento della dinastia dei Borboni. È del 1640 la ribellione popolare contro i soldati mercenari nelle case dei contadini catalani prossime alla frontiera. La Repubblica catalana, autodichiarata sotto protezione francese, con la conquista di Barcellona del 1652 perde Stato, istituzioni, leggi e capacità di decisione politica. Nel 1716 il quartiere barcellonese del Born è distrutto e vi viene costruita una fortezza militare.

Con la dittatura del generale Franco – aiutato da Hitler e Mussolini – e la guerra civile, è il tempo di una brutale repressione politica (i bombardamenti aerei su Barcellona sono effettuati dall’Aviazione legionaria italiana con il supporto della Legione Condor tedesca dal 16 al 18 marzo 1938, un bilancio di oltre mille morti e 2 mila feriti). La lingua catalana viene vietata. Il presidente Lluís Companys nel 1940 è fucilato nel castello di Montjuïch. Dopo Franco, nel 1977 è ristabilita la Generalitat con Josep Tarradellas. Il catalano in questi anni è introdotto nelle scuole. Nel 2006 è approvato uno Statuto per via referendaria, ma la Corte Costituzionale ne dichiara l’inefficacia giuridica e nega la definizione della Catalogna come nazione.

Dal 2011 il Partido Popular di Mariano Rajoy governa la Spagna. Il primo ottobre 2017 la Catalunya va al voto referendario senza il consenso del padre, che considera il referendum anticostituzionale e sequestra le urne, taglia i collegamenti ad internet, invia polizia non pacifica, fa «prigionieri» politici. Ma i catalani, quasi tutti, dicono «ens n’anem», andiamo via dalla Spagna. Il «president» Carles Puigdemont chiede un margine di dialogo e negoziazione; Rajoy vuole chiarezza: avete o no dichiarato l’indipendenza?

Ora risponderei alla mia domanda: i catalani sono figli di Madrid, ma d’adozione, e riconosciuti. In quanto tali a loro si applica la norma che non consente al padre di schiaffeggiare oltre una certa misura (educativa) il figlio. Guerre civili e metodi impositivi non sono schiaffi di ius corrigendi ma uso abnorme.

I catalani parlano una lingua propria, che non è un dialetto. Che differenza c’è? Presto detto: la lingua è un dialetto con un Esercito ed una Marina (Max Weinreich). Ossia, il dialetto è la variante di una lingua, una specificità; come tale, si riconosce all’interno di essa. La lingua riflette, invece, l’anima del parlante, distinta dalle anime altrui intese come confluenza di elementi storici, culturali, caratteriali, territoriali, archivio dell’esperienza di un popolo. Il «català», nelle sue varianti locali, distingue il proprio parlante dagli altri anche in funzione dell’influenza psicologica che la costruzione, il modello motorio collegato alla riproduzione vocale e alla scrittura, i cambiamenti strutturali nelle regioni del cervello, la mappatura cognitiva, sviluppano nell’essere umano. La differente reazione neuronale dipende dal fatto che l’apprendimento di una lingua come nativa avviene contemporaneamente all’acquisizione delle conoscenze concettuali e delle esperienze corporee e sensoriali. Un esempio su tutti: per lo psicologo David Meyers i tedeschi, ritenuti privi di humour, sarebbero tali in quanto, nel pronunciare le vocali con la dieresi, inclinano verso il basso le labbra assumendo un’espressione triste, e l’uso che il cervello associa alla tristezza influenza negativamente l’umore.

Caratterizzata da una forma interna che esprime la concezione del mondo della nazione che la parla (Wilhelm von Humboldt), la lingua è «manifestazione fenomenica dello spirito dei popoli: la loro lingua è il loro spirito e il loro spirito è la loro lingua». I catalani non solo si sentono diversi, essi sono diversi. È nella forza spirituale delle nazioni l’effettivo principio esplicativo e la vera causa che determina la diversità delle lingue. Una base, questa, per il principio di autodeterminazione dei popoli interna ed esterna: il diritto di scegliere il proprio sistema di governo e di essere liberi da ogni dominazione esterna. Per il diritto costituzionale canadese (nel caso della secessione del Quebec) ed il diritto internazionale, il principio si applica solo in tre situazioni: ai popoli soggetti a dominio coloniale, ai popoli il cui territorio è occupato da uno Stato straniero, ai gruppi minoritari che all’interno di uno Stato sovrano si vedano rifiutare un accesso effettivo all’esercizio del potere di governo. È questo il caso della Catalunya?

Ho vissuto molti anni a Barcellona. Ho parlato fluentemente il catalano, più del castigliano che conosco come un madrelingua. La madre edipica. Ciò mi ha permesso di avere una visione completa della Spagna, in quanto ho utilizzato le strutture neurolinguistiche del primo e del secondo sistema. Sono sì consapevole che gli interessi politici ed economici entrano in gioco nelle richieste del presidente catalano Carles Puigdemont alla Spagna di Rajoy; sono sì consapevole del fatto che l’Europa tende, pericolosamente, verso una disgregazione. Ma ciò avviene non solo o non tanto per questioni di moneta, prosperità e comando, bensì spirituali: l’adolescente, se non muore, prima o poi compirà 18 anni. A quel punto, il padre non sarà più soggetto alla paghetta e all’educazione, nel contempo non riceverà una percentuale sui guadagni del figlio.

A meno che non vadano d’amore e d’accordo. E così, il primo potrà essere accudito in futuro da un discendente capace e affettuoso, il secondo riceverà un’eredità che lo riporterà nella casa paterna. E il Natale si farà insieme. La Pasqua, però, con chi vuoi. (Romina Ciuffa)

Romina Ciuffa, Formentera (giugno 2017)

BARCELLONA. LA MIA GALLERIA

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ALIMENTAZIONE 2.0: GALLINA CHE NON BECCA HA GIÀ BECCATO

All’inizio era il darwinianesimo. Processi di selezione naturale basati sulla meritocrazia non solo di un vivente, ma delle sue stesse parti corporali: la coda serviva – restava. Non serviva, via. Così le abilità. Si può dire che Darwin fosse un meritocratico, sebbene avesse ricevuto una raccomandazione, quella del naturalista John Stevens Henslow, per salire a bordo del Beagle, brigantino britannico in partenza per una spedizione di ricognizione scientifica intorno al mondo, in qualità di naturalista non stipendiato, e sebbene la sua ipotesi, esposta per la prima volta nel 1858, fu presentata contemporaneamente da Alfred Russel Wallace, che era giunto indipendentemente alle medesime conclusioni.

Corrette o meno, o correggibili, le teorie della selezione naturale sono utili a rispondere a chi vuole convincere il mondo – a prescindere da qualsivoglia cultura, antropologia, credo, dunque bandendo il relativismo in favore di un’assolutismo ideologico – a non mangiare carne. Esse sono basate, infatti, sull’assunto di una specie più forte all’interno di un ecosistema perfettamente autonomo. Homo homini lupus, d’altronde. Oggi la carne fa male, le tossine che sprigiona l’animale, mentre muore soffrendo, sono quanto di peggio si possa ingerire. Non è sbagliato ma, per quanto ciò sia vero, si scontra con l’eccesso. Le nonne dicevano: «Allora non è vera fame», quando si chiedeva da mangiare insistentemente e poi non si gradiva il brodino, la carne. Non è vera fame, no. Si voleva il gelato, diciamolo.

Ed eccoli qui, i nuovi affamati: onnivori (i polifagi), locavori (mangiano cibi prodotti nel raggio di un centinaio di chilometri dal luogo del pasto), ecotariani (scelgono cibo la cui sparizione causi un impatto minore sull’ecosistema), macrobiotici (no carne), vegetariani (no carne, no pesce), flexitariani (vegetariani che mangiano solo a volte carne e pesce), vegani (no ai cibi di origine animale, come latticini, miele e uova), freegan (che rifiutano in blocco la società consumistica, non comprano nulla, recuperano gli scarti anche dai bidoni, si nutrono pure di carcasse di animali morti trovate per strada), crudisti (amano cibi crudi di cui non sia superata una certa temperatura per mantenerne le proprietà di attivazione enzimatiche), fruttaliani (solo frutta e verdura), fruttaliani crudisti (escludono frutta e verdura cotte), fruttariani (solo frutta cruda, meglio se dolce), fruttariani simbiotici (solo frutta cruda e mangiata dagli alberi curati in proprio), via via verso il trionfo della concezione biocentrico-igienista.

Nonne, non abbiamo finito. È un melodramma quello dei melariani, per i quali le piante soffrono, tutte tranne i meli: le mele si donano all’uomo con piacere, i melariani lo sanno. Una mela al giorno leva il medico di torno (se il medico mangia solo mela, un peccato originale). Più avanti ci sono i respiriani: loro respirano. Vivono di sola luce. Assorbono prana (energia vitale, spirito) dal naso. Possono concedersi di ingoiare qualcosa solo se ciò non li fa sentire in colpa, «perché stiamo mangiando per gusto, perché ci piace e non per necessità», spiega una di loro in un’intervista. Aggiungendo: «I cambiamenti fisici più rilevanti sono stati la crescita costante di energia e luminosità e la scomparsa del bisogno di defecare. A un livello di pulizia totale si smette anche di urinare, rimettendo i liquidi in circolo e attivando un processo autotrofo». Alcuni riescono a non dormire, a diventare immortali, assicura la respiriana. Oltre, ci sono i raeliani, che meriteranno la reincarnazione scientifica e vivranno per sempre sul pianeta degli Elohim, dove il cibo sarà portato loro senza dover fare il minimo sforzo.

Dopo, ci sono solo i morti.

L’estremizzazione è una componente essenziale della media. Bukowski scriveva: «Non mi fido delle statistiche: un uomo con la testa nel forno e i piedi nel congelatore ha una temperatura media». Così è garantito un livello di maturità e intelligenza al centro, che solleva dall’idea di dover scegliere per forza tra il congelatore ed il forno. Ma si stava meglio quando si stava peggio. Prima non era un problema mangiare; oggi l’attenzione cade sul cibo al punto tale da essersi sviluppati in senso più ampio disturbi alimentari di forte gravità. L’aver posato lo sguardo su di essi li ha fatti emergere, e così avanti l’anoressia, avanti la bulimia, il «binge eating», la pica etc. Che, infine, sono ricollegati all’accudimento materno. E si torna alla madre, comunque: l’alimentazione inizia con la suzione, non con il respiro. Il latte materno proviene da un animale, facente parte della catena alimentare, ma oggi si dice: il latte è la cosa più pericolosa che c’è. Seno buono e seno cattivo, li chiamava Melanie Klein, l’assenza di integrazione dei quali condurrebbe, nello sviluppo evolutivo umano, alla formazione della posizione schizo-paranoide, utilizzata come difesa. Per l’appunto.

Cosa è accaduto, cosa ha portato a vivere di sola aria? A far credere che l’astensione dal cibo sia l’alimentazione corretta? A nutrirsi con il naso, non con la bocca? Nell’epoca degli «apericena» poi. La disperazione individuale, la distruzione planetaria, due facce della stessa medaglia; la psicosi come malessere. L’oncologo Umberto Veronesi, scomparso di recente, direttore dell’Istituto europeo di Oncologia, ha studiato la relazione tra cibo e cancro elaborando una dieta per la prevenzione dei tumori, incentrata su un consumo più coscienzioso dei diversi alimenti; una dieta non lontana da quella mediterranea, vicina a quella vegetariana ma con correttivi. Ma la dieta migliore è la coerenza.

Esagerare nella scelta di un regime alimentare e renderlo ideologia conduce a disturbi mentali, ossessioni, fissazioni, carenze. Una convinzione – di qualunque tipo essa sia – può modificare gli schemi neuronali del cervello, a livello individuale e collettivo, al punto da generare un effetto Pigmalione, la «profezia autoavverantesi» di Robert K. Merton, il quale con William Thomas sosteneva che «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Anche definito effetto Rosenthal, il postulato sottolinea come una previsione possa realizzarsi per il solo fatto di essere stata espressa. Così una corretta disciplina nell’alimentazione supporta fisico e mente; un’eccessiva disciplina li distrugge, e pone in circolo premesse che condurranno all’adempimento della predizione che le ha generate. Accenderemmo un fuoco sapendo che il tronco dell’albero ne soffre? Come potremmo riscaldarci? Oggi, con l’energia solare. Ma poi, dove sedersi, su quali sedie? Per terra. «Per terra» acquisisce un significato talmente pregnante, a questo punto del ragionamento, da poter citare un altro gruppo, quello degli scalzisti o «barefooters», che vanno sempre in giro scalzi. E siamo noi a doverci fare il callo.

Si dice anche: “Gallina che non becca ha già beccato”. Si fa riferimento al fatto che si ha già la pancia piena. Ed, in un certo senso, è così: la reificazione della metafora conduce a dire che sì, si ha la pancia piena, di troppe cose. Abbiamo tutto. Non c’è più pane e patate, altro che guerra. Non c’è più l’istinto di sopravvivenza, è tutto a portata di mano, il grano è nel pollaio e non lo becchiamo. Galline restiamo.

Quella di oggi è vera fame? Nell’epoca del consumismo più sfrenato, dei click, dell’abuso, si può rispondere: no, non è vera fame. Tale nonna, ancora viva, non può più fare il ragù ai nipoti, non può sbattere un uovo per lo zabaione o la sua crema, le è inibito spadellare. Oltre a doversi abituare, con rassegnazione anziana, ad un mondo che svanisce, che lei non aveva distrutto ma che i suoi figli hanno massacrato senza esitare, ora non può che preparare, per il pranzo di Natale, un buon prana, e sapere che, nell’esalare l’ultimo respiro, almeno per quella volta ancora potrà tornare a dare da mangiare ai nipoti. Basterà per tutta la famiglia?   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – luglio/agosto 2017




LA LINGUA STA CAMBIANDO E IL DINOSAURO È PRONTO

In un episodio della lungimirante serie televisiva americana «Ai confini della realtà» degli anni 60 (“Wordplay”, in italiano tradotto “Parole in libertà”), scritto da Rockne S. O’Bannon, si racconta la storia di Bill Lowery, oppresso dal proprio lavoro di venditore che lo obbliga ad apprendere in brevissimo tempo un intero catalogo di materiale medico e relativi termini e nomi difficilissimi. La pressione è così elevata che d’un tratto si trova circondato da un mondo che parla un linguaggio fatto di termini sconnessi tra loro che solo lui sembra non capire. Isolato cercherà il coraggio per continuare a vivere e rientrare in sintonia con il mondo che lo ha isolato. A lui, che non riconosce più i significati delle parole – le stesse ma con altro senso (dinosauro è divenuto pranzo, enciclopedia al posto di cane, patrigno invece di cintura di sicurezza, mentre cena diventa un colore) – non resta altro che adeguarsi. Così, dopo essersi opposto arduamente al cambiamento assurdo e insensato del sistema linguistico, deve cedere: prende l’abbecedario del figlio e, sfogliandolo, si mette a studiare i termini nuovi, aderendo alla schizofrenia collettiva pur di poter comunicare.

La lingua sta cambiando e il dinosauro è pronto. È colpa nostra. Anche i giornalisti hanno perso bravura e cultura. Fanno errori grossolani, refusi. Sbagliano gli accenti, confondendoli tra gravi e acuti o passandoli per apostrofi. Non conoscono l’italiano, non lo rispettano, non lo amano, lo ripudiano, scrivono sempre più in inglese mutuando termini al punto da creare una nuova lingua: sbagliata. Non sanno come si dice una certa parola in italiano per averla dimenticata o non averla mai saputa, né creata (tanto che un bambino ha scritto «petaloso» e, piuttosto che correggerlo, ne è partita una operazione di marketing). Provo una forte empatia – prima che odio – verso costoro, che sono obbligati a scrivere nelle pagine web dei loro giornali articoletti per ottenere visualizzazioni, non letture, «mi piace», non apprezzamenti: click rubati all’agricoltura. Che non hanno mai tenuto in mano una penna e sono scettici sull’esistenza del callo.

Non sanno nemmeno chi fosse il piccolo scrivano fiorentino, una educazione che partiva da casa, intenzionale, forte, severa; assai lontana da quella attuale, che vede il genitore come alleato del figlio in una guerra contro gli insegnanti o, aut aut, come il suo aguzzino.
«Suo padre lo amava ed era assai, ed era buono e indulgente con lui: indulgente in tutto fuorché in quello che toccava la scuola: in questo pretendeva molto e si mostrava severo perché il figliuolo doveva mettersi in grado di ottener presto un impiego per aiutar la famiglia; e per valer presto qualche cosa li bisognava faticar molto in poco tempo. E benché il ragazzo studiasse, il padre lo esortava sempre a studiare». Sistema valoriale inesorabile, integro, nessun riferimento a sfruttamento minorile, abusi domestici, violenza privata, vacanze senza compiti et altera, quel bla bla bla che riflette un nuovo mondo, arrogante, atto a definire lo spazio di potere di un soggetto ancora educando, vergine, giovane, immaturo, irresponsabile. Là dove «immaturità» e «irresponsabilità» sono termini positivi che caratterizzano e descrivono un’età, e costituiscono il substrato affinché trovino giustificazione i comportamenti, anche punitivi, degli adulti. Lo schiaffo della nonna non è mai stato oggetto di denuncia in sede penale, lo schiaffo della nonna è educazione intrinseca, senza se e senza ma.

Quel padre aveva preso da una casa editrice un incarico che lo stancava, e se ne lagnava spesso. «Babbo, fammi lavorare in vece tua; tu sai che scrivo come te, tale e quale», disse Giulio. Ma il padre gli rispose: «No figliuolo; tu devi studiare; la tua scuola è una cosa molto più importante delle mie fasce; avrei rimorsi di rubarti un’ora; ti ringrazio, ma non voglio, e non parlarmene più». Studiare: ecco la parola chiave. La radice dell’albero che darà frutti, il senso dell’apprendimento, la tensione verso il sapere. Nessuna lite con gli insegnanti, coalizzati con i genitori in un progetto di crescita della società civile. Oggi disimpariamo le lezioni, aggrediamo, ci poniamo contro il sistema tout court e dimentichiamo il buon senso: se non insegniamo ai figli a vivere (il che non significa essere vegani, combattere le multinazionali, pretendere azioni positive, bensì mangiare ciò che c’è, cambiare le multinazionali, compiere azioni positive), come possiamo aspettarci che essi avranno un mondo migliore?

Ecco cosa fece Giulio. Una notte si sedette alla scrivania del padre a lavorare di nascosto al posto suo, rifacendo appuntino la scrittura del padre, per moltissime notti. L’insegnamento parte dall’osservazione nel sistema di attaccamento: il bambino osserva, copia, quindi emula, infine agisce dal profondo con indipendenza e lucidità. Il giorno seguente il padre sedette a tavola di buon umore, non s’era accorto di nulla. Giulio, contento, muto, diceva tra sé: «Povero babbo, oltre al guadagno, io gli dò ancora questa soddisfazione, di credersi ringiovanito. Ebbene, coraggio».

Ma intanto si ammalò, le sue prestazioni a scuola peggioravano, e il padre gli disse: «Giulio, tu mi ciurli nel manico, tu non sei più quel d’una volta. Non mi va questo. Bada, tutte le speranze della famiglia riposano su di te. Io son malcontento, capisci!», e in seguito andò a chiedere informazioni al maestro. «Sì, fa, fa, perché ha intelligenza. Ma non ha più la voglia di prima. Sonnecchia, sbadiglia, è distratto. Fa delle composizioni corte, buttate giù in fretta, in cattivo carattere. Oh! potrebbe far molto, ma molto di più». Il sistema famiglia si affianca al sistema scuola senza sovvertirlo: il padre prese il ragazzo in disparte «e gli disse parole più gravi di quante ei ne avesse mai intese. – Giulio, tu vedi ch’io lavoro, ch’io mi logoro la vita per la famiglia. Tu non mi assecondi. Tu non hai cuore per me, né per i tuoi fratelli, né per tua madre!». Ma costei, vedendolo più malandato e più smorto del solito, si allarmò: «Giulio è malato. Guarda com’è pallido! Giulio mio, cosa ti senti?». «È la cattiva coscienza che fa la cattiva salute», conclamava il padre. «Non me ne importa più!», aggiunse. Fu una coltellata al cuore per il povero ragazzo. Suo padre che tremava, una volta, solamente a sentirlo tossire! E il piccolo scrivano fiorentino si ammalò ancora di più. Ma scriveva, scriveva.

Finché una notte suo padre era dietro di lui, «e in un momento aveva tutto indovinato, tutto ricordato, tutto compreso, e un pentimento disperato, una tenerezza immensa, gli aveva invaso l’anima, e lo teneva inchiodato, soffocato là, dietro al suo bimbo». Che gridò: «O babbo! babbo, perdonami! perdonami!». Rispose il padre: «Tu, perdonami! Ho capito tutto, so tutto, son io, son io che ti domando perdono, santa creatura mia, vieni, vieni con me!». E Giulio disse: «Grazie, babbo, grazie; ma va a letto tu ora; io sono contento; va a letto, babbo».

Edmondo De Amicis, prima soldato, poi giornalista e scrittore. Pagine intense, corrette, fluide, commoventi. Testi e insegnamenti senza arroganza quelli presentati nel libro «Cuore», più che un romanzo un Trattato di didattica della didattica, un Manuale dell’educazione senza tempo. Dell’ignoranza attuale hanno colpa la deresponsabilizzazione, internet, i genitori, il populismo, la globalizzazione, il veganesimo, i nuovi hippies, il T9, la nuova democrazia, click, post, tweet: niente di ciò è presente in De Amicis.

Il mondo è cambiato e c’è chi vi si adegua consolidandone il peggioramento. Io no. E dal canto mio sottolineo: c’è un doppio spazio anche nei sottotitoli di chiusura del telegiornale Rai, e se lo guardo, poi non riesco a chiuder occhio.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – giugno 2017




HA LA MENTE DI DONALD MA TUTTO IL RESTO FA DA SÉ

Chi ha paura di Donald Trump? Da italiana, mi dà un non so che di certezze, come guidasse un robot di quei manga giapponesi, che a noi bambini dava sicurezze a prescindere da chi fosse l’umano che lo pilotasse: Mazinga, ad esempio, condotto da Tetsuya, ragazzo insicuro, dal carattere inquieto e solitario, una personalità difficile minata da un complesso di inferiorità derivantegli dall’essere orfano e dall’esigere dagli altri la stessa preparazione maniacale a cui lo aveva abituato il dottor Kabuto, costruttore del robot. Ma Mazinga era un porto franco di certezze e di vittorie, le paure erano solo umane, dunque giuste.

Un robot è necessario per ripristinare l’ordine. Ma che ci sia un uomo, dentro. Non temo Trump, temo la guerra. E temo per la salute degli americani, non solo quella psicologica. La cura Obama è stata un’esperienza di democrazia e respiro, soprattutto per i più ceti più bassi, ma non poteva durare a lungo, subito spazzata via da una «Trumpcare» che non piace nemmeno ai rappresentanti (la Camera statunitense ha approvato la riforma con 217 voti a favore e 213 contrari dopo averla sospesa per mancanza di voti, prima sconfitta del nuovo presidente, ed ora il Senato si prepara per una strada in salita di emendamenti ed accordi «aum-aum»). Sarà costosa principalmente per i contraenti che presentano già una malattia e per coloro che, in nome del diritto di scegliere se assicurarsi, andranno impavidi verso l’alea della libertà sanitaria. Fondi federali, gli «high-risk pools», per i malati gravi, manterranno bassi i costi delle assicurazioni della fascia media della popolazione (che Obama aveva contribuito ad alzare a favore della classi più povere) prestandosi al rischio di lunghi periodi di attesa per i pazienti prima che le spese sanitarie siano pagate dallo Stato.

Intanto, procedono i lavori di costruzione del muro di Trump, 3.220 chilometri di confinamento e 9 metri di altezza, dove gli operai lavorano con giubbotti antiproiettile e solo una piccola parte di circa mezzo milione di imprese edili di proprietà ispanica ha preso in considerazione l’appalto; se lo ha fatto, è stato (si giustificano) perché il lavoro è lavoro. Secondo la National Autonomous University of Mexico, inoltre, la costruzione del muro metterebbe a repentaglio la vita di 800 specie animali autoctone, 180 delle quali già a serio rischio di estinzione. L’Italia sta a guardare indignata, ma la situazione, mutatis mutandis, non è migliore. Il muro è un muro psicologico, fondamentalmente. Lampedusa, porto di scarico degli scafisti mediterranei et altera. Al sindaco del piccolo comune siculo, Giusy Nicolini, è stato conferito il Premio Unesco Houphouet-Boigny sulla ricerca della pace «per aver salvato la vita a numerosi rifugiati e migranti e averli accolti con dignità».

L’accoglienza, come quella in un villaggio turistico, è una cosa; la vacanza un’altra. Gli immigrati giungono in Italia e sono raccolti con quello che in un villaggio vacanze è un calice di prosecco. Poi resta solo il secco: è l’inizio di una vacanza tormentata, in un Paese ostile, perso, disorganizzato. Si configurano tutti gli estremi per un danno da vacanza rovinata. L’italiano li detesta perché vendono rose e cartine la sera, spacciano, lavano forzatamente i vetri al semaforo, chiedono soldi sotto forma di ricatto nei parcheggi e, quando va bene, dietro le quinte muovono le fila delle cucine di ristoranti italiani, giapponesi, francesi, pur non sapendo dove siano il Giappone dei manga e la Francia della nouvelle cuisine. Il «bangla» va anche di moda quando può, e nei quartieri è spesso accettato, considerato come un vecchio conoscente, per due chiacchiere e una liquidazione veloce; pezzo di arredamento del rione, conduce una vita oscura di cui nessuno sa nulla. Risuona il sempreverde luogo comune: «Se ancora vendono rose dei cimiteri, qualcuno che le compra ci sarà», e non sono i morti. Io, quella degli italiani, la chiamo ipocrisia.

Il procuratore della repubblica Carmelo Zuccaro dà intanto indicazioni per consentire un miglior controllo dell’attività della navi Ong, mosso anche dall’evidenza che alcune di esse spengono il transponder per non farsi localizzare, e propone la presenza di ufficiali di polizia giudiziaria su tali navi (non per controllarle, bensì per fare quei rilievi che il personale delle Ong non è autorizzato a compiere), aggiungendo: le navi Ong non dovrebbero battere la bandiera dello Stato in cui sono varate e acquistate, ma quella dello Stato in cui la Ong ha sede. Si muovono gli attivisti a difesa dei rifugiati; spesso sono gli stessi che pretendono il crocefisso appeso con il Cristo morto nelle aule di scuola dei propri figli. Ma Dio è morto, per l’appunto.

Non è più una questione di destra o di sinistra, di cattolicesimo o burka, ammettiamolo: siamo terrorizzati dagli extracomunitari. Dio è morto, Mazinga è morto. Ed è morto l’ambulante senegalese Maguette Niang, causa un infarto durante una corsa con la busta piena di borse per sfuggire al blitz anti-abusivi dei vigili romani, indagati poi per omicidio colposo in un contesto politico che non tutela le zone di pregio. E mentre il Governo parla di una legittima difesa notturna, secondo cui è possibile utilizzare un’arma da fuoco «di notte» e non di giorno; mentre Renzi, appena rinominato segretario del suo partito, fa un passo indietro viste le reazioni scaturite dall’approvazione alla Camera di una norma illogica; mentre Matteo Salvini grida «vergogna!» e Silvio Berlusconi si oppone all’emendamento; mentre il capoverdiano Edson Tavares, già denunciato per maltrattamenti, a Rimini sfregia per sempre con l’acido la fidanzata ventottenne Gessica Notaro, ex Miss Romagna; mentre in centro a Roma si consuma un amplesso in pieno giorno davanti la sede del celebre palazzo occupato dell’ex Federconsorzi, che attende lo sgombero da oltre tre anni e il cui proprietario continua, suo malgrado, a pagare le tasse; mentre accade questo ed altro, si guarda al presidente Usa come a un detestevole marziano, perché ha elevato due muri, uno fisico, l’altro sanitario. Ed altri ne eleverà.

Continuo a credere ai cartoni animati anni 80. L’ordine può essere ripristinato solo dai vecchi robot. I nuovi sono fallaci: i social network non contengono un pilota, ma milioni di parole al vento. Papa Bergoglio sprona all’accoglienza, e riceverà Trump in Vaticano il 24 maggio, poco prima del G7 di Taormina; sarà quindi atteso da Sergio Mattarella. Dichiara il tycoon: «La tolleranza è la pietra miliare della pace. Per questo sono orgoglioso di fare uno storico annuncio questa mattina, e condividere con voi che il mio primo viaggio all’estero come presidente sarà in Arabia Saudita, poi in Israele e poi in Vaticano a Roma». Le origini tedesche possono metter paura, come anche la sua ricchezza (autoprodotta attraverso i suoi stessi sforzi, quelli del padre Fred, quelli del nonno Friedrich, semplice barbiere immigrato negli States).

Sarà l’età, ma a me piace immaginare Donald guidare Mazinga come faceva Tetsuya, rinchiuso in un robot di artiglieria pesante, pericolosa, ma che spesso salva la vita di un pilota insicuro. Il punto è: vogliamo essere un cavallo di Troia o un robot? Vogliamo aiutare o essere aiutati? Perché non si può avere tutto: Mazinga ha la mente di Tetsuya ma tutto il resto fa da sé.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – maggio 2017




RAI: CON IL MIO STIPENDIO PAGO LO STIPENDIO DI BRUNO VESPA

La Rai nasce con un regio decreto (il n. 1067) nel 1923. Subito dopo la prima guerra mondiale, subito prima della seconda, e in periodo fascista, nel quale Benito Mussolini puliva l’Italia dal triennio rosso (gran confusione) e poi, prendendosi tutto il braccio oltre che la mano (in posizione alta e definita peraltro), animava una propaganda monopolistica per sottomettere le masse ad una promozione di valori predefiniti dalla dittatura. Fin qui “tutto bene”. Non è pericoloso precipitare, è pericoloso atterrare. L’atterraggio avviene in questo modo: spostiamoci di tanti anni, e arriviamo al referendum popolare del 1995, che conduce all’abrogazione della legge che riservava esclusivamente alla mano pubblica il possesso delle azioni RAI. Tale privatizzazione non è stata mai avviata. L’oggetto della fornitura, in effetti, è la produzione dei programmi di servizio pubblico, ossia pagati dal contribuente attraverso una forma di tassazione, definita “canone”. Un’eccezione al nomen omen: parlare di “canone” non modifica l’evidenza che si tratti di una tassazione sulla proprietà o, per generalizzare, sul possesso di mura (prima, seconda casa, appartamenti collegati, stanze limitrofe, la nonna che vive all’altro piano etc.). Possedere, solo possedere una TV, è come avere della droga in casa: si è “sanzionati”. 

Perché, oggi, la definirei “sanzione”, se è vero che quest’ultima viene applicata contro la volontà dell’utente, sia pure in funzione della violazione di una regola. In linguaggio dell’uomo di strada, una punizione. In questo caso non c’è violazione da parte dell’utente che possiede una TV, come fosse una busta di stupefacenti: nelle nostre case possiamo possedere qualunque cosa sia legale. Pertanto la “sanzione” è applicata sine causa: non v’è violazione di alcuna norma nel possedere una TV o una radio. Ma se prima la RAI aveva una funzione sociale di informazione, diritto costituzionalmente garantito, oggi non l’ha più per due ordini di motivazioni.

Innanzitutto, perché le frequenze sono state liberalizzate, ed a fronte di un mercato che è libero non può permanere un monopolista obbligatorio. Meglio detto: non perché posseggo un’automobile lo Stato ha il diritto di mandarmi multe a casa per il possesso. Lo può fare solo in ragione di una violazione. Nel caso della TV, mutatis mutandis, non perché se ne possegga una, o 100, ciò voglia dire che la RAI (nei suoi 10 attuali canali televisivi) sia guardata o apprezzata. Sky non obbliga a pagare un canone, è la scelta del consumatore che, seguendo i propri gusti, opta per adottare un servizio a pagamento. Questa è libertà. Ogni cittadino libero ha il diritto di partecipare attivamente a quei processi dove vengono prese le decisioni di interesse pubblico, televisione inclusa. Inoltre, nei telegiornali le notizie sono alterate dalla composizione del Governo, pertanto si sta pagando, con una nuova, ulteriore mazzetta, il corpo politico, che impiegherà tali fondi per trasmettere la propria propaganda scegliendo i contenuti. Non è, esattamente come un centinaio di anni fa, l’approccio mussoliniano?

Va bene, fingiamo di trovarci – e non ci troviamo – in uno Stato democratico, costituzionale, in cui tutti possiamo scegliere i nostri diritti con i soli limiti dell’Altro. La democrazia è un’utopia. Aristotele la collocava tra le forme degeneri dello Stato assieme a tirannide ed oligarchia del resto. La tirannide per il filosofo è una monarchia che ha per fine il vantaggio del monarca, l’oligarchia cura gli interessi degli abbienti; mentre la democrazia degenera quando cerca di ottenere il vantaggio dei nullatenenti rispetto alle altre classi. In nessuno di questi casi si insegue il bene comune ma quello particolare, e la democrazia finisce per diventare una tirannide quando l’arbitrio della moltitudine domina incontrastato e i più agiscono ignorando perfino la legge: i governi infatti non si definiscono buoni o cattivi in base alla forma della loro costituzione, ma in base alle qualità etiche e morali dei loro membri. Specifica: il miglior governo dovrebbe essere formato dalla classe media, cioè da cittadini forniti di modesta fortuna. E sostiene: la miglior forma di governo non darà la cittadinanza ai meccanici. Anche Platone aveva parlato di utopia della Repubblica. Per quest’altro, democrazia, oligarchia e  tirannide non possono essere riguardate come modello politico in grado di garantire la giustizia. Ma tornando ad Aristotele, egli dichiara: la scienza politica non può fare gli uomini, ma deve prenderli come li fa la natura. In un certo senso anche con i propri gusti allora: gli altri, i Latini, dicevano de gustibus non disputandum est.

E qui si passa al secondo ordine di ragioni: i contenuti. Io con il mio stipendio pago lo stipendio di Bruno Vespa e Gigi Marzullo, tra gli altri, che ogni santa sera sono presenti in un palinsesto ripetitivo, con «Porta a Porta» e «Sottovoce», nonché gli stipendi dei soliti, soliti, soliti noti. Per assistere a trasmissioni di basso livello culturale, dove si gioca e ci si diverte secondo un arbitrio di quoziente intellettivo pari a meno qualcosa, dove si vincono soldi mentre non si trova lavoro. Per ascoltare i dibattitti di personaggi votati a nessuna causa, apprendere nuove parolacce, distruggere l’italiano, sentire urlare, gridare, insultare. Inermi. L’Italia della RAI è l’Italia dell’ignorante. Anzi, di coloro che vogliono far passare gli italiani da ignoranti. Serie televisive con attori incompetenti, ingestibili, inguardabili. Chiacchiere, chiacchiere. Tutte queste chiacchiere sono oggi luce, perché si pagano in bolletta. Paghiamo le parolacce, le grida isteriche, il narcisismo, esattamente come quando, entrati in casa, pigiamo l’interruttore della luce. Paragoniamo la «Prova del cuoco» a un bene essenziale quale la fornitura elettrica. Ascoltiamo Paola Perego ed i suoi ospiti registrare uno stereotipo sulle donne dell’est, e senza accorgercene ci cibiamo di questo e di pregiudizi o giudizi precompilati. Non abbiamo la possibilità di oscurare tali canali, perché ci vengono propinati con obbligatorietà. Dovremmo essere messi nella condizione di scegliere tra guardare e non guardare, pagare e non pagare. Avere una TV in casa non vuol dire affatto seguire la RAI TV, più probabilmente dare sfogo ad uno zapping selvaggio da cui uscir fuori frustrati, insoddisfatti, salvo accontentarsi dell’istrionismo pubblico. Salvo leggere un libro. Salvo fare l’amore.

Non che gli altri canali siano migliori, ma non ne paghiamo un contributo. Sono canali privati che vanno avanti da sé. Ora c’è Netflix, ora c’è il digitale, ora c’è Sky: a questi gli utenti medi si appoggiano per trovare una distrazione che si avvicini ai propri interessi. Non possiamo paragonare, così come facciamo, Bruno Vespa a Dio, che muove tutto, che decide di cosa dobbiamo renderci edotti ogni santa sera che RAI ha creato. I contenuti garantiscono cultura; quando si tratta di ridondare, di impiegare il caso del giorno per fare audience, di pagare una parcella, allora Aristotele si rivolta nella tomba, obtorto collo. La RAI TV dovrebbe essere una scelta per il contribuente. Non perché si ha un libro in casa ciò significa che si è alfabetizzati: un bambino di due anni non lo leggerà. Così mi sento io quando velocemente passo dalla Rai a TopCrime: un bambino che cerca il gioco adatto alle sue abilità, e corre nella sua stanza dei giochi. Nessuno, solo perché si ha un libro in casa, pagherà la sua università. E così nessuno, solo perché si ha una TV in casa, pagherà il suo canone, facendosi uccidere subliminalmente.

Che la RAI divenga un’opzione, e che il meccanico trovi lavoro: questa è democrazia, non tirannide od oligarchia. Lo dicono i filosofi, che Sanremo non lo guardano. Loro pensano, come li fa la natura. (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2017




EUTANASIA, DALL’ITALIA LA FUGA DEI CERVELLI SENZA CORPO

EUTANASIA, DALL’ITALIA LA FUGA DEI CERVELLI SENZA CORPO di Romina Ciuffa. Prendiamo il punto di vista di un cachi. Non si può muovere, eppure può cadere, può farsi male, può essere mangiato. Ma non può scegliere di interrompere la sua vita. Di contro, può godere del fatto che vive nella natura, solitamente non in un ospedale, e che è un cachi, dunque non dotato di un sistema neuronale che lo renda capace di provare cognizioni ed emozioni. Tanto assumiamo. Lo stesso vale per una cicorietta, uno spinacio, una carota, qualunque vegetale. Tranne quello umano.

La prima differenza che si coglie tra quest’ultimo e il primo tipo è l’ateismo: mancando al cachi un apparato cerebrale, viene meno l’intelligibilità dell’ambiente circostante o un suo sviluppo in senso trascendentale. O almeno stimiamo. Uno spinacio vive. Un vegetale umano vive, sa, e trascende, quando consapevole, per dare un senso al suo passaggio terreno. Al vegetale umano non basta la Terra, al vegetale spinacio basta la terra. Un vegetale umano vive, “è saputo” ed è “trasceso” invece, come in un atto passivo, quando è in uno stato di incoscienza o di perdita delle capacità cognitive.
“Sono vivo e vegeto”, diciamo. Attributi che devono essere colleghi per soddisfare il medico, amanti per soddisfare l’individuo. Vegetazione non è vita, vita non è vitalità. Non quando l’individuo umano contrae malattie che lo rendono schiavo della sua data di morte, quando è destinato a rimanere in coma per anni indefiniti, quando è incastrato in un corpo immobile.

Eppure in un altro tempo, in un altro spazio, non si sarebbe posto il problema di tenerlo in vita: solo fino a pochi anni fa si moriva di acetone, oggi curabile con la Biochetasi. Il progredire della scienza, della tecnologia, persino della comunicazione, che danni ne ha provocati, ha fatto sì che non si possa più morire di acetone. Il che va a tutto vantaggio della vita umana, più garantita e protetta. Ma ha anche fatto sì che non si possa più morire. Oggi, 2017, in alcuni casi un cancro è curabile e c’è chi, senza arti, partecipa alle Paralimpiadi e mantiene un margine di forza e dignità che, variando da individuo a individuo, può essere isolato e accresciuto, sostituendo nuove competenze e capacità con le altre andate perdute. Anche la psiche fa la sua parte in ogni singolo caso.

Ma oggi, 2017, è possibile anche mantenere in vita chi, “altrimenti”, sarebbe morto. È questo “altrimenti”, è il condizionale “sarebbe”, che rendono problematica la questione eutanasica. Riflettiamo: anni fa, l’accanimento terapeutico nei riguardi di un “vegetale” non avrebbe fatto molta strada, se non quella che la ricerca e la scienza, in quel momento, consentivano, ben inferiore ai risultati raggiunti in seguito dal progresso. Ho imparato a comprendere le cose attraverso il paradosso, per tornare a normalizzare e relativizzare: così, alla Asimov, immagino un’eutanasia che, in un mondo futuristico ma molto prossimo, sia destinata ad essere l’unica scelta all’alternativa del “vivere-vegetando” per secoli. In un’evoluzione scientifica che corre e che porterà ad infinitivizzare ad libitum le possibilità di sopravvivere, chi potrà stabilire quando è il momento di morire per colui che è mantenuto in vita da una macchina? Chi dovrebbe scegliere l’età in cui fermare le cure? 70, 90, 110 anni? Quale compleanno dovrà essere quello definitivo? E perché non impiegare la criogenetica? Sarebbe possibile che il bambino paraplegico guardi all’insù la mattonella per un centinaio di anni, in perfetta forma in quanto alimentato, seguito, non fumatore: e, parlandogli, osservarlo crescere, sviluppare, invecchiare, morire o lasciarlo, se premorti, in eredità ai legittimari con un legato. Oppure “ucciderlo”, meglio detto, non accanirsi. A che età attivare la procedura della morte medicalmente assistita? Mosè avrebbe scelto di morire se fosse stato in coma? Zaratrusta? Gli antichi longevi pluricentenari? Rita Levi Montalcini cosa avrebbe scelto se a 20 anni fosse rimasta bloccata all’interno della sua lucidità e del suo genio, in un corpo immobile, senza possibilità di comunicare?

Tornando dal futuro, oggi facciamo i conti con la medicina che abbiamo allo stato attuale, quel “vorrei ma non posso” in grado di mantenere in vita “dead men not walking”, detenuti in un braccio della morte che altro non è che se stessi, “le mie prigioni” più mie, aventi una natura totalmente evanescente, l’interiorità, e guardie penitenziarie in camice con cui è inibita ogni comunicazione; quel “vorrei ma non posso” comunque non in grado di salvarli dalla condanna. E si aggiunge il crocefisso in cella, bigottismo religioso, per privare il soggetto della sua personale spiritualità. Non può parlare il politico, non può parlare il cattolico, non può parlare il benpensante a cena, nessuno può farlo; può parlare solo colui che, nella maggior parte dei casi, non può: il malato. Il quale, se legato alla vita, può condividere l’accanimento terapeutico, ma deve poter accedere alle cure ed avere le risorse necessarie per mantenerle. In un contesto pubblico deve avere la fortuna di essere accolto e seguito con amorevolezza, non come un vegetale. Deve seguire un percorso psicoterapeutico, se è cosciente e lucido, e con lui i suoi cari, che al pari sono da accompagnare in un lungo, esasperato percorso.

Pochi giorni fa un italiano, cieco e paraplegico, non riuscendo a grattarsi ma potendo parlare, ha descritto in un video il significato del verbo “prudere”, insegnandoci che il prurito non è per lui un’anticipazione di qualcosa di piacevole, conseguente all’azione del grattarsi, bensì una vera e propria sofferenza, la peggiore: il 39enne milanese Fabiano Antonioni, in arte Dj Fabo, ne parla (con difficoltà estreme nell’eloquio) per minuti interi, “voi non riuscite a capire cosa voglia dire attendere che ti passi quel prurito alla testa”. Così per grattarsi – cosciente, ragionevole, lucido – si è recato con la famiglia in Svizzera, a farsi uccidere. Porta con sé il suo corpo, che più suo non è ma di altri: dei famigliari, di chi gli sta vicino, dei medici, dei media, dei politici, dei religiosi, dei salotti.

Lo stesso accade a un altro italiano, in Svizzera Gianni Trez, 65enne veneto, è morto a Forch, un paesino a venti minuti da Zurigo, dove si trova “Dignitas”, la clinica del “fine vita”. Malato di tumore, la moglie ha dichiarato: “Costretti qui, da Venezia, per una fine dignitosa”. Lucidissimo. “E non è depresso. Abbiamo elaborato a lungo la scelta di venire fin qui. Anche io lo farei. A lui piaceva tantissimo vivere, ma è condannato e vuole morire senza soffrire in modo dignitoso. Perché la vita che ha fatto nell’ultimo periodo per lui non è dignitosa. Ormai pesa cinquanta chili, è costretto alla morfina tre volte al giorno. Il problema è proprio la prospettiva: se sapesse che tra cinque, sei mesi smetterebbe di soffrire allora non lo farebbe. Ma così no”. Servono almeno 10-15 mila euro, solo la la clinica chiede circa 11 mila franchi svizzeri. È il vero caso di fuga dei cervelli dall’Italia: perché di loro, e di molti altri, fugge solo il cervello, il corpo ridotto a un contenitore.

La morte non è una scelta teleogica, ma teleologica. Non serve collezionare le parole di Cristo sulla sofferenza né citare Dante che mette i suicidi in un girone dell’Inferno. C’è chi passa in coma un’intera vita, chi trascorre lunghi anni in stadio terminale. Sono i suoi genitori, figli, aventi diritto, ad ucciderlo nel caso di eutanasia? Sono loro, insieme al medico che li sostiene, i boia dell’accanimento terapeutico? Non in Oregon, non in altri Stati americani, né in Colombia o in Canada, non in altri Paesi in cui la morte medicalmente assistita è operativa. Si è assassini sempre o mai: questo è un concetto universale e la differenza di opinioni e regole, stridendo da Stato a Stato, da Paese a Paese, da religione a religione, da caso a caso, da persona a persona, da medico a medico, persino da malato a malato, non è altro che una conferma che l’eutanasia non è omicidio. L’omicidio è un concetto assoluto, universale, la morte è un effetto pratico prima che spirituale o teleogico. Ovunque è punito chi, con una pistola, uccide un passante. Ciò che muta è la sua valutazione ad opera del legislatore penale, ma sparare a un passante è omicidio in Oregon, in Africa, in Italia e nel sedicente Stato islamico. Un discorso a parte va fatto per l’aborto, lo stupro, l’omosessualità et altera, che cambiano forma e sostanza in ogni hic ed ogni nunc in quanto sono discussi su livelli diversi e hanno diverse implicazioni.

Se il “non uccidere” è universale, perché non si è universalmente concordi sul fatto che l’eutanasia integri la fattispecie di omicidio? Perché l’eutanasia è un concetto relativo, culturale, basato sullo spazio e sul tempo, e sulle evoluzioni umane della scienza; un concetto che dipende e, dipendendo, non ha validità intrinseca. Questa sua non assolutezza lo abbandona nelle mani della politica, della religione, dei progressi della medicina. Ciascuno deve essere in grado, o messo in grado se impossibilitato, di gestire un concetto relativo. “Tu lo faresti?” No. “Ma non sei malato”. Non possiamo immedesimarci, e questo limite non consente di utilizzare ideologie per dire: l’eutanasia no. Soprattutto in uno Stato come il nostro, dove la sanità è malasanità e fa più vittime che la guerra ma, come in guerra, non punisce i colpevoli.

E allora, se spinacio devo essere, se cachi devo cadere, voglio che mi si mangi quando sono maturo, non quando sono marcio, né quando non so più di niente. (Romina Ciuffa)