DROGHIAMOCI SULLE ALI DELLA LEGALIZZAZIONE

DROGHIAMOCI SULLE ALI DELLA LEG-ALI-ZZAZIONE di Romina Ciuffa. Pervasi dal braccio di ferro tra Hillary Clinton e Donald Trump, grande mela in bocca a colpi di Adamo ed Eva (l’amore tra i due è simile: la tentazione di conquistare l’America è più grande di quella del serpente divino) perdiamo di vista altre questioni che sono all’esame degli americani. Prima fra tutti la legalizzazione della marijuana: gli stellati blu e rossi sono infatti chiamati oggi a decidere se fumare liberamente spinelli ad uso ricreativo. Vexata quaestio, che da sempre vede in opposizione da un lato le esigenze dell’inviolabilità dei diritti e delle libertà, secondo cui non c’è nessuno che, in uno Stato democratico (anche ove conservatore, che comunque è solo una tonalità della democrazia), possa vietare a un cittadino (abitante di una città, e solo per questo oggetto di e soggetto a regole) di compiere su se stesso le azioni che ritenga funzionali, anche quelle disfunzionali. Un esempio lampante, quello dell’aborto: il miliardario americano proporrà alla Corte Suprema un giudice conservatore che si “destreggerà” l’argomento in senso restrittivo, l’ex first lady – in quanto donna e in quanto democratica – tutelerà il diritto all’aborto oltre a “sinistreggiarsi” nelle questioni umane, gay friendly, femminili quando non femmniste. Dall’altro lato, innegabile, la consapevolezza che, allo scoccare della liberalizzazione della marijuana, quest’ultima consentirà un incasso governativo non indifferente con un ROI (ritorno dell’investimento) che è il caso di definire stupefacente. Certo togliendo (ma davvero?) il mercato dalle mani dei trafficanti (chi fuma legga: l’erba sarà più buona), ma mettendolo nelle mani dei politici (associati dall’uomo di strada e pro forma a droghe pesanti, soprattutto al consumo di cocaina). Un po’ come il nostro monopolio delle sigarette: meglio comprarle al tabacchi che per strada da un africano sotto gli occhi della polizia.

I diritti li abbiamo. Non mi spaventano. Ricordo ogni mattina, appena mi alzo e subito dopo le preghiere, l’articolo 2 della Costituzione italiana che già nel 1947, primo dopoguerra, riconosceva e garantiva (attraverso la Repubblica) i diritti inviolabili dell’uomo. Ma anche l’articolo 32, che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (e garantisce cure gratuite agli indigenti). In materia di legalizzazione della marijuana, queste due norme vanno lette in combinato disposto, come fossero una sola. E deve farsi un rinvio formale al concetto di salute, mutevole nel tempo: cos’è oggi la salute? La marijuana fa bene?

Sì, la marijuana fa bene. A scopi curativi. Nulla quaestio.

Procediamo: la marijuana fa bene, a scopo ricreativo? Da una risposta approssimativa e rapida, da tavolata, diremmo di sì: fa ridere, fa socializzare, fa addormentare. Aggiungo però: fa stordire, fa guidare male, ricrea una situazione comparabile allo stato d’ubriachezza. Causa sedazione, stato stuporoso, sonno. Prima eccezione: ma l’alcol è legale. Perché allora non una droga leggera? Entrambi – alcol e stupefacenti, più in generale sostanze con effetti psicoattivi – sono inseriti nel DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, sistema nosografico per i disturbi mentali e psicopatologici più utilizzati da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, nella pratica clinica e nella ricerca. Ogni disturbo è suddiviso in varie classi, e ciascuno di essi ha una dedica: “Disturbi correlati ad alcol o altre sostanze”, ossia è possibile che un disturbo mentale, anche grave, possa essere causato dall’uso o abuso di sostanze farmacologicamente attive, in cui è presente un agente chimico che produce effetti sull’organismo alterando le normali funzioni biologiche, psicologiche e mentali, modificando il tono dell’umore, i processi cognitivi di vigilanza, attenzione, memoria, la percezione sensoriale, e non da ultimi i comportamenti, spesso provocando temporanee o irreversibili modificazioni delle funzioni cerebrali. 
Tornando a noi. Fa bene la marijuana usata non a scopo terapeutico e perché l’alcol è legale? Non c’è un motivo ben preciso, oltre a ricordare il superato proibizionismo americano. Indubbiamente, bere un bicchiere di vino non induce a berne un secondo; fare un tiro da uno spinello impone con effetti immediati all’organismo di farne un secondo e proseguire. La dipendenza è immediata, anche se transitoria. Se ad essere colpito è l’abuso, non già l’uso, allora si può con certezza dire che è più semplice per un giovane responsabile non abusare di alcool che non abusare di cannabis o marijuana, che sono come le ciliegie: una tira l’altra. 
Ma tornando ai diritti inviolabili ed al collegamento con il diritto alla salute, potremmo comunque rivendicare allo Stato molta della nostra salute che non ci viene garantita (un esempio fra tutti: la mala sanità italiana), ed è altresì assurdo che lo Stato non paghi alle donne gli assorbenti mensili. Ma la questione non viene passata al vaglio, in quanto è più importante soffermarci, a tavola, a disquisire sulla necessità che vi sia una legalizzazione delle droghe cosiddette leggere. USA: sono 4 gli Stati che acconsentono all’uso quasi libero della marijuana, Colorado, Alaska, Washington ed Oregon; sono chiamati invece a votare, nella giornata di oggi, Arizona, California, Nevada, Maine e Massachusetts. Si tratta di referendum per l’uso delle droghe leggere a scopo ricreativo, prescindendo dagli Stati che già lo hanno ammesso a scopo medico.

A New York, oggi basta fare una telefonata ad un amico di fiducia, che darà per scontata la nostra richiesta. Ad un orario ben precisato giungerà il delivery: un ragazzetto ben vestito, non troppo, ma che possa sembrare un professionista, uno stagista, non uno spacciatore dei nostri. Giungerà forse in skate, comunque con uno zainetto. Citofonerà in casa ed entrerà. Si parlerà del più e del meno per un po’, come buoni amici. Lo si inviterà a sedere sul divano. Non uscirà dalla casa per un po’, per non destare sospetti, e per un momento avrete il vostro migliore amico ospite, a lui offrirete un succo di frutta o dei pasticcini. Così lui aprirà la sua valigetta, contenuta nello zainetto, e vi brilleranno gli occhi: sarà amplissima la scelta. Una serie di tubetti ben confezionati, con nome e foto che contraddistinguono le spezie. Il frontman vi indicherà gli effetti di ciascuna di esse: lei fa più ridere, lei è più forte, lei è più calmante e così via. Un avviso: la cannabis si trova raramente e costa molto. Ma si può richiedere e comprare con facilità. Così lui, il vostro migliore amico dallo zainetto verde, vi farà provare la vostra scelta e, soprattutto, la proverà con voi. Come la guardia del corpo di un boss mafioso che prova il suo piatto prima, per verificare che non sia avvelenato. Potete provarne varie. Quindi, sceglierete la vostra, la pagherete, e dopo altre chiacchiere il vostro migliore amico andrà via. Alla prossima. Non ci sono africani per strada, il rischio penale è troppo alto. Non di certo quello che c’è in Italia, dove i nostri spacciatori sono lasciati a spacciare davanti alla polizia che retate non fa. D’altronde, negli States essere ubriachi alla guida di un’autovettura costituisce reato penale.

Io non mi preoccupo della concettualizzazione dello spaccio legale. Io mi preoccupo delle persone. Conosco la società in cui mi trovo e so che è una società in cui non si hanno limiti, né li hanno i politici, né li hanno i cittadini. Mi spiego meglio: so che se le droghe “leggere” fossero legalizzate, liberalizzate, non sarebbe quel mondo ideale alla “vogliamoci bene”, un nuovo ’68, un Che Guevara piegato alla causa, centri sociali finalmente puliti, case popolari e lotti di Garbatella impiegati per davvero dalle nonne che li hanno avuti per diritti quesito. So anche che si instaurerebbe un regime fastidioso, quello della politica, che spenderebbe i suoi bla bla bla per impossessarsi delle migliori partite di marijuana, o appaltarle ai nipoti con gara pubblica. Quale droga vogliamo fumare? Come vogliamo intossicarci?

In Italia non è possibile dimenticare la psicologia dell’utenza: se ci danno una mano, ci prendiamo un braccio. Se ci danno una canna, torniamo a casa con il lanternino. Non siamo ad Amsterdam, non siamo olandesi che lavorano, hanno uno stipendio concreto, un apparato governativo funzionante, regole e limiti. Qui non ci siamo messi la cintura fino a poco tempo fa, mentre in tutta Europa era obbligatoria, ed ancora giriamo con dei gingilli in macchina da inserire al suo posto per non farla suonare. Noi andiamo ad Amsterdam a farcele, le canne. Ma qui il costo delle sigarette è aumentato, la gente fuma tabacco per risparmiare e compra cartine e filtri dal bengalese che gira per i locali e per le strade. Inoltre non esistono più pacchetti di sigarette da 10, “per tutelare i più giovani che, avendo meno disponibilità finanziaria, avranno così più difficoltà a comprarle”: no, perché vendere pacchetti da 20 sigarette conviene di più, dà un incasso maggiore e obbliga a non scegliere. Così, improvvisamente, mi viene in mente Rio de Janeiro, dove almeno il brasiliano di strada e le edicole stesse mi vendono una sigaretta o due, se voglio, e sono io a scegliere il numero del mio consumo. Ovviamente ad un costo maggiore, ma di mia opzione.

Non mi fido dell’Italia. Le droghe non sono a scopo “ricreativo”: la ricreazione si fa con un film, con gli amici, con un libro, suonando, scrivendo, vivendo, emozionandosi. Non tarpandosi le ali, che con la leg”ali”zzazione sono solo il centro di una parola che i nostri nonni non avevano nemmeno in mente, presi com’erano a superare guerre, a coltivare terre, ad educare i figli, a guardarsi negli occhi, ad affrontare i problemi.  (Romina Ciuffa)




ME NE VADO ERGO SUM

ME NE VADO ERGO SUM di Romina Ciuffa. Io me ne vado. Ergo sum. State facendo di tutto per cacciarci. Ci avete cresciuto con le lire, non con i flauti. Nella mitologia greca il dio Hermes uccise una tartaruga all’interno di una grotta, e nel suo carapace tese sette corde di budello di pecora costruendo la prima lira, che regalò ad Apollo al quale aveva rubato i nervi dei buoi per fabbricarla. Il dio del Sole, al suo suono, si commosse a tal punto da offrirgli un anello d’oro (primo sinallagma); regalò poi la lira ad Orfeo, cantore che piegò, suonandola, gli animali e tutta la natura. Tanto fece associare la lira alle virtù apollinee di moderazione ed equilibrio, in contrapposizione al flauto dioniseo che si associava ad estasi e celebrazione.

Così ci avete cresciuto con moderazione ed equilibrio, lira e Apollo, un dopoguerra che avete temuto e che vi ha fatto moderare ed equilibrare. Durò poco: una volta sbloccati dalle vostre prima razionali, poi irrazionali paure (simili a quelle derivanti dal disturbo post traumatico da stress, che segue una guerra o un evento di portata negativa), siete passati al flauto dioniseo: l’euro. Estasi e celebrazione. Dopo averci fatto fare l’Erasmus, avete invidiato i giovani che potevano trascorrere mesi di studio all’estero con le borse di studio delle università, e siete voluti entrare in Europa anche voi. Ci avete coinvolto in questa impresa e vi siete dati a Dioniso, il dio notturno, quello delle marachelle e delle baccanti. Avete così festeggiato con veline e olgettine, avete scambiato la lira per il flauto, vi siete sentiti europei mentre i vostri figli si interrogavano sul proprio futuro.

Avete bevuto vino made in Italy, spacciandolo per commercio ed export, avete liberato i sensi, vi siete atteggiati a grandi, una confraternita legata a Bruxelles, intanto l’Europa cresceva e Londra pensava. Avete giocato a fare gli ambidestri, usare entrambe le mani, prima la destra, poi la sinistra, poi la destra, poi la sinistra, accaparrandovi maggioranza e opposizione e mischiandovi. È un’ambidestra che vi parla: a volte sbaglio mano e cado dalla bicicletta, perché non ricordo qual’è quella giusta da usare in quella circostanza, scrivo con entrambe, arrotolo gli spaghetti con entrambe ma mangio il sushi solo con la sinistra. Ci sono cose che si possono fare solo se si è in grado, e voi, i politici, gli imprenditori, le lobbies, non siete ambidestri. Si è mancini o destrorsi quando si governa una nazione, si prendono delle posizioni e non ci si può permettere di cadere dalla bicicletta del Paese.

Con l’euro abbiamo visto restringersi i nostri contanti come fossero stati sbadatamente lasciati nei pantaloni in lavatrice. Abbiamo assistito, impotenti, alla rovina delle pensioni dei nostri nonni, dei nostri genitori, ed abbiamo perso ogni speranza di riceverne nel futuro. L’Italia continua a ripetersi che la crisi sta finendo, ed è proprio come quando una storia d’amore finisce e del dolore ci si ripete come ossessi: «Passerà». Ma si sa che l’unico modo per cui cessi è il chiodo schiaccia chiodo. Questo chiodo, inoltre, dovrà tenere un quadro di qualità, non un disegnino. La crisi non finirà senza un grande disegno, un Van Gogh, se europeo, un Caravaggio, per il made in Italy, con un chiodo che regga.

Io me ne vado, qui lo dico e qui lo nego. Nessuna intenzione di suonare questo flauto traverso, che di traverso va. Il flauto è uno strumento che nasce dalla bruttezza del dio Pan, invaghitosi della fanciulla Siringa la quale, inorridita dal di lui aspetto caprino, chiese a suo padre – la divinità fluviale Ladone – di trasformarla in modo che Pan non potesse riconoscerla. Così divenne una canna della palude, ma il suo innamorato, presente alla trasformazione, non la lasciò andar via e, sofferente, sospirò. Riporta Ovidio, nelle sue «Metamorfosi»: «(…) come Pan, quando credeva d’aver ghermito ormai Siringa, stringesse, in luogo del suo corpo, un ciuffo di canne palustri e si sciogliesse in sospiri: allora il vento, vibrando nelle canne, produsse un suono delicato, simile a un lamento e il dio incantato dalla dolcezza tutta nuova di quella musica». Così continuerò a parlarti, disse il dio. Un lamento. E noi, come la ninfa Siringa, costretti in una palude, trasformati nelle canne dell’euro dove soffiano i venti avversi dei governanti, che si fingono pieni d’amore per noi.

Ho nostalgia della lira, ammiro gli inglesi che si sono resi conto che più che una comunità quella europea è una comune fatta di «freakettoni» che non fanno altro che campare sulle spalle altrui. La fuga dei cervelli è una pena meritata. Nessuno ci ha dato il buon esempio. Appartengo a quella generazione di quarantenni che hanno vissuto senza telefonini ed internet per i primi venti anni di vita, che hanno sperato, che hanno visto Roma sotto la neve del 1985, e che improvvisamente si sono ritrovati a leggere i «tweet» del presidente del Consiglio, a vedere le foto del sindaco Raggi su Instagram, ad ascoltare Bruno Vespa e Gigi Marzullo tutte le notti come un supplizio, ritrovandoseli nella bolletta della luce.

Mi vergogno degli adulti di oggi, flautisti d’eccezione, che sperperano il mio patrimonio artistico, culturale, economico, intellettuale, danneggiandomi. Che per primi «postano» su Facebook, avallando il consumismo zuckerberkiano (ma, sottolineo, Mark Elliot Zuckerberg è del 1984, con la fortuna di essere nato in America e non a Little Italy). Me ne vado dall’Italia innanzitutto col cuore, che è già via. La cardiologia fa passi da gigante, ma non miracoli. L’Italia non si ama più, si suda. Io vado via, con la coda tra le gambe, per salvaguardarle dalle buche che non sono mai coperte. Me ne vado con il cervello, perché è già altrove che mi trovo. Non ascolto i comizi, non credo alle manovre mediatiche, non mi interesso di politica. Personalmente, suono il pianoforte: abituata a tasti bianchi e tasti neri, conosco le difficoltà e so affrontarle come si affrontano i diesis e i bemolle anche delle scale più complesse.

Io me ne vado, se non fate qualcosa per cambiare il mondo che governate e che vi tenete, se non la smettete di spartirvi il bottino, se non finanziate la ricerca, se non date, invece di creare, posti di lavoro: i vostri. Se non leggete i nostri curricula, se non proponete contratti su rimborso spese, al nero, stagionali. Io me ne vado a Londra a fare la cameriera e studiare il siciliano o il napoletano, sono certa di avere, a quarant’anni, più possibilità di essere notata lì che non prezzata qui. Avevo, per un attimo solo lo ammetto, avuto fiducia in un presidente che mi è coetaneo, era l’unica scusa che mi davo per accettare il suo «colpo di Stato», prendersi il potere senza elezioni e gestire un gioco referendario, al momento, che mi rende pentita dei miei studi di Giurisprudenza, quando mi insegnarono l’Assemblea costituente e mi indicarono da chi fosse composta. Non avrei mai immaginato che l’Italia potesse cadere così in basso. Ve la meritate, la fuga dei cervelli. Perché oggi «me ne vado, ergo sum» è l’unico brocardo.  (ROMINA CIUFFA)




REPORTAGE AMATRICE. NUOVE SCOSSE: NAMAZU IL PESCEGATTO È SVEGLIO OPPURE I NOSTRI ARCHITETTI E POLITICI DORMONO?

REPORTAGE AMATRICE. Nuove scosse stanno animando la nostra terra. Il 30 ottobre ha portato via quanto più potesse portare, e siamo in preda ad ulteriori assestamenti tellurici. Uno fra tanti: Castelluccio di Norcia, gioiello del «piccolo Tibet» italiano, non c’è più. Così molto del nostro patrimonio culturale, e psicologico. Epicentro più umbro-marchigiano, verso l’Adriatico. Elementare teorema aritmetico, studiato alle elementari: cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non muta. Ecco qui, di nuovo tempesta mediatica e un terremoto che si è sentito caldamente ovunque, c’è chi lo ha avvertito anche in Austria.

Per i giapponesi avvezzi, è colpa del grande pescegatto Namazu, che vive nel fango, sotto il territorio di Shinosa e Hidachi: è lui che, muovendo la coda, scuote il nostro mondo. Porta lunghi baffi e ha una lunga coda. Il suo corpo giace sotto l’intero arcipelago giapponese. Si dice che il dio Kadori tenga fermo Namazu con una zucca. Si dice anche che il dio del tuono, Kashima, con una grossa pietra riesca ad immobilizzarlo schiacciandolo a terra, e si verifichino terremoti quando il dio è stanco. Dal terremoto di Edo (Tokio) del 1855, anche conosciuto come «Grande Terremoto di Ansei», Namazu è visto come un giustiziere che punisce l’avidità umana costringendo alla ridistribuzione della ricchezza. Quanta ricchezza sta ridistribuendo Namazu in Italia?

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E non sarebbe male, a ben vedere, una effettiva ridistribuzione. Sebbene questa debba avvenire sul piano politico e socioeconomico, e non dovremmo attendere gli incubi di un pescegatto incontrollabile. Bisognerebbe scegliere luoghi specifici, perché tale redistribuzione sia equa. Invece, al momento, in Italia sembrerebbe che né sul piano politico, né sul piano mitologico, si riesca ad ottenere un equilibrio. Le scosse ottobrine e quelle successive (il rischio è alto e prevedibile) non hanno avuto a livello di morti l’impatto forte del primo terremoto, quello che ha avuto, in agosto, epicentro ad Amatrice, ma Roma, l’Italia, sono sotto schiaffo come non lo erano dal 1980. Ci sentiamo come quelle popolazioni dell’Asia, sempre sotto l’occhio del ciclone, di uno Tsunami dal bel nome di donna. Abbiamo subito assistito al classico pellegrinaggio del presidente del Consiglio Renzi a Camerino, quale emozione per quei piccoli marchigiani che mai avrebbero avuto altrimenti l’onore di avere, davanti alla casa distrutta, lui in persona, il capo, quello che siede alla destra di Obama e che fa pappa e ciccia con tutti i governanti mondiali. Li ho sentiti dire, in accento forte: «Però ci aiuti sul serio eh», «Fate in fretta». Mi viene in mente la riforma della Costituzione che un sì nel prossimo referendum varerebbe, il cui slogan primario è: «Vuoi che le cose cambino? Vuoi che i politici guadagnino di meno?», e mi domando perché presentarsi nei Comuni colpiti senza una busta per gli sfollati, come quelle delle nonne a Natale, senza aspettare il referendum. Le promesse del Governo sono tante, alte come gli stipendi dei loro rappresentanti.

Siamo decisamente nella presa di un enorme pescegatto. Contro la natura non possiamo nulla, né contro la politica. Il dio Kashima è stanchissimo, piegato, deve riposare. Anche noi. Namazu è, comunque, «yonaoshi daimyojin», la divinità della riparazione del mondo, avente il compito di riportare il mondo verso una maggiore stabilità. Un patto di stabilità insomma. I cataclismi fanno riflettere. Uccidono. Scuotono. E più cataclismi rendono saggi, temperati, riportano una greca «sophrosyne», la salvezza dell’anima. Ci ricordano chi siamo, da dove veniamo. Ma prima di giungere alla trascendentalità delle conseguenze, si passa per stadi psicologici non semplici. Ansia, paura, terrore, disturbi psichiatrici fino al DPTS, il disturbo post traumatico da stress, che può condurre a flashback, «numbing» (intorpidimento), evitamento,  incubi, «hyperarousal» (iperattivazione psicofisiologica), quando non ad abusi di alcool, droga, farmaci, psicofarmaci. Non a caso, per Eschilo la saggezza della sophrosyne si conquista attraverso la sofferenza («pàthei màthos», impara soffrendo).

Vogliamo credere in un dio superiore che ridistribuisce ricchezze? O vogliamo cominciare a capire che è come nei casi di incidenti aerei: l’errore è sempre del pilota? L’aereo è fatto per volare, se precipita il problema è umano. Un po’ come quei piccioni che rimangono schiacciati dalle auto in centro. Mutata mutandis: in un Paese ad alto rischio sismico, non ha senso continuare ad applaudire la Nuvola di Massimiliano Fuksas o l’Auditorium di Renzo Piano. Gli architetti servono ad altro. È esattamente come dare il Nobel a Bob Dylan o Dario Fo: perdere il senso della realtà. Un Nobel, allora, anche al pescegatto.  (Romina Ciuffa)

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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OLIMPIADI DA RIO A ROMA, PASSANDO PER LE PARALIMPIADI: UN SEMINARIO DELL’AMBASCIATA DEL BRASILE IN ITALIA

Schermata 2016-05-10 a 19.24.40Schermata 2016-05-10 a 19.24.46L’Ambasciata brasiliana in Italia guidata da Ricardo Neiva Tavares ha ospitato il seminario «100 giorni dai Giochi olimpici Rio 2016», per capire come si stanno svolgendo i lavori e fare il punto anche sulla candidatura romana 2024. Oltre all’Ambasciatore, sono presenti Fabio Porta, deputato italobrasiliano e presidente dell’Associazione di Amicizia Brasile-Italia, Domenico De Masi, sociologo e professore de La Sapienza di Roma con cittadinanza carioca onoraria, Sandro Fioravanti, vicedirettore di Rai Sport, Carlo Mornati, vicesegretario generale del Coni e capo missione Rio 2016, Luca Pancalli, vicepresidente del Comitato Roma 2024, Marco De Ponte, segretario generale ActionAid. Tutti moderati da Francesco Orofino, vicepresidente nazionale dell’Inarch.

Quest’ultimo afferma: «Mi sembra che possiamo essere certi che l’azione verso le Olimpiadi abbia riqualificato zone degradate della città, come l’area portuale, con opere architettoniche di grandissimo pregio, un esempio ne è il Museo del Domani firmato da un’artista come Santiago Calatrava, ma anche le opere del Parco Olimpico. La città è stata dotata di infrastrutture e ne è stato potenziato il trasporto pubblico, a partire dalla metropolitana, tutto questo attraverso lo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro con scelte di politica di rigenerazione legate al tema della sostenibilità ambientale come faro di riferimento per le opere da realizzare. Quindi siamo tutti convinti che dopo lo straordinario evento di festa e di sport Rio, grazie a questa occasione, sarà una città migliore in cui i cittadini potranno godere di un livello della qualità della vita sicuramente più alto. Oggi vorremmo lanciare anche un ponte verso la candidatura di Roma per ospitare le Olimpiadi del 2024, convinti che anche per la capitale italiana questa potrebbe rappresentare una straordinaria occasione di sviluppo e di riqualificazione».

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DOMENICO DE MASI. «Vorrei sottolineare alcuni punti di convergenza tra l’Italia e il Brasile. Ci sono due frasi che mi hanno sempre molto toccato, una di Tom Jobim e l’altra di Nelson Rodriguez. Il primo dice che il Brasile non è un Paese per principianti, e questo si potrebbe dire anche dell’Italia; Rodriguez invece dice che il Brasile non è popolare in Brasile, e neanche l’Italia è popolare in Italia. Questi due punti di vista ci accomunano perfettamente, che costituiscono per me due punti di forza, ad esempio, rispetto ai francesi che si elogiano per nascondere le loro debolezze. Vorrei ricordare cos’è il Brasile sotto il punto di vista dei dati statistici: su 196 Paesi, il Brasile è al decimo posto nella produzione industriale, nell’industria manifatturiera e nella produzione di metalli preziosi, mentre l’Italia occupa il nono posto nella produzione industriale, quasi una gara olimpica con il Brasile perché 10 anni fa eravamo noi al settimo posto e il Brasile all’undicesimo posto». Così prosegue De Masi: il Brasile oggi occupa l’ottavo posto per la produzione di servizi, di nichel, di alluminio e per il consumo di energia, che è uno degli indicatori più importanti per capire il livello di progresso di un Paese. È al sesto posto per il numero dei viaggi aerei, per il Pil, per il potere d’acquisto, per la produzione automobilistica. Da questi dati possiamo vedere che stiamo parlando di un Paese potentissimo che non ha nulla a che fare con l’immagine che di solito noi abbiamo della «repubblica della banane». Tra l’altro il Brasile è una democrazia profondamente consolidata sotto tutti gli aspetti costituzionali: è al quinto posto per la superficie, per il numero di abitanti, per la produzione agricola, per la produzione di cacao, per la produzione di stagno, di cotone e per la vendita di automobili. È al quarto posto tra le graduatorie delle città più grandi e San Paolo è la quarta città più grande del mondo, per la produzione di cereali, per la lunghezza della rete stradale. Il Brasile è al secondo posto per la produzione di olio di semi; al terzo posto nella produzione di carne e per frutta; occupa la prima posizione per la produzione di zucchero e caffè.
«Questo è un quadro che va dalla produzione rurale a quella metalmeccanica, in un Paese che ha una percentuale di giovani al di sotto dei 15 anni di età del 25 per cento che noi ci sogniamo, poiché la nostra è al 9 per cento. Al visitatore occasionale o quello abituale i punti deboli del Brasile non si nascondono, come non ci nascondiamo i punti deboli dell’Italia. Parlando del divario economico, il 10 per cento della popolazione bianca in Brasile possiede il 75 per cento della ricchezza, mentre nel 2007 in Italia, all’inizio della grande crisi, 10 famiglie di italiani avevano il potere di acquisto di 3 milioni e mezzo di italiani. Oggi le stesse 10 famiglie hanno un potere d’acquisto pari a quello di 6 milioni di italiani, quindi il divario da noi è aumentato».

«C’è poi l’analfabetismo–prosegue De Masi–ma bisogna anche dire che grazie all’impegno di Rudi Cardoso, moglie dell’ex presidente brasiliano Fernando Enrique Cardoso, e alla cosiddetta «borsa famiglia» rinnovata con i Governi successivi, il Brasile è anche il Paese che in questo momento nel mondo è al primo posto per la lotta all’analfabetismo. C’è poi la corruzione, ma come italiano non ho assolutamente la possibilità di infierire su questo punto. C’è la violenza, ma essendo io napoletano abitante di uno dei quattro epicentri delle multinazionali del crimine in Italia, ho poco da dire. Ci sono molti vantaggi per le imprese italiane che vanno in Brasile: il costo del denaro è al primo posto, a Milano un’ora di operaio costa 24 dollari mentre in Brasile ne costa 11. Inoltre il Brasile ha una rete e una catena di università da fare invidia, lo dico poiché le conosco personalmente avendovi tenuto molte lezioni. Il Brasile è anche portatore di uno stile e di una modernità nell’architettura che si vede anche nei musei».

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Eppure De Masi ha l’impressione che il Brasile, come l’Italia, non dia il meglio di sé. «A mio parere dà il meglio nell’antropologia, e per questo va ringraziata la storia: quando i portoghesi sono giunti in Brasile non hanno trovato il vuoto come sembrerebbe dalle storie del Brasile studiate dagli stessi brasiliani, che iniziano sempre dal 1500 e cioè dall’arrivo di Cabral: anche all’epoca di Omero e di Giulio Cesare il Brasile era abitato da una popolazione meravigliosa, a cui si deve la dolcezza del carattere e la passione per l’estetica. Era questa una popolazione che non aveva bisogno di lavorare per vivere perché arrivava tutto dalla natura, non aveva bisogno di combattere per dividersi le risorse, e quindi si dedicava prevalentemente a due elementi: la contemplazione della natura e l’estetica. Avere come eredità migliaia di anni in cui la popolazione era come quella ateniese di Pericle senza però la belligerenza, credo che sia stato un patrimonio strepitoso. L’arrivo dei portoghesi porta a una prima grande mescolanza, nascono i mamelucchi, poi arrivano gli africani e nascono i mulatti, poi arrivano gli italiani, i tedeschi, i libanesi, i giapponesi, ci sono 44 etnie con tantissime sfumature di colore».

«Tutto questo ha portato ai grandi punti di forza del Brasile, a partire dal concetto di accoglienza: mai il Brasile avrebbe costruito muri. Dal Brasile ci viene anche il concetto di solidarietà e il concetto di pace (40 etnie convivono insieme e vanno d’accordo mentre negli Stati Uniti ci sono le chiese per i neri e le chiese per i bianchi), è un Paese che ha 11 Paesi confinanti, e mentre noi con i nostri pochi Paesi confinanti in 500 anni abbiamo fatto 80 guerre, il Brasile ha fatto una sola guerra contro il Paraguay e devo dire che ci mise lo zampino anche Giuseppe Garibaldi. Un Paese che per 500 anni non si è addestrato alla guerra non ha bisogno di avere un grande esercito, non ha bisogno di alimentare aggressività nei confronti dei vicini. Tutto questo si vede nella dolcezza delle persone e nella filosofia del Brasile. Il mio grandissimo amico architetto Oscar Niemeyer ha scritto che ciò che conta non è l’architettura, ma la vita, gli amici, e questo mondo ingiusto che dobbiamo modificare. In questo momento il Brasile sta passando un brutto momento, un momento che assomiglia a quello italiano del 1992 con tutto quello ha comportato dopo, ma credo che le qualità intrinseche del Brasile siano tali da fargli ritrovare presto un punto nuovo di ripartenza, perché ha sempre avuto queste grandi capacità di resilienza».

«Per quanto riguarda la situazione attuale io dico che sta attraversando la sindrome di Galois; Evariste Galois è stato un grande matematico morto a 20 anni in un duello. A 16 anni aveva iniziato a scrivere sette grandi teoremi e la notte prima del duello in cui avrebbe trovato la morte, la passò a scrivere questi 7 teoremi anche se non aveva il tempo materiale per dimostrarli tutti, e di questi teoremi 5 ne sono stati dimostrati. Ci sono dei popoli che quando hanno un compito lo rinviano sempre fino a quando, alla fine, non se ne può fare a meno e si trova un colpo d’ala che risolve il problema; il popolo italiano è così, il popolo brasiliano è così, io sono sicuro che da questa situazione in cui noi ci troviamo insieme al Brasile ne verremo fuori con un colpo d’ala e ci saranno delle cose meravigliose. La storia del Brasile è una storia di stupore: quello che è venuto dopo è stato sempre migliore di quello che si sarebbe potuto immaginare, perciò sono certo che queste Olimpiadi avranno la forza per determinare questo colpo d’ala».

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SANDRO FIORAVANTI. «Le Olimpiadi trasformano le città, Barcellona si è aperta al mare per la prima volta nella propria storia grazie alle Olimpiadi, ma non è soltanto questo: l’Olimpiade ha sempre segnato qualcosa, come quella del 1960 in Italia che in qualche modo ha voluto riscattare l’idea di un’Italia differente, un’Italia che fino a poco tempo prima scambiava gli operai con il carbone. È questo un momento che ha una rilevanza assoluta, vi si rinvengono elementi e valori condivisi che si accorpano, in 16 giorni, in una sorta di Natale in cui esiste un villaggio globale meticcio in cui appare possibile convivere tra diversi, in un sentire comune. Nel 1948 abbiamo ricucito le ferite della guerra anche se non sono stati invitati alcuni perdenti, ma al di là di questo non invito degli sconfitti, c’è sempre stato un riunirsi e un ritrovare qualcosa, la stessa torcia olimpica del 1936 era stata autorizzata forse con altri fini ma nel 1948 l’Italia ricucì con questo percorso quelle ferite che la guerra aveva causato».

Tutto questo, secondo il vicedirettore di RaiSport, trova un filo conduttore nel 1964 quando per accendere il tripode fu impiegato un ragazzo nato lo stesso giorno che fu sganciata la bomba a Hiroshima a simboleggiare la rinascita del Giappone. «L’Olimpiade avrà un valore assoluto per il Brasile anche se esso non ha bisogno di riaffermare quello che dovette riaffermare Roma nel 1960, però certamente sarà importante raccontarlo in modo differente, perché ancora oggi Rio si ammanta di meravigliose bellezze e di questo sentire gioioso che appare nell’immaginario collettivo ma sicuramente ci sono cose che ancora non garbano e di cui addirittura si ha paura. Tutto questo sarà superato certamente nel periodo olimpico e mi auguro che abbia effetti anche nell’avvenire. Il nostro racconto sarà su 3 canali HD, per quanto riguarda il racconto televisivo sarà su 25 canali raggiungibili attraverso la rete, ci auguriamo di riuscire in questo racconto – sia pure molto concitato e concentrato dato che vi sono 46 discipline olimpiche da coprire in solo 16 giorni – a rendere gli elementi non solo del Paese ospitante ma anche dei Paesi ospitati, con tutti i messaggi annessi che un’Olimpiade lancia».

«Quella di Atlanta probabilmente è stata l’Olimpiade meno bella di tutta la storia recente per vari motivi. È forse da quel momento che le Olimpiadi sono divenute altro: basta vedere che per comprare i diritti televisivi fino al 2024 ci vuole un’enorme dispendio, diciamo che si è persa la misura del racconto, della trasmissione di un messaggio. La situazione non è ottimale da questo punto di vista. Le Paralimpiadi hanno mantenuto tutto questo intento: nel 60 le prime Paralimpiadi hanno guadagnato una sorta di sentire paritetico e noi le racconteremo in modo paritetico con gli stessi telecronisti e con lo stesso impegno. Spero che per il Brasile sia come è stato per Londra, dove gli stadi erano colmi durante le Paralimpiadi e probabilmente si è avvertito per la prima volta questo elemento, e cioè che si andava a vedere le gare e il competere, mentre 30 anni fa probabilmente si assisteva agli sport paraolimpici con una nota amara di compassione e commozione. Oggi chi è privo di una parte del corpo è come chi porta gli occhiali: un modo diverso di riuscire a fare le stesse cose, e talvolta addirittura meglio di chi i pezzi li ha tutti».

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CARLO MORNATI. Prosegue Carlo Mornati, vicesegretario generale del Coni e capo missione Rio 2016. «Stiamo facendo un grande sforzo perché Rio ci proietta alle Olimpiadi del 2016 ma ci fa da trampolino per quella che è la candidatura di Roma 2024, che è molto più vicina di quanto si possa immaginare poiché tutto si deciderà nel 2017. Il nostro sforzo è in linea con quello che è stato sempre fatto dal Comitato olimpico, che è uno dei Comitati olimpici più blasonati nel mondo. Siamo la quinta nazione per il numero di medaglie vinte e stiamo organizzando la nostra trasferta al meglio, con circa 300 atleti. Ciò significa che la delegazione sarà formata da uno staff di 650 persone. Ovviamente Rio de Janeiro rappresenta un messaggio ricco di simbolismo e anche la nostra spedizione vuole essere ricca di simboli a cominciare dalla nostra Casa Italia, una delle tante ‘ospitality house’ che costituiscono il punto di ritrovo per la comunità di appartenenza. Noi l’abbiamo voluto fare in maniera molto simbolica e significativa e sarà questo il modo in cui porteremo nel mondo il Made in Italy. Tornando al simbolismo olimpico, quando Pierre De Coubertin pensò alle Olimpiadi pensò sia a competizioni sportive sia a competizioni artistiche, presenti queste ultime dal 1912 a Stoccolma fino al 1948 accanto alle gare sportive».

«Ci siamo impegnati a fare in modo che Casa Italia sia un museo moderno che raccolga ciò che sono la cultura brasiliana e la cultura italiana. Portiamo anche la nostra tradizione culinaria contaminandola con la tradizione culinaria brasiliana perché abbiamo invitato sia degli che stellati italiani che brasiliani. Casa Italia sarà il nostro faro, perché la voglia e il desiderio di lasciare qualcosa è tanta, non è solo un evento sportivo di passaggio. Con Action Aid siamo impegnati da più anni e faremo in modo che 500 ragazzi con le loro famiglie della Rocinha saranno coinvolti in una sorta di educazione al cibo e allo sport lasciando una piccola testimonianza di quello che è stato il passaggio dell’Italia a Rio. Sono convinto che saranno dei grandissimi giochi a prescindere da quella che sarà la realizzazione infrastrutturale perché veramente c’è un calore umano che va oltre a quello che l’elemento agonistico in sé», conclude Mornati.

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LUCA PANCALLI. Luca Pancalli è un pentatleta, nuotatore, dirigente sportivo e politico italiano. Praticare attività sportiva ad altissimo livello nonostante sia costretto su una sedia a rotelle. «Vorrei fare una riflessione sulla dimensione paraolimpica che Rio sta preparando a ospitare subito dopo le olimpiadi, legata anche e soprattutto alla riqualificazione sociale e culturale. Credo che mai come oggi le Paralimpiadi rappresentino l’occasione strategica per un Paese di accelerare i processi di attenzione verso le fasce deboli della società che necessitano di grandi eventi per poter gridare al mondo ‘esistiamo anche noi’. Sono ormai tanti anni che mi occupo di dimensione paralimpica come presidente del Comitato italiano paralimpico ma anche a livello internazionale, ho visto negli ultimi 8 anni il progresso straordinario che ha fatto il Comitato paralimpico brasiliano sull’onda dell’assegnazione dei giochi del 2016. La dimensione paralimpica del Brasile 8 anni fa era quasi nulla, oggi invece è tra le prime nazioni al mondo, quindi dal punto di vista sociale sfuma la grande attenzione all’evento sportivo per appropriarsi della dimensione sociale poiché si genera una cultura della solidarietà e dell’inclusione».

«Probabilmente–prosegue Pancalli– assisteremo a degli straordinari giochi olimpici e forse ai più belli della storia dei Paralimpici, perché nella dimensione paralimpica il progresso è talmente veloce che Paralimpiade dopo Paralimpiade assistiamo a qualcosa di straordinario ed inimmaginabile dei nostri atleti. Sicuramente sarà anche un esempio per noi per quanto riguarda Roma 2024, poiché guardiamo a quelle città che hanno saputo sfruttare quest’occasione nell’idea di sviluppo urbanistico della città. Oggi siamo candidati e stiamo tentando di coltivare questo sogno di regalare a questa città un’occasione e un’opportunità. Se noi oggi vogliamo proiettare Roma nell’ambizione di regalare un sogno nel 2024, ciò è perché siamo fiduciosi che quello che stiamo facendo oggi come Paese e come città in futuro si possa realizzare come sogno. Roma non ha bisogno di punti di forza, Roma è Roma con i suoi 2700 anni di storia stratificati sulle proprie pietre, Roma è la città eterna capitale della cultura e della civiltà, ogni angolo di Roma ci racconta una storia, il punto di forza di Roma è la città stessa e noi romani dobbiamo convincerci del fatto che possiamo essere forti perché vogliamo prospettare un’Olimpiade della cultura, della bellezza, dell’innovazione, della sostenibilità».

«Pochi sanno che Roma rappresenta la città che ha maggiori spazi verdi in Europa. Vogliamo dare a Roma un’occasione di rilancio e un’opportunità organizzando e candidandoci per due grandi eventi sportivi ma soprattutto partendo da la dove le Olimpiadi del 1960 ci hanno portato, regalandoci la Via Olimpica, il sottopasso del Lungotevere, il Villaggio Olimpico e tutte le strutture infrastrutturali, lo Stadio Olimpico, lo Stadio dei Marmi, il Foro Italico. Ripartiamo paradossalmente da quelle cose che in qualche modo sono e rappresentano Roma 1960.Abbiamo già il 70 per cento degli impianti e possiamo ripartire imparando dagli errori del passato. Non serve costruire cattedrali nel deserto, serve costruire quello che è necessario per ospitare due grandi eventi sportivi, ma solo laddove questa infrastrutture sportive avranno ragion d’essere nel futuro perché, se non saranno accompagnate da piani economici gestionali e di sostenibilità nel post evento olimpico, saranno solo strutture temporanee non utili».

«Bisogna intervenire laddove è necessaria una rigenerazione urbana e infrastrutturale, si pensi all’area di Tor Vergata dove c’è ancora la ferita aperta della Vela di Calatrava, da noi individuata per ospitare il Villaggio Olimpico. Ci sono ancora altre infrastrutture che poi, terminate le Olimpiadi, saranno smontate mentre altre saranno usate dalla città riqualificando un’area che forse soltanto con l’evento olimpico e paralimpico avranno un senso. Non so quale amministrazione sarà in grado di immaginare di riqualificare quell’area senza l’occasione di un grande evento che attrae economie e risorse importanti. A me viene da sorridere quando mi si antepone il problema della buca all’organizzazione di un evento olimpico, la buca va a priori aggiustata, invece l’evento olimpico è un acceleratore rispetto a delle risposte che la città sta aspettando da troppi anni. I cittadini romani lo meritano».      (ROMINA CIUFFA)

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Anche su SpecchioEconomico – Giugno 2016

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BRASILE: CHE SUCCEDE? CON ICBIE EUROPA ONLUS LA DIFFERENZA TRA COLPO DI STATO ED IMPEACHMENT È SPIEGATA MEGLIO

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L’incontro «Brasile: che succede?», tenutosi a Roma il 16 aprile 2016 nelle sale dello Spin Time Lab di Via Statilia, ha messo in luce alcuni punti brasiliani di cui oggi si parla ma che molti stentano a comprendere: dal colpo di Stato all’impeachment del presidente Dilma Rousseff. Cosa sta davvero accadendo? Lo spiega l’Icbie Europa Onlus presieduta dall’avvocato Paolo Mauriello, figlia dell’Icbie Salvador, insieme a Rioma Brasil e all’associazione Meta Brasil costituita in Roma; relatori il professor Alfredo Copetti Neto dell’Università Statale del Paranà, Fabio Marcelli dell’Associazione dei Giuristi Democratici, Gislaine Marins di RAiZ-Movimento Cidadanista.

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L’Icbie brasiliana è stata pensata non solo come luogo di istruzione formale, ma come punto di scambio interculturale nonché sede operativa di riferimento sul territorio per la popolazione locale (soprattutto giovani). Lo scambio è inteso anche come dialogo culturale tra Italia, Europa, Sud e Nord America e luogo d’incontro tra persone provenienti da estrazioni sociali diverse, disposte a mettere al servizio della comunitá Icbie la propria professionalità e abilità artistica per contribuire allo sviluppo culturale, della formazione e dei mestieri, aumentando in tal modo le speranze e le prospettive future per una occupazione e un’inclusione sociale dei propri studenti, in un momento di grande crescita economica del Brasile. A Roma, essa opera come Icbie Europa.

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Mauriello spiega: «Vorremmo farci un’idea della reale situazione brasiliana. L’Icbie Europa, onlus che opera nell’edificio occupato dello Spin Time, ha pensato di organizzare un incontro specifico insieme a Rioma Brasil e Meta Brasil, per confrontarci sul Brasile che in qualche modo tanto amiamo. Effettivamente la situazione brasiliana, oltre a mutare velocemente, pone una serie di interrogativi, e ognuno dei nostri relatori li affronterà in maniera differente. In Brasile il confronto è a dir poco aspro e lo si capisce anche dalla prospettiva italiana. Sicuramente alcune delle cose che accadono in Brasile preoccupano noi dell’Icbie, ci spaventa vedere che vi è qualcuno che invoca apertamente il ritorno della dittatura o che evoca persone che ebbero un ruolo nefasto e losco durante la dittatura, questo ci dispiace. Preoccupa che in una parte della società brasiliana ci sia disappunto per il processo di inclusione che ha visto gli ex svantaggiati o poveri essere i protagonisti di questi ultimi anni. Non ci piacciono i fenomeni di malcostume e le ruberie che imperversano, e lo dico soprattutto per coloro che più hanno avuto a cuore le sorti del Partito dei lavoratori, il PT, assistendo a prese di posizione di personaggi che a non tutti piacciono».

Seguono gli interventi di Gislaine Marins, Alfredo Copetti Neto e Fabio Marcelli, come seguiti da Rioma.

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«A prescindere dalla posizione che un brasiliano possa avere riguardo a tutta questa vicenda, sicuramente è una situazione di sofferenza per noi». Gislaine Marins è membro di RAiZ, una nuova formazione politica e un nuovo movimento della sinistra brasiliana. Cita il discorso di Dilma Rousseff in cui la presidentessa presenta il documento della Commissione sulla verità sui crimini della dittatura militare selezionando tre affermazioni di Dilma: 1 – «Sono sicura che i lavori della Commissione sono il risultato dello sforzo della ricerca della verità, del rispetto della verità storica e dello stimolo alla riconciliazione del Paese con se stesso tramite la verità e la conoscenza. 2 – «Ora la verità permette che si possa dire, capire e sapere tutto, la verità significa l’opportunità di promuovere il nostro incontro con la storia del popolo». 3 – «Meritano la verità coloro che continuano a soffrire come se morissero di nuovo e sempre ogni giorno». Nell’affermare ciò Dilma si è trattenuta dal piangere. La dittatura è una cosa indegna, non accettabile in un Paese civile.

Una breve cronistoria. Due giorni dopo le elezioni la Camera boccia il decreto bolivariano che istituisce i consigli popolari. Il 2 novembre 2014 i manifestanti a San Paolo chiedono l’impeachment di Dilma con l’intervento militare per destituirla a cui partecipano 2.500 persone. Il 18 dicembre 2014 il Partito socialdemocratico (PSD) chiede al tribunale elettorale di revocare la vittoria di Dilma perché è accusata di fare campagna con i soldi della corruzione. Il 4 gennaio 2015 il Partito democratico brasiliano (PDB) ritira il sostegno incondizionato a Dilma in Senato. Il 15 marzo 2015 il Brasile vive giorni di proteste massive contro Dilma, circa 1,4 milioni di manifestanti; sono passati solo 4 mesi dalle 2.500 persone che chiedevano l’impeachment di Dilma e hanno messo in moto questa macchina. Il 13 giugno 2015 parte la campagna elettorale di Dilma mascherata da intervista, cosa che è stata vista come un’accusa. Il 28 settembre 2015 il presidente della Camera brasiliana Eduardo Cunha, del Partito del Movimento democratico brasiliano (PMDB) afferma che saranno discusse le richieste di impeachment di Dilma e il presidente della Camera può o rifiutare o accettare le richieste e dichiara che l’analisi è parte della valutazione decisionale che si sta effettuando.

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Il 7 dicembre 2015 Dilma è accusata di mentire e sabotare il PDB, anche se da gennaio il PDB ha abbandonato il sostegno a lei. Il 16 marzo 2016 le intercettazioni complicano la situazione di Dilma e Lula e la diffusione di una telefonata aggrava la crisi politica. Il 29 marzo 2016 il giudice Moro ammette dinnanzi al Tribunale superiore federale di avere sbagliato nelle intercettazioni di Lula e Dilma. Il 30 marzo 2016 il PDB rompe con Dilma, e questa è la terza volta, il Governo promette un impasto e vuole il vicepresidente come golpista. L’8 aprile 2016 Cunha minaccia di accettare nuove richieste di impeachment contro Dilma e la misura verrebbe presa se il Tribunale superiore federale accettasse il processo contro il medesimo, presidente dalla Camera dei Deputati e terzo nella linea successoria ovvero eventuale vicepresidente in caso di allontanamento definito della presidente Rousseff.  «Quindi–sottolinea Marins–da uomo che valuta la situazione, si passa a un uomo che mette in atto un ricatto: se fai il processo di impeachment contro me, io accetto nuove richieste di impeachment contro Dilma. Una denuncia presentata al Tribunale superiore federale afferma che il presidente della Camera ha commesso reato di corruzione; vorrei sottolineare che contro Dilma non c’è nessuna denuncia di reato».

Nella seconda parte del suo intervento Gislaine Martins presenta i protagonisti della notte del 17 aprile, cioè del discorso di Dilma, i quali, ogni volta che si avvicinavano al microfono, dicevano «Voto per Dio, la famiglia e gli amici». Il partito di Dio, in Brasile chiamato «partito della Bibbia», non è un vero è proprio partito bensì uno schieramento trasversale perché racchiude più partiti. Si tratta del BBB, acronimo per la Bancada do Boi, Bíblia e Bala (bue per latifondisti, Bibbia per Bíblia e proiettile della pistola per bola). Questi parlamentari sono favorevoli al porto d’armi e la maggior parte di essi ritiene che la povertà e la criminalità siano legate alla mancanza di uguali opportunità per tutti.

«In questo caso–spiega la Marins–le uguali opportunità sono una specie di meritocrazia, cioè non sono politiche di inclusione, ma politiche molto individualistiche in cui viene valutata la persona povera che, lavorando, riesce ad uscire dalla povertà, come se questo fosse una cosa semplice. Purtroppo la società umana non dà sempre queste opportunità. Sono contro la pena di morte, sono proibizionisti rispetto alle droghe e difendono il controllo sociale dell’omosessualità, per essi le persone non devono parlare troppo altrimenti potrebbero influenzare coloro che sono potenzialmente omosessuali. Credono che Dio migliori le persone, sostengono che gli adolescenti debbano essere puniti come gli adulti e sono sostenitori dell’abbassamento dell’età penale per i giovani. Sono inoltre favorevoli al libero mercato senza mediazioni dello Stato, difendono la riduzione della presenza di quest’ultimo nell’istruzione e nella sanità in cambio dell’abbassamento delle tasse, e per la riduzione dello Stato in genere nella vita dei cittadini nonché per gli aiuti di Stato per le aziende in difficoltà dato che sono il principale vettore dello sviluppo economico. Questi sono quelli che votano Dio, adesso vediamo quelli che votano per la famiglia. Cunha vota per la famiglia, ma sua figlia e sua moglie sono sotto inchiesta; chi fa campagna elettorale dona il ricavato a se stesso. Essendo sotto processo, Eduardo Cunha potrebbe assumere la presidenza?».
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Marins passa dalla discussione politica alla discussione tecnica: «Uno dei principali problemi è che in Brasile con troppa leggerezza si compie una separazione tra tecnicismi e politica, come se i primi non fossero profondamente legati alla seconda». Quindi conclude il suo intervento con un riflessione sul ruolo dei mezzi di informazione in questa crisi politica: «Se è vero che abbiamo urgentemente bisogno di una riforma politica che impedisca il finanziamento privato delle campagne elettorali e che riempia il vuoto degli elettori, giacché oggi i deputati entrano nella Camera per quota di partito e non per numero di voti ricevuti – è altrettanto vero che abbiamo bisogno di rivedere il binomio politica-informazione: non vogliamo in alcun modo censurare la libertà di opinione ma dobbiamo creare anticorpi alla manipolazione dei dati, alle false notizie, ai dossier, alle mistificazioni, all’egemonia di alcune grandi famiglie nelle concessioni televisive; dobbiamo abolire senza indugio l’apologia alla tortura e ai crimini compiuti dallo Stato; niente di tutto ciò ha a che fare con la libertà di opinione. Non possiamo più accettare ad ogni stagione politica l’invenzione di casi scandalistici montati per sensibilizzare e influenzare gli elettori sommergendoli di informazioni per convincerli o per confonderli a seconda del caso, con voluta ambiguità e vaghezza e false notizie costruite ad hoc. Secondo voi, dopo tutto ciò, dobbiamo essere ottimisti?».

Sì. Risponde: «Dobbiamo esserlo per per amore verso il Brasile e verso il nostro popolo. Il Brasile è la più grande democrazia ed economia del Sud America, la seconda economia delle Americhe dopo quella degli Usa, una delle 10 economie del mondo, se crollasse trascinerebbe anche altri Paesi in una crisi economica: a chi conviene rovesciare la nostra democrazia? Purtroppo una risposta è certa: serve ai corrotti che vogliono sfuggire al giudizio delle istituzioni e del popolo brasiliano. Aiutateci a salvare la nostra democrazia, che è un bene di tutti».

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«Vorrei mettere in evidenza la situazione da un punto di vista giuridico», esordisce il professor Alfredo Copetti Neto dell’Università Statale del Paranà. «È un colpo di Stato l’impeachment di questi giorni brasiliani? Io rispondo sì e no: sì perché le formule usate dal sistema giuridico per mettere in evidenza una situazione che è molto difficile da essere provata come crimine, in realtà ci fa pensare se questo sia veramente legittimo; e no perché il nostro sistema politico-giuridico permette evidentemente la procedura dell’impeachment».

Naturalmente ci sono vari problemi, aggiunge Copetti: il primo, che è un problema interno del Governo brasiliano, l’impeachment fatto secondo la Costituzione brasiliana, è secondo lui un sistema fragile «perché non dà le garanzie di una Costituzione utilmente rigida in una situazione come questa. Alla fine lasciamo al Parlamento la decisione se c’è o non c’è un crimine di responsabilità del presidente, ossia: ammettiamo la procedura d’impeachment dalla Camera dei deputati che poi la invia al Senato che può decidere se mantenere o no la posizione della Camera e poi il Senato emette il giudizio materiale del crimine con la presenza del presidente della Suprema Corte. Da questa situazione vediamo come lo strumento di impeachment sia fragile, ma–aggiunge il professore paranaense–questo è l’unico strumento che abbiamo. Il secondo problema è che il Brasile ha già avuto un impeachment nel 1992, il primo presidente eletto dopo tanti anni di potere militare». Fa riferimento a Fernando Collor de Mello, primo presidente eletto a suffragio diretto dopo 25 anni di dittatura: prese invano diverse iniziative per migliorare la situazione economica del Brasile, ma le accuse di corruzione, evasione fiscale ed esportazione di valuta mosse contro di lui e del suo Governo spinsero la Camera dei deputati ad aprire un procedimento di impeachment nei suoi confronti (29 settembre1992). Collor de Mello fu destituito il 29 dicembre 1992, e il Senato lo dichiarò incompatibile con gli uffici pubblici per otto anni.

Schermata 2016-04-29 a 19.14.20«Studio diritto da 15 anni e non ho visto nessun libro, dopo l’impeachment di Collor, in grado di raccontarci giuridicamente i problemi correlati, di delineare prospettive utili, e di insegnarci una procedura veramente solida, e questo è un problema serissimo. Stiamo affrontando il medesimo problema di 24 anni fa e abbiamo lasciato la decisione alla Corte Suprema». Secondo Copetti, questa è una situazione in cui deve ragionare non soltanto la comunità internazionale, ma anche i giuristi brasiliani. Il terzo problema cui fa riferimento il professore riguarda la questione politica: «Noi abbiamo un Parlamento estremamente corrotto e fascista. Nelle ultime elezioni sono stati eletti i parlamentari più conservatori fin dall’epoca del regime militare, i rappresentanti del BBB non hanno nessuna capacità politica di rappresentare un popolo democratico e soprattutto un’istituzione democratica come il Parlamento brasiliano. Se prendiamo il procedimento d’impeachment di Dilma Rousseff e se scaviamo a fondo, andiamo a sapere che il presidente della Camera dei deputati, Eduardo Cunha, è accusato di corruzione del pubblico ministero federale e l’accusa è stata accettata dalla Suprema Corte perché il partito dei lavoratori non l’ha appoggiato alla Camera dei deputati».

Bisogna anche dire–sottolinea–che purtroppo il Parlamento è il riflesso della società brasiliana. Si prendano ad esempio le «pedalades», ossia la possibilità di avere o non avere crimini di responsabilità sull’attitudine della presidente. Sì o no? «Giuridicamente ci sono argomenti per tutte e due; sì perché Dilma non ha rispettato la legge finanziaria annuale, ha fatto dei decreti e poi ha promulgato un’altra legge diversa dalla prima alterando l’avanzo primario, e questo è o non è un crimine di responsabilità?». La legge dell’impeachment che regola il processo è del 1950; nel 2000 ha avuto un’alterazione dove si stabilisce, in una forma non molto precisa, in cosa consta il crimine di responsabilità fiscale; nel 2001 questa legge è stata revocata con la legge sulla responsabilità fiscale che vieta di fare le «pedalades», ossia stabilire rapporti economici-finanziari con le banche pubbliche, per poi alterare la legge: essa dice solo tale pratica è vietata, ma non dice nulla sul crimine.

«Ovviamente i Paesi democratici devono rispettare la tassatività della legge penale, fattore primario e garantista di tutte le repubbliche democratiche del dopoguerra», prosegue. «In Brasile vogliono replicare il fenomeno italiano di Mani Pulite; io, che studio diritto da tanti anni non ho mai visto in Brasile una riforma promossa dal sistema giudiziario, c’è un vincolo che si stabilisce tra il potere giudiziario brasiliano e il potere golpista, e la popolazione purtroppo non capisce ciò che sta accadendo nel Paese: se questo processo verrà approvato dal Senato si ritornerà indietro di 30 anni. Molti giuristi brasiliani, tra cui io, stanno difendendo le istituzioni democratiche che si stanno indebolendo sempre di più e stiamo lasciando l’ultimo soffio di vita costituzionale, repubblicana e democratica, alla Suprema Corte, che vuole che i militari ritornino al Governo. Questo è un duro colpo per coloro che credono nella Costituzione e nell’uguaglianza. Senza una riforma politica in Brasile ci saranno altri impeachment. Dobbiamo lottare e resistere per il bene del Brasile».

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«Si chiedeva Copetti se questo può essere ritenuto o meno un colpo di Stato», riafferma Fabio Marcelli, dirigente dell’Associazione dei Giuristi democratici a livello nazionale, europeo e internazionale. «Penso che possa e debba essere definito un colpo di Stato, anche al di là delle disquisizioni giuridiche che si possono dare sul termine. Il colpo di Stato è un termine di natura essenzialmente politica ed è innegabile che quello che sta succedendo in Brasile è un tentativo di colpo di Stato. Peraltro non è la prima volta che ciò avviene in America Latina, poiché la storia ne è costellata, ma qui assistiamo da qualche anno a una nuova generazione di colpi di Stato, che possiamo definire ‘soft’ e che passano attraverso i Parlamenti e procedure di impeachment più o meno formalizzate. Ne sono un esempio i casi in Honduras e in Paraguay, nei quali i due presidenti, eletti a suffragio universale, ottenendo un grande successo stavano portando avanti delle politiche che sul piano interno e internazionale andavano ad urtare degli interessi fondamentali ad alcuni».

Prosegue: «Gli Stati Uniti non si sono rassegnati a perdere il ruolo di potenza dominante dell’emisfero, al di là dell’immagine che il presidente Barack Obama ha voluto dare recandosi a Cuba e pronunciando parole di conciliazione ed apertura. Ma gli Stati Uniti non sono Obama, ci sono apparati militari e diplomatici che hanno una politica definita su questa base: bisogna affossare i Governi progressisti dell’America Latina». Secondo il giurista democratico, il principale di questi Governi progressisti è proprio il Brasile, centro dell’America Latina: «Colpendo il Brasile si colpisce al cuore il rinnovamento progressista che si avvale di personaggi quali Cunha e Temer per fare un colpo di Stato ‘soft’ in Brasile. Tempo fa ho conosciuto l’ex presidente del Paraguay, Fernando Lugo, vittima di questa strategia soft; mi ha ricevuto proprio nel suo ufficio in Senato, perché essendo stato un colpo di Stato morbido non è stato né ammazzato né tradotto in carcere, ma ha mantenuto un posticino nella politica essendo stato cacciato da presidente. E mi ha detto di essere stato detronizzato nel momento in cui ha posto il problema della riforma agraria, fondamentale e di primaria importanza in tutti i Paesi latino-americani dove il latifondismo è importantissimo anche per la composizione della classe dominante».

Schermata 2016-04-29 a 19.12.42«Finché le vacche sono grasse–prosegue Marcelli–ci sono soldi da spendere, e possono essere dati dei soldi ai meno abbienti. Uno dei risultati positivi del PT è stato il fatto che la quota della popolazione in miseria in Brasile si è dimezzata: sono 36 milioni le persone che sono uscite dalla miseria. Con la crisi economica non ci sono più soldi da spendere, e non è un caso che l’accusa nei confronti di Dilma sia quella di aver truccato i dati fiscali. Mi colpisce il fatto che questi soldi Dilma li aveva spostati appunto per finanziare i programmi sociali, e ciò rende evidente il fastidio della destra che si domanda perché si continua a dare denaro ai poveri. Questa posizione porta a disastri sociali, perché venendo meno detti programmi, nel giro di pochi anni le persone povere aumenteranno vertiginosamente. Non voglio dire che questo Governo non abbia delle responsabilità, perché molte cose si potevano fare e non sono state fatte e il PT ha dovuto fare molti compromessi».

E ancora: «Un’osservazione interessante è che noi, come sinistra italiana, siamo sempre stati antipresidenzialisti, invece in America Latina c’è il paradosso che il sistema presidenziale più o meno d’imitazione statunitense porta a votare presidenti progressisti mentre il Parlamento è pieno di persone poco raccomandabili e di poteri forti. Il tema della riforma politica è stato posto da Dilma dopo la sua rielezione nel 2014 ed è proprio da quello che è partita la controffensiva. Bisogna far sì che i partiti siano davvero uno strumento di partecipazione democratica e popolare e non gruppi che fanno i propri comodi a spese dello Stato e del pubblico. Se ne può uscire con una mobilitazione popolare che in Brasile sta cominciando a venire fuori: questo golpe non può essere accettato passivamente, le piazze devono esser messe a sostegno della democrazia».     (ROMINA CIUFFA)

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Anche su SpecchioEconomico – Maggio 2016

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TURISMO INTELLIGENTE E CULTURALE: LE NUOVE SFIDE E PROSPETTIVE PER IL BRASILE E L’ITALIA SECONDO GEOGRAFI ED ACCADEMICI

Brasile e Italia, quale politica turistica? Glaucio José Marafon, Marcelo Antonio Sotratti e Marina Faccioli, nel libro «Turismo e território no Brasil e na Itália-Novas perspectivas, novos desafios», raccolgono gli interventi di geografi ed universitari: è questo il risultato di un lavoro di cooperazione tra l’Istituto di Geografia Igeog della Uerj, l’Università dello Stato di Rio de Janeiro, e il Dipartimento del Turismo dell’Università di Roma Tor Vergata. Cinque testi brasiliani e cinque italiani.

Nuove prospettive e nuove sfide al centro anche del convegno del 2 febbraio 2016, ospitato a Palazzo Pamphilj, sede dell’Ambasciata del Brasile in Italia. Presenti i geografi Marafon, dall’Università Uerj di Rio de Janeiro, e Faccioli, dall’Università di Roma Tor Vergata, il professor Aniello Angelo Avella, che del libro ha scritto la prefazione e si presenta a nome dell’Istituto italiano di cultura di Rio de Janeiro; con essi dibattono André Cortez per l’Ufficio Promozione commerciale, Investimenti e Turismo dell’Ambasciata, segretario del settore politico e dei rapporti con il Parlamento (sono con lui Flaminia Mantegazza e Ana Paula Torres), Ottavia Ricci per il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Giuseppe Imbesi dalla Sapienza di Roma, Stefano Landi dalla Luiss-Guido Carli, Stefano Sassi, giornalista ed economista, e Maurizio Vanni, dall’Università del Museo sociale argentino di Buenos Aires. L’incontro è arricchito dalla presentazione del video speciale della Rai «I 450 anni di Rio de Janeiro e il contributo degli italiani».

Contribuiscono al testo alcuni professori dell’Igeog: Amanda Danelli Costa, Clara Carvalho de Lemos, Marcelo Antonio Sotratti, Rafael Angelo Fortunato, Vanina Heidy Matos Silva; da Tor Vergata Alessandro Macchia, dalla Sapienza e la Politecnica marchigiana Paola Nicoletta Imbesi, le ricercatrici Anna Tanzarella e Francesca Spagnuolo; e Christovam Barcellos per la Fundação Oswaldo Cruz. Il libro è edito dalla stessa Uerj.

ANIELLO ANGELO AVELLA. «Navegar é preciso», bisogna navigare. Così Avella introduce il volume, citando Fernando Pessoa. E specifica: viaggiare sì, ma intelligentemente. Il turismo culturale, fenomeno di grande attualità («espressione resa problematica dalla difficoltà di definire e conciliare i termini turismo e cultura», specifica), merita di essere studiato nei suoi diversi aspetti, tra i quali hanno rilievo i «motivi legati alla tradizione del viaggio culturale e alle sue implicazioni socioeconomiche, utili a mostrare i meccanismi per mezzo dei quali è possibile usufruire della cultura come momento di ozio».

È altresì necessario ricordare la peculiarità del «nuovo» a cui porta il viaggio, creando relazioni tra persone e popolazioni differenti e situazioni di socialità che producono trasformazioni delle identità sociali. Ciò causa, secondo il professore filobrasiliano, la messa in discussione del proprio stile di vita e dell’immagine di sé agli occhi degli altri.

Del Brasile Avella è un grande esperto: professore di Storia della cultura dei Paesi di lingua portoghese nella Facoltà di Lettere e filosofia di Roma Tor Vergata, responsabile scientifico della cattedra Agustina Bessa-Luís istituita presso la stessa facoltà dall’Instituto Camões (Ministeri della Cultura e degli Affari esteri del Portogallo), «visiting professor» nella Universidade do Estado do Rio de Janeiro (Uerj), coordinatore degli accordi di cooperazione scientifica di Roma Tor Vergata con le università brasiliane. Oltre a ciò, è associato al Consiglio Nazionale delle Ricerche e fondatore dell’Associazione eurolinguistica Sud; è socio della più antica istituzione culturale del Brasile, l’Instituto histórico e geográfico brasileiro, fondato nel 1838; è membro dei consigli scientifici ed editoriali di riviste internazionali; ha ricevuto nel 2004 il riconoscimento della «Medaglia Tiradentes» dall’Assemblea legislativa dello Stato di Rio de Janeiro. È autore di numerose pubblicazioni nell’ambito delle relazioni culturali fra l’Italia e i Paesi di lingua portoghese, in particolare il Brasile. Per il quale consiglia, al «visitatore intelligente», una guida speciale: la collezione che Don Pedro donò al Brasile stesso subito dopo la morte della moglie napoletana, Teresa Cristina di Borbone, dalla quale prende il nome. 20 mila pezzi, da libri rari a fotografie d’epoca e quadri di grandi autori italiani (ci sono anche Tiziano, Annibale Carracci e Salvator Rosa), collocati a Rio de Janeiro tra la Biblioteca nazionale, il Museo storico nazionale e l’Istituto storico e geografico brasiliano (IHGB).

Riporta Avella che, grazie all’imperatrice napoletana, in Brasile si rinvengono anche elementi di arte etrusca e pompeiana, che lei portò con sé nel bagaglio sulla nave che la condusse a Rio nel 1843. Oltre a ciò, la statua del greco Antinoo, che lei donò, nel 1880, all’Accademia di Belle Arti di Rio, oggi trasferita nel Museo nazionale delle Belle Arti. Per l’esperto è proprio la borbonica Teresa Cristina uno dei principali punti di giuntura per la cultura italo-brasiliana, e fu lei a rendere Rio de Janeiro punto di partenza e di arrivo delle escursioni oltreoceaniche nei campi della musica, della letteratura, del teatro, delle arti plastiche, con implicazioni politiche e sociali. Per questo il Secondo Impero fu, secondo lo studioso, un momento decisivo (l’espressione è di Antonio Candido) nella costruzione del sistema di relazioni politiche, sociali e culturali tra Brasile e Italia, quando queste da episodiche divennero sistemiche.

Ricorda anche Nísia Floresta (1810-1885), educatrice e poetessa brasiliana pioniera del femminismo in Brasile, direttrice di un collegio a Rio de Janeiro e autrice di numerose pubblicazioni in difesa di donne, indios e schiavi. Nata nel Rio Grande do Sul, avendo abitato anche nel Pernambuco e a Rio de Janeiro, si trasferì nel 1849 in Europa (Portogallo, Inghilterra, Italia, Grecia ed altro) fino addirittura a morire a Rouen, in Francia.

Primo forte collegamento: è il 1859 quando a Firenze pubblica «Scintille d’un’anima brasiliana», cinque saggi («Il Brasile», «L’abisso sotto i fiori della civiltà», «La donna», «Viaggio magnetico» e «Una passeggiata al giardino di Lussemburgo»); ed è il 1864 quando a Parigi è dato alle stampe il primo volume di «Trois ans en Italie, suivis d’un voyage en Grèce», dove la scrittrice affronta i problemi politici e sociali italiani e riflette sulla storia e le manifestazioni culturali locali. Per il prefattore del libro curato da Marafon, Sotratti e Faccioli, quello di Floresta costituisce un diario di viaggio valido per lo studio della storia italiana dal punto di vista dei dominati.

Anche Carlos Magalhães de Azeredo, fondatore dell’Accademia brasiliana di Lettere, parla della «divina Roma» nelle sue memorie ricordando gli anni in cui vi abitò nell’ultima decade dell’800, mentre Cecília Meireles ne contempla le rovine tra i suoi «Poemas italianos» del 1953: per lei Roma è il principio di tutto. Quindi Murilo Mendes, Haroldo de Campos, Antonio Callado, Silvano Santiago etc. Senza dimenticare Sérgio Buarque de Holanda, che insegnò a Roma tra il 1952 e il 1954, padre di Chico. Sì, proprio quel Chico Buarque destinato a divenire, da vivo, la leggenda non postuma del Brasile nel mondo, patrono di una nuova spiritualità basata sulle parole: esiliato nella capitale italiana nel 1969, ci conobbe per vie «di traverso». Rientrato in Brasile, questo tropicalista non avrebbe più dimenticato l’Italia, e il ristorante «Il Moro» a Fontana di Trevi.

MARINA FACCIOLI. Stereotipi. Affronta questo tema la geografa Marina Faccioli, tra i coordinatori del libro italo-brasiliano. Laureata in Geografia alla Sapienza di Roma con una tesi sullo sviluppo dell’area metropolitana romana, dottorato di ricerca in Geografia urbana e regionale, ricercatrice per l’Istituto di Geografia economica a Verona, professore associato di Geografia nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Tor Vergata, ha studiato le relazioni fra trasformazioni del processo produttivo e forme di riqualificazione delle risorse culturali localizzate, con specifico interesse per un’analisi in chiave regionalista. Filo conduttore della sua attività di ricerca è il tema della valenza culturale che il sistema territoriale locale è in grado di esprimere quale soggetto di forte coesione socio-economica, con particolare riguardo alla definizione e alla qualificazione di una cultura urbana di carattere postindustriale.

«Non credo che i nostri giovani vadano in Brasile in cerca di stereotipi. Dico sempre che non si conosce una città guardando i monumenti ma girando per le strade, e sono convinta che i giovani siano intelligenti, formati, attenti e sensibili a questo». Aggiunge: «Facendo lezione ai ragazzi brasiliani ho trovato delle differenze con i nostri». Innanzitutto disponibilità e fidelizzazione nei confronti degli italiani, da una parte insita nella storia, dall’altra data dall’eco dell’industria italiana, che «ha insegnato molto in Brasile». Altre diversità riscontrate sono nel «senso della terra, che noi non conosciamo: non abbiamo una storia agricola come quella dei brasiliani, appartenenti a un modello istituzionale di agricoltura familiare».

L’attaccamento alla terra, secondo la geografa, ha condizionato e orientato le modalità di politica turistica accolte dai brasiliani, ossia un turismo nelle campagne diverso da quello agrituristico tipico dell’Italia. Questa differente attitudine raccoglie la domanda dei visitatori che vogliono conoscere qualcosa di più degli stereotipi. Da anni, riferisce, sono attive esperienze di turismo etico in campagna, dove si va a conoscere lo stile di vita a partire da una formula di turismo solidale. «Il loro attaccamento alla terra mi ha stupito, perché sta nella capacità di autopromuoversi».

Rio non esisterebbe se non ci fossero le favelas, sostiene la relatrice. «Sulle favelas si è costruita la città», non si tratta di insediamenti, e lì «le persone oggi si autopromuovono e partecipano al gioco collettivo della valorizzazione turistica della favela stessa. Molti studenti vi si trasferiscono per studiare, proprio perché l’Italia non offre prospettive nel settore, i turisti a Roma continuano a diminuire, e non per gli attacchi terroristici. Dovremmo imparare anche noi a fare politica turistica. Intanto i ragazzi hanno cominciato a lavorare nelle favelas aprendo ristoranti e portando italianità».

Riguardo al mare, «dovremmo imparare dai brasiliani, noi che non riusciamo a valorizzare Ostia e rendiamo il litorale romano un pezzo staccato dalla città». Il mare «non basta più come spiaggia, sole, acqua» ma deve divenire il «pezzo di una grande città». Ciò porta oltre le diversità, è un processo identitario che si costruisce in tanti luoghi diversi. «Ho faticato a far capire ai brasiliani la nostra passione per il localismo, poiché hanno dimensioni tali che si parla di natura, foreste, terra e parchi». E di disponibilità culturale, conclude.

CLAUDIO JOSÈ MARAFON. Ricardo Vieiralves, rettore della Uerj, ha incentivato il lavoro congiunto con l’Università di Tor Vergata e, a partire dal 2010, è stata frequente la presenza di professori italiani nei corsi carioca in Geografia e in Turismo, spiega a Specchio Economico il professor Marafon. Questo ha portato comunque a una riflessione: il Brasile è un Paese che riceve ancora pochi turisti stranieri. «La politica del Ministero brasiliano va nel senso di ampliare i numeri dando maggiore visibilità al territorio brasiliano, per renderlo più attrattivo. Detto obiettivo–specifica Marafon–passa per una politica di sicurezza e divulgazione, giacché spesso l’immagine del Brasile è associata a violenza». E ciò non è necessariamente vero, sottolinea il professore.

Turismo sociale, turismo di avventura, natura: questi ed altri elementi garantiscono al Brasile «di poter ricevere sempre più visitatori da tutto il mondo». Ma la politica deve adeguarsi, ed è ciò che l’incontro di questi esperti mira a evidenziare. Infatti, il Brasile è noto solo per alcune delle innumerevoli attrattive.
Però il costo della vita sale anche per il turista: dopo i grandi eventi, e in prossimità del successivo, i Giochi olimpici 2016 che si terranno a partire da giugno, esso è cresciuto senza compassione.

Cosa pensa Marafon di questo? Costituisce un problema? «Stiamo vivendo una crisi molto forte che ha svalorizzato la nostra moneta, il reale: oggi infatti, un euro corrisponde a circa 5 reali. Per il brasiliano la vita è senza dubbio più cara, ma ciò torna a favore del nostro turismo–spiega–. Per il turista internazionale, infatti, è ora più economico recarsi in Brasile, e questo va visto come un vantaggio che abbiamo».

FLAMINIA MANTEGAZZA. Flaminia Mantegazza, responsabile dell’Ufficio Turismo dell’Ambasciata del Brasile, guidato da André Cortes, parla del «Brasile diverso», del Brasile come «esplosione della natura». Così: «Sono solita dire che l’Italia è un museo culturale a cielo aperto, il Brasile è invece un museo naturale. Nel miscuglio di razze presenti, 30 milioni sono gli italiani. Abbiamo ammirazione per la natura–prosegue–e insieme la necessità di valorizzare ciò che è nostro». Una tradizione che «chi è già stato in Brasile percepisce: quello che c’è fuori lo prendiamo e lo trasformiamo».

Si sofferma, quindi, sulla geografia. «Il Brasile è a 12 ore di volo dall’Italia, che racchiude 28 volte. L’influsso turistico brasiliano in Italia è il settimo, mentre gli italiani che visitano il Brasile sono terzi, superati da Francia e Germania. Il Brasile–prosegue Mantegazza–occupa la prima posizione per le risorse naturali, ma solo la ventottesima nell’indice di competitività internazionale. E siamo qui in Italia anche per imparare questo».

Non si può dire di conoscere tutto il Brasile, per estensione il quinto nel mondo con 8,5 milioni di chilometri quadrati, diviso in 5 regioni e sei bioma: Amazzonia, Cerrado, Pantanal, Caatinga, Pampa e Mata Atlântica. Ne fa un quadro veloce la responsabile dell’Ufficio Turismo: «L’Amazzonia è enorme, il fiume ha una dimensione di 6200 chilometri quadrati e da una sponda non si vede l’altra; esso va dai 3 ai 15 chilometri, ha 1100 affluenti e racchiude ogni specie di pesci. In tutto il Brasile si trovano ancora riserve indigene, non solo in Amazzonia ma anche nel Sud-Est e nella zona di Rio dove abitano le tribù». Queste sono, per la relatrice, le giuste esperienze da fare per un turismo sostenibile, con la possibilità di pernottare in palafitte immerse nella natura. Nel bioma amazzonico la spiaggia è visibile con la bassa marea del fiume, e i suoi alberi altissimi creano l’umidità necessaria a far sì che l’ecosistema si riproduca.

Il Cerrado è un bioma che «rappresenta il 23 per cento del territorio e attraversa 15 dei 27 Stati. Caratterizzato da arbusti bassi con una buccia dura e rami contorti e sparsi, ricco di animali e piante, ha una produzione e un’economia delle quali vivono 30 milioni di persone».

Della Foresta Atlantica fanno parte, tra l’altro, il Corcovado e Rio de Janeiro, infatti «al loro interno si trova la foresta che separa la parte Sud dalla parte Nord. Nel percorso di questo bioma vivono 120 milioni di persone e 10 tribù indigene, e da qui proviene il 70 per cento del Pil brasiliano. Cerchiamo di proteggere la foresta, ma essa è molto diminuita: oggi le istituzioni sono impegnate a preservarla. La Foresta Atlantica scorre e taglia tutto il litorale di Bahia».

La Caatinga è «una zona di cactus e piante grasse di foresta non molto fitta, che rappresenta il Nord-Est sconosciuto; comprende 10 Stati e il 10 per cento del territorio popolato da 27 milioni di persone. I cactus fanno parte di un ecosistema particolare perché si possono mangiare o bere». Invece in un altro bioma, quello della Pampa, ultimo Stato nella frontiera con Paraguay e Argentina comprendente il Rio Grande do Sul, «si trova una vegetazione diversa, con piante al di sopra dei 500-800 metri dal livello del mare, ottima per l’allevamento di bestiame. Qui sono le Cascate di Iguazù e molte altre belezze».

«Il bioma del Pantanal, invece–spiega ancora–comprende entrambi i biomi dell’Amazzonia e della Foresta Atlantica, i quali si contagiano a vicenda, creando un’esuberanza di territorio vergine piena di grotte e fiumi incontaminati con 263 specie di pesci e 2 mila specie di piante acquatiche. Dal 2 all’11 aprile 2016 ospiterà l’Adventure Week, frutto della grande tendenza brasiliana per il turismo di avventura e il turismo naturale».
E, ricorda, nel 2018 il Brasile ospiterà la Conferenza mondiale sull’acqua: esso, pur nei suoi problemi di siccità, raccoglie circa il 12 per cento di tutta l’acqua dolce del pianeta. «Certo che l’ecosistema è devastato. Sebbene riusciamo a mantenere tutto ancora in vita, non sappiamo fino a quando. C’è una grande coscienza delle autorità e del popolo, ma sappiamo anche che l’interesse economico, purtroppo, va oltre».

STEFANO SASSI. «Parlo sempre volentieri del Brasile anche se ritengo che sia una delle cose più difficili da fare». Così introduce il suo intervento il giornalista ed economista Stefano Sassi. «Non dobbiamo dimenticarci che stiamo parlando di un continente e non di uno Stato. Non si può parlare del Brasile pensando solo a Rio de Janeiro, anzi: forse la cosa meno brasiliana del Brasile è proprio Rio de Janeiro, che ritengo la più bella città dopo Roma. Non per i monumenti ma per la natura: quando i portoghesi arrivarono, videro questo fiume che brillava oro e capirono la bellezza del posto. È l’unica città nel mondo che ha all’interno un parco nazionale, scimmie e serpenti e, fino alla metà degli anni Ottanta, anche otto giaguari che sono stati spostati perché, affamati, scendevano nelle favelas».

Oggi si parla di cambiare l’immagine del Brasile, prosegue il giornalista. «Ho letto che i brasiliani cercano di dare l’appellativo di ‘viaggio intelligente’ alla visita in Brasile. Ma quando parliamo di cultura del Brasile dobbiamo decidere che cosa intendiamo per cultura. I 500 mila brasiliani che ogni anno vengono in Italia sanno esattamente che cosa vengono a vedere, i 200 mila italiani che vanno in Brasile non lo sanno. Al di là della fotografia particolare che tutti conosciamo, quella delle spiagge, le palme, le belle ragazze: ma il Brasile non è questo, o non è solo questo. Fino a qualche tempo fa non sapevo che vi sono reperti etruschi portati da una borbona, come non sapevo per esempio che in Brasile c’è la più grossa isola idromarina del mondo, più grande della Svizzera, con oltre 1 milione e 100 mila capi di bufali allo stato brado».

Sassi si sofferma a descrivere ciò che in Italia si sa meno del Brasile, dal genere musicale del Forrò (ben oltre il Toquinho che tutti sono abituati a conoscere), località che sono patrimonio dell’umanità (cita Minas Gerais), completamente conservate, indios, conventi francescani, alligatori. «C’è un problema di informazione. La lacuna è di voi brasiliani, che dovete far conoscere il vostro Paese, dire che cosa avete, perché il turista sceglie sulla base di quello che sa. Il Brasile andrebbe visitato in lungo e largo, ma ci vuole una vita».    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Febbraio 2016

 

 




7 SETTEMBRE: L’INDIPENDENZA DEL BRASILE DAL PORTOGALLO LUNGO UN CAMMINO DI SCHIAVITÙ E SANGUE

Il 22 aprile del 1500 Pedro Alvares Cabral avvistò terra: era l’attuale Santa Cruz de Cabràlia, nello Stato nordestino di Bahia. Il Brasile non era affatto una meta accattivante: abitata da indigeni, e non v’erano dichiarati propositi colonialisti da parte degli europei, sebbene quel territorio fosse stato già spartito tra Spagna e Portogallo, ancor prima della sua scoperta ufficiale quando, con il trattato di Tordesillas (7 giugno 1494), i due iberici definivano la frontiera che divideva il continente brasiliano da Nord a Sud, dall’attuale stato di Parà fino alla città di Laguna (modificata in seguito con l’espansione portoghese ad Ovest). Allo sbarco di Cabral l’intento era mite: si intendeva popolare le Americhe ed usare le terre brasiliane come base per il commercio con le Indie, l’impresa di navigazione puntava sugli scambi con i prodotti locali. Era necessario capire come.

L’occupazione vera e propria inizia comunque, sebbene 32 anni dopo, con la fondazione nello Stato di San Paolo di Vila de São Vicente, che è nel guinnes dei primati come la «cidade mais velha do Brasil»: nel 1531 il re del Portogallo João III inviò in Brasile i coloni con Tomé de Sousa, primo governatore generale. I portoghesi trovarono un popolo ingenuo (che li accolse prima di doverli odiare) privo di organizzazione militare che poterono assoggettare con facilità più che con destrezza e, in base al vecchio Trattato di Tordesillas integrato da quello di Saragozza del 1529, il nuovo territorio entrò ufficialmente a far parte della zona d’espansione territoriale del Portogallo. Risale al 1533 la prima struttura politica ed amministrativa brasiliana, basata sulle «capitanias», come volle re João III, concessioni terriere di tipo feudale date dal sovrano a nobili che, in cambio di un tributo, ottenevano pieni poteri sulla terra; ciò però implicava anche indipendenza di interessi presso ogni capitanato (ve n’erano 12), che di fatto era una comunità separata dalle altre, per tale ragione non attenta al commercio e alla difesa del Paese dagli interessi stranieri. Il re ritenne, per ovviare a questa dispersione, di fondare un potere centrale, nominando un governatore generale: il 29 marzo 1549 fu fondata la capitale, Salvador.

Fu allora che l’accoglienza brasiliana si tradusse in ostilità e nel conflitto bianchi-neri: da una parte i portoghesi costringevano gli oriundi a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, dall’altra la tratta degli schiavi fece giungere dall’Africa più di 4 milioni di neri. Contro le barbarità i preti gesuiti costruirono «reducciones», villaggi di civilizzazione e difesa contro le razzie dei coloni portoghesi e spagnoli, in cui i missionari accoglievano i fuggiaschi ed insegnavano la fede cristiana. Intanto gli schiavi si rifugiavano nelle regioni dell’interno più inaccessibili dove si organizzavano in «quilombos», il più emblematico dei quali è il quilombo di Palmares – comunità autonoma, regno o repubblica secondo alcuni – che occupava una vasta area, grande quasi quanto il Portogallo, nella zona nordorientale del Brasile, tra gli odierni Stati dell’Alagoas e Pernambuco, e che arrivò a contare 30 mila abitanti. Ancora oggi questo quilombo è il simbolo della resistenza degli africani alla schiavitù, così come lo è Zumbi dos Palmares.

Quando giunsero le navi della Compagnia Olandese delle Indie Occidentali nel Pernambuco, fu destabilizzato il mercato della canna da zucchero e facilitata la fuga degli schiavi per contrastare il Portogallo. Ma l’Olanda riuscì a prendere solo la città di Olinda e fu proprio a Palmares che gli olandesi puntarono, nel 1644, per tentare un’alleanza antiportoghese: primo tentativo olandese di conquistare le terre brasiliane ad onta della bolla papale «Ea quae pro bono pacis» del 1506 e del Trattato di Tordesillas che la stessa proteggeva, secondo cui alle nazioni europee differenti da Portogallo e Spagna che conducevano esplorazioni era negato l’accesso alle nuove terre, lasciandosi loro unicamente opzioni come la pirateria. Francesi ed olandesi provarono ad insediarsi, saccheggiarono Bahia, addirittura i secondi conquistarono temporaneamente la capitale e dal 1630 al 1654 si stabilirono nel Nordeste fondando la colonia di Nuova Olanda, padroneggiando una lunga striscia della costa più accessibile dall’Europa e controllando l’interno. Ma dopo anni di guerra aperta con i portoghesi gli olandesi si ritirarono, nel 1661.

Nel 1678 il governatore della Capitania de Pernambuco, stanco del lungo conflitto col quilombo de Palmares, si riappacificò col leader di Palmares, Ganga Zumbi, ed offrì la libertà a tutti gli schiavi fuggitivi a condizione che il quilombo si sottomettesse all’autorità portoghese; la proposta venne accettata ma Zumbi, sospettoso e contrario ad accettare la libertà solo per il quilombo mentre gli altri neri del Brasile rimanevano in stato di schiavitù, spodestò Ganga Zumbi divenendo il nuovo leader di Palmares, che invece soccomberà ai portoghesi nel 1694, dopo 94 anni di esistenza. Zumbi, tradito e denunciato da un vecchio amico, sarà localizzato, catturato e decapitato a 40 anni, per divenire eroe e martire. Ma l’insofferenza contro il dominio europeo si era ormai diffusa, oltre che nei quilombos e tra gli oppressi, anche nelle élite creole – strati benestanti di popolazione nata in America da genitori europei, molti dei quali iberici – che la cultura illuministica e le rivoluzioni americana e francese influenzavano.

Il Brasile, un secolo più tardi, giunse all’indipendenza senza una vera e propria lotta di liberazione nazionale, senza un vero e proprio (finale) spargimento di sangue, bensì per una decisione della famiglia regnante. Infatti, nel 1807 Napoleone invase il Portogallo marciando su Lisbona e il principe (futuro Pedro I), scortato dall’esercito britannico che fornì la protezione navale al viaggio, fuggì in Brasile giungendo a Rio nel 1808 e proclamandola capitale del Regno Unito di Portogallo. Il Brasile aprì i propri porti ed escluse lo status di colonia, provocando le ire di molti; così nel 1821 il re decise di rientrare a Lisbona e di lasciare il figlio Pietro come reggente del Brasile. Quest’ultimo, nonostante le pressioni dei liberali per tornare in patria, rimase (nel cosiddetto «Dia do Fico», ossia giorno dell’«io resto») e il Portogallo non poté più dominare il Brasile. Pietro I, istituendo una monarchia costituzionale, ne dicharò l’indipendenza il 7 settembre 1822 al grido di «Indipendenza o morte!», sulle rive del fiume Ipiranga.

Nelle negoziazioni del Congresso di Vienna, al Brasile fu data inizialmente condizione di regno all’interno dello Stato portoghese. Il Portogallo assunse la denominazione ufficiale di Regno Unito di Portogallo, Brasile e Algarve il 16 dicembre del 1815 (Gazzetta di Rio de Janeiro del 10 gennaio 1816), status che venne perso il 29 agosto 1825 dopo la ratificazione del Trattato di Rio de Janeiro siglato alla fine della Guerra d’Indipendenza del Brasile.

Il reggente João VI diveniva Imperatore Titolare del Brasile de jure, e simultaneamente abdicava in favore del figlio Pedro de Alcântara (Pedro I do Brasil), giuridicamente allora Principe Reale di Portogallo, Brasile e Algarve, già imperatore de facto del Brasile: in questo modo, alla morte del padre, avrebbero potuto eventualmente unirsi le due corone. Il Brasile aveva intanto, simultaneamente, un imperatore e un re (1822-1826) e due imperatori (1825-1827). Nel 1831 il regno passò a soli 5 anni a Pietro II, che dopo 9 anni di reggenze fu acclamato imperatore nel 1840, a 14 anni. Il suo regnò durò fino al 1889, quando fu rovesciato da un colpo di Stato che istituì la repubblica. Nel 1888, dichiarò l’abolizione della schiavitù.    (ROMINA CIUFFA)

Il 7 settembre il Brasile celebra l’indipendenza dall’incubo lusitano: colonialismo, corte e schiavismo che non fecero bene a un Paese che Paese ancora non era, bensì una terra totalmente vergine dalle dinamiche europee di conquiste e ricchezza, a scapito di un territorio e di una popolazione accoglienti. È istituita festa nazionale ma, mutata mutandis, la giornata del 7 settembre non è, per la popolazione, motivo di festeggiamenti, bensì occasione di protesta mentre il presidente Dilma Rousseff, vestita di bianco e con la fascia presidenziale, sfila a bordo della Rolls Royce cabrio ufficiale in testa al corteo di Brasilia, alla presenza di circa 25 mila persone. E lancia alla popolazione un videomessaggio, che traduciamo interamente.

Non senza anticipare ciò che Dilma ha fatto: non ha parlato di nulla, ha spostato il baricentro delle responsabilità del Paese prima al di fuori del Paese stesso (la crisi internazionale, i drammi dei Paesi emergenti, i rifugiati sulle spiagge europee) addirittura cogliendo l’occasione per invitarli a recarsi in Brasile, ove saranno accolti (ma come?); quindi spostando il medesimo baricentro in una visione autoattribuente, con un locus of control interno del tipo «il problema è dentro di noi». In un discorso nel quale si fa retorica senza empatia e dove sono presenti molte ripetizioni e scarsa capacità linguistica e comunicativa, accompagnato, per di più, da stacchetti di forte impatto, stile Casa Bianca, che aprono ciascuno dei paragrafi in cui esso è stato distinto. «Casa verdeoro».

L’avvocato e politico Flavio Bierrenbach, per anni ministro del Tribunale militare, ha commentato altri discorsi della Rousseff: «Seguo la politica brasiliana attentamente da sempre. Ho già visto nella mia vita presidenti che sono buoni oratori, cattivi oratori, mediocri oratori: non ho avuto alcuna sopresa dinnanzi a quello che è quasi un caso di dislessia, incapacità di formulare un’idea con inizio, discorso e conclusione, incapacità di comunicare qualcosa. La presidentessa brasiliana non sa comunicare. Dovrebbe leggere. Risulterebbe più semplice, più intelligente per se stessa e per i suoi discorsi». Mentre, per lo storico Leandro Karnal: «Non è necessario sapere di tutto, o parlare di tutto: il silenzio è meglio in certi casi e crea un’utile illusione di conoscenza sullo spettatore».

La traduzione è effettuata senza apportare modifiche al discorso, mantenendo anche le ripetizioni. (ROMINA CIUFFA)

DILMA ROUSSEFF. «Cari brasiliani e brasiliane, voglio parlarvi oggi, 7 settembre, giorno dell’indipendenza del Brasile, come un momento per riflettere, parlare delle nostre preoccupazioni sul presente ed il futuro del Paese. È vero che attraversiamo una fase di difficoltà, affrontiamo problemi e sfide, e so che la mia responsabilità è quella di presentare percorsi e soluzioni per fare ciò che deve esser fatto. I problemi e le sfide derivano da un lungo periodo di azioni di un Governo che ha compreso di dover spendere ciò che è necessario per garantire impiego, continuità di investimento, programmi sociali. Dobbiamo ora rivalutare tutte queste misure e ridurre quelle che devono essere ridotte. I nostri problemi vengono anche da fuori, e nessuno che sia onesto può negarlo: è evidente che la situazione in molte parti del mondo si è nuovamente aggravata per la crisi internazionale, colpendo ora i Paesi emergenti, Paesi importanti, anche partner del Brasile. Il mondo, oltre a questo, affronta tragedie di natura umanitaria, come quella scioccante dei rifugiati che muoiono nelle spiagge europee mentre cercano rifugio dalla guerra. L’immagine di un bambino di appena tre anni ha commosso tutti noi e ci ha posto una grande sfida».

«Noi, il Brasile, siamo una nazione formata da popolazioni delle più diverse origini che qui vivono in pace. Anche nelle più grandi difficoltà, o in crisi come quella che stiamo attraversando, abbiamo le braccia aperte per accogliere i rifugiati. Colgo l’occasione, nel giorno di oggi, per rinnovare la nostra disponibilità ad accogliere coloro che, espulsi dalla propria patria, vogliano venire qui a vivere, lavorare e contribuire alla prosperità e alla pace del Brasile».

«Insisto: le difficoltà sono nostre, e sono superabili. Ciò che voglio dire, con tutta franchezza, è che stiamo attraversando sfide. È possibile commettere errori, ma li supereremo e andremo avanti. Ecco alcuni rimedi a questa situazione: è vero, sono amari, ma indispensabili. Le misure che stiamo adottando sono necessarie per risistemare la nostra casa, ridurre l’inflazione ad esempio, rafforzarci dinnanzi al mondo, e condurre il Brasile nel più breve tempo possibile alla ripresa della crescita. Possiamo e vogliamo essere esempio per il mondo, esempio di crescita economica e di valorizzazione delle persone. Lo sforzo di noi tutti è quello che ci porterà a superare questo momento. Io lo so. E so anche che l’unione intorno al nostro Paese e al nostro popolo è la forza capace di condurci lungo questo viaggio. È il momento, questo, in cui dobbiamo sorvolare le differenze minori e mettere in secondo piano gli interessi individuali o di parte. Mi sento pronta a condurre il Brasile sul cammino di un nuovo ciclo di crescita, ampliando le opportunità che il nostro popolo ha per andare avanti con più e migliori impieghi. Noi vogliamo un Paese con inflazione sotto controllo, interessi decrescenti, rendite e salari alti. Posso garantire che nessuna difficoltà mi farà rinunciare all’anima e al carattere del mio Governo, che consistono nell’assicurare, in questo Paese di grandi diversità, opportunità uguali per la nostra popolazione, senza battute d’arresto, senza retrocessioni».

«Noi siamo stati capaci di tirare fuori dalla miseria milioni di persone ed elevarne altri milioni ai canoni di consumo delle classi medie. Cresceremo di nuovo per avanzare ancor di più in questo cammino, costruendo un Brasile di lavoratori e imprenditori, di studenti, di esperti nell’agricoltura, nel commercio, nell’industria, nei servizi. Ma sappiamo che ancora manca molto per ottenere questo e perciò abbiamo bisogno di tornare a crescere, per portare, ad esempio, educazione di qualità a tutta la popolazione, dall’asilo al dottorato. Abbiamo esperienze vincenti e voglio contare su una grande vittoria: abbiamo appena vinto il primo posto nelle Olimpiadi mondiali della conoscenza tecnica, cui hanno partecipato 59 Paesi, molto forti nella formazione professionale come la Germania, la Corea del Sud, il Giappone, la Francia. La buona notizia è che l’84 per cento dei vincitori avevano fatto o stavano per fare il Pronatec (il Programma nazionale di accesso all’insegnamento tecnico e all’impiego, ndr), un accordo tra il Governo e il Senai (Servizio nazionale di apprendimento industriale, ndr), che conferisce borse di studio per la formazione tecnica, e vorrei sottolineare che la famiglia di uno dei vincitori della medaglia d’oro ha ricevuto anche la Bolsa Família, che gli ha consentito di accedere alle Olimpiadi».

«Cari brasiliani, care brasiliane, il giorno dell’indipendenza deve essere un momento di incontro del Brasile con se stesso, una celebrazione e un tributo che prestiamo agli eroi che hanno lottato per un Brasile forte, libero, indipendente. È in questo giorno che dobbiamo pensare che Paese vogliamo per noi e per i nostri figli e nipoti. È in questo giorno che onoriamo gli eroi dell’indipendenza, che rendiamo omaggio a tutti i brasiliani che hanno lottato e dato la propria vita affinché il nostro Paese restasse sempre libero dall’oppressione».

«È in questo giorno che riaffermiamo quello che una nazione e un popolo hanno di meglio: la capacità di lottare e la capacità di convivere con la diversità, tollerante nei confronti delle differenze, rispettoso nella difesa delle idee, e soprattutto ferma a difendere la miglior conquista raggiunta e che dobbiamo garantire permanentemente: la democrazia e l’adozione del voto popolare come metodo unico e legittimo di eleggere i nostri governanti e rappresentanti».

«L’indipendenza, cari brasiliani e brasiliane, accade ogni giorno nel Paese, nelle nostre case, nelle nostre famiglie, dentro ognuno di noi. È la forza nella nostra autostima come popolo e la certezza che i brasiliani sono ciò che il Brasile ha di meglio, con il nostro lavoro, la nostra unione, il nostro sforzo per mantenere le nostre famiglie e creare i nostri figli e nipoti, con l’allegria con cui passiamo i buoni momenti ed il coraggio con cui affrontiamo quelli brutti. Siamo tutti in lotta per l’indipendeza del Brasile. Oggi, più che mai, siamo tutti il Brasile».  (ROMINA CIUFFA)

In Italia quest’anno l’Ambasciata brasiliana, con sede a Roma nel Palazzo Pamphilj di Piazza Navona, ha invitato a festeggiare il 193esimo anniversario attraverso un ricevimento privato tenutosi l’8 settembre. Rioma lo ha documentato. L’ambasciatore Ricardo Neiva Tavares ha accolto, insieme alla moglie Cecilia, gli ospiti. Pur mancando un momento culturale, una tavola rotonda che spiegasse cosa sia l’indipendenza per un brasiliano, cosa è accaduto e come si è arrivati a quel 7 settembre in cui il re portoghese stesso ha liberato il Brasile dal Portogallo, l’evento è risultato, come ogni anno, il momento di incontro di moltissimi personaggi che ruotano intorno all’area verdeoro, intorno a caipirinha, pão de queijo, brigadeiros e beijinhos. Presente innanzitutto l’Ambasciatore del Portogallo in Italia, Manuel Lobo Antunes, accreditato anche presso l’Albania, Malta e la Repubblica di San Marino e, come Rappresentante permanente, presso le organizzazioni delle Nazioni Unite con sede a Roma (Fao, Ifad e Wfp/Pam). La sua partecipazione significa molto e infonde all’evento un afflato di storia e resurrezione.

L’apertura di Palazzo Pamphilj, appartenuto dal 1470 alla famiglia Pamphilj, completamente rinnovato dal Cardinale Giovanni Battista Pamphilj che, dal 1644, chiamò i più importanti artisti e architetti dell’epoca, come Bernini e Borromini per riprogettare l’intero isolato, è sempre un momento importante, che coniuga la storia, l’arte e l’architettura italiane con l’insediamento brasiliano: l’edificio infatti, ospita dal 1920 questa Ambasciata, ed è diventato una proprietà brasiliana nel 1961. (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Ottobre 2015




TRATTAMENTI NEGLI ISTITUTI PENITENZIARI (PARTE DUE): L’EDUCAZIONE FORMALE IN CARCERE

La prima parte dell’articolo è contenuta al link: www.rominaciuffa.com/carcere-funzione-rieducativa

 

 

 

 

L’ISTRUZIONE IN CARCERE. Il verbo «educare» deriva dal latino e-duco, ossia «porto fuori». Si «portano fuori» norme, principi, valori, regole di comportamento. Anche nel caso di condanne molto lunghe, l’educazione formale è necessaria all’apprendimento di regole di civiltà da impiegare nei rapporti con gli altri detenuti, con gli operatori, nelle attività svolte all’interno del penitenziario, comunqhttps://www.rominaciuffa.com/wp-admin/post-new.phpue e sempre per valorizzare aspetti del sé non curati in precedenza. L’alfabetizzazione risulta essere carente all’interno dei luoghi di pena tanto per il basso livello sociale da cui provengono spesso i rei quanto per l’elevata presenza di extracomunitari; e, a monte, la sua assenza è tra le cause – fatte risalire a una più generale mancanza di educazione – che spesso conducono al reato. Un’istruzione formale è dovuta al carcerato secondo il senso più pregnante e diretto dell’articolo 27, comma 3 della Costituzione: rieducare vuol dire, prima di tutto, educare. Dunque, istruire.

Educare in carcere significa, prima di tutto, educare alla libertà: non solo quella del mondo libero, ma del mondo mentale. Il pensiero dev’essere costruito per divenire costruttivo, per capire il nesso eziologico di un’azione con la sua conseguenza. È necessaria un’educazione alla moralità, non intesa come valori di un ceto, di una classe politica o di una religione, bensì valori d’umanità, diritti dell’uomo, civiltà e regole, per la crescita del detenuto e la sua responsabilizzazione. Sulla religione, che è anche rieducazione ma che non va confusa con «moralità», sono sollevati problemi relativi alla multirazzialità e alla soggettività della scelta religiosa, anche in senso ateo.

La Costituzione del 1948, oltre a dettare la norma dell’articolo 27, statuisce nell’articolo 34: «1. La scuola è aperta a tutti. 2. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. 3. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. 4. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». La norma fissata dal Costituente impone al Legislatore di creare le condizioni per garantire l’istruzione in carcere, non più da intendersi come coercizione ma alla stregua di un’opportunità per i singoli detenuti.

Il termine «trattamento» era stato usato anche nella legislazione precedente, ma l’Ordinamento penitenziario ha provveduto ad una formale esplicazione. Questa visione più ampia rende necessaria la previsione di nuove figure di operatori, quali educatori, assistenti sociali, insegnanti, volontari (articoli 17 e 78 dell’Ordinamento stesso), psicologi, pedagoghi e psichiatri criminologi che, sotto il controllo interno del direttore dell’istituto e quello esterno del Magistrato di Sorveglianza, prestano la propria opera attraverso interventi singoli o di gruppo.

L’istruzione in carcere, oltre che un diritto costituzionale, è più che altro elemento del trattamento rieducativo del condannato: l’andamento e gli esiti influiscono sull’eventuale adozione di misure come permessi-premio o riduzioni di pena. Da cui se ne capisce l’importanza di un’attuazione a fianco della predisposizione di nuovi progetti: uno per tutti, quello di educazione ambientale del Centro di Educazione ambientale di Ferrara. Eppure, se nella quasi totalità delle carceri italiane viene garantito il diritto all’istruzione mediante corsi istituzionalizzati o gestiti da volontari, è di fatto impossibile consentire l’accesso alle lezioni di tutti coloro che ne fanno richiesta, i locali non sono idonei o non sono presenti, lo svolgimento delle attività è legato solo al senso di responsabilità e alla sensibilità dei singoli docenti.

L’ALFABETIZZAZIONE IN CARCERE. Il detenuto è un minore, un adulto, un extra-comunitario: richiede alfabetizzazione. Un’educazione permanente implica che se ne ripensi il contenuto in modo da tener conto di fattori quali età, differenze di sesso, lingua, cultura e status economico, handicap. È indispensabile che le procedure adottate in materia di educazione degli adulti siano fondate su eredità, cultura, valori ed esperienze pregresse degli interessati, e condotte per facilitare e stimolare la partecipazione attiva e l’espressione dei cittadini. Ma si è ancora lontani da una visione dell’educazione come sinonimo di scolarizzazione. Alfabetizzazione in carcere significa, dopo l’abc, informatica e biblioteca. Le prigioni devono esser dotate di tecnologia e personale, i mezzi garantiti da un elevato livello di sicurezza informatica per evitare manomissioni o «evasioni virtuali».

Si tratta, soprattutto, dell’apprendimento dei più comuni programmi informatici per l’avvio di una professione futura. La biblioteca carceraria deve offrire risorse documentarie e servizi paragonabili alle biblioteche del mondo libero e sviluppare una collezione «bilanciata» che rappresenti un’ampia gamma di punti di vista a disposizione degli utenti detenuti per una lettura senza vincoli ideologici. Ciò che la persona in stato di reclusione legge, dipende dalla qualità e dalla pertinenza della raccolta bibliotecaria. Con personale qualificato, una raccolta di opere che rispondono ai bisogni educativi, ricreativi e di riabilitazione dei detenuti e con uno spazio fisico invitante, la biblioteca può costituire una parte importante della vita carceraria e dei programmi per i detenuti e rappresentare una rilevante «linea di comunicazione vitale» con il mondo esterno, essere uno strumento di gestione efficace per l’amministrazione del carcere perché riduce l’ozio e incoraggia un uso costruttivo del tempo, e costituire la risorsa informativa vitale che fa la differenza tra il fallimento e la riuscita all’esterno del carcere per un ex detenuto appena scarcerato.

L’International Federation of Library Associations, Sezione Libraries Serving Disadvantaged Persons, ha stilato un documento allo scopo di fornire uno strumento per la pianificazione, l’implementazione e la valutazione di servizi bibliotecari rivolti ai detenuti, che riflettano un livello accettabile di servizio bibliotecario, raggiungibile in buona parte dei Paesi in cui le politiche nazionali e locali sostengano l’esistenza di biblioteche carcerarie. Oltre a costituire uno strumento pratico per la fondazione, il funzionamento e la valutazione delle biblioteche carcerarie, il documento funge da affermazione di principio del diritto fondamentale dei detenuti a leggere, apprendere ed accedere all’informazione.
In buona parte dei Paesi del mondo gli individui che costituiscono le popolazioni carcerarie hanno un limitato bagaglio sia di istruzione che di competenze sociali e non provengono da ambienti in cui la lettura è un’occupazione frequente o popolare; i detenuti e il personale non sono necessariamente utenti di biblioteca auto-motivati, perciò «dovrebbe essere prestata grande attenzione all’atteggiamento amichevole della biblioteca verso gli utenti». La cooperazione è un ingrediente necessario per garantire che i bibliotecari carcerari siano in grado di dispensare un buon servizio; e l’isolamento, si indica, può essere diminuito stringendo relazioni con altre biblioteche carcerarie in tutto il mondo.

IL LAVORO INFRAMURARIO E IL LAVORO EXTRAMURARIO. Il lavoro penitenziario mantiene la funzione di cardine del trattamento rieducativo: infatti, a norma dell’articolo 15, comma 2 dell’ordinamento penitenziario, a tali fini, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è addirittura assicurato il lavoro. Le forme di lavoro penitenziario e le modalità di esecuzione dello stesso sono classificabili in due grandi categorie: lavoro inframurario ed extramurario.

Il lavoro inframurario si caratterizza per la figura del datore di lavoro e il carattere poco produttivo dell’attività prestata. Anche detto dei «lavori domestici», è strutturato in attività solitamente non imprenditoriali, che si esplicano in servizi destinati all’istituzione stessa, come il servizio di cucina per detenuti e per operatori penitenziari o quello di pulizia dei locali comuni. La trilateralità di rapporti che caratterizza le altre forme di lavoro penitenziario – detenuto lavoratore, amministrazione penitenziaria e datore di lavoro – è qui assente, finendo questi ultimi due per essere inglobati nel medesimo ruolo, cosicché le esigenze rieducative del condannato risultano strettamente collegate ad elementi appartenenti alla normale disciplina del lavoro subordinato o autonomo.

Si differenzia da esso il lavoro inframurario alle dipendenze di terzi, anche detto delle «lavorazioni» – ad esempio, produzione di coperte, confezionamento del vestiario e della biancheria per gli agenti di custodia e per i detenuti, attività di falegnameria – caratterizzato da una maggiore produttività organizzata su base industriale e modellata sul prototipo dell’ambiente libero. Riguardo al lavoro extramurario, l’articolo 21, come novellato dalla legge n. 663 del 1986, e l’articolo 48 del decreto presidenziale 230/2000 (Reg. Es. O.P.) consentono al detenuto di avere accesso ad una normale organizzazione produttiva alle dipendenze di un imprenditore, con provvedimento discrezionale del direttore dell’istituto opportunamente motivato.

Negli ultimi anni il lavoro penitenziario ha perso l’originario carattere afflittivo e si è visto assegnare una remunerazione dagli articoli 22 e 23 dell’O.P., ha ottenuto il diritto agli assegni familiari e si è applicata la disciplina sul collocamento. Nonostante i passi in avanti, le attività di lavoro riguardano un numero di soggetti trascurabile, mentre resta rilevante il lavoro domestico intramurario, includendovi l’ordinaria manutenzione degli immobili penitenziari, con la sua scarsa imprenditorializzazione. Tranne poche eccezioni, l’Amministrazione penitenziaria è rimasta per lungo tempo l’unica committente delle proprie episodiche lavorazioni – tavoli, sedie, armadi, coperte ecc.- e ciò è stato imputabile all’impreparazione manageriale della dirigenza carceraria, alla carenza di manodopera esperta nelle lavorazioni, alla mancanza di maestri d’arte, all’inadeguatezza delle strutture carcerarie e alla difficoltà di introdurvi processi produttivi e tecnologici: il tutto a scapito del trattamento rieducativo del detenuto e della qualificazione professionale necessaria al successivo (re)inserimento sociale.

Sia la legge 12 agosto 1993 n. 296 recante nuove misure in materia di trattamento penitenziario nonché sull’espulsione dei cittadini stranieri, che la legge Smuraglia del 22 giugno 2000 n. 193 hanno delineato nuovi strumenti e aree per la creazione e gestione di lavoro intra ed extramurario, affidando al volontariato e alle cooperative sociali la funzione di soggetti maggiormente qualificati ad agire in tali spazi. Il problema, oltre alla difficile reperibilità della liquidità necessaria, è la difficile assunzione di responsabilità da parte dei soci lavoratori (detenuti) e la fatica a costruire livelli gerarchici in una cooperativa di soggetti da rieducare che non accettano di essere comandati da chi si trova nelle loro stesse condizioni, e l’accettano solo «da altri».

IL PROGETTO DELLA REGIONE LOMBARDIA PER LA PROMOZIONE DI INTERVENTI DI INCLUSIONE SOCIALE DEI CITTADINI DETENUTI. La stessa Amministrazione penitenziaria denuncia «l’inidoneità e l’inagibilità degli istituti penitenziari, le difficoltà d’accesso e di controlli, la mancanza di continuità o le eccessive pause nei colloqui familiari-educatori-avvocato o nell’ora d’aria, la scarsa professionalizzazione di detenuti, un regolamento contabilità dello Stato non adeguato che, determinando un eccessivo costo del lavoro, rendono problematica una positiva resa sul mercato a qualsiasi imprenditore nonostante gli sgravi fiscali previsti dalla Smuraglia. Sono ammesse anche colpe proprie dell’Amministrazione»: si tratta a tutti gli effetti della denuncia dell’approssimativa sistematizzazione della problematica, della mancata emanazione di linee guida, dell’assenza di verifica e di esportazione di positivi progetti realizzati, e di una inadeguata ricerca di partner. Non è tutto rose e fiori, in gabbia.

Per questo l’Amministrazione penitenziaria, distribuita in numerose realtà locali, compie un’attività di promozione, ricerca e organizzazione di attività lavorativa, anche in collaborazione con altre strutture pubbliche e private, avvalendosi delle novità introdotte dal Nuovo Regolamento di esecuzione dell’O.P. del 2000 e dalla legge Smuraglia. Presupposto essenziale è la predisposizione di politiche attive d’intervento capaci di coniugare l’aspetto trattamentale con le necessità imprenditoriali. Il punto non è solo o tanto la rieducazione, quanto la disponibilità di imprese ad assumere detenuti ed ex detenuti. Un progetto, «Responsabilità sociale di impresa: lavoro, carcere e imprese», si ripromette la promozione di interventi volti alla loro inclusione sociale. Obiettivo dichiarato è favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti nelle imprese profit e no profit lombarde, intervento che riguarda in primo luogo i diretti interessati e le istituzioni penitenziarie ma che, per diffondersi in modo significativo e proporzionale alle potenzialità e ai vantaggi per le imprese, necessita di promozione anche e soprattutto extramoenia.

Le testimonianze fornite da operatori e imprenditori sulle esperienze maturate hanno dato atto delle potenzialità e dell’attuale efficacia della collaborazione tra istituzioni regionali e locali, sistema camerale, mondo imprenditoriale e cooperativo. In Lombardia, l’inserimento lavorativo di detenuti conta su diverse esperienze di successo soprattutto nell’ambito delle cooperative sociali (95 imprese hanno dato lavoro almeno a una persona proveniente dal circuito penitenziario), mentre è ancora ridotto nelle imprese profit. Di queste esperienze possono avvalersi le altre Regioni nella predisposizione di interventi simili in territori diversi, la cui situazione è spesso resa assai più problematica dal contesto, dalle effettive opportunità lavorative, dalla povertà intrinseca al territorio, dalla differente visione dell’individuo e del suo background.

L’inclusione sociale dei detenuti rientra nelle prassi della responsabilità sociale d’impresa: il sistema camerale lombardo è impegnato a promuovere e accompagnare le piccole e medie imprese, informa sui vantaggi diretti derivanti da questa opportunità sia negli sgravi fiscali, sia nella responsabilità sociale. Il primo protocollo tra la Regione Lombardia e l’Amministrazione penitenziaria competente è stato siglato nel 1999 ed ha avuto ad oggetto l’insediamento di una Commissione, con l’obiettivo specifico di creare una rete di rappresentanza per la diffusione del rientro dei detenuti nella società e nei propri territori. La Regione stessa ha coinvolto soggetti diversi e stretto alleanze per diffondere la conoscenza delle opportunità normative e degli strumenti a disposizione nelle imprese lombarde. Il sistema camerale lombardo partecipa al tavolo della Commissione Lavoro Penitenziario istituita presso il Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria, per sviluppare iniziative dirette agli scopi dell’articolo 27 della Costituzione, in relazione al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3 comma 2 della stessa: il ruolo di cui si è fatto carico è quello di trasmettere le esigenze delle aziende e trasferire in ambito carcerario il know-how proprio dell’impresa.

L’impegno assunto dall’Unioncamere Lombardia è promuovere l’incontro della società delle professioni con la popolazione carceraria e sensibilizzare le imprese, accompagnandole nel processo di integrazione sociale. Svolgendo un ruolo di «interfaccia», le Camere forniscono alle imprese gli strumenti per conoscere la realtà carceraria e portano all’attenzione degli organi regionali e territoriali preposti all’Amministrazione penitenziaria le esigenze delle imprese, dalla rigidità degli orari ai controlli, all’accesso a sgravi fiscali e contributivi di cui le imprese non sono a conoscenza. Altro contributo allo sviluppo del progetto è l’individuazione dei settori economici di maggiore potenzialità, tra cui spiccano l’artigianato e quelle attività che puntano sul singolo individuo.

La convenienza non è solo riscontrabile per le imprese, che hanno a disposizione maggior manodopera, ma riguarda l’intera società: la riabilitazione attraverso il lavoro è tra le forme più efficaci di prevenzione del crimine. Il beneficio è calcolabile come la riduzione dei costi sociali che si verifica per la diminuzione delle recidive: un detenuto inserito nel mondo del lavoro a fine pena è meno portato a commettere nuovamente reati; la popolazione carceraria impegnata in progetti lavorativi ha la possibilità di sostenere la famiglia e di vivere l’esperienza punitiva senza preoccupazioni economiche; una volta scontata la pena, ha meno probabilità di tornare a delinquere per necessità.

La citata legge Smuraglia per le imprese profit e le cooperative sociali, insieme alla legge 8 novembre 1991 n. 381, contenente la disciplina delle cooperative sociali, prevede varie misure con le quali è favorita l’attività lavorativa dei detenuti e sono applicati sgravi fiscali e contributivi ai soggetti pubblici o privati (imprese o cooperative sociali) che assumono detenuti in esecuzione di pena. La Commissione regionale per il Lavoro Penitenziario, prevista dall’articolo 25 bis O.P., svolge un ruolo di coordinamento e di supervisione e si occupa di dare uniformità agli interventi in un circuito unitario. Potendosi avvalere delle agevolazioni previste dalla legge Smuraglia, l’Amministrazione Penitenziaria ha istituito una specifica Agenzia che, interagendo con le numerose agenzie e attività progettuali presenti nel territorio, costituisce una struttura di supporto ed operatività per la Commissione. L’Agenzia regionale per la Promozione del Lavoro Penitenziario ottimizza, con la collaborazione delle Direzioni degli Istituti penitenziari e degli Uffici di Esecuzione penale esterna, le modalità di inserimento nel mondo del lavoro; riceve i curricula di tutti i detenuti occupabili trasmessi dalle Direzioni, raccoglie le offerte di lavoro ed ha la facoltà di proporre, in base a queste ultime, anche il trasferimento in ambito regionale dei detenuti.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Luglio 2014

 

 

 

 




FUNZIONE RIEDUCATIVA DELLA PENA (PARTE UNO): IL RUOLO DELLO PSICOLOGO VA POTENZIATO

In un sistema democratico l’imputato si presume innocente fino alla sentenza di condanna, dopo la quale assume la condizione formale di condannato ed eventualmente, nell’entrare in un istituto penitenziario per espiare la condanna applicata dal giudice della cognizione, quella sostanziale di detenuto. Nella fase dell’esecuzione – competente ne è il Magistrato di sorveglianza – si aprono molte strade.

Esse sono tutte guidate da un unico strumento: il trattamento penitenziario, una serie articolata di interventi tesi a contrastare gli effetti negativi della detenzione e dell’internamento.
Pregiudiziale è l’attività di osservazione del comportamento e della personalità, per garantire la massima individualizzazione degli strumenti applicati. Di entrambi – osservazione e trattamento – è responsabile lo psicologo che, con altri operatori, è definito «esperto» dall’articolo 80 dell’Ordinamento penitenziario.

In questi articoli – il presente e quelli che seguiranno – individueremo le norme che consentono l’esperimento dell’attività rieducativa all’interno degli istituti penitenziari, sorte sotto l’egida del dettato dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione, e la rimarcazione delle lacune del sistema. Sarà descritto il trattamento rieducativo come il programma teso a modificare gli atteggiamenti del condannato e dell’internato, che sono stati la causa della sua mancata integrazione sociale, ed analizzate le varie dottrine che incidono sulla visione del condannato e del suo comportamento antisociale. Saranno analizzate le modalità alternative con le quali può essere eseguita la pena e se ne stabilisce il valore dal punto di vista della sicurezza sociale e della maggiore stabilità del sistema nel suo rapporto con la recidiva.

Si esemplificheranno, quindi, gli strumenti che l’Ordinamento penitenziario, introdotto nel 1975 e integrato negli anni, mette a disposizione del sistema carcerario per assicurare al condannato un processo cognitivo ed emozionale completo che gli consenta non solo di comprendere il valore della propria azione criminale, ma anche di inserirsi in un iter di ricostruzione attraverso l’educazione. Si indicheranno le strade dell’educazione formale – quella (più cognitiva) che si ottiene dall’istruzione, dal lavoro intramurario ed extramurario, dalla religione – ed informale – più emozionale, perseguita attraverso creatività e interazione, nonché un più profondo contatto con l’inconscio (è il caso dell’arteterapia, delle attività teatrali e musicali in carcere, dei rapporti con la famiglia e con l’esterno) – e si nomineranno altresì progetti di ricerca-intervento che hanno trovato accesso, diretto o indiretto, negli istituti penitenziari e, quando possibile, se ne valuteranno gli effetti. Nondimeno saranno individuati degli interventi che, realisticamente, prendono atto della difficoltà sociale, del pregiudizio, dell’effettivo reinserimento dell’ex detenuto nel sistema lavorativo ed affettivo e, allo scopo di non rendere vano il percorso evolutivo affrontato nel corso della detenzione, predispongono anelli di giunzione tra carcere e impresa.

La pena assorbe più funzioni, a seconda di come la si interpreti e la si sia interpretata nelle varie epoche storiche. Oggi l’articolo 27, comma 3, della Costituzione enuncia: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Sono la Scuola classica e la Scuola positivista ad aver determinato le due letture chiave: l’articolo 27 risponde ai postulati della Scuola positiva del diritto penale, che respinge la concezione afflittiva della pena postulata dalla Scuola classica («tanto male inflitto per tanto male arrecato») e dà alla pena finalità di difesa sociale nella sua funzione di riadattamento, in accordo con la concezione della responsabilità di fronte alla legge penale.

Prima la Scuola classica, basandosi su una concezione assoluta del diritto, aveva posto a fondamento del diritto penale i seguenti principi: a) il delinquente è un uomo qualunque senza particolari differenze da tutti gli altri; b) la condizione e la misura della pena sono commisurate in relazione alla presenza e al grado del libero arbitrio; c) la pena ha funzione etico-retributiva del male commesso, perciò deve essere assolutamente proporzionata al reato, afflittiva, personale, determinata e inderogabile.

La funzione rieducativa, volta a cogliere l’occasione della condanna penale per perseguire la risocializzazione e il recupero del condannato costituisce anche la ratio giustificatrice delle pene sostitutive (articolo 53 della legge n. 689 del 1981) e delle misure alternative alla detenzione (articoli 47-54 della legge n. 354 del 1975); queste ultime possono evitare al detenuto la permanenza in stabilimenti carcerari (affidamento in prova, detenzione domiciliare) o ridurre la durata della permanenza in carcere (semilibertà, liberazione anticipata per riduzione di pena), come descritto dalla citata legge dell’Ordinamento penitenziario n. 354 del 26 luglio 1975 recante le norme sull’Ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà e dal successivo Regolamento di esecuzione.

Quando si parla di Ordinamento penitenziario si fa riferimento all’apparato normativo che regolamenta il momento della privazione della libertà personale in esecuzione di una sanzione penale, in particolare della legge n. 354. Caratteristica della riforma penitenziaria del 1975 è quella di essere nata da sola, senza che l’opinione pubblica fosse chiamata ad esprimersi, né alcuna dottrina fosse ascoltata. Comunque il testo della legge resta fedele agli intenti rieducativi del terzo comma dell’articolo  27 della Costituzione e rifiuta la tesi dell’irrecuperabilità di taluni quando proclama l’applicabilità del trattamento «a ciascun internato o condannato» (articolo 13 comma 3).
Il ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca, Mario Zagari, sintetizzava in cinque note le mete che la legge intendeva perseguire: l’umanizzazione del trattamento; l’efficacia del trattamento; il favorire i contatti con il mondo esterno; la giurisdizionalizzazione dell’Ordinamento penitenziario attraverso il magistrato di sorveglianza, figura indipendente dall’amministrazione cui affidare la supervisione dell’esecuzione penitenziaria; la riduzione della popolazione detenuta mediante l’introduzione di misure alternative alla pena detentiva.

Con queste norme, varate proprio mentre entra in crisi la concezione medico-clinica della rieducazione, il legislatore ha inteso dare importanza alla funzione risocializzatrice della pena soprattutto nella fase esecutiva, considerando il carcere non più come luogo di segregazione e di separazione dalla società, ma come momento di intervento per offrire le strutture materiali e psicologiche necessarie al reinserimento. I principi fondamentali sono elencati sin dal primo articolo della legge n. 354, intitolato «Trattamento e rieducazione»: innanzitutto, il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni su nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche, credenze religiose. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Infine, il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti; si specifica anche: i detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. L’ 431 del 29 aprile 1976 descrive il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà come «l’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali», e aggiunge: «Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale».

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È possibile una modificazione degli atteggiamenti? C’è un suggerimento nell’articolo 4 sull’integrazione e il coordinamento degli interventi di ciascun operatore professionale o volontario: questi «devono contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di integrazione e di collaborazione».

Il trattamento rieducativo è attuato in base all’articolo 1, comma 6, O.P. «secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti». La metodologia di realizzazione del trattamento è descritta nell’articolo 13 O.P. e consta di tre punti fondamentali: il punto di partenza è rappresentato dai bisogni, dalle carenze del soggetto e dalle cause del disadattamento sociale, il punto di arrivo è costituito dal reinserimento sociale, il tramite tra i due è formato dall’osservazione scientifica della personalità e dalla conseguente offerta di interventi che rappresenta per l’Amministrazione penitenziaria un obbligo di fare.

Il coordinato disposto dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione e delle norme dell’Ordinamento penitenziario delinea un sistema di gestione dinamica  dell’esecuzione della pena attraverso l’uso degli strumenti ordinari previsti a tale scopo, rappresentati dalla promozione della redazione e dell’attuazione dei programmi di trattamento per la definizione dei percorsi di reinserimento sociale, e dall’ammissione alle varie alternative alla detenzione.  (ROMINA CIUFFA, psicologa)

SEGUE. Parte due: https://www.rominaciuffa.com/carcere-educazione-formale/

 




AMBASCIATA BRASILIANA. CELPE-BRAS PER POCHI E RAPIDI: CHIUSE DI NUOVO LE ISCRIZIONI ALL’UNICO ESAME DI LINGUA UFFICIALE

di ROMINA CIUFFA (anche su http://www.riomabrasil.com/diploma-celpe-bras-per-pochi-intimi-di-nuovo-chiuse-le-iscrizioni-allesame-di-lingua/). Chiuse per l’ennesima volta in un battibaleno le iscrizioni al test del Celpe-Bras, unico in Italia, neanche fosse un concorso per posti di lavoro. A chi ha presente la televisione a premi, Celpe-Bras potrebbe sembrare il titolo di uno di quei programmi in cui anche solo partecipare è impossibile, e in cui il montepremi è sottoposto a dinamiche di fortuna, ma in questo caso il montepremi non vale altrettanto: si tratta del semplice accesso all’esame di lingua brasiliana ufficiale, unico in Italia, consentito ogni 6 mesi solo a 50 fortunati. L’attestato di conoscenza della lingua portoghese per stranieri è rilasciato dal Ministero dell’educazione brasiliano che certifica il livello di conoscenza della lingua. Si tratta dell’unica certificazione di competenza brasiliana in portoghese come lingua straniera riconosciuta ufficialmente. In Italia, l’esame è svolto nel Centro culturale Brasile-Italia dell’Ambasciata del Brasile a Roma, unica istituzione ammessa per esso.

La situazione è la seguente: le prove d’esame sono fissate due volte l’anno, in aprile e in ottobre. Sono solo 50 gli ammessi a sostenere ciascuna prova, ma l’iscrizione è pressoché impossibile poiché, non appena aprono i termini per le nuove iscrizioni, in poco meno di una giornata tale numero si completa. Anche in quest’ultima sessione, nessuno di coloro che, in eccesso del numero di 50, attendevano con l’ansia legata alla necessità di avere tale attestazione, è riuscito nell’impresa pluriennale di iscriversi all’esame Celpe-Bras, né agli altri. Esclusi anche e soprattutto coloro che non hanno una connessione internet o non sono pratici dell’online, o che durante il giorno lavorano e non posso guardare con fissità il sito dell’Itamaraty. L’accesso a quella finestra di pochi minuti in cui il Brasile apre le porte della propria lingua non è per tutti.

La frustrazione è massima e, in un momento in cui il verdeoro si è aperto, ciò è inconcepibile. Considerato che il Celpe-Bras è, internazionalmente, l’unica certificazione «accettata in aziende e istituzioni di insegnamento come comprovante la competenza in lingua portoghese e in Brasile è richiesta dalle università per l’ingresso in corsi di laurea e in programmi di post-laurea», questa constatazione rende impossibile la vita di coloro che si dedicano alle attività connesse e impiegano tempo, risorse ed energie, al Brasile, Paese che oggi chiede aiuto alla globalizzazione: il «Brics» comincia proprio con la sua iniziale e mostra una situazione economica in via di sviluppo, una grande popolazione, un immenso territorio, abbondanti risorse naturali strategiche, forte crescita del prodotto interno e della quota nel commercio mondiale.

Il Brasile costantemente invita l’Italia a portare know how, operatività, cervelli quando non anche le mani, e l’Italia lo segue con dedizione, quando non devozione: non si tratta di sola energia verde, si tratta soprattutto di energia mentale. Sono in un numero spropositato gli italiani che si occupano di Brasile, il nostro made in Italy ha una competenza elevata. Ma gli italiani non possono – se non in numero di 50 a semestre – acquisire l’utile, quando non indispensabile, certificazione linguistica del Celpe-Bras, salvo essere tra i primi 50 ad effettuare il «click» sul sito due volte l’anno.

Se l’Italia vincolasse l’eventualità dell’accesso all’eolica al click dei 50 Paesi più veloci, considerando l’evoluzione tecnologica, il Brasile se l’aggiudicherebbe? Il montepremi è ben più alto, proprio per questo il paragone è calzante: qui si tratta solo dell’accesso ad un esame di lingua, che in ogni Paese del mondo è a disposizione di tutti e in diversi momenti. Non ci sono posti di lavoro, non è un concorso per notai.     (ROMINA CIUFFA)