RAI: CON IL MIO STIPENDIO PAGO LO STIPENDIO DI BRUNO VESPA

La Rai nasce con un regio decreto (il n. 1067) nel 1923. Subito dopo la prima guerra mondiale, subito prima della seconda, e in periodo fascista, nel quale Benito Mussolini puliva l’Italia dal triennio rosso (gran confusione) e poi, prendendosi tutto il braccio oltre che la mano (in posizione alta e definita peraltro), animava una propaganda monopolistica per sottomettere le masse ad una promozione di valori predefiniti dalla dittatura. Fin qui “tutto bene”. Non è pericoloso precipitare, è pericoloso atterrare. L’atterraggio avviene in questo modo: spostiamoci di tanti anni, e arriviamo al referendum popolare del 1995, che conduce all’abrogazione della legge che riservava esclusivamente alla mano pubblica il possesso delle azioni RAI. Tale privatizzazione non è stata mai avviata. L’oggetto della fornitura, in effetti, è la produzione dei programmi di servizio pubblico, ossia pagati dal contribuente attraverso una forma di tassazione, definita “canone”. Un’eccezione al nomen omen: parlare di “canone” non modifica l’evidenza che si tratti di una tassazione sulla proprietà o, per generalizzare, sul possesso di mura (prima, seconda casa, appartamenti collegati, stanze limitrofe, la nonna che vive all’altro piano etc.). Possedere, solo possedere una TV, è come avere della droga in casa: si è “sanzionati”. 

Perché, oggi, la definirei “sanzione”, se è vero che quest’ultima viene applicata contro la volontà dell’utente, sia pure in funzione della violazione di una regola. In linguaggio dell’uomo di strada, una punizione. In questo caso non c’è violazione da parte dell’utente che possiede una TV, come fosse una busta di stupefacenti: nelle nostre case possiamo possedere qualunque cosa sia legale. Pertanto la “sanzione” è applicata sine causa: non v’è violazione di alcuna norma nel possedere una TV o una radio. Ma se prima la RAI aveva una funzione sociale di informazione, diritto costituzionalmente garantito, oggi non l’ha più per due ordini di motivazioni.

Innanzitutto, perché le frequenze sono state liberalizzate, ed a fronte di un mercato che è libero non può permanere un monopolista obbligatorio. Meglio detto: non perché posseggo un’automobile lo Stato ha il diritto di mandarmi multe a casa per il possesso. Lo può fare solo in ragione di una violazione. Nel caso della TV, mutatis mutandis, non perché se ne possegga una, o 100, ciò voglia dire che la RAI (nei suoi 10 attuali canali televisivi) sia guardata o apprezzata. Sky non obbliga a pagare un canone, è la scelta del consumatore che, seguendo i propri gusti, opta per adottare un servizio a pagamento. Questa è libertà. Ogni cittadino libero ha il diritto di partecipare attivamente a quei processi dove vengono prese le decisioni di interesse pubblico, televisione inclusa. Inoltre, nei telegiornali le notizie sono alterate dalla composizione del Governo, pertanto si sta pagando, con una nuova, ulteriore mazzetta, il corpo politico, che impiegherà tali fondi per trasmettere la propria propaganda scegliendo i contenuti. Non è, esattamente come un centinaio di anni fa, l’approccio mussoliniano?

Va bene, fingiamo di trovarci – e non ci troviamo – in uno Stato democratico, costituzionale, in cui tutti possiamo scegliere i nostri diritti con i soli limiti dell’Altro. La democrazia è un’utopia. Aristotele la collocava tra le forme degeneri dello Stato assieme a tirannide ed oligarchia del resto. La tirannide per il filosofo è una monarchia che ha per fine il vantaggio del monarca, l’oligarchia cura gli interessi degli abbienti; mentre la democrazia degenera quando cerca di ottenere il vantaggio dei nullatenenti rispetto alle altre classi. In nessuno di questi casi si insegue il bene comune ma quello particolare, e la democrazia finisce per diventare una tirannide quando l’arbitrio della moltitudine domina incontrastato e i più agiscono ignorando perfino la legge: i governi infatti non si definiscono buoni o cattivi in base alla forma della loro costituzione, ma in base alle qualità etiche e morali dei loro membri. Specifica: il miglior governo dovrebbe essere formato dalla classe media, cioè da cittadini forniti di modesta fortuna. E sostiene: la miglior forma di governo non darà la cittadinanza ai meccanici. Anche Platone aveva parlato di utopia della Repubblica. Per quest’altro, democrazia, oligarchia e  tirannide non possono essere riguardate come modello politico in grado di garantire la giustizia. Ma tornando ad Aristotele, egli dichiara: la scienza politica non può fare gli uomini, ma deve prenderli come li fa la natura. In un certo senso anche con i propri gusti allora: gli altri, i Latini, dicevano de gustibus non disputandum est.

E qui si passa al secondo ordine di ragioni: i contenuti. Io con il mio stipendio pago lo stipendio di Bruno Vespa e Gigi Marzullo, tra gli altri, che ogni santa sera sono presenti in un palinsesto ripetitivo, con «Porta a Porta» e «Sottovoce», nonché gli stipendi dei soliti, soliti, soliti noti. Per assistere a trasmissioni di basso livello culturale, dove si gioca e ci si diverte secondo un arbitrio di quoziente intellettivo pari a meno qualcosa, dove si vincono soldi mentre non si trova lavoro. Per ascoltare i dibattitti di personaggi votati a nessuna causa, apprendere nuove parolacce, distruggere l’italiano, sentire urlare, gridare, insultare. Inermi. L’Italia della RAI è l’Italia dell’ignorante. Anzi, di coloro che vogliono far passare gli italiani da ignoranti. Serie televisive con attori incompetenti, ingestibili, inguardabili. Chiacchiere, chiacchiere. Tutte queste chiacchiere sono oggi luce, perché si pagano in bolletta. Paghiamo le parolacce, le grida isteriche, il narcisismo, esattamente come quando, entrati in casa, pigiamo l’interruttore della luce. Paragoniamo la «Prova del cuoco» a un bene essenziale quale la fornitura elettrica. Ascoltiamo Paola Perego ed i suoi ospiti registrare uno stereotipo sulle donne dell’est, e senza accorgercene ci cibiamo di questo e di pregiudizi o giudizi precompilati. Non abbiamo la possibilità di oscurare tali canali, perché ci vengono propinati con obbligatorietà. Dovremmo essere messi nella condizione di scegliere tra guardare e non guardare, pagare e non pagare. Avere una TV in casa non vuol dire affatto seguire la RAI TV, più probabilmente dare sfogo ad uno zapping selvaggio da cui uscir fuori frustrati, insoddisfatti, salvo accontentarsi dell’istrionismo pubblico. Salvo leggere un libro. Salvo fare l’amore.

Non che gli altri canali siano migliori, ma non ne paghiamo un contributo. Sono canali privati che vanno avanti da sé. Ora c’è Netflix, ora c’è il digitale, ora c’è Sky: a questi gli utenti medi si appoggiano per trovare una distrazione che si avvicini ai propri interessi. Non possiamo paragonare, così come facciamo, Bruno Vespa a Dio, che muove tutto, che decide di cosa dobbiamo renderci edotti ogni santa sera che RAI ha creato. I contenuti garantiscono cultura; quando si tratta di ridondare, di impiegare il caso del giorno per fare audience, di pagare una parcella, allora Aristotele si rivolta nella tomba, obtorto collo. La RAI TV dovrebbe essere una scelta per il contribuente. Non perché si ha un libro in casa ciò significa che si è alfabetizzati: un bambino di due anni non lo leggerà. Così mi sento io quando velocemente passo dalla Rai a TopCrime: un bambino che cerca il gioco adatto alle sue abilità, e corre nella sua stanza dei giochi. Nessuno, solo perché si ha un libro in casa, pagherà la sua università. E così nessuno, solo perché si ha una TV in casa, pagherà il suo canone, facendosi uccidere subliminalmente.

Che la RAI divenga un’opzione, e che il meccanico trovi lavoro: questa è democrazia, non tirannide od oligarchia. Lo dicono i filosofi, che Sanremo non lo guardano. Loro pensano, come li fa la natura. (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2017




EUTANASIA, DALL’ITALIA LA FUGA DEI CERVELLI SENZA CORPO

EUTANASIA, DALL’ITALIA LA FUGA DEI CERVELLI SENZA CORPO di Romina Ciuffa. Prendiamo il punto di vista di un cachi. Non si può muovere, eppure può cadere, può farsi male, può essere mangiato. Ma non può scegliere di interrompere la sua vita. Di contro, può godere del fatto che vive nella natura, solitamente non in un ospedale, e che è un cachi, dunque non dotato di un sistema neuronale che lo renda capace di provare cognizioni ed emozioni. Tanto assumiamo. Lo stesso vale per una cicorietta, uno spinacio, una carota, qualunque vegetale. Tranne quello umano.

La prima differenza che si coglie tra quest’ultimo e il primo tipo è l’ateismo: mancando al cachi un apparato cerebrale, viene meno l’intelligibilità dell’ambiente circostante o un suo sviluppo in senso trascendentale. O almeno stimiamo. Uno spinacio vive. Un vegetale umano vive, sa, e trascende, quando consapevole, per dare un senso al suo passaggio terreno. Al vegetale umano non basta la Terra, al vegetale spinacio basta la terra. Un vegetale umano vive, “è saputo” ed è “trasceso” invece, come in un atto passivo, quando è in uno stato di incoscienza o di perdita delle capacità cognitive.
“Sono vivo e vegeto”, diciamo. Attributi che devono essere colleghi per soddisfare il medico, amanti per soddisfare l’individuo. Vegetazione non è vita, vita non è vitalità. Non quando l’individuo umano contrae malattie che lo rendono schiavo della sua data di morte, quando è destinato a rimanere in coma per anni indefiniti, quando è incastrato in un corpo immobile.

Eppure in un altro tempo, in un altro spazio, non si sarebbe posto il problema di tenerlo in vita: solo fino a pochi anni fa si moriva di acetone, oggi curabile con la Biochetasi. Il progredire della scienza, della tecnologia, persino della comunicazione, che danni ne ha provocati, ha fatto sì che non si possa più morire di acetone. Il che va a tutto vantaggio della vita umana, più garantita e protetta. Ma ha anche fatto sì che non si possa più morire. Oggi, 2017, in alcuni casi un cancro è curabile e c’è chi, senza arti, partecipa alle Paralimpiadi e mantiene un margine di forza e dignità che, variando da individuo a individuo, può essere isolato e accresciuto, sostituendo nuove competenze e capacità con le altre andate perdute. Anche la psiche fa la sua parte in ogni singolo caso.

Ma oggi, 2017, è possibile anche mantenere in vita chi, “altrimenti”, sarebbe morto. È questo “altrimenti”, è il condizionale “sarebbe”, che rendono problematica la questione eutanasica. Riflettiamo: anni fa, l’accanimento terapeutico nei riguardi di un “vegetale” non avrebbe fatto molta strada, se non quella che la ricerca e la scienza, in quel momento, consentivano, ben inferiore ai risultati raggiunti in seguito dal progresso. Ho imparato a comprendere le cose attraverso il paradosso, per tornare a normalizzare e relativizzare: così, alla Asimov, immagino un’eutanasia che, in un mondo futuristico ma molto prossimo, sia destinata ad essere l’unica scelta all’alternativa del “vivere-vegetando” per secoli. In un’evoluzione scientifica che corre e che porterà ad infinitivizzare ad libitum le possibilità di sopravvivere, chi potrà stabilire quando è il momento di morire per colui che è mantenuto in vita da una macchina? Chi dovrebbe scegliere l’età in cui fermare le cure? 70, 90, 110 anni? Quale compleanno dovrà essere quello definitivo? E perché non impiegare la criogenetica? Sarebbe possibile che il bambino paraplegico guardi all’insù la mattonella per un centinaio di anni, in perfetta forma in quanto alimentato, seguito, non fumatore: e, parlandogli, osservarlo crescere, sviluppare, invecchiare, morire o lasciarlo, se premorti, in eredità ai legittimari con un legato. Oppure “ucciderlo”, meglio detto, non accanirsi. A che età attivare la procedura della morte medicalmente assistita? Mosè avrebbe scelto di morire se fosse stato in coma? Zaratrusta? Gli antichi longevi pluricentenari? Rita Levi Montalcini cosa avrebbe scelto se a 20 anni fosse rimasta bloccata all’interno della sua lucidità e del suo genio, in un corpo immobile, senza possibilità di comunicare?

Tornando dal futuro, oggi facciamo i conti con la medicina che abbiamo allo stato attuale, quel “vorrei ma non posso” in grado di mantenere in vita “dead men not walking”, detenuti in un braccio della morte che altro non è che se stessi, “le mie prigioni” più mie, aventi una natura totalmente evanescente, l’interiorità, e guardie penitenziarie in camice con cui è inibita ogni comunicazione; quel “vorrei ma non posso” comunque non in grado di salvarli dalla condanna. E si aggiunge il crocefisso in cella, bigottismo religioso, per privare il soggetto della sua personale spiritualità. Non può parlare il politico, non può parlare il cattolico, non può parlare il benpensante a cena, nessuno può farlo; può parlare solo colui che, nella maggior parte dei casi, non può: il malato. Il quale, se legato alla vita, può condividere l’accanimento terapeutico, ma deve poter accedere alle cure ed avere le risorse necessarie per mantenerle. In un contesto pubblico deve avere la fortuna di essere accolto e seguito con amorevolezza, non come un vegetale. Deve seguire un percorso psicoterapeutico, se è cosciente e lucido, e con lui i suoi cari, che al pari sono da accompagnare in un lungo, esasperato percorso.

Pochi giorni fa un italiano, cieco e paraplegico, non riuscendo a grattarsi ma potendo parlare, ha descritto in un video il significato del verbo “prudere”, insegnandoci che il prurito non è per lui un’anticipazione di qualcosa di piacevole, conseguente all’azione del grattarsi, bensì una vera e propria sofferenza, la peggiore: il 39enne milanese Fabiano Antonioni, in arte Dj Fabo, ne parla (con difficoltà estreme nell’eloquio) per minuti interi, “voi non riuscite a capire cosa voglia dire attendere che ti passi quel prurito alla testa”. Così per grattarsi – cosciente, ragionevole, lucido – si è recato con la famiglia in Svizzera, a farsi uccidere. Porta con sé il suo corpo, che più suo non è ma di altri: dei famigliari, di chi gli sta vicino, dei medici, dei media, dei politici, dei religiosi, dei salotti.

Lo stesso accade a un altro italiano, in Svizzera Gianni Trez, 65enne veneto, è morto a Forch, un paesino a venti minuti da Zurigo, dove si trova “Dignitas”, la clinica del “fine vita”. Malato di tumore, la moglie ha dichiarato: “Costretti qui, da Venezia, per una fine dignitosa”. Lucidissimo. “E non è depresso. Abbiamo elaborato a lungo la scelta di venire fin qui. Anche io lo farei. A lui piaceva tantissimo vivere, ma è condannato e vuole morire senza soffrire in modo dignitoso. Perché la vita che ha fatto nell’ultimo periodo per lui non è dignitosa. Ormai pesa cinquanta chili, è costretto alla morfina tre volte al giorno. Il problema è proprio la prospettiva: se sapesse che tra cinque, sei mesi smetterebbe di soffrire allora non lo farebbe. Ma così no”. Servono almeno 10-15 mila euro, solo la la clinica chiede circa 11 mila franchi svizzeri. È il vero caso di fuga dei cervelli dall’Italia: perché di loro, e di molti altri, fugge solo il cervello, il corpo ridotto a un contenitore.

La morte non è una scelta teleogica, ma teleologica. Non serve collezionare le parole di Cristo sulla sofferenza né citare Dante che mette i suicidi in un girone dell’Inferno. C’è chi passa in coma un’intera vita, chi trascorre lunghi anni in stadio terminale. Sono i suoi genitori, figli, aventi diritto, ad ucciderlo nel caso di eutanasia? Sono loro, insieme al medico che li sostiene, i boia dell’accanimento terapeutico? Non in Oregon, non in altri Stati americani, né in Colombia o in Canada, non in altri Paesi in cui la morte medicalmente assistita è operativa. Si è assassini sempre o mai: questo è un concetto universale e la differenza di opinioni e regole, stridendo da Stato a Stato, da Paese a Paese, da religione a religione, da caso a caso, da persona a persona, da medico a medico, persino da malato a malato, non è altro che una conferma che l’eutanasia non è omicidio. L’omicidio è un concetto assoluto, universale, la morte è un effetto pratico prima che spirituale o teleogico. Ovunque è punito chi, con una pistola, uccide un passante. Ciò che muta è la sua valutazione ad opera del legislatore penale, ma sparare a un passante è omicidio in Oregon, in Africa, in Italia e nel sedicente Stato islamico. Un discorso a parte va fatto per l’aborto, lo stupro, l’omosessualità et altera, che cambiano forma e sostanza in ogni hic ed ogni nunc in quanto sono discussi su livelli diversi e hanno diverse implicazioni.

Se il “non uccidere” è universale, perché non si è universalmente concordi sul fatto che l’eutanasia integri la fattispecie di omicidio? Perché l’eutanasia è un concetto relativo, culturale, basato sullo spazio e sul tempo, e sulle evoluzioni umane della scienza; un concetto che dipende e, dipendendo, non ha validità intrinseca. Questa sua non assolutezza lo abbandona nelle mani della politica, della religione, dei progressi della medicina. Ciascuno deve essere in grado, o messo in grado se impossibilitato, di gestire un concetto relativo. “Tu lo faresti?” No. “Ma non sei malato”. Non possiamo immedesimarci, e questo limite non consente di utilizzare ideologie per dire: l’eutanasia no. Soprattutto in uno Stato come il nostro, dove la sanità è malasanità e fa più vittime che la guerra ma, come in guerra, non punisce i colpevoli.

E allora, se spinacio devo essere, se cachi devo cadere, voglio che mi si mangi quando sono maturo, non quando sono marcio, né quando non so più di niente. (Romina Ciuffa)




L’AEREO È MIO E ME LO GESTISCO IO

Ciò che rende pilota un pilota è la solitudine. Non tutte le donne sanno star da sole. Il distacco da terra: senza di esso non si vola. Le ali sono per chi ama il silenzio, per chi ha dolore sulle scapole, per chi ha paura di volare (non c’è atterraggio senza paura: questa consente di sopravvivere, darwiniano meccanismo di difesa). Le donne, più leggere, sono fatte per l’aria più di alcuni uccelli. Volano per passione o per lavoro, praticano tutti gli sport aeronautici, pilotano ogni tipo di velivolo (ultraleggeri, aerei certificati, motoalianti, deltaplani, paramotori, mongolfiere, aerei di linea, caccia, astronavi), si riuniscono in manifestazioni Flydonna, non temono il pregiudizio e sono più attente e preparate degli uomini: è stata proprio una donna, la 24enne Maxi J., copilota, a recuperare con una manovra acrobatica l’Airbus A320 della Lufthansa colpito a marzo del 2008 da una raffica della tempesta Emma durante un atterraggio ad Amburgo, impedendo lo schianto dell’aereo e salvando la vita ai 131 passeggeri e all’equipaggio. In guerra feroci, vere combattenti: l’Unione Sovietica ricorse a tre reparti aerei da combattimento rosa, le “streghe della notte”, che non indossavano il paracadute ritenendo più onorevole morire sui propri aerei.

Fu la prima equiparazione aeronautica tra uomini e donne e andarono tre medaglie di Eroe dell’Unione Sovietica al maggiore Marina Mikhailovna Raskova e alle sue colleghe, che stabilirono un record mondiale di volo nonstop a bordo di un ANT-37 nell’estrema Siberia orientale, coprendo circa 6.000 chilometri in 26 ore e 29 minuti. Ieri ribelli, oggi audaci. Come la romana Angie Ciuffoletti, campionessa europea di paramotore, anche detentrice di un guinness di velocità e di tutti i titoli che spettano a una numero uno. Angie l’ho conosciuta una volta che atterrai sul campo di volo di Otricoli. Ero partita con un Tecnam P92 dalla Flyroma – l’aviosuperficie di un grande uomo volante, Italo Marini, colui che “battezza al volo” quasi tutto il Centro Italia, ma non solo – per assistere a un raduno di paramotoristi; la sera davanti a un camino più grande di noi, quello della Club House, questa paramotorista mi ha raccontato di sé. È in aria da quando era piccola. “Vedere mio padre volare mi ha reso come lui”, ossia immortale. Ogni volta che la incontro ha i piedi per terra ma la testa – bionda, effimera – è dove si trova la sua vela. Perennemente insoddisfatta, e ha ragione: “Al volo, ma soprattutto al paramotore, non è prestata attenzione. Ho vinto praticamente tutti i premi, non solo in Italia, ed è come se fossi una disoccupata tra le tante”. Non è come in America, dove le atlete sono stimate e appoggiate: Angie vince, e la si dimentica.

Ma non è sola. L’Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) nel 2006 evidenziava un aumento negli ultimi anni delle donne pilota: tra il 1980 e il 1999 solo 51 donne risultavano iscritte all’Albo della Gente dell’Aria, mentre in poco più di 5 anni – dal 2000 al 2006 – il numero arrivava a 88. In quella data, l’apporto femminile nel trasporto pubblico era di 6 comandanti e 67 pilote su velivoli di linea, 3 comandanti e 29 pilote su velivoli non di linea, 4 comandanti e 10 pilote su elicotteri non di linea; quindi, 20 istruttrici di volo, di cui 18 su velivoli e 2 su elicotteri. Tra di esse l’altoatesina Martha Heissenberger, prima pilota italiana di mongolfiera; Maddalena Schiavi, allora 48 anni di volo alle spalle; la pilota di elicotteri Paola Bogazzi, titolare dell’Avmap Satellite Navigation, che si occupa di cartografia e sistemi Gps. Io stessa.

Dall’Aeronautica Militare proviene il tenente pilota Stefania Ida Irmici, del 6° Stormo di Ghedi, prima pilota di tornado: il padre non fece nemmeno il servizio militare ma lei a 22 anni aveva un sogno: guidare un jet. “Si può essere donna e pilota allo stesso tempo”, dice. La giovane Charlotte Costantini mi spiega: lei, che è un’antropologa, porta gli aerei dell’AirOne, vola 20 giorni al mese su tratte europee e si sottopone a un addestramento continuo e check rigorosi. Pregiudizi? “Molti. Una volta proprio una signora, appreso che a pilotare sarebbe stata una donna, ha chiesto di scendere dall’aereo. Ma sono riuscita a calmarla. C’è diffidenza ma anche molta solidarietà a bordo, soprattutto da parte delle passeggere”. E aggiunge: “Una volta ho volato con un comandante donna, ma è stato un evento eccezionale”.

Eppure lei, Samantha Cristoforetti, è andata oltre. Non solo aviatrice: è la prima astronauta italiana e la terza in Europa, dopo l’inglese Helen Sharman (che ha volato nel 1991) e la francese Claudie Andre-Deshays (sulla ISS nel 2001). Nata a Milano nel 1977 e residente in provincia di Trento, è tenente pilota di velivoli AM-X e AM-XT in servizio presso il 32° Stormo con base ad Amendola. Alla selezione per lo spazio, che prevedeva la scelta di 6 astronauti, avevano partecipato più di 8500 aspiranti. Laureata all’Università Tecnica di Monaco di Baviera e all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, è stata la prima donna a ricevere l’onoreficienza della “Sciabola d’onore”.

Allora vado in volo. Decollo dalla Flyroma, pista 09 per vento traverso proveniente da sud-est. Questa navigazione mi porta fuori dai nostri confini senza un piano di volo ben definito. Dallas, Texas. “Sono consapevole che sto rinunciando ad avere una famiglia”, mi confessa Katie Braun, capitano nella Horizon Airlines, istruttore di volo e pilota che negli anni ha insegnato a molti allievi a volare, parecchi di essi italiani e “tutti scioccati di avere un’istruttrice donna”. A capo di un jet Bombardier canadese di 70 posti, è sottoposta continuamente allo stupore di passeggeri e primi ufficiali, nonostante nella sua compagnia su 600 dipendenti 60 siano donne. Ma solo poco più di venti capitane. “Le mie vacanze le faccio in aereo”, com’è naturale.

Riparto. Com’è naturale. Innanzitutto faccio un touch-and-go sull’aereoporto RHV di San José, in California, intitolato a quell’Amelia Reid nota per essere una delle prime donne nell’aviazione americana (la prima pilota del Nebraska, Evelyn Sharp, la iniziò al volo nel 1939), che ha insegnato a volare a più di 4 mila allievi. Un’Amelia da non confondere con la Earhart, protagonista di un (risibile) film che racconta la vicenda della pilota che non lasciò tracce di sé dopo la trasvolata che da Miami la portò a Porto Rico, lungo la costa nord-orientale del Sud America, in Africa, India e Nuova Guinea; dopo 22.000 miglia – ne mancavano 7 mila per compiere il giro del mondo – venne persa a poca distanza dall’isola di Howland, carburante esaurito e comunicazione interrotta. Per alcuni l’operazione fu il prodotto di una missione di spionaggio (nell’isola di Mikumaroro venne ritrovata la suola di una scarpa dello stesso modello e numero di quelle indossate da Amelia), per altri l’aviatrice fu fatta prigioniera dai giapponesi con l’accusa di essere una spia ed in seguito giustiziata mentre, secondo il documentario della National Geographic “Where’s Amelia Earheart”?, sarebbe sopravvissuta ai campi di prigionia e tornata in America sotto falso nome. Che quasi mi pare di vederla in volo.

Per rifornimento atterro ad Ellington, Connecticut. Manica a vento ferma, velocemente libero la pista. Unico aeroplano fra tanti elicotteri per parlare con Susanne Hallen, della scuola della North East Helicopters: “Per lavoro piloto gli Air Atlanta Helicopters, per diletto i choppers”, come l’R-22, un gioiellino sul quale volo spesso anch’io, brevettata e innamorata, e ne conosco le meraviglie dell’atterraggio sulla vetta più alta e innevata di un cucuzzolo d’Appennini, o della merenda accanto alla croce alta del Tuscolo. “Ho il brevetto di pilota commerciale (CPL, ndr) e sono prossima a conseguire i brevetti da istruttore (CFI e CFII, ndr)”.

Si solleva un polverone, vento traverso, meglio proseguire: decollo ala al vento e piede destro, direzione sud-est, bussola 140 gradi, Messico. Lisa Cooper proviene dal Missouri: per 8 anni ha vissuto a Portland, nell’Oregon, lavorando per l’Horizon Air, sussidiaria dell’Alaska Airlines. Pilota un CRJ-700 tra l’America occidentale, il Messico e il Canada: “Volo sin dai tempi del college e voglio entrare in una compagnia di bandiera”.

Quindi bussola 120, Brasile. Dall’alto Copacabana, l’aeroporto di Maricà, il Cristo di Rio, ma mi dirigo (270 gradi) verso San Paolo dove Clarissa Pereira mi racconta il suo primo volo da solista: “L’ho fatto a 18 anni su un elicottero leggero. Da allora non ho mai smesso di volare” e, finite le riprese del video Atlas Brazil per Discovery Channel per le quali ha messo a disposizione le proprie abilità, le hanno detto: “Grazie Clarissa, ci hai incoraggiato a volare”.

Incoraggia anche me per la mia traversata sopra l’Atlantico e rientro a Roma in volo strumentale notturno sopra un aereo di cartone. Atterro per pista 27, il vento ora spira da nord e punta la manica a vento in posizione consueta, ripongo le mie ali nell’hangar della Flyroma e mi fermo un attimo, in silenzio. L’odore è quello dell’erba umida ed è quasi l’alba. Nessuno sa che ho preso un ULM per attraversare l’oceano e parlare di donne. Solo uno struzzo ed un maiale mi guardano. Il primo allunga il collo e, nonostante ali inette al volo, dal mio sguardo si convince che un giorno lo faranno volare. Il secondo mi chiede com’è il cielo, perché i maiali non possono guardarlo. Gli rispondo che è come una donna: inafferrabile. E quasi vive meglio lui, che non lo sa. (ROMINA CIUFFA)

 




EBBENE SÌ, IL CAR SHARING L’HO INVENTATO IO

C’è un pessimismo dilagante, il mondo va a rotoli. Ma ripassiamo la teoria dell’apprendimento sociale dello psicologo Albert Bandura, con una premessa: l’autoefficacia percepita si distingue dall’ottimismo e corrisponde alla convinzione di «sapere di saper fare». Un alto livello di autoefficacia percepita rende i compiti difficili occasioni per mettere alla prova le proprie capacità con forte aspirazione e impegno e agisce sui sistemi autonomico ed immunitario: aumenta la tolleranza della sofferenza, attiva difese nei confronti delle malattie, tiene le distanze da condotte e agenti patogeni ed integra il concetto di autostima. Dipende da attribuzioni causali: il «locus of control», la percezione che il controllo di determinate situazioni sia interno o esterno alla persona; la stabilità delle cause (la facilità del compito è stabile, la fortuna instabile); la controllabilità sui fattori in gioco. In un momento difficile come questo, è molto probabile che il «locus of control» della nostra vita sia collocato all’esterno: è lo Stato che non ci permette di, è la crisi che non rende possibile il, è la burocrazia, è l’America, sono i dem, sono i conservatori, è la corruzione…

È l’anticamera della depressione: attribuire un insuccesso a fattori esterni, instabili, incontrollabili, fa ritenere che i risultati negativi si verificheranno di nuovo, innescando una spirale di scarso impegno, sfiducia nelle proprie capacità e un senso di impotenza. Martin E. P. Seligman, descrivendo questo stile attributivo come caratterizzato da 4P – permanente, pervasivo, personale, pesante – elabora una vera e propria ricetta per il pessimismo. È invece caratterizzato dalla formula delle 4E l’ottimismo ottuso: sono le «e» che definiscono le situazioni dell’ottimista come estemporanee, esclusive, esterne, esigue, una predisposizione che conduce alla deresponsabilizzazione. Eppure un bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto nello stesso momento. È il «feel bullish», il sentirsi un toro, a predisporre al bicchiere mezzo pieno, ben rappresentato nella statua del «Charging Bull», toro di Wall Street, opera dell’italoamericano Arturo Di Modica che troneggia nel Bowling Green Park di New York. Ed è anche la locuzione «start up»: la scalabilità è il presupposto essenziale per lanciare sul mercato un’idea.

Era il 1986, avevo 10 anni quando inventai il «car sharing», mentre mio padre era intento a cercare posto per la macchina sotto il palazzo di Valentino: nessuno mi dette credito, ero troppo piccola. Mi trovavo a Piazza Mignanelli, a Roma, e ne parlai a mia sorella Giosetta, della mia stessa età. Internet non esisteva, i numeri di telefono di casa non avevano nemmeno il prefisso. Eppure elaborai un business plan sulla base delle domande che lei, sempre geniale, mi poneva. Avevo previsto la possibilità di installare, nelle vetture, un apparecchio che avesse registrato la carta prepagata dell’utente; che lo stesso sarebbe stato sanzionato per le infrazioni e responsabilizzato per eventuali incidenti; un’assicurazione completa; la possibilità di riparcheggiare le auto ovunque a Roma in modo che altri avrebbero potuto prelevarle nella medesima modalità. Avevo previsto tutto salvo una App, giacché non era tempo di App ed io non avevo ancora inventato Internet e smartphone. Non venni ascoltata se non da mia sorella, che dopo anni mi mandò un articolo sul bike sharing francese: avevamo, a quel punto, circa vent’anni. La vivemmo come una sconfitta personale. La mia intuizione avrebbe cambiato la modalità, l’approccio e la vita automobilistica del Paese. Ma, soprattutto, mi avrebbe resa miliardaria.

Il problema fu che non avevo inventato la start up. Ossia, troppo presa dai miei studi di scuola media, non avevo coscienza dell’esistenza di bandi e fondi per poter far progredire un’idea. E, soprattutto, nessuno mi avrebbe ascoltato, se non la mia gemella. Oggi la start up è il futuro del nostro ottimismo, unica possibilità per sentirsi un toro. Materassi sottovuoto sono quelli di Eve Sleep, prezzi competitivi e consegna a casa; ravioli cinesi con ingredienti italiani consegnati a domicilio quelli di Hujian Zhou, cinese residente in Italia da 20 anni, in società con un macellaio meneghino; cabine-letto per gli aeroporti, quelle notti infinite di scalo, ed ecco la ZzzleepandGo di tre ventenni, che ne hanno realizzato in casa il prototipo automatizzato completo di letto, wi-fi, sveglia, cromioterapia, luci a Led, contenuti multimediali e possibilità di prenotazione, ora presente negli aeroporti di Malpensa e Bergamo-Orio al Serio; ci sono i «supereroi» di Gabriele di Bella prenotabili online: colf, badanti, personal trainer, baby sitter, fisioterapisti, tuttofare.

Il figlio di Mogol, Francesco Rapetti, anziché cantare produce Nuvap, un dispositivo in grado di rilevare l’inquinamento negli spazi chiusi, che uno spedizioniere passerà a ritirare dopo una settimana per poi inviare un report al cliente con le soluzioni per eliminare gli agenti inquinanti. Per la salute c’è il rilevatore di ictus, Neuron Guard, start up di Mary Franzese, 30 anni; c’è Empatica, del trentaduenne Matteo Lai, per il rilevamento dei segnali fisiologici della vita quotidiana; c’è Eucardia, di Francesca Parravicini e del padre Roberto, cardiochirurgo di Milano; c’è D-Eye, prototipo dell’oculista Andrea Russo, che attraverso uno smartphone compie uno screening per una prima diagnostica sull’occhio del paziente. Flavio Lanese a 56 anni cambia vita e inventa SpeedyBrick, un mattone che si monta come i Lego; Solenica, del 24enne Mattia Di Stasi, produce Lucy, una lampada che insegue la luce del sole, idea nata dalla scomodità di un ufficio non luminoso e dall’illuminazione – è il caso di dire – che la luce della strada di fronte potesse essere ridirezionata nel punto giusto. Cinque sardi, riuniti a casa di nonna Elvira, inventano Sardex, una moneta che vale come l’euro, per far fronte alla crisi finanziaria (una sorta di Sardexit?) nella consapevolezza che la crisi della liquidità non corrisponda a una crisi di produttività: basta dare la possibilità di sostenersi a vicenda attraverso un mercato parallelo.

A chi si chiedesse come trovare i soldi per lanciare una start up (oltre trovare sponsor e finanziamenti), ovviamente, rispondono altre startup: Crowdbooks, del 42enne Stefano Bianchi, pubblica libri in crowfunding: chiunque può sostenere un progetto editoriale preacquistando una copia a prezzo scontato; DeRev, portale di raccolta di fondi del salernitano Roberto Esposito, ha trovato 1.463 milioni di euro per ricostruire a Napoli la Città della Scienza distrutta da un incendio; Iubenda, del 27enne Andrea Giannangelo, aiuta i clienti a costituire una start up innovativa in pochi passaggi online. Si può anche fare una colletta su Collettiamo, idea nata da tre giovani marsigliesi che si trovarono a raccogliere i soldi per organizzare la festa di Capodanno con parenti ed amici.

Personalmente, ho una soddisfazione: aver inventato il car sharing a 10 anni. Morale della favola: i bambini, ascoltiamoli. Il plagio, a volte, è telepatico.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – febbraio 2017




CARO DIRETTORE, MI AIUTI A USCIRE DALLA CAVERNA

CARO DIRETTORE, MI AIUTI A USCIRE DALLA CAVERNA di Romina Ciuffa. C’è chi mi chiede di parlare di Renzi, chi di Gentiloni, chi di Grillo. C’è chi vuole un articolo sulla Raggi e sul degrado di Roma. Mi hanno consigliato di scrivere della denatalizzazione e delle nuove statistiche sul crollo demografico. Ciascuno mi ha, in cuor suo, dettato un articolo intero: esigenza estrema di dire la propria, necessità di parlare di tematiche di interesse generale che io potrei a mio modo svolgere. Dentro di me mi sentirei, lo dico sinceramente, di parlare della morte di George Michael, simbolo di un’intera generazione che vola via, forse vittima di un suicidio. Mi sentirei di parlare dell’abuso dei nuovi network, che nuovi non sono più, e di come siamo manipolati dalla «sindrome della spunta blu» di WhatsApp, delle nevrosi che ne conseguono, dei danni neurologici, psicologici e somatici che la comunicazione «smart» ha introdotto e indotto. C’è chi mi chiede di parlare del terrorismo, dell’Isis, dei foreign fighter, di Trump, di un 2016 bisestile che, a quanto sembra, ha fatto più vittime che carnefici. Lo farò. Ma poiché anche io ho delle richieste da farmi, oggi ho deciso di scrivere una lettera al direttore: una lettera a me stessa.

«Caro direttore, 

Le scrive un’accanita lettrice di Specchio Economico. Sono anni che vi seguo, con voi entrando nel mondo delle realtà aziendali e istituzionali, leggendo dalle vostre righe le parole di chi questo mondo lo crea e lo distrugge. Sono una quarantenne plurilaureata, mi ritengono una persona sensibile, mi definiscono geniale, ma quando invio il mio curriculum in giro mi tacciano: ‘overqualified’. Ne ho interpretato il timore di avere tra i piedi una lavoratrice troppo preparata, che potrebbe avanzare pretese. Ne ho letto una profonda crisi del sistema, che anziché premiare gli studiosi e i lavoratori li teme. Non mi soffermerò, in proposito, sull’infelice frase del ministro del Lavoro Giuliano Poletti sulla fuga dei cervelli («Conosco gente che è bene sia andata via, questo Paese non soffrirà a non averli tra i piedi»). Mala-educazione che imperversa, disattenzione verso gli altri, disintegrazione dell’umanizzazione. C’è un Bastian contrario che abita questo Paese dissestato.

Il 2016 è stato un anno di perdita per gran parte di noi. C’è chi ha visto morire i propri cari (personalmente ho appena perso il mio più caro amico, Francesco, finito fuori strada in moto sulla via Salaria a causa di una buca – capitolina, capitombolina, capitolare – che il giorno dopo, come da tradizione, è stata subito ricoperta). Ci sono state bombe e persone esplose, altre inesplose, gli attentati sono all’ordine del giorno e a Capodanno – tralascio le polemiche sul divieto romano di fare i botti tradizionali, che peraltro condividevo – ho festeggiato nella mia taverna, in pieno centro a Roma, davanti al camino. Glielo dico per raccontarle un aneddoto che si è verificato. Due invitate mi hanno chiamato terrorizzate informandomi della loro rinunzia a venire. Spiegavano: giunte davanti al portone, hanno visto un arabo gettare una borsa sotto una macchina. Lo hanno fermato, ma lui è scappato alla velocità della luce. Si tratta di due persone di elevato spessore culturale e sociale: lungi da loro ogni riferimento ad una fobia spicciola da uomo di strada o alla stereotipicità del pregiudizio. Hanno chiamato i carabinieri, poi mi hanno avvisato: per la paura che tale pacco contenesse una bomba, preferivano rientrare a casa. Le ho tranquillizzate: c’è un carabiniere a casa mia, risolviamo tutto (per dovere di cronaca, i carabinieri chiamati non sono mai arrivati). Nella mia temerarietà, ho passato al setaccio tutte le autovetture parcheggiate davanti al portone fino a trovare una borsa di Chanel del valore di circa mille euro; senza dubitare l’ho aperta e vi ho trovato moltissime carte di credito e documenti: apparteneva ad un medico libanese iscritto all’Università americana di Beirut. Il carabinere presente al mio veglione ha fatto il resto, risolvendo la situazione. Le due invitate hanno partecipato alla nostra cena. 

Solo poco dopo, sono uscita nuovamente dal portone e ho trovato un italiano ed una spagnola nudi, alle prese con un rapporto sessuale completo in mezzo alla strada, in pieno centro storico. Li ho dapprima fotografati, poi ho detto loro che avrebbero potuto continuare indisturbati. L’uomo si è alzato e mi ha proposto in maniera aggressiva un rapporto sessuale. Ha insistito violentemente. Ho declinato, lui si è alterato ancora di più e ha detto a lei, a gambe aperte, ‘torniamocene al locale’. Per le strade v’erano solo ubriaconi, il centro di Roma era paragonabile ad un settore del Risiko, oltre a ciò pericoloso, indegno, sporco, violento, viziato. Con questa mia lettera, caro direttore, vorrei solo che lei sapesse che, sia pure le tematiche delle aziende e dello stato della politica siano rilevanti, c’è un mostro che adombra le nostre città. E quello non sono io, sia pure ‘overqualified’.»

Cara lettrice, farò riferimento al mito della caverna di Platone: prigionieri convinti che le ombre che vedono siano la realtà. Ammesso che uno di essi riuscisse ad uscire dalla caverna, le forme portate dagli uomini verso l’esterno gli sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; se gli fosse indicata la fonte di luce, egli rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco, il sole, le stelle, preferirebbe volgersi verso le ombre. Poi, finalmente capace di fissare la luce e di comprendere il valore del sole e della verità, avrebbe un sussulto pietoso: rientrare e liberare i compagni. Ma dovrebbe riabituare la vista al buio per rientrare nella caverna e riconoscere i compagni, dai quali sarebbe deriso per i suoi occhi rovinati, in una temporanea inabilità che non gli consentirebbe, nell’immediato, di spiegar loro il senso di realtà provato. Platone giunge ad immaginare che questi ultimi possano essere mossi da un istinto omicida nei riguardi dell’amico “illuminato” pur di non subire il dolore dell’accecamento e la fatica della salita necessaria ad ammirare le cose descritte.

Parafraserò ciò che lei descrive in questo modo: la nostra, o piuttosto la «loro» Italia, è una caverna. Il mio augurio più forte è quello che lei, almeno lei, riesca ad uscirne, come fece il filosofo, per vedere la luce. Il ladro di Chanel, i due ninfomani ubriachi, l’assenza di controlli: quelle non sono che ombre. Uscendo dalla caverna le dirò ciò che vedo, la realtà: la sparizione della civiltà, l’adeguarsi ad una maleducazione sessuale e sentimentale, la pericolosità di uno Stato che non tutela i cittadini. Non mi venga a dire il ministro Minniti che lo stragista di Berlino è stato trovato in Italia grazie agli sforzi compiuti dalle Forze dell’ordine: è stato un caso. Le auguro, cara lettrice, di abituare gli occhi quanto prima ad una nuova luce, e di uscire dalla caverna senza nemmeno raccogliere i suoi quattro stracci. Fuori ci sarò io ad attenderla: ma il suo amico Francesco dalla Giunta Raggi non potrà riaverlo. In Italia gli attentati ce li facciamo da soli.  Romina Ciuffa




MORRO DOS PRAZERES: I COLORI DELLA FAVELA CHE HA UCCISO UN VENETO

MORRO DOS PRAZERES: I COLORI DELLA FAVELA CHE HA UCCISO UN VENETO di Romina Ciuffa. “Morro dos Prazeres” significa letteralmente “collina dei piaceri”. È una piccola, spettacolare favela a sud di Rio de Janeiro che si staglia a 275 metri, vicino il quartiere bohémienne di Santa Teresa, e da essa è visibile tutta la Rio più nordica sebbene ancora meridionale, dal Pão de Azucar al Botafogo, una delle viste più intense della città carioca, la cidade maravilhosa. Prazeres conta meno di 700 residenti. Il suo nome è un tributo a Madre Maria dei Piaceri, che tenne una messa alla base della collina dove una volta era una cappella (oggi v’è un blocco di appartamenti). Il suo passato non è dorato: è stato un Quilombo, ossia un punto in cui gli schiavi si rintanavano nel XIX secolo.

Nel 2008 è stata il set del film Elite Squad, il famosissimo Tropa de Elite. Non è facile giungervi, ed è parte dell’unità di “Escondinho/Prazeres”. Comunità “pacificata”, la polizia vi è entrata e, “teoricamente”, la favela è “tranquilla”. Che la polizia entri in una favela e la pacifichi non vuol dire che la favela sia pacificata. Nella maggior parte dei casi, pacificação non è affatto sinonimo di pace, tutt’altro: i residenti si sentono più insicuri. Il BOPE (Batalhão de Operações Policiais Especiais, ovvero Battaglione per le operazioni speciali di polizia) tende a confrontarsi con i cittadini in maniera più dura, ed essi si sentono paradossalmente più protetti dai narcotrafficanti. I tiroteios (gli scontri a fuoco) restano, cambiano solo gli addendi: se prima erano tra narcotrafficanti, poi sono tra narco e polizia, e i residenti sono meno tutelati. Questa è vox populi. E il povo si lamenta perché se prima poteva tenere le porte aperte e nessuno avrebbe rubato né commesso crimini, con l’entrata del BOPE le cose cambiano e iniziano i furti e gli stupri, non più assiduamente controllati dai precedenti detentori del potere (molti dei quali in carcere, altri latitanti, altri ancora nella comunità).

Mi soffermo oggi sul Morro dos Prazeres, che conosco bene, e ne pubblico il mio reportage fotografico, a poche ore dal caso di cronaca nera verificatosi alle 11 ora locale dell’8 dicembre: due motociclisti italiani, durante un viaggio previsto di 35 mila chilometri, dopo una visita al Cristo Redentore sarebbero entrati per sbaglio nell’area e fucilati. Dal Morro il Cristo è ben visibile.

Ma non basta un occhio a Dio: il veneto Roberto Bardella, di Jesolo, è morto, raggiunto dai colpi alla testa e al braccio; suo cugino Rino Polato (di Fossalta di Piave) si è salvato (dichiara alla polizia locale: “Roberto mi faceva notare quanto fosse degradato l’ambiente circostante. Ci siamo resi conto di aver imboccato una strada sbagliata”). Vestiti da centauri, sono forse stati scambiati per poliziotti. “Avremmo fatto trecento metri, quando abbiamo visto quel gruppo di uomini, tutti molto giovani, che sbarrava la strada e puntava le armi. Ho sentito un colpo sul casco e ho visto cadere Roberto che stava davanti. Mi sono fermato. Sono stato bloccato, strattonato e poi buttato giù dalla moto”. Poi, Polato è stato preso e tenuto per due ore in una vettura bianca, quindi rilasciato. Il suo telefono, scomparso, è stato poi ritrovato a pezzi. La Delegacia Especial de Apoio ao Turismo (Deat) lo ha accompagnato al Consolato italiano, e sabato 10 è rientrato in Italia. Solo.

Un incidente. Ma questo basti a confermare non la pericolosità del Brasile, quanto la pericolosità del turista. Rectius: la sua leggerezza. Non si creda – è un invito – che le palme bastino a rendere omaggio ad un Paese che resta emergente, sofferente, insoddisfatto, povero. I media hanno esaltato le Olimpiadi, i Mondiali, la Giornata dei Giovani e la presenza del Papa, le buone azioni del Governo, e mai hanno rivelato gli scandali effettivi che hanno distrutto intere comunità, l’aumento del costo della vita che ha reso impossibile la sopravvivenza di molti, l’esistenza di un grande, immenso, giro di spaccio nazionale ed internazionale. Non si può pensare al Brasile canticchiando Caetano Veloso, in un localetto fumante ascoltando un successo di Tom Jobim. Il Brasile non è bossanova. Il Brasile è questo: è il dolore di famiglie sfrattate, la scarsa educazione, l’analfabetizzazione. Quando per costo della vita si intende più il prezzo che vale una vita: ossia, nulla. Un iPhone, una motocicletta, ma anche solo una decina di reais. Non si visita una favela con leggerezza, non si cammina nelle spiagge di Jericoacoara di notte da sole, non si rischia la vita come l’hanno rischiata, e persa, gli ultimi italiani casi di cronaca nera più recenti. C’è sempre un errore alla base di tutto questo.

Ho vissuto nella favela della Rocinha e frequentato tutte le favelas di Rio de Janeiro. Sono stata sempre molto attenta e mi sono garantita protezione prima di tutto. Sono scampata a sparatorie e i colpi di fucile li ho visti passare sopra di me che correvo. La favela non è un Risiko, non è un gioco. Ma non lo è neanche Leblon, non lo è Ipanema, né Copacabana, che prolificano di ragazzini affamati di denaro. Bisogna, prima di affrontare un viaggio in Brasile, approntarsi una preparazione in sociologia, antropologia, psicologia, storia. Solo allora si potranno capire quelle che al turista medio sembrano le contraddizioni di un Paese, mentre a me sembrano solo elementi di coerenza. Sarebbe strano il contrario. Non si entra con una moto in una favela, regola numero uno. Salvo che non sia una moto della favela. Non si compra maconha (marijuana) nella favela, salvo che non si sia introdotti da un favelado di quella stessa favela. Non si passeggia allegramente in una favela con una macchina fotografica a lungo obiettivo, salvo che non si sia garantita protezione.

Il Morro dos Prazeres è una comunità colorata, ne danno conto le mie fotografie. Alzi gli occhi e vedi Cristo. Alcune case sono in vendita. L’atto di acquisto non è registrato nello Stato di Rio de Janeiro e non risulterà da nessuna parte, se non nel Registro della Favela. Smettetela di fare i gradassi: la favela non è un centro sociale. La favela è un luogo fatto di persone vere che soffrono fame e tubercolosi, che se è vero che non pagano la luce allo Stato perché hanno i gatos, i fili collegati in ogni punto dell’area che garantisce loro dell’autoconservazione, questo rientra nella sociologia del luogo. Cacciati dalla città, i poveracci si rifugiarono nei morros quando ancora la città non si era resa conto di quanto valessero quelle colline. Ora sono le più ambite dai grandi imprenditori, dali politici, dai ricchi. Il gap tra povertà e ricchezza è tra i più alti del mondo. Ogni singola comunità (favela) ha una vita a se stante, una storia a se stante, una genealogia a se stante. Sono attivi progetti e le comunità sono comunità di buoni. Non facciamoci influenzare dai media. Ma attenzione alla leggerezze.

Eccoli, i colori che ho visto nella collina dei piaceri, dove il pittore è Cristo: al link http://www.riomabrasil.com/morro-dos-prazeres/

(Romina Ciuffa)




QUOTE NERE PER RIABILITARE L’UOMO NERO

QUOTE NERE PER RIABILITARE L’UOMO NERO di ROMINA CIUFFA. Proporrei delle «quote nere». La problematica dell’immigrazione, fuori dal discorso politico, è qualcosa che ci riguarda. Siamo a tutti gli effetti un Paese globalizzato, che non deve solamente fare i conti con il terrorismo e la manovalanza, gli immigrati che rubano e gli immigrati che rubano lavoro agli italiani. Dobbiamo riuscire anche noi a divenire un Paese mulatto. Checché Salvini ne dica, il mondo è fatto di diversità ed integrazione. Non possiamo azzerarci continuamente parlando di extracomunitari che uccidono, spacciano, rapinano. Un anti-luogo comune è quello che vede l’immigrato svolgere mansioni che l’italiano non considererebbe. Perché, allora, non educare gli extracomunitari con un programma di sostegno, richiamarli legalmente all’interno del nostro Paese con borse di studio, fornir loro una formazione adeguata ed un curriculum di rispetto perché possano prender parte alla vita del Paese?

I fiorentini, i genovesi, i milanesi, i romani, non hanno saputo far meglio. Perché non «obamizzare» anche l’Italia? Proprio oggi che in Occidente avanza la minaccia Trump-Salvini, sarebbe il caso di intervenire. Nessuna donna ha mai richiesto «quote rosa», bensì l’accettazione delle proprie competenze e la valutazione di intelligenze flessibili, multidimensionali, femminili. È stato loro assegnato il colore rosa come si assegna alle bambine e si pretende da queste, prima ancora che maturino una personalità propria, che si colorino di delicatezza e gonne. Nel corso della loro formazione hanno dimostrato parità quando non supremazia nelle posizioni rilevanti: è questa la modernità. Ora serve una politica per gli scafisti. Inutile bloccare gli accessi ed inutile dar modo ai media di coprire gli spazi vuoti con foto di barche affondate e bambini sanguinanti sulle spiagge di Lampedusa. Inutile bloccare la storia: essa si verifica. Ne è esempio l’Occidente più occidentale, quello americano, che ha dato mandato ad un afroamericano di governare per otto anni le sorti del Paese, e nulla si è potuto avverso l’integrazione. Lo stesso valga per la candidatura di Hillary Clinton: avrà pur vinto Donald, ma è innegabile quanto dalla caccia alle streghe sia stato fatto per trasformarle prima in fate, quindi in donne di comando.

Quote nere, ovvero la possibilità di assumere candidati provenienti dal fenomeno immigratorio e imparare dalle loro differenze, da prospettive che giungono da mondi lontani e possibili, sebbene poveri. Povertà non è sinonimo di terrorismo né di incompetenza, tutt’altro: dalla povertà nasce la forza più dirompente, in grado di superare gli ostacoli deteriori cui un miliardario come Lapo Elkann non è in grado di far fronte, riuscendo addirittura a simulare un rapimento per ottenere dalla famiglia una somma di (soli) 10 mila dollari. Questo dà ancor di più conto della necessità di introdurre nel sistema elementi nuovi, scindendoli dalle dinamiche della criminalità e della discriminazione, per creare opportunità di crescita nel Paese e al di fuori di esso.

L’Italia non deve nulla all’immigrazione, a nessun cittadino «ariano» deve richiedersi di risolvere i problemi dell’extracomunitario, ma può di certo servirsi di nuove idee e valorizzare le differenze proprio come è avvenuto nel processo che ha reso la donna più uomo e le ha conferito posizioni prima d’ora inimmaginabili. Un istituto di formazione «nera» potrebbe creare un esercito di buona condotta ed esperienza pronto a lavorare in un Paese come il nostro che, in ogni caso, si trova a dover integrare immigrati senza cultura, proprietari di un background doloroso che li rende sofferenti e, dunque, pericolosi. Salvo prova contraria. Perché, allora, non prendere atto del fatto che, a fronte di una fuga di cervelli dall’Italia, ve n’è una altrettanto vigorosa che conduce all’Italia stessa i cittadini di Paesi limitrofi? Perché non creare un’alleanza con l’Uomo nero, che tanto ha terrorizzato generazioni i bambini di ieri per il sol fatto di essere un uomo diverso? 

Immagino una start up governata dall’Uomo nero, dal passato controverso e dalle origini guerrafondaie. Un uomo che, giunto in Italia, possa essere messo nella condizione di imparare ciò che il suo Paese non gli ha insegnato. Alfabetizzazione prima di tutto. Quindi scuola dell’obbligo e studi universitari, corsi di formazione e – un impegno – quello dell’accettazione dell’Altro, senza contestazione di credi ed orientamenti. A condizioni di reciprocità. Il problema non è quello del crocefisso in classe o dell’uso del burka: chi sceglie di entrare in un Paese ne segue le vicissitudini e vi si lega nel rispetto di una storia che non va mutata. Ma l’accoglienza dell’Uomo nero, affiancata da un’educazione civica e laica che lasci prevalere i valori sulle credenze e sulle prese di posizione, può cambiare il nostro mondo. Può cambiare finanche noi stessi.

Non è forse vero che l’italiano si lamenta in continuazione dei suoi governanti, delle istituzioni, del vicino di casa? Non appartiene allora, tale atteggiamento, ad un’abitudine conclamata, quella volta all’insoddisfazione e alla eteropercezione del pericolo e della responsabilità? E i governanti, le istituzioni, il vicino di casa, non sono forse, nella proporzione più plausibile, italiani, bianchi, dialettali? Cosa c’è di sbagliato, dunque, a fare uno sforzo quasi extraterrestre – ossia uno sforzo che, pur dovendo impiegare centinaia di anni per giungere a compimento, richieda invece pochi lustri, un’età quasi astrale in un pianeta dove il tempo corre diversamente – e accettare l’Uomo nero proprio come si accetta il «colpo di Governo» di un fiorentino? Cosa distingue un fiorentino da un siriano: la sicurezza ch’egli non compia un attentato? Perché: non lo ha forse, in un certo qual senso, compiuto?

E perché non cominciare dai bambini? I quali sono aperti ad ogni forma di società e di apprendimento. Disfano questo processo di legittimazione delle diversità i genitori che in un Paese straniero, accogliente, pretendono di mantenere abitudini e credi dei propri universi di provenienza. Come se un asiatico volesse trasferirsi in Groenlandia mantenendo i vestiti tailandesi: in poco tempo, morirebbe di freddo. Prendiamone atto. Un valdostano non potrebbe trasferirsi a Rio de Janeiro indossando il consueto pellicciotto. Perché ciò non dovrebbe valere per la religione? Perché la coesistenza di razze deve seguire il destino dell’utopia? Perché non ipotizzare una struttura in grado di fare della diversità un valore aggiunto? In uno spazio-tempo in cui, attraverso i social network, la parola «amicizia» è divenuta un contenitore vuoto, quando nello stesso istante con un click si partecipa ai funerali di Fidel Castro, alla vittoria di Donald Trump e alla morte di un’intera squadra di calcio brasiliana a seguito di un disastro aereo, possiamo veramente continuare a credere che l’Uomo nero sia così cattivo? (Romina Ciuffa)




LGBT: CARA CIRINNÀ, MA CHI “SÌ” CREDE DI ESSERE?

LGBT: CARA CIRINNÀ, MA CHI “SÌ” CREDE DI ESSERE? di Romina Ciuffa. Ciò che innanzitutto colpisce di Monica Cirinnà, senatrice (per il momento) del Partito democratico, è il suo avvio cattolico in una famiglia di valori conservatori, tanto da frequentare una scuola di suore della Capitale. Suore che non sapevano che quella Monica avrebbe poi condotto la battaglia per le coppie omosessuali che, l’11 maggio 2016, sarebbe divenuta normativa attraverso il decreto legge che prende il suo nome, intitolato “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, introducendo l’unione civile tra omosessuali quale specifica formazione sociale e la disciplina sulla convivenza di fatto sia gay che etero.


Già dai tempi delle suore la Cirinnà decise di trasferirsi al Liceo Classico “Tacito” di Roma, partecipando al movimento studentesco e, nel tempo, facendo proprie le istanze animaliste: dopo alcuni anni di collaborazione alla cattedra di Procedura Penale di Franco Cordero, è stata lei a fondare l’Arca, l’Associazione romana per la cura degli animali, “con l’obiettivo di prendersi cura delle colonie feline e dei gatti e di assistere i loro amici umani – a Roma detti gattari – in tutte le situazioni difficili”, oltre ad aver combattuto per l’approvazione, poi avvenuta, di una legge che anche in Italia vietasse la soppressione di cani e gatti nei canili comunali (di questo periodo, e in veste di Verde, la nomina, ad opera del sindaco Francesco Rutelli, come consigliera delegata alle Politiche per i diritti degli animali e vicepresidente della Commissione Ambiente). Fin qui tutto bene. Tutto bene anche nella sua successiva nomina come presidente della Commissione delle Elette, legata ai problemi connessi ai diritti delle donne e alla valorizzazione della differenza di genere, e partecipando alla nascita della Casa Internazionale delle Donne, nel complesso monumentale del Buon Pastore di Trastevere a Roma. È suo il contributo per la trasformazione dello zoo di Roma in Bioparco, come quello per la creazione dell’oasi felina in luogo del vecchio canile di Porta Portese e per l’emanazione (reggente Walter Veltroni) del Regolamento capitolino per la tutela degli animali.

Icona gay, a questo punto. E se gli animali potessero parlare, probabilmente anche icona animale. Il popolo LGBT ha bisogno di punti di riferimento, ed è indubbio che il Partito democratico ha svolto, nella sua persona e – perché negarlo – in quella del precedente sindaco capitolino Ignazio Marino, nonché in altri sporadici personaggi, un lavoro ineccepibile, che ha portato l’Italia quasi ai livelli europei. Ora è possibile per gli omosessuali, nonché per i conviventi more uxorio, fare liste di “nozze”, mutata mutandis liste di “unioni civili”, nei negozi vicini al Campidoglio: al centro di Roma, insomma. E questo non è poco. Grati a quei “rivoluzionari” della sinistra che hanno lottato per avvicinare l’Italia all’Europa e al mondo anche dal punto di vista delle scelte sessuali e famigliari, andando oltre una Costituzione dalla lettura cattolica. Perché, vorrei ricordarlo, il nostro testo fondamentale all’art. 29 stabilisce, tra i principii fondamentali, il seguente dettato: 

  • La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
  • Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare

Specifico: non v’è nessun riferimento alla religione. È riconosciuta una famiglia fondata sul matrimonio. Il punto qui è dare al matrimonio una definizione. Se in esso includiamo, infatti, la possibilità che esso si svolga tra persone appartenenti allo stesso sesso, allora la norma dell’art. 29 tutelerà anche questa tipologia matrimoniale e garantirà ai coniugi (a quel punto, sostantivo neutro) eguaglianza morale e giuridica. Il problema legato all’art. 29 Cost. è proprio quello del suo collocamento all’interno di un sistema più vasto che definisce la famiglia solo in un certo modo. Il merito della Cirinnà (leggasi: di tutti coloro che hanno partecipato alla proposta, discussione, emanazione del decreto portante il suo nome, ben lungi dall’essere una battaglia personale della senatrice come l’uomo di strada è portato a credere ma frutto di un’attività complessa e partecipata) è quello di aver dato al concetto di famiglia un’accezione più amplia, al concetto di matrimonio una interpretazione moderna. 

O preferisco dire antica, se è vero che sin dai Greci, dai Latini, dai nostri antenati più lontani, l’omosessualità era moderna, la vita eterosessuale era concepita nel senso di una vita riproduttiva e non era legata necessariamente al concetto di amore, giacché le coppie matrimoniali erano formate dai genitori alla nascita dei pargoli ed a questi imposte, e – è cosa nota – gli uomini erano tenuti a far pratica sessuale con i fanciulli per potersi far trovare pronti ad una vita sessuale. Ce ne parlano Erodoto, Senofonte, Platone, quanti altri, dei quali non possiamo solo prendere ciò che ci fa comodo: le Storie del primo; le pratiche di guerra del secondo; l’amor platonico, la giustizia, la teoria delle idee, la filosofia del terzo. Non possiamo soprassedere alla allor comune pederastia di cui essi ci rendono edotti (da non confondere con la “nostra” pedofilia, la pederastia assecondava una relazione stabilita tra una persona adulta e un adolescente al di fuori dell’ambito familiare, che prescindeva dal desiderio sessuale nei confronti di un impubere: il sessuologo Erwin J. Haeberle ne critica così l’uso “moderno, risultante da un fraintendimento del termine originale e dall’ignoranza nei riguardi delle sue più profonde implicazioni storiche”). Il ragazzo apprendeva virtù che avrebbero fatto di lui un uomo adulto durante un periodo di isolamento in cui avrebbe convissuto con un uomo, nella cui compagnia era introdotto alle regole della vita sociale: l’adulto sarebbe stato al tempo stesso maestro e amante. Antichità.

Tornando alle nostre modernità, e senza entrare nel merito della discussione, la Costituzione non definisce il sesso dei coniugi. Lo fa il Codice civile, ma esso è legge ordinaria, proprio come il decreto Cirinnà di pari livello, con le conseguenze che ne derivano e che saranno anche definite dalla giurisprudenza che produrremo (non mancheranno giudizi dinnanzi alla Corte costituzionale).

Fin qui tutto bene. Il problema non è nel precipitare, ma nell’atterrare.

Io capisco, e sono perfettamente consapevole, che l’impegno politico non è discutibile. Senatrice del PD, renziana, Cirinnà non può non appoggiare le scelte del suo Segretario. Il punto deteriore, a mio parere, è la strumentalizzazione. In campagna referendaria, fortunatamente volta al termine, tutto è concesso, ed è normale il suo appoggio al Sì. Ciò che mi permetto di non condividere, e che di fatto non condivido, è l’aver fatto dei LBGT un esercito per la riforma costituzionale. Lunghi post sui suoi canali di social network dando per scontato il voto della “sua” comunità-esercito per un Sì, anche strumentalizzando il “sì” matrimoniale in funzione della campagna renziana. Il motto “Basta un sì”si affianca in via strumentale all’immagine di una coppia omosessuale che ha potuto, grazie al Ddl Cirinnà, “dire sì”: ma è un “sì, lo voglio”. Voglio sposare la persona che amo.

Non è la stessa cosa. Il popolo LGBT deve poter votare sì o no formandosi una coscienza personale che prescinda dalla possibilità, attualmente concessagli, di fare pubblicazioni in Campidoglio. Non è la stessa cosa modificare drasticamente la Costituzione e, intanto, formarsi una famiglia. Sono due punti che vanno completamente scissi e ragionati in termini di riflessione personale. Non si può votare Sì perché Vladimir Luxuria voterà Sì, o perché la condottiera Cirinnà ha fatto proseliti. La legge che ella ha contribuito ad emanare (rectius decreto legge) è un atto di eguaglianza e di equità, l’applicazione pura e semplice del secondo comma dell’art. 3 del nostro testo costituzionale che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pragmatismo e alla concretezza di un’eguaglianza formalmente canonizzata nel primo comma (per questo i due dettati sono conosciuti come, il primo, principio di uguaglianza formale, il secondo, principio di uguaglianza sostanziale). In poche parole, un “atto dovuto” da un politico che sente il mondo.

Questa riforma non ha nulla a che vedere, direttamente o indirettamente, con la popolazione LGBT. Fare seguaci ed attirare masse gay e transgender verso il Sì renziano con la ridondanza del motto “Basta un Sì” impiegato per la legalizzazione delle coppie civili è una manovra politica di basso livello sebbene di alto impatto, se è vero che la maggior parte di essi voterà proprio in senso positivo alla sostituzione costituzionale. Bisogna imparare a comprendere quando si è strumenti di un gioco più grande, più infido, più infimo, sottile, sbagliato. Negli Stati Uniti è in questo modo che ha vinto Donald Trump: manovrando il populismo, l’ignoranza, la necessità di essere rappresentati e di appoggiare chi sembra essere più simile. Ancora: l’impiego dei social network, l’appoggio dei media, l’importanza di chiamarsi Ernesto ed essere sposato con Ernesto2. Sentirsi rappresentati non comporta la condivisione sic et simpliciter delle idee del rappresentante, ci vuole riflessione reale: l’importanza di chiamarsi Onesto (è di Oscar Wilde stesso il doppio senso su “earnest”, Ernesto ed onesto). La modifica della Costituzione non si gioca sull’orientamento sessuale. È umiliante vedere costruire, da parte del PD, truppe di omosessuali pronti a combattere per la causa partitodemocratica, solo perché la Cirinnà con la sua chioma bionda monta un cavallo bianco. 

Questa strumentalizzazione, cara Monica, la riporta a quel collegio di suore lontano nel tempo, dal quale lei scappò per studiare l’umanesimo al Tacito di Roma. Sa quando le suore usavano la religione per indicarle i passi da seguire? Ricorda i sensi di colpa che le muovevano? Sa dirmi quante volte si è chiesta, con fastidio, astio o almeno curiosità morbosa, perché esse vestissero tutte uguali e lasciassero da parte ogni istanza identitaria, ogni modalità di identificazione di se stesse rispetto alle altre, per seguire Dio? 

Monica, non è quello che sta facendo ora con la comunità LGBT? Vuole davvero strumentalizzare la religione dei diritti per rendere tutti i suoi proseliti identici, persone che vogliono sposarsi pure loro, che vogliono adottare figli pure loro, che vogliono farne pure loro, che vogliono usare bagni giustificati sul gender, senza attribuire ai medesimi una taratura di uomini e donne intelligenti, in grado di pensare, riflettere, scegliere a prescindere dal suo decreto legge; vuole di fatto lei stessa – una “paladina” – renderli tutti identificabili con un unico scopo: il suo? (Romina Ciuffa)




DIPENDENZE AFFETTIVE: IO E LO STATO, UN AMOR NON CORRISPOSTO

DIPENDENZE AFFETTIVE: IO E LO STATO, UN AMOR NON CORRISPOSTO di Romina Ciuffa. Lo ammetto. Mi sveglio con una sana e robusta paura. Apro gli occhi tutte le mattine come trasformata in un grosso insetto, tardo a riconoscermi, a volte attendo qualche minuto prima di dare un’occhiata al mio riflesso proiettato, che è distante dalla mia introiezione. Si tratta di quel senso di alienazione e non appartenenza al luogo che mi ospita, che è mio, al letto da condividere, che è mio, e all’esistenza che mi attraversa, che è mia. Un senso di alienazione e di non appartenenza generato dal soprassalto al mondo che vivo, che non è mio.

“E si mise all’opera per spostare, con una oscillazione sempre uniforme, il corpo in tutta la sua lunghezza fuori del letto. Lasciandosi cadere in questa maniera, il capo, che cadendo voleva tenere ben sollevato, doveva rimanere logicamente illeso. La schiena sembrava essere dura, e cadendo sul tappeto non si sarebbe forse danneggiata. La preoccupazione più grave era per lo schianto che sarebbe avvenuto (…)” (Franz Kafka, La metamorfosi). Il risveglio e l’incontro con l’inconscio notturno. Lo schianto occidentale più operativo nella metamorfosi quotidiana è lavoro-amore. E un teorema: quando si ha l’amore il lavoro passa in secondo piano; quando si ha il lavoro, metti da parte l’amore, arriverà. Dedicati totalmente al lavoro. Qualcosa tipo:

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Quoto integralmente la madre di Phil Collins, non si aspetti l’amore. Nel frattempo la società ci dice: “Vattene!”, e noi prendiamo esempio da Stoccolma fino al Nebraska, per dire: me ne vado (poi però restiamo). Non è una colpa, è il mondo che va avanti, che ci insegna che, come animali, dopo lo svezzamento dobbiamo renderci responsabili. Giusto (negli altri Paesi), sebbene perfettibile (nel nostro). Ma perché allora, quando ti svegli con la paura, pensi sempre a casa? Perché non vi sono punti di riferimento. 

Vorrei in questa sede approfondire il rapporto lavoro-amore per dare conto della dipendenza affettiva che va accentuandosi non più come una intrinseca, leggera, essenziale dote dell’amore, bensì come disturbo psichiatrico tra le fila di giovani e adulti. Non più come un virtuosismo romantico, ma come un mea culpa che tormenta chi non crede all’amore libero. Una dipendenza affettiva che, nata sana, via via si è trasformata – metamorfosi kafkiana – in quello scarafaggio che sostituisce una mattina il giovane Gregor Samsa. La dipendenza affettiva così va prendendo qui e là le forme di un disturbo bipolare in bilico tra episodi maniacali e depressivi, un disturbo depressivo maggiore, una distimia, un disturbo ossessivo-compulsivo, un disturbo psicosomatico. Anche in comorbilità. Mi fermo a questi cinque, elencati con chiarezza dal DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali maggiormente in uso tra psicologi e psichiatri, pur non essendo esaustivi. Siffatta metamorfizzazione del fenomeno amoroso in disturbo psichiatrico sottopelle è il frutto, innanzitutto, della nostra nuova società.

Il discorso è italiano. Il lavoro: carente. Quando presente, sottopagato. Quando pagato, a termine. Proprio lui, che dovrebbe essere “dipendente”, non lo è. Quest’assenza di lavoro dipendente si trasforma nella presenza di amore dipendente. Primaria fonte non di guadagno bensì di insoddisfazioni e frustrazioni, il (non)lavoro è, in Italia, la panacea dei mali. Faccio riferimento ai giovani e agli adulti, pur sottolineando che i primi hanno una marcia in più potendo accedere a un numero maggiore e più variegato di incarichi e mansioni che un adulto non può né deve accettare (come si può chiedere ad un ricercatore ultraquarantenne di fare il cameriere in un bar?). Senza tacere il fattore “speranza”, tradotto in termini politico-economici come “aspettativa di vita”: il giovane ha più tempo davanti a sé ed una minore responsabilizzazione dettata dall’età, vuole viaggiare, intende e deve sperimentare, ha meno ambizioni specifiche in quanto più libero, non ha ancora investito gran parte della propria vita in un progetto unico. Sotto il profilo dell’amore, ha bisogno e curiosità di fare esperienze, tende a dimenticare facilmente una storia finita o a lasciarsi alle spalle ottime opportunità romantiche perché non le vive come tali, preso a guardare avanti. È abituato a un lavoro intercambiabile, sa che la laurea è un pezzo di carta disfunzionale, conosce i linguaggi di programmazione del computer e vive in chat. Ha un collo da giraffa e mangia solo le foglie più alte degli alberi. L’adulto è stanco, fisicamente e psicologicamente: assiste ai cambiamenti del corpo, ha già ascoltato troppi politici parlare, ha assistito alla franca ingiustizia dei licenziamenti, nella migliore delle ipotesi ha rifiutato la cocaina che gli è stata offerta, è solo. Il collo è quello dello struzzo, che nasconde sotto terra sebbene lo abbia ben lungo e abile.

Prendiamo l’orologio biologico, ingestibile strumento di cui ci ha dotati il nostro dna. Una donna trascorre la decade trentenaria sentendosi domandare: “A quando un figlio?”, ne compie 40 e si autointerroga: “Dovrei farlo? Non sono pronta, ma dovrei farlo?”, verso i 45 giunge a Barcellona e programma una inseminazione artificiale, quando non rinuncia alla maternità o non accetta altro compromesso. Tic tac. Gli uomini non sono messi meglio. Hanno indubbiamente più età per fare figli, nessun orologio biologico al polso, ma non credono nella filiarità e più frequentemente optano per la libertà. La maggior parte di essi si lascia lasciare dalla storica compagna ormai quarantenne che preme per una gravidanza. “Noi sessualmente eravamo affamati, i giovani d’oggi non lo sono più. Noi le portavamo a ballare”, sento dire in un bar. Le coppie omosessuali sono le più favorite. Sebbene si debbano formare e mantenere unite, come tutte le altre. Ma per loro, libertà è fare un figlio, esattamente l’opposto della coppia eterosessuale: l’avvicinamento di un diritto mai prima riconosciuto lo rende favorito. Lo stesso valga per il matrimonio, ora possibile anche in Italia, che lo rende più appetibile alla coppia gay che non alla coppia classica.

Tic tac. La dipendenza affettiva si crea una volta che si afferri la paura di rimanere soli, e ciò solitamente avviene con il passaggio ad un’età più adulta. Non andremo a riprendere Freud, non andremo a cercare nel padre la causa di un vuoto affettivo o nella madre l’impossibilità a vivere rapporti autentici. Più semplicemente, in un discorso sociologico che colloca la persona all’interno di un mondo relazionale, la dipendenza affettiva si crea per l’assenza di sicurezze nell’attualità, di relazioni vere, complete, durature, stabili, protettive, non virtuali. Il mestiere più ricco è appannaggio dello psichiatra, lo psicoterapeuta perde alcuni colpi non potendo prescrivere farmaci che ad oggi sono un must. V’è necessità di cambiare presto le cose con un serotoninergico, ingollare ansiolitici, usare un toccasana. Chi è contrario ai farmaci si iscrive a yoga, meditazione, prende ayahuasca, mangia bio, usa Fiori di Bach. Non è così che devono andare le cose. È l’alba dei morti viventi: si cammina per le strade senza una meta affettiva effettiva, vera, zombie che soffrono dipendenze affettive e svolgono lavori non consoni. L’impossibilità di reagire ad una relazione finita, o terminare una storia, buttarsi a capofitto nel lavoro perché assente o non satisfattorio, accentua la problematicità del fenomeno. L’amore non è corrisposto. Non è corrisposto da parte dello Stato, che non ci ama.

La società di internet ha peggiorato il quadro in maniera esponenziale, conferendo a tutti le basi ideali per divenire ossessivo-compulsivi da manuale: il controllo via Facebook dei profili, la scansione precisa dei “mi piace” e, prima fra tutti, la “spunta blu”, ossia la “visualizzazione” su WhatsApp, macchina infernale creata dal Diavolo, che dà conto del fatto che la persona destinataria di un messaggio lo abbia letto, i tempi trascorsi prima che si sia risposto. L’online è la causa primaria della malattia affettiva di questo millennio. “Gettati a capofitto sul lavoro”. Ma prima, per liberarti dalle dipendenze affettive, sciogliti dall’incontinenza virtuale, slaccia i nodi nautici del porto per navigare in modo etimologico, con una navis, la nave latina, e non in modo virtuale, con un computer. Impara ad attendere, come un capitano di mare, e che l’unica spunta blu sia un’onda del mare. Non sottovalutarti. Non ascoltare nemmeno chi dice: “Se non ti ama non ti merita”, perché dall’altro lato come da questo c’è chi ha paura e necessita di tempo. L’amore libero non esiste, fantascienza del nuovo millennio che ha generato mostri di indipendenza pur di sopperire all’assenza di sicurezze, i mostri del “non ho bisogno di nessuno”. L’oggetto dell’amore tornerà, se lo si ama ancora; è lo Stato che non tornerà. 

Si tratta del sesto e settimo degli stadi di sviluppo psicosociale elaborati dallo psicanalista Erik Erikson. Nel sesto stadio, l’età giovanile, v’è una contrapposizione tra intimità ed isolamento: un corretto sviluppo tende verso la prima. Il giovane avverte la necessità di una relazione intima appagante (passione, amore, progetto di vita, amicizia); ove non riesca a trovare l’intimità eriksoniana, vivrà un forte senso di isolamento e solitudine. Questo complicherà il passaggio al settimo stadio, quello dell’età adulta, in cui la contrapposizione è tra i due poli generatività-stagnazione: la crisi che la persona è chiamata a superare in questa difficile fase riguarda la procreazione, non intesa solo in senso letterale bensì ampliata alla necessità intrinsecamente umana di lasciare qualcosa alle generazioni successive (con un mestiere quale scrittore, insegnante, ricercatore, artista et altera). La procreazione consiste nella realizzazione personale a fini futuristici, sia essa di tipo lavorativo sia essa di tipo filiare, sempre nel senso dell’offrire un contributo che favorirà le nuove generazioni, per avere una continuità individuale postuma che dia senso all’attuale e una trascendentalità alla vita. L’insuccesso in questo compito di sviluppo porterà a sperimentare un senso di stagnazione, immobilità e inutilità riferita alla propria esistenza. Ed ecco, l’adulto è depresso.

Procreazione dunque nel senso di generazione. Lavoro e amore sono strettamente collegati e il problema della dipendenza affettiva non può essere scisso dal dramma esistenziale del proprio contributo professionale, artistico, lavorativo. Per superare uno stato di dipendenza affettiva, l’ossessione verso un oggetto d’amore, è necessario sviluppare generatività in altri settori. Ciò non è facile se il problema è già divenuto disturbo, sia esso mania, depressione, ossessione, somatoformazione. Generatività in Italia è impossibile. Nel nuovo adulto l’orologio biologico non batte solo o per forza il tempo della genitorialità, ma anche quello della pro-creatività, il senso di sentirsi validamente esistenti, la percezione della propria funzionalità nella società, la fiducia nelle istituzioni e nelle persone, la tensione verso un futuro sereno, il sentimento di protezione verso se stessi e verso l’altro, uno stipendio. Una volta venuti a mancare tali tasselli – perché il primo a non amare l’uomo è lo Stato, il secondo a non amarlo è se stesso – si passerà all’ottavo stadio di psicosviluppo, che vede contrapporsi i due poli integrità dell’io-disperazione: pericoloso momento di un bilancio al quale anche la Corte dei Conti dovrebbe partecipare, essendo, nella mia teoria, lo Stato chiamato in causa direttamente nella crisi affettiva dilagante, nel senso dell’amor non corrisposto.  

Come si può spostare un oggetto d’amore desiderato su altro se, amando l’Italia, lei non ci corrisponde? La nostra dipendenza affettiva nei suoi riguardi supera la normalità e diviene patologia, che viene spostata sul legame in campo strettamente sentimentale; spostamento che pregiudica la formazione di legami stabili, duraturi, sani, verso i quali si ha una proiezione dell’instabilità introiettata. Tale dipendenza scatena due vie: la necessità di fuga o, all’estremo opposto, la soluzione di figliare per dare un senso alla vita e creare un legame affettivo stabile in quanto di sangue. Proprio per questo quando si ha paura si tende a tornare a casa, perché è lì che sono i legami sanguinei. Come in amore l’idealizzazione partecipa di questo processo. Noi non amiamo questa Italia, bensì l’Italia di Michelangelo, Bernini, l’Italia dei borghi, l’odore dei camini accesi, l’agriturismo, Asiago, Mondello, vera e propria idealizzazione simile a quella che operiamo pensando alla persona che amiamo non più corrisposti, focalizzandoci nostalgicamente sui momenti di gloria di quella relazione. La storia con il nostro Paese è finita, ma possiamo recuperare la nostra forza per amare qualcun altro. Tanto che da quando è stato promulgato il divorzio breve, è aumentato il numero di matrimoni civili, a fini pensionistici e per tutelare i figli: possiamo divorziare con il nostro Paese? Possiamo smettere di amarlo non corrisposti? 

Quando si sveglia da insetto, Gregor se ne rende conto eppure il primo pensiero del nuovo scarafaggio va comunque alla sua vita, a quanto essa sia priva di autentiche gioie. Non pensa a ciò che è diventato, un gigantesco, orrido mostro, ma all’inutilità di se stesso, l’inutilità di Gregor uomo. Quindi, guarda l’orologio a muro e si accorge di aver dormito troppo, che ha fretta. Tic tac.  (Romina Ciuffa)




IL REFERENDUM VE LO SPIEGO IO

IL REFERENDUM VE LO SPIEGO IO di Romina Ciuffa. Io non dico se bisogna votare sì o no. Io direi di votare no. Ho le mie ragioni, che la ragione conosce. Non si tratta, come si mormora, di togliere legittimazione al Governo Renzi, al Pd, alla solita Maria Elena Boschi: ciò è secondario. Non si può votare sì o no per spodestare, o per passioni: la funzionalità prima di tutto. Per me si tratta della Costituzione, che sin dal nome fa riferimento a qualcosa che è costitutivo. Un uomo ha una costituzione sana, robusta, ma anche fragile: una costituzione che lo contraddistingue nel proprio dna. Poco si può fare contro il fattore costitutivo, se non seguirlo per non avvertire frustrazione, e migliorare gli aspetti che sono migliorabili. La genetica familiare vince sulla scienza, per quanto possiamo già clonare capretti un uomo di sana e robusta costituzione può andare in palestra, colui che invece ha problemi al cuore no. Quest’ultimo potrà, invece, fare altri esercizi, pur mantenendo attenzione e controllo, e dovrà fumare poco o niente. 

Inizio in questo modo per dire che noi siamo figli del nostro dna costitutivo, e siamo tutti figli della nostra Costituzione, promulgata nel 1947, il 22 dicembre, sotto il segno del Capricorno (cuspide Sagittario): segno di terra, grande diplomatico, responsabile, anche materialista, crede in un potere più alto (sono i principi fondamentali della Premessa), a volte snob, ambizioso, infinitamente paziente, non impulsivo, mai di fretta, la sua costituzione fisica tende a irrobustirsi quando invecchia. Non poteva che essere del Capricorno una Costituzione destinata a supplire agli errori della guerra, tanto che già il decreto legge luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944 fu emanato dal governo Bonomi a pochi giorni di distanza dalla liberazione di Roma, stabilendo che alla fine della guerra sarebbe stata eletta a suffragio universale, diretto e segreto, un’Assemblea costituente per scegliere la forma dello Stato e dare al Paese un nuovo testo costituzionale. Lo stesso che avrebbe partorito sin dall’art. 1 una Repubblica democratica fondata sul lavoro, ed una sovranità appartenente al popolo, perché fosse esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione.  Questa riforma sarebbe del Sagittario: incapace di rimanere fermi, pronto a partire per una nuova avventura, a volte inquieto, in cerca di qualcosa che sfugge, con una freccia puntata verso l’alto, vero e proprio collegamento tra passato e futuro. Ma come?

Vorrei prima specificare ai non addetti ai lavori che tutto trae origine dall’art. 138 della nostra Costituzione, che prevede il procedimento per l’approvazione di leggi di revisione costituzionale e di altre leggi costituzionali, ossia per modificare la Costituzione. Ma lo stesso articolo 138 è stato oggetto di molta riflessione dottrinale: e se cambiassimo l’art. 138? Pura dittatura. Darò una risposta veloce, per sintetizzare anni di discussioni: non sono modificabili, mai, (e da persona sana di mente), i principi fondamentali e tutti quegli aspetti della Costituzione che provengano da più in alto, ossia dall’essenza umana e democratica. Perché altrimenti potrebbe essere modificata anche la norma dell’art. 139 secondo cui “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”: semplicemente modificando prima l’art. 139 con la procedura dell’art. 138, quindi modificando l’art. 1 che stabilisce la forma repubblicana. 

Ora, facciamo finta che la Costituzione sia un libro. La riforma proposta dall’attuale Governo attraverso referendum, come richiede l’art. 138 della Costituzione, consiste in un vero e proprio editing. Immaginiamo che il poeta invii la nuova raccolta al proprio editore per la pubblicazione, e che il ragazzetto addetto ai manoscritti della casa editrice in questione vi dia una letta e lo corregga di punto in bianco, trasformandolo in prosa e rinviandolo al poeta. Immaginiamo che sia inviato, ancora, un noir avente ad oggetto un complesso complotto internazionale, e che la ragazzetta addetta all’editing muti le pagine finali del testo e dalla nuova prosa emerga che l’assassino sia il maggiordomo, di sherlockiana memoria: prevedibile, scontato, inopportuno. Non si mette mano al testo di uno scrittore. Non si trasforma la poesia in prosa. 

E la Costituzione è pura poesia. Si può discutere sull’attualità di alcune sue norme, ma la verità è che ciascuna di esse è affidata alla interpretazione della giurisprudenza costituzionale, che può apportare le modifiche necessarie, sentenziando affinché si rendano al passo coi tempi e siano lette nel modo ad uopo. 

Trasformare una poesia del premio Nobel polacco Wisława Szymborska in un libro di Fabio Volo è da assassini. Questo sta facendo Matteo (così lo chiamano certi giornali, per nome proprio). Prendo le distanze: questo sta facendo il premier Renzi, distrugge un’opera d’arte. La distrugge letteralmente. Non farò discorsi di sinistra né di destra. Obiettivamente, non è normale sostituire l’art. 70 classico, “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”, con “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati. Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. L’esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. I disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione. I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti. Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera dei deputati». No, non si può fare. Non si può prendere una delle norme più democratiche e poetiche del nostro Paese e trasformarla in un libro di Fabio Volo o di Ligabue. Inoltre, non può essere stato il maggiordomo. Dev’essere stato Renzi.

Questa modifica è stata “spiegata” al popolino con la stringa “Superamento del bicameralismo perfettamente paritario” (traduco io: supremazia di una Camera sull’altra, o su quel poco che ne rimane), e il Fabio Volo fiorentino ha dichiarato a suo favore: “Il procedimento legislativo diventa più snello, si ferma l’abuso della decretazione d’urgenza cui neanche noi possiamo dichiararci immuni, senza che si tocchi il sistema di pesi e di contrappesi. Si interviene sul Titolo V rendendo lo Stato più responsabile, si elimina il bicameralismo perfetto che era considerato da tutte le forze politiche un tabù da abbattere”. Rabbrividisco. La procedura risulterebbe molto più complessa, innanzitutto. Ma c’è di più: le molte navette che sono fatte tra una Camera e l’altra possono essere risolte senza una riforma costituzionale, bensì attraverso l’uso della prassi. Come nel question time, il tempo nel quale i ministri danno in Parlamento risposte immediate alle interrogazioni dei parlamentari, non potendosi dilungare oltre misura. Una nuova prassi che dovrebbe essere sostenuta dalla volontà di ridurre i tempi di legiferazione per dare al cittadino ciò che merita: tempismo e adeguatezza. 

Ma soprattutto rabbrividisco nel sentire il premier-maggiordomo intenzionato a mettere un freno, attraverso questa norma fallace, alla decretazione d’urgenza: la decretazione d’urgenza è, a tutti gli effetti, un abuso del Governo. È esattamente lì che l’Esecutivo viola la Costituzione da anni: in particolare, abusando dell’art. 77 viola l’art. 70. Mi spiego per i non addetti ai lavori. L’art. 77 attribuisce all’Esecutivo un potere eccezionale (non nel senso di grande, bensì nel senso che esso costituisce un’eccezione alla regola). Mentre l’art. 70 attribuisce il potere legislativo alle Camere collettivamente, l’art. 77 ribadisce la regola: il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. In questo primo comma fissa la norma abilitativa dei decreti legislativi. Quindi, nel secondo comma apre uno spiraglio alla decretazione d’urgenza, consapevole che la macchina parlamentare potrebbe – in casi eccezionali – risultare lenta, e stabilisce che, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo possa adottare, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge. Deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. Al comma successivo, i decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti. 

Voilà: fatta la legge (costituzionale), trovato l’inganno (costituzionale). Renzi & Co. vogliono farci credere che voler mettere un freno alla decretazione d’urgenza sia una buona cosa, quando però, a ben vedere, la decretazione d’urgenza è un abuso del Governo. Pertanto, semplicemente smetta di abusarne, e usi lo strumento dell’art. 77 in modo dignitoso. Tanto che sarebbero ridotti i tempi del procedimento legislativo in caso di DDL in materia di bilancio e in quelli in cui è prevista la clausola di supremazia, e non solo: il Governo può chiedere la votazione di altri DDL entro e non oltre 70 giorni (escludendo solo alcuni tipi di legge, come le leggi elettorali e di ratifica dei trattati). Che Dio ci aiuti: il Governo può battere il tempo al Parlamento, rappresentante del popolo? Ma esso è potere esecutivo, dovrebbe eseguire, non comandarsela.

Inoltre la riforma ridetermina le norme riguardanti l’iniziativa legislativa modificando l’attuale art. 71 Cost.: la dà solo alla Camera dei Deputati, ed alza il quorum per le leggi di iniziativa popolare a ben 150.000 firme (ma per favorire la partecipazione dei cittadini alla politica verrà introdotto il referendum popolare propositivo…). Per proporre un referendum, invece, serviranno 800 mila firme, contro le 500 mila attuali. Praticamente la riforma renderà impossibile l’iniziativa popolare, violando così gli stessi principi fondamentali della Costituzione.

Per non parlare della stringa referendaria: “Riduzione del numero dei senatori e taglio delle spese”. Non c’è bisogno di ridurre il numero dei parlamentari, è sufficiente, più che sufficiente, tagliare gli stipendi di tutti i nostri rappresentanti nonché dell’Esecutivo. Più che semplice: banale. Ma no: si vuole ridurre i senatori da 335 a 100, di cui 5 saranno scelti dal Presidente della Repubblica e 5 dalle Regioni “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”. Gli altri membri del nuovo Senato delle Autonomie non saranno eletti dai cittadini, bensì scelti dalle Regioni e dalle Città Metropolitane tra i sindaci (in numero di 21) e i consiglieri regionali (74). La legge costituzionale Boschi prevede per i senatori l’azzeramento delle indennità per la loro carica (circa 10.385 euro mensili), ma essi sono già pagati per le funzioni che svolgono presso gli Enti Locali. Potrebbe restare il beneficio del rimborso per le spese di soggiorno a Roma. Il punto è che il punto non è questo. Il bicameralismo in Italia è necessario alla democrazia, è necessario che il nostro potere legislativo resti un giano bifronte che possa confrontarsi. L’eliminazione del Senato non può essere la soluzione per supplire all’eccesso di danarizzazione delle cariche pubbliche. Il “mi candido” italiano equivale al “mi arricchisco”. Questo deve cambiare. Molti sindaci dei paesi sono pagati a rimborso spese, alcune cariche pubbliche vengono svolte quasi in forma di volontariato. La rappresentanza di un Paese, poi, dovrebbe essere data a laureati, con curricula molto suggestivi e altrettanto veritieri, a coloro che abbiano dimostrato o che possano dimostrare un’intelligenza attiva e un attivismo intelligente. In tal caso la meritocrazia premierebbe gli eletti, ma comunque fino ad un certo punto: esigere stipendi esagerati a carico del pubblico è sinonimo di un disinteresse verso il proprio Paese che per ciò solo andrebbe condannato. Ma come spiegare che anche Virginia Raggi, attuale sindaco di Roma, prima caldeggiava il taglio degli stipendi, poi come primi atti da prima cittadina ne ha aumentato qualcuno?

Non proseguirò nella disamina degli altri articoli, almeno per ora. Solo un veloce accenno alla norma che aggiungerebbe, all’art. 55, la chiosa: “Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza”. Norma che si evince già dall’art. 3 della Costituzione, comma 1 (uguaglianza formale), e comma 2 (uguaglianza sostanziale). Un doppione di cui le donne non hanno bisogno, ma forse Renzi sì per conquistare l’elettorato femminile (oltreché la Boschi). 

 Io voterei NO a questa riforma perché:

– dà potere legislativo all’Esecutivo e ne priva il Legislativo;

– è mosso da un ragazzo di appena 41 anni che pasticcia sul compito in classe…

– …e che non è stato nominato, lui per primo, nel rispetto delle norme costituzionali, dunque si trova al potere senza legittimazione, violando ciò che ora vuole modificare (in altri tempi si sarebbe parlato di dittatura); 

– alla dittatura si può giungere, per l’appunto, attraverso l’approvazione delle norme oggetto di questo referendum, che > noto bene > è confermativo, dunque non richiede maggioranza per essere approvato: detto anche costituzionale o sospensivo, esso prescinde dal quorum, saranno conteggiati i voti validamente espressi indipendentemente se abbia partecipato o meno alla consultazione la maggioranza degli aventi diritto, pertanto l’astensionismo non va praticato in questo caso;

– è mosso da un ministro per le Riforme costituzionali (Maria Elena Boschi) che è già stato al centro di polemiche e vicende che avrebbero dovuto delegittimarlo e, pertanto, è viziato anche qui;

– l’Italicum non va, genericamente in quanto già oggetto di molte remissioni dinnanzi alla Corte costituzionale;

– i tagli alle spese dovrebbero partire direttamente dai rappresentanti, la Casta. Non c’è uguaglianza se nel privato si ricorre a parcellari che danno un limite massimo d’onorari e codici deontologici, nel codice civile è dato l’istituto della rescissione per eliminare retroattivamente gli effetti di un contratto se vi è una sproporzione fra le prestazioni contrapposte che consegue all’abuso delle condizioni di debolezza, mentre nel pubblico – e proprio tra chi ci rappresenta – c’è un sinallagma violato in vari punti;

– non si può trasformare una poesia in un libro di Fabio Volo o Ligabue.

Leggete la Costituzione, da inizio a fine. Poi andate a votare. Allora saprete chiaramente che nel testo del 1947 (e modifiche al Titolo V), c’è già tutto ciò cui aneliamo. Non c’è bisogno di metter mano alla nostra Costituzione, come alla poesia di un premio Nobel, Wisława Szymborska, che per prima scriveva: «Sono, ma non devo esserlo, una figlia del secolo». (Romina Ciuffa)